SCN 36-700 RECESSIONE di Giacomo Vaciago Tratto da

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SCN 36-700 RECESSIONE di Giacomo Vaciago Tratto da
SCN
36-700
RECESSIONE
di
Giacomo Vaciago
Tratto da: “Il libro dell’anno”, Treccani - Ist. Enciclopedia Italiana, 2009.
Per gentile concessione dell’autore.
Riprodotto da The European House-Ambrosetti per esclusivo uso interno durante il
San Marino Forum “Innovare e competere per il futuro”, Repubblica di San Marino, 20 e
21 novembre 2009.
Treccani 2009
Recessione
Giacomo Vaciago
Il 2008 è stato l’anno della prima crisi finanziaria globale. Il 2009 l’anno
della prima recessione globale. Di nessuna delle due abbiamo passata
esperienza perché da Adamo ed Eva in poi è la prima volta che l’economia è
davvero globale, cioè 6 miliardi di persone ripartite in 200 paesi sono tra loro
interdipendenti e perciò reagiscono in modo simile a shock comuni, così
amplificandone le conseguenze. A dire il vero, di crisi finanziarie e di recessioni
ne abbiamo conosciute tante, ma questa volta abbiamo la sensazione, non
infondata, di essere di fronte a qualcosa di diverso e che proprio per ciò
richiederebbe non solo un’analisi ma anche rimedi che non si limitino a replicare
quanto fatto in passato.
Ma andiamo con ordine, e presentiamo anzitutto l’oggetto da conoscere:
la recessione. Una volta che ne abbiamo esaminato cause ed effetti,
cercheremo anche di presentarne i principali rimedi, sempre che si accetti il
criterio di considerare la recessione alla stregua di una malattia dovuta ad un
qualche precedente eccesso: possiamo limitarci ad aspettare che si curi da
sola, se siamo sicuri che sarà breve e senza gravi conseguenze. Ma quando la
recessione presenta costi rilevanti e/o conseguenze negative persistenti, allora
andrebbe curata appena possibile e con medicine efficaci. Non stupisce che gli
economisti abbiano molto discusso di queste alternative e vi siano teorie
contrapposte in proposito. Ad un estremo, chi ritiene recessioni e crisi
caratteristiche strutturali del capitalismo, che dovrebbe essere corretto in
quanto tale. All’estremo opposto, le teorie che se accolte e/o accompagnate
dalle necessarie riforme produrrebbero un capitalismo normalmente stabile,
dove possono anche esservi recessioni che però si curano da sé. Un
capitalismo-ben-temperato non dovrebbe avere il problema della recessione
anche perché si potrebbero prevedere politiche che ne evitino le conseguenze
più gravi. E’ dunque tra questi due estremi che si collocano le recessioni che
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abbiamo conosciuto: un periodo di tempo, non inferiore ai 6 mesi, durante il
quale l’attività economica si riduce, il livello del reddito reale scende, cala
l’occupazione ed aumenta la disoccupazione. E’ una fase del ciclo economico
che termina con la successiva ripresa, cui segue un periodo più o meno lungo
di tempo durante il quale vi è espansione economica; fino alla successiva
recessione.
CAUSE E COSTI
Di solito, la recessione segue a precedenti squilibri macroeconomici –
inflazione e/o deficit della bilancia dei pagamenti – cui si è risposto con politiche
economiche restrittive. La più frequente causa di recessione è dunque una
precedente condizione di “eccesso di domanda” che provoca un aumento del
livello generale dei prezzi (inflazione) ed un aumento delle importazioni
superiore a quello delle esportazioni (deficit della bilancia dei pagamenti). Per
correggere ciò, si attua una politica economica restrittiva con aumenti dei tassi
di interesse, riduzioni di spesa pubblica e/o aumenti delle tasse. Ne risulta
ridotto il reddito disponibile delle famiglie e meno conveniente il loro consumo,
mentre è anche direttamente/indirettamente scoraggiato l’investimento delle
imprese. Possiamo dire che in questi casi la recessione, come in seguito ad
una medicina, è parte della cura. Una volta corretto l’eccesso di spesa, ridotta
l’inflazione e riequilibrata la bilancia dei pagamenti, la politica economica torna
espansiva e l’economia è pronta alla ripresa. Qualora gli squilibri non fossero
gravi, anche la perdita di prodotto e di occupazione che occorre a porvi rimedio
non sarà grave e la recessione sarà quindi superata rapidamente.
