catullo e le miniature della passione

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catullo e le miniature della passione
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FRONTIERA DI PAGINE
POESIA ANTICA
CATULLO E LE MINIATURE
DELLA PASSIONE
DI ANDREA G ALGANO
PRATO, 28 FEBBRAIO 2012
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«
Miser Catulle, desinas ineptire, /et quod vides perisse perditum ducas. /fulsere
quondam candidi tibi soles,/ cum ventitabas quo puella ducebat / amata nobis
quantum amabitur nulla. /ibi illa multa cum iocosa fiebant, /quae tu volebas nec
puella nolebat, /fulsere vere candidi tibi soles. /nunc iam illa non vult: tu quoque /impotens
noli, /nec quae fugit sectare, nec miser vive». («Sventurato Catullo, smettila di impazzire. /
E ciò che vedi morto impara che è perduto. / Ci sono stati giorni splendidi, nel sole/e
andavi dove ti conduceva quella fanciulla/ l’amata come non sarà mai nessuna/ E
avvenivano attimi giocosi/ che tu volevi e lei non disvoleva. /Davvero giorni splendidi nel
sole. /Ora non vuole più. Dunque anche tu non volere: Dunque anche tu non volere. /Non
inseguire ciò che fugge/, o uomo senza freno, non vivere infelice»).
In questi spazi di memoria, in controluce, si ravvisa tutta l’anima di Catullo (84 a.C.-54
a.C.), poeta tra i più innovativi e struggenti della latinità, intenso e breve come la sua
esistenza.
Nato a Verona nella Gallia Cisalpina e subito immesso negli agi della capitale dell’Impero,
pur rifuggendo la vita politica e guardando con sdegno e ironia i tumulti della civiltà latina
di quegli anni- con gli intermezzi dei suoi soggiorni nella «pupilla delle penisole e delle
isole» Sirmione- intorno al 60 a.C. incontrò una donna colta e corrotta Clodia, la «femina
complex», moglie di Quinto Cecilio Metello Celere, governatore della Gallia Cisalpina e
sorella del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro..
Le diede il nome “Lesbia”, in onore a Saffo, vertigine di amore. L’arte di Catullo dà il
nome alla sua amata, la guarda, la cambia, la abita in un linguaggio nuovo, in un miracolo
che si impone, con la grazia dello schizzo, del bozzetto breve.
Arte di origine alessandrina, certo, ma rivisitato secondo un gusto romano, quello dei
poetae novi, che impegna l’anima in un corpo a corpo con la propria esperienza, la propria
dimensione umana, la contemplazione della propria anima.
Scrive Alfonso Traina: “L’uomo di fronte al cosmo: è l’epicureo Lucrezio. L’uomo di
fronte all’amore: è il neoterico Catullo. La voluptas atque horror dell’uno e l’odi et amo
dell’altro convergono in un’esperienza profondamente vissuta – fino a identificarsi col
senso stesso della vita - fuori dell’ambito e senza la mediazione della civitas”.
L’io narrato e l’io narrante, nella sua opera, sono attraversati da una luce fortissima. Nelle
nugae, poi nei carmina docta e infine negli epigrammata (con tutte le variazioni metriche)
dedicati a Cornelio Nepote, il fervore dei sensi, il furor passionis sono la trama che
abbottona la totalità dell’essere.
Un sovvertimento nudo dell’ordine, un foedus (patto) tra amore e amante che reca il
marchio e il sigillo infinito della temporalità, dell’inviolabilità affettiva.
Catullo conosce il lessico del frammento, la fedeltà a ciò che è indissolubile, l’antitesi di
ciò che non rientra nella giustezza, di ciò che viene anche guardato con lo sfogo di fronda,
con la conciliazione dell’ironia.
Il vir lepidus fa brillare la sua grazia attraverso la sua componente femminile e,
junghianamente, la poesia dell’ «anima» che si muove sotto la scorta di Saffo, in uno
struggimento e in una disperanza. Esiste una disperazione tutta interna, una mancanza di
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Andrea Galgano. CATULLO E LE MINIATURE DELLA PASSIONE. 28 02 2012
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II
pienezza e di riparo in quel sentimento eterno che ci entra come una fitta nei territori
emersi, nella nudità. Quella lacerazione che riempie e ricolma di tensione il battito del buio
e della luce.
L’acme dell’amore, la sua vertigine in fiore, il tempio può esser perduto, può frantumarsi,
può infinitizzarsi. Scoppia in rivoli la sua bruciante passione, ma poi vola via in un alito.
L’amore vero si rivela non nel possesso, ma nell’appartenenza. Quella persona ci
appartiene e noi gli apparteniamo nella dignità dello specchio, nel varco delle vene, nel
respiro del sangue.
