Ricordi (Somato) - Indipendenti dal Cinema
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Ricordi (Somato) - Indipendenti dal Cinema
Ricordi (Somato) Una strana Japanese connection ha fatto sì che la PALONEROfilm, uno piccolo studio italiano che si occupa di arti visive, producesse il cortometraggio tratto da una storia breve di Kaoru Kurimoto, la prolifica autrice giapponese che è responsabile, tra le altre cose, della Guin Saga. Ricordi (Somato) è stato realizzato col supporto della Regione Marche Film Commission e vanta le musiche di Mitsuko Komuro (City Hunter, Gundam) e un cast abbastanza importante. È una storia di fantasia dove la memoria collettiva di un paese si manifesta fisicamente sotto forma di immagini d’archivio proiettate in cielo. Il mondo rivive la sua storia e le genti di ogni paese vedono le immagini che riguardano il loro passato collettivo. Il racconto di Kaoru Kurimoto è stato localizzato in ambiente italiano ma il riferimento al Giappone rimane in alcuni dialoghi e nelle scelte della colonna sonora. Ricordi affronta di petto i problemi della memoria collettiva, dell’archivio, e cita in modo esplicito tutti i fatti di sangue più controversi degli ultimi cinquant’anni di storia italiana. È senza dubbio un cortometraggio ambizioso ma non sempre riesce a soddisfare le sue aspirazioni contenutistiche col giusto spessore di analisi. Due parole sulla trama. Siamo in una città italiana non specificata e apprendiamo che le persone di tutto il mondo sono divise in due categorie: c’è chi, come Luigi, guarda le immagini in cielo e chi, come Mauro, continua a vivere normalmente provando a ignorare lo strano fenomeno che si manifesta sulle loro teste. C’è chi guarda al futuro, magari facendo l’assicuratore, e chi si ferma a riflettere sul passato per capire meglio il presente, rimanendo impantanato a fissare il cielo. La dicotomia è ben espressa così come l’idea che si stesse meglio prima, quando non si sapeva nulla e si era più spensierati, ma prima o dopo il passato torna a galla e porta con sé un senso di catastrofe imminente. Anche il sorridente e pragmatico Mauro si lascerà coinvolgere e diverrà un osservatore, sviluppando una crescente preoccupazione per le stragi del passato. Quello di Michele Senesi è un cortometraggio pacifico ma non certo lento, anzi, di carne al fuoco ce n’è fin troppa nonostante il tempo per approfondire sia limitato. I due protagonisti alludono a fatti come Piazza Fontana e Ustica, ma lo fanno in maniera sommaria e lasciandoci in mano solamente un elenco di questioni aperte e fugaci allusioni ai loro possibili colpevoli. Nonostante le buone interpretazioni dei due protagonisti, il corto appare verboso (la scelta o necessità di doppiarlo non aiuta certo) e, nonostante le premesse interessanti, ci lascia poco in mano a parte un discorso molto generico sul valore della memoria collettiva e un senso d’inquietudine sul futuro. Detto questo, Ricordi è un corto ben realizzato e piacevole da guardare, anche se gli effetti e le titolature non sono sempre di alto livello, e i suoi (quasi) quindici minuti di durata non ci annoieranno di certo. The Lady La prima puntata di The Lady è stata pubblicata a ottobre sul profilo Youtube di Lory Del Santo. Nel giro di appena quattro mesi la serie ha raggiunto lo status di cult e quasi cinquecentomila visualizzazioni. Come mai? Che cos’ha di speciale The Lady? Non è certo la prima webserie a essere involontariamente comica e nemmeno la prima ad averci mostrato gli effetti della famosa “società dello spettacolo” sui giovani o la loro omologazione culturale. The Lady ha, però, qualcosa di speciale perché eleva il discorso all’ennesima potenza. In un certo senso ha alzato il tiro, già notevolmente alto, del trash internettiano. Non era affatto facile. Ci è riuscita perché Lory Del Santo non è il solito aspirante regista che firma una serie low budget facendo recitare gli amici. È una ex valletta televisiva che ha recitato in molte commedie sexy e partecipato ad alcuni reality televisivi. Ha vissuto la società dello spettacolo dall’interno e quindi aveva i mezzi per attirare a sé una schiera di modelli, attorucoli e aspiranti tali che è andata a costituire il cast di The Lady. Vediamo ragazzotti glabri e nerboruti che discutono delle loro conquiste amorose mentre le ragazze, tutte aspiranti modelle, si accalcano per un posto da segretaria nella cornice di alberghi di lusso e ville con piscina. La trama, praticamente inesistente, gira attorno alla Lady, una ricca ereditiera annoiata con problemi sentimentali. Luc, suo ragazzo, è geloso perché tutti gli uomini che entrano in contatto con la Lady se ne innamorano. Il tutto è doppiato in maniera imbarazzante e montato