Gran parte delle recessioni degli ultimi cinquant ’anni hanno avuto questa
natura e la successiva ripresa - che non è mai mancata - è dipesa dal venir
meno delle politiche economiche restrittive che si erano in precedenza rese
necessarie. Evitare gli eccessi dell’espansione è quindi già un modo con cui si
evita una successiva recessione. L’ambizione delle “politiche ottime di
stabilizzazione” era proprio questa: mantenere l’economia sempre in crescita
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evitando sia l’espansione eccessiva sia la successiva recessione, cioè tenendo
l’economia il più possibile vicina al suo sentiero di crescita potenziale. Qualcosa
che è complicato, fino ad essere proprio impossibile, in presenza di shock
esogeni oppure se l’economia è per sua natura molto instabile.
Quest’ultimo aspetto può essere meglio chiarito distinguendo tra le cause
della recessione quelle che sono endogene da quelle che sono invece
esogene, come nel caso di uno shock negativo (di domanda o di offerta a
seconda di quale delle due si riduca, ad esempio per un calo di esportazioni o
per un aumento del prezzo del petrolio). Nel primo caso, di fattori endogeni, la
recessione può risultare dall’interagire di effetti del tipo moltiplicatore e del tipo
acceleratore. Per “moltiplicatore” si intende l’aumento del reddito che segue ad
un aumento della domanda di beni: se si consuma o si investe di più, c’è più
spesa e quindi maggior produzione; più reddito va alle famiglie che
ulteriormente aumentano i loro consumi, e così via. L’aumento del reddito è un
multiplo dell’iniziale maggior domanda di beni. Per “acceleratore” si intende
invece l’aumento degli investimenti, volti ad aumentare la capacità produttiva,
che si rende necessario quando la domanda aumenta e quindi conviene
aumentare anche l’offerta potenziale.
Questi due meccanismi – il moltiplicatore e l’acceleratore – interagiscono nel
corso dell’espansione economica e possono determinarne fluttuazioni perché
gli investimenti sono allo stesso tempo una componente della domanda di beni,
ma anche (una volta che l’ampliamento della capacità produttiva è completato)
un contributo alla maggior offerta. Può manifestarsi una recessione anche solo
perché l’economia è molto instabile. Vi sono fasi di crescita intensa, corrette da
successive – di solito non gravi – recessioni: se si è investito troppo, poi c’è un
forte calo degli investimenti che riduce la domanda e quindi il reddito. Questo
andamento ciclico era in passato ulteriormente mosso dagli investimenti in
scorte, cioè dalla dimensione del “magazzino” che accompagna la produzione.
Al crescere della produzione servono anche più scorte (di materie prime, di
prodotti intermedi, e di prodotti finiti). Ma c’è anche un aumento “indesiderato” di
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scorte (che dovrà
poi essere corretto con una ulteriore riduzione della
produzione) quando c’è invece un imprevisto calo della domanda di beni.
Il ciclo delle scorte è tipicamente di breve durata e si sovrappone con qualche
ritardo a quello originato dall’instabilità degli investimenti fissi. La fluttuazione
delle scorte è meno importante di una volta perché l’organizzazione delle
aziende ha fatto molti progressi nella “gestione del magazzino”, riuscendo a
renderne minima la dimensione.
Se queste sono le principali cause delle recessioni, è chiaro perché i loro
effetti negativi, cioè il calo di reddito e di occupazione che ne risulta, non siano
di
solito
gravi.