Qui anche il dato meteorologico è azione, musica, Stimmung. Perché il suono della
illuminazione affettiva sposa l’immediatezza dei gesti e degli attimi.
La brevità del poetare catulliano non è solo gioco alessandrino o poikilìa, anzi la sua
raffinatezza è il tratto saliente dell’essenzialità degli occhi, della purità dello sguardo.
Gli scatti di gioia, come gli scatti d’ira, il malessere iniziatico, così come la grandezza o
l’appartenenza, sono il sigillo della sua lirica in atto.
Catullo non solo è l’inventore dell’idealizzazione cristallina, ma è anche cultore del
pensiero e dell’immaginazione totalizzante, da cui dipendono gli archi che compongono la
vita.
Il dramma nasce dalla rottura di quel foedus. Quando l’uni-verso dell’affettività diviene
misura d’identificazione, mito che si forma e «mito che diventa vita» (E. Castorina,
Questioni neoteriche), allora la riga dell’orizzonte coincide con la riga dell’animo.
I suoi temi vitali, dal dolore per la morte del fratello nella Troade (ripreso poi da Foscolo),
la vocatio poetica, l’amore e l’amicizia, la loro fine o il mutarsi, la precarietà del rapporto
con Clodia-Lesbia, la rievocazione del mito di Laodamia e Protesilao, sono il suo fondale,
il transito della sua anima lacerata.
La lacerazione catulliana non è ritaglio momentaneo, ma si nutre di una scheggia
d’esistenza nel desiderio, nella malinconia e nella ferita d’amore.
La ferita d’amore è il transito del cielo sulla povertà della terra. Ferisce perché non è giusta,
abita lo sproposito, invade gli abissi.
L’amore è quella forza che germoglia dove l’anima è nuda e percorre le sponde dell’essere,
immergendosi nel tempo, lo annulla, ne muta la genesi: «Viviamo, mia Lesbia, ed
amiamo,/
i brontolii dei vecchi troppo austeri/ valutiamoli tutti un soldo.// I soli posson tramontare e
ritornare: /per noi, quando una volta la breve luce tramonti,/ c'è un'unica perpetua notte da
dormire.».
E l’eros, come una costa, si affaccia sul desiderio acceso, sulla trama del compimento:
«Chiedi quanti tuoi baci, Lesbia, / mi sian sufficienti e di più./ Quanto grande il numero di
sabbia libica giace nella Cirene fertile di silfio/ tra l'oracolo dell'infuocato Giove /ed il
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III
sacro sepolcro dell'antico Batto; / o quante stelle, quando la notte tace, /vedono i furtivi
amori degli uomini: tante volte baciarti basterà/ e sarà troppo al tuo Catullo folle/ il conto
che il curioso non può fare/ né la lingua maligna maledire».
La dimensione del cuore, l’abisso e il dolore di una frattura, di una violazione, sono il suo
sguardo inquieto, lo strazio di uno scavo che non annienta la trama d’amore, ma che
sfronda i margini della sua terra: «E non si volti più indietro, come prima a guardare il mio
amore/ che per colpa di lei è caduto come il fiore sul margine del prato/ poi che è stato
toccato dall’aratro/ che passa oltre».
Sperduto e indifeso nel gorgo muto, nella sua anima bambina, chiede agli dei una
deposizione di questo traliccio, di questa malattia in fiamme: «O dei, se a voi proprio è
l’aver pietà, o se ad alcuno mai sull’estremo, sulla soglia stessa già di morte, recaste aiuto,
a me misero volgete lo sguardo e se onestamente sono vissuto strappate via da questa peste
e questa rovina».
La richiesta dei baci sono il riparo dell’eternità del suo patto, dove i gesti dell’amore sono
la vita stessa che si infrange nel sogno e nel suo spaesamento. Come miniature accese di
sguardo.
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
vocis in ore;
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina et teguntur
lumina nocte.
otium, Catulle, tibi molestum est:
otio exsultas nimiumque gestis:
otium et reges prius et beatas
perdidit urbes.
IV
Egli simile mi sembra essere pari a un dio,
egli, se è dato mai, (sembra) superare gli dei,
che sedendo di fronte ancora e ancora
mira ed ascolta
te sorridere dolcemente, ciò che strappa
a me misero ogni senso: non appena ti,
scorgo, Lesbia, più non mi resta
voce in bocca
ma la lingua si ferma, tenue sotto le membra
una fiamma emana, del loro stesso suono
tintinnano le orecchie, di doppia notte
si coprono i lumi.
Il riposo, Catullo, ti è nocivo:
nell’ozio ti esalti e troppo ti ecciti:
l’ozio in passato ha distrutto regni
e città felici.
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