dozzinalmente. Ne risulta una mistura irresistibile di patina da telenovela e goffaggine registica. The Lady è decadente nei contenuti e straordinariamente ingenuo nella realizzazione tecnica. Non c’è da meravigliarsi poiché è la stessa Lory Del Santo ad aver preso in mano la videocamera. La showgirl si è, infatti, occupata di tutti gli aspetti tecnici della prima stagione: regia, camera, sceneggiatura, montaggio, produzione etc etc. Ecco, forse è questo l’aspetto più originale della serie: è il primo prodotto web low budget, firmato da una celebrità. Il fai-da-te internettiano non era mai stato così patinato, ecco perché The Lady fa sbellicare. Questo tipo di prodotto si alimenta delle risate del pubblico, anche se sono ironiche o se celano del disprezzo. Un po’ come accade per Sanremo, non importa se la gran parte dei tweet sono denigratori, l’importante è che se ne parli. Al limite si può sempre disattivare i commenti e bloccare i voti su Youtube. La stessa Lory Del Santo, che è improvvisamente tornata a essere sotto i riflettori, accetta di buon grado lo sfottò internettiano e fa autoironia sulla sua pagina Facebook. Nasce un problema: come si fa a valutare un oggetto di culto come The Lady, abominevole da un punto di vista artigianale, ma consigliarne allo stesso tempo la visione? Piuttosto che fare una media tra le due cose, preferisco spezzare il voto in due parti. Se amate il trash e siete in grado di farvi quattro risate guardando un prodotto così naif (non c’è nulla di male, anzi!), allora il voto è di cinque manine su cinque. The Lady vi cambierà la vita. In caso contrario, potete fare riferimento al voto riportato in cima all’articolo. Soldi Facili Gli youtuber, italiani e non, soffrono di una malattia gravissima: l’autoreferenzialità. Non resistono mai alla tentazione di parlare di se stessi, degli altri youtuber, della propria sfiga esistenziale e di quella cultura nerd che unisce il popolo della rete sotto un’unica bandiera. Provo a trarre un paio di conclusioni partendo da questo assunto. Uno: l’autoreferenziale funziona se fatto con la giusta ironia, se è celebrativo, diventa patetico. Due: uno youtuber che racconta la propria esperienza è autoreferenziale ma, allo stesso tempo, universale perché oggi abbiamo tutti provato almeno una volta a pubblicare dei contenuti in rete o, perlomeno, abbiamo immaginato di farlo. Il mito del contenuto “virale” è particolarmente interessante per le sue qualità magiche e divinatorie: nessuno sa di preciso come nasce un contenuto virale ma tutti provano a crearne uno ripetendo formule già viste perché, in caso di successo, il guadagno sarà sproporzionato rispetto all’investimento iniziale. Il virale è il nuovo investimento in borsa, è l’uovo di colombo che ci promette la fama immediata, è il mito dei soldi facili. Questo può aiutarci a spiegare il successo (almeno numerico) della webserie firmata da I Rognosi che s’intitola, appunto, Soldi facili. Essa racconta la storia strampalata, ma stranamente realistica, di un duo di youtuber che muove i primi passi nel mondo del videomaking. Lo sfondo è quello, ormai obbligatorio, della disoccupazione giovanile (ma Nicola e Mario non sono più tanto giovani) che costringe i protagonisti ad arrangiarsi per pagare l’affitto. Soldi facili azzecca diversi elementi ricorrenti nell’esperienza dello youtuber medio e ha il sapore della storia autobiografica. È un prodotto personale ma allo stesso tempo tutti vi si possono rispecchiare, almeno in parte, e riesce anche a fornire delle informazioni veritiere sui meccanismi di youtube, senza nulla togliere alla parte comica. In particolare, è la sequenza degli eventi che sembra azzeccata. I nostri eroi sperimenteranno nel seguente ordine: il video di bassa qualità che fa un milione di visite per via del titolo fuorviante, il tutorial inutile, la candid camera, il video pieno di figa, il video complottista, inoltre tenteranno di procurarsi un’attrezzatura semi professionale spendendo poco e cercheranno una partnership per guadagnare soldi dalle proprie visualizzazioni. È inutile dire che, nell’epoca del fai da te, saranno moltissime le persone che si rispecchieranno in questo tipo di esperienze, anche perché i tentativi daranno solamente esiti catastrofici. L’idea è, quindi, azzeccata, anche perché c’è un rapporto doppio con la rete, da una parte di complicità e dall’altra di presa in giro. Lo sfottò diviene feroce quando si tratta di mostrare la bassa qualità dei contenuti “virali” e la mancanza di serietà sottostante ai poco oliati meccanismi commerciali del web 2.0. Si tratta sempre di autoironia perché I Rognosi sono youtuber nella media italiana, né più né meno. Il loro canale ospita, oltre alla webserie, una serie