Soprattutto
se
l’economia
è
caratterizzata
da
buoni
“ammortizzatori”: i nuovi disoccupati ricevono comunque un’indennità, che
consente loro un livello dignitoso di consumi; inoltre, quando il reddito si riduce
cala anche la pressione fiscale e quindi il reddito disponibile è “protetto” grazie
alla progressività del sistema fiscale. Ciò equivale ad assumere che le
fluttuazioni cicliche siano “stabilizzate” dall’operare di vari meccanismi di
protezione sociale e quindi in modo automatico il ridursi della spesa privata sia
compensato da un maggior deficit del settore pubblico. I costi della recessione
saranno invece più gravi se questi ammortizzatori sociali non esistono o sono
molto ridotti, perché ad es. si applicano solo (come succede in Italia) ad una
parte dei lavoratori. In tal caso, non solo la recessione può risultare più grave,
ma i suoi effetti non si limitano soltanto a quelli macroeconomici finora
considerati.
Diventano rilevanti (anche da un punto di vista politico) aspetti di equità,
relativi alla distribuzione del reddito e della ricchezza: alcuni sono colpiti molto
più di altri, e quindi il dato medio non basta più a capire le conseguenze di una
recessione. Un calo del reddito nazionale del 2% per un anno, può essere
sopportabile per tanti. Ma è ben diversa la situazione se quella diminuzione del
2% è in realtà la media tra zero (per tanti) e -100% (per alcuni). I casi peggiori si
hanno, ovviamente, quando la ripresa (e la successiva espansione) beneficia
soprattutto alcuni, mentre la recessione riguarda soprattutto altri! In questi casi,
è difficile limitarsi ai soli aspetti macroeconomici e ragionare solo in termini di
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fisiologica instabilità ciclica: la recessione è anche un problema sociale da
curare come tale.
IL RUOLO DELLE ASPETTATIVE
L’analisi macroeconomica – dopo la rivoluzione keynesiana, cioè a
partire dalla Teoria Generale di Keynes (1936) – è in gran parte fondata su
variabili riferite alle aspettative degli operatori economici. Dalla “propensione” al
consumo alla “preferenza” per la liquidità, è chiaro che sia le scelte in conto
reddito (spendere o risparmiare) sia quelle riferite al patrimonio (investire la
propria ricchezza in forme liquide o in titoli più o meno rischiosi) dipendono dallo
stato delle aspettative cioè dalla maggiore o minore fiducia con cui si guarda al
futuro. Un’ondata di pessimismo può causare una recessione, se porta
famiglie/imprese a ridurre/rinviare la spesa, come può aggravare una
recessione già iniziata o impedire la successiva ripresa. Il contrario avviene con
uno stato delle aspettative molto favorevole.
E’ per questo motivo che la prima regola della politica che voglia
stabilizzare l’economia evitando gravi recessioni e favorendo la ripresa appena
possibile, è quella di gestire in modo corretto le aspettative degli operatori. Il
passaggio dall’euforia al panico è tipico delle recessioni più gravi, nelle quali il
previsto cattivo andamento dell’economia produce quel pessimismo che
ulteriormente aggrava la situazione. Gli effetti moltiplicativi del tipo: minor spesa
- minor occupazione - minor reddito - minor spesa, non si arrestano facilmente
se non interviene una correzione dall’esterno, tipicamente da parte del
Governo. Il cui dovere è dunque quello di fare quanto serve perché vi sia un
migliore stato delle aspettative. Non c’è un’unica ricetta a tale scopo, perché il
rimedio dipenderà dalle cause e dalle caratteristiche della recessione stessa.
Potrà rendersi necessaria una politica monetaria espansiva (più liquidità e
minori tassi di interesse) oppure una maggiore spesa pubblica o ancora minori
tasse, o una qualche combinazione di tutti questi interventi. Ciò che davvero
conta è che la politica sia credibile e tempestiva ed efficace già nel suo
annuncio, affinché lo stato delle aspettative possa migliorare e vi siano così le
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premesse della successiva ripresa. Fin tanto che ciò non si verifica, la velocità
di caduta dell’attività economica non rallenta e resta la previsione che “il peggio
deve ancora venire”. Solo quando prevale il giudizio che “il peggio è passato”, si
può dire che il minimo è stato superato e vi sono le premesse della successiva
ripresa.