di sketch comico demenziali molto seguiti. Tutti i loro prodotti sono simpatici e ben interpretati, l’immagine è piacevole, anche se la fotografia non è sempre costante in termini di qualità, e si avverte una certa padronanza della tecnica, per nulla scontata in un prodotto demenziale e “internettiano”. Lighting Room La sessuomania è ancora un tema piccante? Secondo me no, e mi pare che ci sia un proliferare di opere che, in maniera più o meno efficace, hanno trattato della condizione giocandoci su e sottraendola già da tempo all’elenco dei tabù. Paradossalmente, l’approccio più efficace all’argomento sembra essere quello della presa in giro che, per quanto macchiettistica o inaccurata da un punto di vista clinico, è sempre il mezzo più efficace a sdoganare e normalizzare la materia scabrosa. Ecco perché, se mettiamo da parte per un momento la questione estetica, l’approccio di una webserie come Lighting Room è più efficace rispetto a quello, per esempio, di una pellicola d’autore come Nymphomaniac, che coi suoi toni altisonanti e drammatici rende il sesso ancora più mistico anziché laicizzarlo e normalizzarlo. Certo, bisogna ricordare che il film di Von Trier è declinato al femminile, ma davvero la ninfomania è un tema nuovo? Mi sembra che anch’esso sia stato sdoganato tempo fa dai vari Sex and the City, dai suoi cloni e da molte altre pellicole per il grande schermo. Forse è meglio, quando si cammina su un terreno già battuto, rinunciare allo scandalismo e accontentarsi di fare quattro risate. Nel caso di Lighting Room, il motore comico è una seduta psicanalitica nella quale Edoardo, “un nullafacente di famiglia ricca”, racconta le sue avventure sessuali a cuor leggero e senza risparmiarci battute da italiano medio e tanti doppi sensi non certo sottili. Lighting Room è una buona webserie che sfrutta la povertà di location (è tutta girata in un pub) ricorrendo al topos della seduta di cura mentale con la collaudata dialettica fra paziente e dottore, in questo caso molto informale e tenuta davanti a una birra ghiacciata. Ettore Maria Zagobi è un terapeuta che avrebbe bisogno di qualche cura, il suo metodo dell’amicoterapia è riducibile a una bella chiacchierata (pagata), ma è anche l’unico disposto a dare retta a Edoardo, il sessuomane auto diagnosticato che riesce ad avere rapporti solamente con le ragazze dei suoi amici. Capita di frequente che nelle webserie i primi episodi siano i più problematici, magari perché gli autori sono tutti giovani e devono farsi le ossa o perché l’episodio pilota è realizzato con pochi soldi, che sono arrivati dopo grazie agli sponsor. Anche Lighting Room è così: l’inizio non emoziona ma la qualità migliora con gli episodi. Il quarto, lo dico subito, è di gran lunga il migliore e quindi fa ben sperare per la prossima stagione, che gli autori hanno già annunciato. Entrambi i protagonisti sono ben interpretati e tanto basta per rendere piacevole Lighting Room, una serie fatta tutta di dialoghi. Peccato per i refusi della regia, poco coerente e afflitta da punti di macchina eccessivi e movimenti inutili, e per qualche battuta comica poco riuscita ma, lo ripeto, tutte queste incertezze diminuiranno progressivamente per sparire nel quarto episodio. Speriamo che gli autori riescano anche a dare una struttura più forte e compiuta alla prossima serie. La prima, seppur godibile, soffre della mancanza di una vera e propria progressione narrativa, di colpi di scena, di cliffhanger, insomma, di tutto ciò che può rendere appassionante la visione di una serie serializzata. Forse gli episodi autoconclusivi sarebbero stati una scelta più indicata per un format come quello di Lighting Room, ma è ancora presto per dirlo perché le vicende di Ettore e Edoardo sembrano essere appena iniziate. Staremo a vedere. Doc Nick Di Doc Nick possiamo vedere solamente l’episodio zero, ma è già possibile speculare sul resto della webserie perché il pilota ha messo davvero molta carne al fuoco. Vale la pena di guardarlo se siete fan della fantascienza low budget o delle distopie autoritarie. I riferimenti letterari sono ovvi e non sto a elencarli, basti sapere che il Doc Nick è un fantomatico dittatore mascherato che governa dall’alto la città di Vitellia, comparendo di tanto in tanto sui piccoli schermi a reti unificate per dare il suo messaggio ideologico e rassicurante al popolino ridotto in miseria. Doc Nick rimane, però, un prodotto di genere molto scanzonato e fruibile, proprio come piace agli utenti di Youtube. Il tema sociale distopico resta, per il momento, in un sottotesto che non intacca l’anima più che altro goliardica del primo episodio, anzi, la alimenta con ingredienti da fantascienza pulp e spaccona che abbiamo già visto impiegati in molte pellicole hollywoodiane. Inoltre, va ricordato che Doc Nick, pur essendo un prodotto di buona qualità per gli standard della rete, non ha certo il budget di un film di fantascienza. Sta a voi scegliere se preferite prendere in simpatia questa fantascienza un po’ raffazzonata (un genere che ha moltissimi precursori importanti) o bocciarla del tutto. Torniamo alla trama. Septimus Hobbes è un sicario precario (!) che ambisce a introdursi nel “Palazzo del Ministero” come stagista del Doc Nick, col probabile secondo fine di consumare una vendetta personale. Una bellissima carrellata segue Hobbes mentre si reca al ministero, passando per un angusto vicolo pieno di mendicanti e funzionari della polizia militare col volto coperto dalle maschere anti-gas. Tramite una TV veniamo a sapere che dei supereroi bombaroli tentano di ribaltare il regime attentando alla vita del Doc Nick. Segue un colloquio di lavoro molto intimidatorio, momento ricorrente di moltissime webserie, al termine del quale Septimus è assunto come assistente del fantomatico dittatore deforme. Prima di poter lasciare il ministero, Barbara Steel, capo della polizia militare il cui nome storpia quello dell’attrice Barbara Steele, gli dà il compito di portare il cibo a un prigioniero molto temuto per via dei suoi poteri psichici. Tra gli attori ci sono alcuni personaggi più o meno noti come il doppiatore Gianluca Iacono che interpreta il supereroe bombarolo, l’attrice Claudia Barbieri nel ruolo di Barbara Steel e altri. Septimus è interpretato dallo stesso Luca Di Martino, che ha anche scritto e ideato la serie. È un prodotto accattivante quello diretto da Manuel Drexl, pieno di ingredienti di genere che daranno certamente i loro frutti più avanti, con gli episodi successivi (per il momento la produzione sembra essersi fermata). Solo il tempo dirà se gli autori sceglieranno di percorrere una strada già battuta oppure se sfruttare l’impianto di genere fantascientifico in maniera più raffinata, magari spingendo ancora di più sulla scia dell’assurdo e della decostruzione. Per il momento possiamo dire che il meccanismo narrativo è ben avviato e che Doc Nick è una webserie molto “internazionale” perché gli accenti sono quasi del tutto assenti e perché l’episodio zero è sottotitolato anche in lingua inglese. Insomma, l’inizio di Doc Nick fa ben sperare ma è ancora presto per dare un giudizio ponderato, non ci resta che attendere gli sviluppi, nella speranza che ce ne siano. Fame - Le 500 regole della convivenza La crisi economica è un oggetto difficile da descrivere, in particolare per l’arte del cinema. Essa è stata (ed è tuttora) un fenomeno complesso che, per quanto enorme, è stato attutito dagli strumenti finanziari e ha colpito più forte alcune categorie, mentre altre solamente di striscio. Come rappresentare un fenomeno che i giovani intravedono solamente? Il cinema richiede sintesi e non è un caso che abbia spesso optato per l’iperbole, con immagini in stile “grande depressione” (obsolete, se non ridicole), oppure per la storia di un particolare professionista che si ritrova senza lavoro (una scelta più azzeccata ma dal minore appeal per il pubblico). La verità è che la crisi non ci ha ancora tolto il pane dalla tavola e i giovani l’hanno sentita poco o per nulla (la sentiranno davvero quando NON andranno in pensione), ecco perché c’è qualcosa di terribilmente sbagliato nel titolo della webserie veneta: “Fame”. Non a caso, di fame non c’è traccia e il tema economico, che qui è visto come disperata ricerca del lavoro, sarà presto accantonato in favore dei classici momenti della sitcom fra coinquilini, che oramai è un vero e proprio genere cinematografico con le sue macchiette e situazioni tipo. Posta la premessa, è possibile godersi Fame senza troppi pensieri, basta prenderla per quello che è: un esperimento comico di partnership firmato da Andrea Pertegato e prodotto da Genesin – Casa amica, del quale si è oramai conclusa la prima stagione. Fame è tutta girata in uno showroom di arredamento gentilmente concesso dal main sponsor della serie (una ditta di arredamento per la casa). La crisi si intravede appena (la si sente davvero solo nell’episodio zero) e i protagonisti, tutti ex-studenti e mantenuti, vivono in uno stato di compiaciuta disoccupazione e perenne sindrome di Peter Pan. Mattia, Giulio e Andrea sono giovani, maschi, sfigati e con tendenze all’esuberanza che la regia sottolinea (forse un po’ troppo) con le varie iperboli visive e le citazioni per nulla sottili, più da cartone animato che da film. Riguardo lo stile di questi sketch, che sono la vera anima di Fame, bisogna segnalare un uso insistito della comicità classica e degli effetti sonori; tutto ciò può stancare