QUANDO LA RECESSIONE SI AGGRAVA
Se la recessione è una più o meno normale fase del ciclo economico,
diversa è la situazione quando la recessione si aggrava e diventa qualcosa di
peggio perché permanente. Parliamo allora di stagnazione e nei casi più gravi
di depressione, per intendere una situazione in cui la ripresa non arriva mai e
quindi il reddito non torna a crescere ma resta ai livelli minori cui è sceso e
quindi anche l’occupazione non aumenta più e la disoccupazione resta elevata
o continua ad aumentare.
La stagflazione di cui si parlava trent’anni fa aveva assieme le due
caratteristiche negative – stagnazione economica e inflazione elevata – che di
solito sono alternative. Più che di recessione, avremmo dovuto parlare in quel
caso di “mancata crescita”: il livello del reddito reale era più o meno stazionario,
e la disoccupazione aumentava solo per la componente dovuta alla crescita
demografica. La depressione è ovviamente più grave della stagnazione, sia per
il permanere di un più alto livello di disoccupazione sia perché risultano non più
attivi tutti i fattori che producono crescita economica: l’accumulazione di nuovo
capitale produttivo e l’innovazione tecnologica. Senza progresso tecnico, la
qualità dei beni prodotti non progredisce né cresce la produttività dei fattori
produttivi: si interrompe la stagione della crescita economica e sociale iniziata
due secoli fa con la rivoluzione industriale.
Un’ulteriore causa di recessione grave – che pure si osserva raramente,
e di solito solo in condizioni di depressione – si ha in presenza di deflazione,
cioè di riduzione, corrente e attesa, del livello dei prezzi. In sé, una riduzione dei
prezzi non è caratteristica negativa di un sistema economico. In effetti, in
passato la riduzione dei prezzi (e ancora oggi nel caso dei beni per i quali sono
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maggiori l’innovazione ed i guadagni di produttività) è stato un modo con cui
venivano fatti beneficiare i consumatori dei vantaggi del progresso tecnico. Il
problema è diverso, e grave, in condizioni di una riduzione attesa del livello dei
prezzi, poiché in tal caso avremo la convenienza a rinviare la spesa per
beneficiare di prezzi minori: nella misura in cui alla recessione si accompagna
la deflazione, il calo della domanda che ne risulta aggrava la recessione stessa
e può portare a condizioni di depressione.
E’ per questo motivo che negli ultimi anni, le principali Banche centrali si
sono dette preoccupate di un’inflazione pericolosamente vicina allo zero: c’era
un rischio concreto di deflazione, cioè dell’avvitarsi della recessione verso livelli
di reddito via via minori e con una politica monetaria sempre meno efficace. Se
il livello dei prezzi è previsto ridursi e i tassi di interesse nominali non possono
diventare negativi, è chiaro che i tassi di interesse “reali” (cioè depurati della
attesa variazione dei prezzi) salgono sempre di più concorrendo ad aggravare
la recessione. E’ qualcosa che abbiamo visto negli anni ’30, e il ricordo di quella
crisi ci tormenta ancora!