o addirittura infastidire se unito alla recitazione eccedente dei protagonisti maschili. Tuttavia, Fame migliora con gli episodi, anche grazie a una maggiore compattezza della narrazione che permette agli autori di sfruttare meglio i (pochi) mezzi a disposizione. Gli episodi più recenti sono semplici e statici e per questo funzionano molto meglio dei primi. Scompaiono anche le incertezze sul piano fotografico e, come si era anticipato, il tema della disoccupazione è messo da parte in maniera definitiva per far posto alla più innocua sitcom romantico-maschilista, declinata alla maniera italiana ma stranamente povera di forme dialettali. Fame ha un’impostazione classica in quanto serie a episodi autoconclusivi (o quasi), e in ciò rivela la sua impostazione di semplicità ricercata, la supremazia della singola gag sulla struttura più grande. Non bisogna aspettarsi insegnamenti importanti o guizzi di genio, ma accontentarsi di una serie scanzonata, di qualità medio alta e interpretata da tre attori simpatici e all’altezza. Notte Noir Bruno (Franco Ravera) è un uomo di mezza età che di giorno lavora in una cava di granito e di notte fa volontariato perché non riesce a dormire. Col suo taxi, Bruno riporta a casa le persone che non sono in grado di guidare, alle volte si intrattiene in discussioni minime con gli abitanti della notte, mentre la fidata Grazia lo segue con la macchina del cliente. Bruno è un tipo a posto ma sulle sue, pensa molto e noi sentiamo tutte le sue meditazioni (un po’ troppo pregnanti) grazie al voice-over dalla voce (troppo) lugubre. Ha perso la moglie di recente in un incidente automobilistico e cerca di superare il momento di crisi distraendosi come può, con scarsi risultati. Tiene sempre una foto di Erika sul cruscotto. Un giorno, mentre si reca sul luogo dell’incidente, si accorge che è stato preceduto da un uomo sconosciuto che lascia un mazzo di fiori e fugge via quando vede arrivare Bruno. La morte della moglie è una ferita ancora aperta, anche perché il corpo non è mai stato trovato. Questo piccolo episodio lo spinge subito a indagare meglio sulla fatidica notte dell’incidente. Scoprirà che gli erano sfuggiti alcuni particolari importanti (qui sorgono le debolezze più grosse della storia) e dovrà rivedere del tutto l’immagine che ha della defunta moglie. Notte Noir è un buon tentativo di fare del cinema di genere su Youtube, con una webserie noir che si ispira esplicitamente a Taxi Driver e ai classici di uno dei generi hollywoodiani per eccellenza. Un post-noir, quindi, dall’ambientazione europea (entrambe le vocazioni hanno precedenti importanti), firmato da Fabio Pellegrinelli. Il Canton Ticino diventa tutto grigio e tenebroso nell’ottima resa fotografica della webserie della RSI (Radiotelevisione svizzera di lingua italiana). La qualità sopra la media si fa notare fin da subito, grazie ai titoli di testa che sembrano qualcosa di partorito da Kyle Cooper, le inquadrature simmetriche ben congegnate e gli sfocati accentuati. I periodi di maggiore richiesta per un tassista sono le feste e Bruno si trova a fare i conti con la miseria esistenziale delle persone che fuggono dalla baldoria. Nel dopofesta sbronzo, le persone diventano particolarmente inclini a raccontarsi. Bruno è il classico buon ascoltatore che cela un dramma ancora più grande di quello dei suoi logorroici passeggeri. La paranoia dovuta alla sua ricerca della verità lo porta a diventare ossessionato e, infine, insofferente coi suoi petulanti passeggeri. Notte Noir è un lavoro di introspezione ancora prima che un giallo. La mente di Bruno è più interessante rispetto alla vicenda delittuosa raccontata, e così acquistano importanza anche l’ambientazione del Canton Ticino e i singoli passeggeri, che sono molto più di semplici funzioni narrative con lo scopo di far procedere una storia. The Good Life The Good Life racconta del viaggio in India di tre italiani ma non è un film interessato alla spiritualità e non concede nulla alle idee di esotismo troppo facili o troppo alla “Beatles col sitar”. Questo film tradisce molte delle aspettative che saltano in mente a noi occidentali quando sentiamo parlare di “viaggio in India”. Questo può essere un punto di forza o una scocciatura, dipende da come la vedete voi. Partiamo dal principio: The Good Life è un bel documentario italiano che è stato presentato in anteprima al Biografilm Festival qualche giorno fa. È l’opera prima di Niccolò Ammaniti che è lo scrittore di Io non ho paura, Come Dio comanda e altri romanzi molto conosciuti. Ammaniti si è mosso con una piccolissima troupe per cercare tre italiani che vivono in India ormai da molti anni. Baba Shiva è praticamente fuggito dall’Italia. Negli anni settanta fu arrestato per essere fuggito alla leva militare. Dopo questo episodio è partito per l’India su un pulmino Volkswagen, adesso vive nella povertà sulle rive del Gange e non intende fare ritorno. Eris ha seguito un percorso diverso. Ha lasciato l’Italia giovanissimo per svolgere numerosi lavori in giro per il mondo. È un tipo duro e autoritario, che sull’Himalaya ha trovato finalmente uno spazio perfetto dove stabilirsi, mettendo su famiglia e ha creato la sua “impresa” di costruzioni. “Lavorare con gli indiani è un incubo, preferirei farlo coi veneti” ci dice con franchezza mostrando quel po’ di spacconaggine che lo rende il personaggio più interessante dei tre. Per ultimo c’è Giorgio, che manca dall’Italia da così tanto tempo che non parla più bene la lingua madre. È scappato di casa a quindici anni, anch’egli alla ricerca della spiritualità, seguendo la moda hippie di qualche decennio fa. Lui, però, in India ci è rimasto. È diventato il custode del tempio di un paesino e non vede sua madre da trent’anni. Tre persone del tutto diverse tra loro (in particolare, Eris funge da stacco con gli altri due) che sono intervistate nei luoghi più disparati dell’India. C’è la Benares di Baba Shiva, una grande città situata sul Gange, poi c’è l’Himalaya di Eris e, infine, il paesino sperduto di Giorgio. Ammaniti si concentra sulle figure umane e sulle loro storie, le intervista senza far sentire la propria voce e nascondendo la propria influenza. I tre italiani mancano dall’Italia da più di trent’anni e quindi hanno molto da dirci. È sufficiente lasciarli parlare e seguirli per qualche tempo per ottenere una testimonianza interessante, che non necessita di essere edulcorata con un lavoro accattivante sul filmico. Le loro storie sono rocambolesche e piene di umorismo, il loro accento (specialmente quello di Eris) è ancora forte e la loro italianità si rifiuta di morire del tutto. Questa volta la semplicità si è rivelata la carta vincente, The Good Life è un prodotto ben confezionato che evita l’eccessiva pregnanza di un certo cinema documentario d’autore. Qui l’autore c’è ma non ne percepiamo la presenza. Il suo intervento più incisivo rimane la scelta del titolo, l’unico elemento che esprime un giudizio qualitativo sulle scelte esistenziali dei protagonisti. Non ne vedremo altri, quindi sta a noi giudicare quale sia la “buona vita”. Eskimo “I fiori della prima volta non c’erano già più nel ‘68” Diceva così Guccini nella sua canzone “Eskimo”, con la quale ha immortalato la tenuta classica dei giovani che si riconobbero nelle controculture di sinistra negli anni della contestazione. Se nel ’68 l’innocenza era già morta, figuriamoci nel ’77, quando si era al culmine degli anni di piombo, la strategia della tensione dello stato faceva vittime e i gruppi extraparlamentari rimasti si erano oramai imbastarditi. Eskimo sceglie di raccontare proprio questo periodo, eppure i giovani che rappresenta sembrano ancora quelli idealisti e sognatori degli anni ‘60. Il focus è su un gruppo di ragazzi di Roma che militano in un comitato studentesco, uno di quelli “più a sinistra della sinistra”. Il gruppo organizza un’occupazione che il PCI non approva, facciamo la loro conoscenza nelle assemblee vuote e nelle riunioni informali all’inno di “Cossiga merda”. La storia è ispirata a fatti realmente accaduti. Eskimo è l’ennesimo racconto nostalgico che mostra una gioventù studentesca un po’ idealizzata. Oggigiorno la “nostalgia di sinistra” è quasi un genere di cinematografico a sé, ma forse non aveva ancora trovato incarnazione in una webserie. A stemperare la gravità dei fatti raccontati c’è l’anima comica di Eskimo. Essa prende molte forme diverse, come ad esempio Guevara, un cagnolino intelligentissimo i cui pensieri compaiono scritti in sovrimpressione, o l’umorismo insito nella parlata romanesca dei protagonisti. La comicità e la politica rimangono relegate in comparti stagni: la prima nelle mani dei personaggi comici – li riconosciamo subito perché sono grassocci e/o imbranati – mentre la seconda pesa tutta sulle spalle di Giggi, voce mascolina e aspetto spiccicato al Che. Tutti gli attori, protagonisti o caratteristi, sono bravi e le loro interpretazioni sono l’aspetto più notabile di Eskimo. L’altro aspetto che impreziosisce questa webserie è una storia ben strutturata al cui centro sono poste le (ormai appurate) infiltrazioni dei servizi segreti nei movimenti extraparlamentari allo scopo di esasperarne le tendenze violente. La prima stagione – non faccio spoiler – ha un arco narrativo compiuto e soddisfacente. Non è poco, infatti la Compagnia Controcorrente ha ricevuto il premio per la Miglior Storia ai Rome Web Awards di quest’anno. Feng Du Tales “Feng Du” è la montagna