I POSSIBILI RIMEDI
Nei casi in cui la recessione è sicuramente breve e modesta, il rimedio
migliore è probabilmente quello di aspettare la successiva ripresa, avendo
messo nel sistema abbastanza “ammortizzatori” per ridurre i costi sociali della
disoccupazione. Saranno questi meccanismi di protezione (pensiamo alla
nostra Cassa integrazione guadagni, che eroga salari e stipendi ai lavoratori
temporaneamente non occupati) ad agire anche da “stabilizzatori automatici”
nei confronti del ciclo economico perché evitano che la iniziale minor domanda
di beni si aggravi all’aumentare della disoccupazione. Diversa è invece la
situazione quando la recessione è prevista grave e/o persistente, e magari vi
sono rischi che le prospettive di crescita dell’economia (il suo “potenziale”)
siano danneggiate in modo più o meno grave. In tutti questi casi, sarà bene che
il Governo faccia tempestivo ricorso ad uno o più strumenti di intervento per
correggere le tendenze negative previste. La selezione degli strumenti dipende
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dalle cause e dalle caratteristiche della recessione. Ricordando che ciò che
occorre quando vi è un calo della domanda aggregata è un equivalente
aumento di domanda, più o meno temporaneo, indotto dal Governo, ciò potrà
essere stimolato da una riduzione del prelievo fiscale (che aumenta il reddito
disponibile del settore privato) e/o da un’aumentata spesa pubblica (che si
sostituisce alla domanda privata venuta a mancare). In ambedue i casi, un
temporaneo deficit pubblico (finanziato con moneta o con titoli del debito
pubblico) sosterrà la domanda aggregata e quindi aiuterà l’economia ad uscire
dalla recessione. C’è un’evidente controindicazione nel caso in cui dovessimo
assumere che quell’aumentato (temporaneo!) deficit pubblico ha conseguenze
negative sullo stato delle aspettative di famiglie e imprese. Si può infatti
argomentare che persone molto razionali e lungimiranti sapendo benissimo che
gli attuali maggiori debiti pubblici equivalgono a prevedibili future maggiori tasse
reagiranno negativamente all’annuncio di quei rimedi. Ma questa tesi (che pure
è stata teoricamente avanzata, a cominciare dall’economista David Ricardo
nell’ottocento) non sembra rilevante nel caso delle crisi più gravi, quando le
persone razionali dovrebbero anche sapere che le alternative sarebbero
comunque peggiori. E lo stesso si può dire per le condizioni in cui si trova
l’economia italiana già oberata da un elevato debito pubblico. Anche qui, ciò
che conta è sempre il confronto tra alternativi scenari, con o senza politiche
economiche che pongano rimedio a una crisi grave. Non tutte le recessioni
sono uguali, né lo sono i Governi.
LA GRAVITÀ DELLA CRISI ODIERNA
Dopo l’euforia che aveva caratterizzato l’economia mondiale per buona
parte del periodo 1985-2005, e in seguito ad una serie di persistenti squilibri
macroeconomici, e di crescente fragilità (e pericolosità!) di nuovi strumenti
finanziari ampiamente diffusi, il sistema si è rotto. In rapida successione
abbiamo conosciuto una crisi finanziaria, ed una recessione, ambedue globali,
con il concentrarsi della crisi sia sulle banche di maggior dimensione sia
sull’industria. La recessione è indirettamente attribuibile agli squilibri ed agli
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eccessi (bolle finanziarie, speculazione) che hanno colpito prima i redditi reali
dei consumatori (frenati da più alti prezzi dell’energia e del cibo e da più alti
tassi di interesse), poi la loro ricchezza (con discesa dei valori degli immobili e
delle Borse). Il calo dei consumi e degli investimenti, con il permanere di una
tendenza negativa dei prezzi delle attività, si è accompagnato a crescente
disoccupazione e a calo del reddito nazionale.
Qualcosa di ben più grave delle recessioni cui eravamo abituati, per tre
motivi:
1) Perché questa volta la crisi è globale, cioè riguarda tutti i paesi del
mondo.
2) Perché è recessione e insieme crisi finanziaria, cioè abbiamo due
problemi gravi che interagiscono negativamente tra di loro.
3) Perché sia per le grandi banche sia per l’industria, si ritiene che la
successiva ripresa richieda nuove regole e diverse politiche, cioè un vero
e proprio cambiamento strutturale. Che richiederà anni di lavoro comune
tra i principali Governi del mondo, qualcosa che è solo iniziato.
Per tutti questi motivi, la recessione del 2009 sarà ricordata a lungo: ci ha
costretto a rivedere tutto ciò che sapevamo sulla teoria della recessione, e ha
costretto i Governi, a cominciare da quelli dei Paesi di maggior dimensione
economica, a progettare in modo non convenzionale interventi efficaci per
uscire dalla crisi. Tre aspetti meritano di essere sottolineati. Anzitutto, la prima
regola dovrebbe continuare ad essere quella, tutto sommato di buon senso,
secondo la quale gli interventi dei Governi non devono aggravare la situazione,
ostacolando la capacità di reazione dell’economia o creando nuovi problemi. Da
questo punto di vista, è evidente che gli enormi interventi di politica monetaria e
di bilancio realizzati devono restare temporanei e reversibili appena la loro
necessità verrà meno. Altrimenti, si rischia di passare dal timore della
deflazione alla paura dell’inflazione, cioè da un guaio all’altro!