dell’inferno multilivello della cultura taoista, un concetto che ha ispirato Andrea Belcastro per il multiverso fantascientifico nel quale è ambientata la sua webserie, i Feng Du Tales. Si tratta di nove cortometraggi autoconclusivi ma interconnessi da legami deboli. Questi punti di contatto si rafforzano verso la fine, quando la tematica fantascientifica di fondo diventa più centrale. L’idea di Andrea Belcastro è di creare un contenitore per storie e la sua webserie ci riesce bene. Facciamo la conoscenza con un manipolo di viaggiatori temporali che vive il proprio potere come una maledizione, è una premessa classica da cui possono nascere infiniti spunti. L’incipit è buono e la tecnica è ben oliata, ma fin dal primo episodio si vedono alcune crepe: bambini costretti a recitare una parte da adulti (il rischio ridicolo è alto) e qualche scambio di battute improbabile minano una episodio pilota tutto sommato godibile. Andiamo avanti con la visione, il problema dei bimbi rimane ma alcune puntate (ad esempio la terza, che propone uno scontro tra timewalkers) risollevano decisamente la media. I problemi di Feng Du Tales sono ormai chiari e riguardano principalmente sceneggiatura e recitazione: come spesso accade in questo tipo di prodotti, i racconti funzionano tanto meglio quando i personaggi restano zitti e lasciano che a parlare sia l’azione, la bella fotografia e il montaggio, un po’ modaiolo ma fatto da persone competenti (fa tutto il regista). I generi toccati sono molti, il registro narrativo cambia continuamente ma i singoli episodi sono coerenti con se stessi. L’unico grande assente pare essere l’umorismo. Alcune puntate hanno un taglio semplicemente misterioso, mentre altre scelgono più specificamente il genere horror o quello d’azione. Quello fantascientifico è un pretesto come un altro per scatenare l’azione adrenalinica o raggiungere l’introspezione. I mezzi tecnici non sono sufficienti per mettersi in concorrenza con gli standard della fantascienza contemporanea, che, purtroppo, sembra far leva solo sugli effetti speciali anche quando il budget non lo consente. Feng Du Tales fa la scelta intelligente preferendo il modello di una fantascienza povera, ma non riesce davvero a fare di necessità virtù: la scrittura è debole e gli episodi diventano presto una collezione di cliché presi qua e là da diversi film. È una serie dalla qualità altalenante: alcuni episodi sono ammirevoli mentre altri è meglio dimenticarli. Davvero un peccato perché il potenziale c’è, lo hanno notato anche quelli del LA WebFest che hanno selezionato Feng Du Tales per quello che ormai si è affermato come una tra i più importanti festival dedicati alle webserie. Marcello Quanti film scelgono di raccontare la vita di un uomo quadrato, che vive di abitudini e di gesti ossessivi? Quanti film hanno già raccontato la solitudine maschile, la routine lavorativa che rassicura ma neutralizza l’entusiasmo per le cose nuove? Tantissimi, infatti l’alienazione e la paura dei sentimenti sono due temi fondamentali della modernità, esplorati alle volte in modo drammatico, altre volte in chiave più umoristica: Francesca Coticoni ha scelto la seconda strada. Di solito, in questo genere di film, la vita del protagonista è sconvolta dall’arrivo di una ragazza tanto strana quanto intrigante, che porta scompiglio ovunque vada. Marcello non fa eccezione e decide di camminare nel solco già tracciato da altri prodotti più ad alto budget. La vita del protagonista è un ciclo di piccoli gesti che non porta a nulla. Marcello attende un segno di vita da parte di una donna che lo ha lasciato dolorosamente, ma la segreteria telefonica è sempre vuota. Tiene a freno la sua emotività e riversa il suo amore su di una piantina che non vuole crescere. Sarà un imprevisto a rompere lo schema della sua vita quando darà un nascondiglio a una ragazza più giovane, che fugge dopo un litigio col suo fidanzato. Le due personalità opposte interagiscono in maniera abbastanza prevedibile. Lui si lascia facilmente sopraffare dal carattere più forte della donna (quella degli uomini remissivi è un’altra categoria che ossessiona il cinema contemporaneo) e sarà trascinato in un crescendo di disavventure, mentre si domanda se cacciarla di casa o continuare a darle corda. Lo stile del corto è semplice, la regia è funzionale alla storia ed evita gli eccessi, eccezion fatta per gli inutili flare, gli ennesimi che risentono di J. J. Abrams. Gli attori sono adatti ai ruoli, Marcello Cesena è un protagonista credibile che sa anche quando calcare la recitazione per scatenare l’ilarità del pubblico. Forse il corto ha poco di fantasioso, ma la buona fattura lo rende piacevole alle visione. La testa tra le nuvole Roberto Catani