Il secondo aspetto da sottolineare è che mai come in questa occasione si
è vista una recessione che richieda un impegno tanto cooperativo da parte dei
maggiori governi. Il pericolo, e l’abbiamo già visto, è che invece succeda il
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contrario, cioè ciascun Governo, per aumentare l’efficacia dei suoi interventi, li
caratterizzi in modo protezionistico, a favore soltanto dei lavoratori e delle
imprese nazionali. Tentazione comprensibile, ma miope: a ciascun governo può
far piacere pensare che usa soldi dei contribuenti solo a loro favore. Peccato
che il protezionismo, quando praticato da tutti, abbia effetti complessivamente
pessimi: alla fine, si sta tutti peggio di prima.
La terza considerazione riguarda un aspetto in passato sottovalutato:
l’interdipendenza tra teoria, regole, e politiche. Se dobbiamo ricostruire un
sistema finanziario efficiente e stabile, e se la percezione che questo progetto
già deciso e avviato dovrà servire a migliorare lo “stato delle aspettative” e così
favorire l’uscita dalla crisi, allora è bene che sia chiaro il fondamento teorico in
base al quale definiamo le nuove regole relative al sistema finanziario e in
coerenza con ciò le linee che in futuro dovranno guidare le politiche macro.
Basterà ricordare che negli ultimi vent’anni gli economisti si sono divisi in tante
scuole con opinioni diverse, tra le quali i politici hanno scelto in base alle visioni
che preferivano. Anche solo restando all’interno della mainstream economics e
quindi escludendo le opinioni estreme, è chiaro che ben diverso era quanto
sostenuto da economisti come Robert Shiller e Joseph Stiglitz (non a caso
emarginati dalle istituzioni di New York e Washington, perché “scomodi”) o da
altri pure famosi (e con tanto di Premio Nobel) che erano invece convinti che i
mercati avessero sempre la capacità di trovare soluzioni di equilibrio. Se si
decide che la crisi odierna conferma le analisi della prima scuola, allora è chiaro
che le rigidità keynesiane che rendono necessaria – ed efficace! – una politica
atta a garantire la stabilità macroeconomica devono essere completate da
regole, e politiche, che risolvono i problemi di informazione scarsa e mal
distribuita che, se irrisolti, rendono il sistema finanziario inefficiente e fragile.
Mai come quest’anno si è capita l’importanza della teoria economica che
spiega l’operare del sistema finanziario e quindi la necessità che le soluzioni
proposte dai governi siano fondate su analisi economiche corrette.
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CONCLUSIONE
Dopo un lungo periodo in cui le economie sviluppate avevano conosciuto
condizioni di notevole stabilità macroeconomica – e in proposito si arrivò a
parlare di “Grande Moderazione” – siamo tornati a conoscere crisi finanziaria ed
economica, cioè una recessione grave che rischia di trasformarsi in
depressione. Non è una recessione come tante altre del passato soprattutto
perché è globale e perché si accompagna ad una percepita discontinuità
rispetto al sistema economico prevalente nei precedenti vent’anni. I rimedi non
potranno limitarsi né all’attesa (di solito, le recessioni finiscono e poi c’è la
ripresa) né alle manovre congiunturali (un po’ di minori tasse e di maggior
spesa pubblica bastano a risollevare la domanda aggregata). E’ compito dei
Governi ricostruire un sistema finanziario stabile e aiutare l’economia a ritrovare
i binari su cui crescere. Mai come in questa occasione è stato chiaro che è in
mano ai Governi il nostro prevedibile futuro, a cominciare da quello “stato delle
aspettative” da cui dipende la possibilità stessa che la recessione abbia termine
e la ripresa inizi.
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