è un animatore italiano da tenere d’occhio. Nato a Jesi nel 1965, è docente di Disegno Animato presso l’istituto Statale D’Arte di Urbino. I suoi cortometraggi d’animazione hanno collezionato numerosi premi internazionali dal 1995, l’anno del debutto con Il pesce rosso, a oggi. La testa tra le nuvole (o Absent Minded) è la sua ultima fatica. Si tratta di un’animazione di otto minuti che è stata presentata all’interno di Visioni Italiane, il festival di cortometraggi della Cineteca di Bologna. La testa tra le nuvole si distingue immediatamente per le sue qualità artistiche spiazzandoci con il suo stile particolare. I pastelli di Roberto Catani tracciano un paesaggio della mente, del tutto stilizzato e dallo sfondo uniforme che tende all’infinito. L’espressionismo delle sue illustrazioni è radicale, e gode del supporto di un commento sonoro molto curato. Con una serie di trasformazioni il corto racconta i sogni a occhi aperti di uno studente. Il professore lo riporta alla fredda realtà e minaccia di asportargli un orecchio per porre fine alle sue fughe nel mondo dei sogni. La realtà è una scala di grigi. Di colpo lo stile diventa statico e scopriamo degli esseri umani gonfi e pallidi come la luna. È un mondo brutto, che offende i sensi dello spettatore, come nella scena in cui il professore graffia la lavagna con le unghie. La testa tra le nuvole è senza dubbio uno sfoggio di stile. Ha una trama lineare che offre molti spunti per mettere in mostra la bellezza dell’animazione, ma non è mai pretestuosa. Un corto così è un’ottima aggiunta all’opera di Roberto Catani e riceverà senza dubbio molte conferme nei festival in giro per il mondo. Un uccello molto serio Quello di Lorenza Indovina è un cortometraggio che parla di tradimento. L’umorismo di Un uccello molto serio nasce dagli errori e dalle iperboli, ma questo non significa che lo stile sia quello televisivo delle commedie all’italiana. Al contrario, è pieno di flashback, di trovate registiche e di visioni impressioniste della realtà filtrata dalla coscienza del povero Matteo, che, dopo una notte di passione consumata con la vicina di casa, si trova a dover pulire casa prima che la moglie ritorni. La formula che dà inizio la narrazione è un classico recentemente utilizzato, con eccessiva ripetitività, dalla saga di film Una notte da leoni: un protagonista si sveglia col mal di testa e non ricorda cos’è successo la sera precedente. Una serie di indizi, le suppellettili rotte, le pareti sporche, fanno riaffiorare i ricordi sempre più iperbolici delle follie notturne alle quali dovrà porre rimedio. Un uccello molto serio è un prodotto di qualità, fotografato e interpretato da professionisti. La padronanza del mezzo è, quindi, fuori discussione anche se qualche elemento, come le animazioni in computer grafica, appare superfluo. Matteo è un adultero ma vince la simpatia del pubblico perché è anche un uomo-vittima. Le donne lo comandano, la vicina di casa lo costringe a fare sesso e il fantasma della moglie lo rimprovera continuamente per lo stato della casa. Non sapendo imporsi sugli altri esseri umani, la sua personalità si sfoga sugli oggetti che lo circondano, ma la casa oppone resistenza al suo tentativo di pulirla, e lui risponde diventando sempre più maniacale. La casa, la vera co-protagonista, punisce Matteo per un tradimento che non voleva compiere, per la sua debolezza di carattere, insomma. Il risultato è un crescendo molto ben orchestrato di comicità fisica e situazioni paradossali. Ophelia È estate. Due ragazzini percorrono in bici un sentiero che passa tra i tronchi di una pineta litoranea, li seguiamo con un lungo carrello laterale che lascia i corpi semicoperti dalle fronde. Poi la macchia verde termina e possiamo vedere in volto i due protagonisti: uno ha dodici anni e guida la fila, l’altro ne ha nove e segue pedissequamente il più grande ricopiando le sue mosse nei dettagli. Stanno andando a trovare una ragazza che prende sempre il sole sulla spiaggia, la trovano mezza sepolta nella risacca, il reggipetto le si è slacciato lasciando liberi i seni piccoli. La decomposizione non l’ha ancora intaccata e quindi il gioco ingenuo dei due ragazzini può proseguire. La sollevano unendo le forze e la trascinano su per la duna, verso la pineta. Ophelia è un corto laconico, i due ragazzi sono grandi amici e non hanno bisogno di comunicare verbalmente per capirsi, se non quando necessario. Recitano in maniera naturale e giocano davanti alla macchina da presa. Hanno scoperto il cadavere prima che la storia abbia inizio, il momento della sorpresa è così sorvolato con eleganza. Li vediamo mentre svolgono meccanicamente delle azioni che hanno concordato prima del tempo della narrazione, niente dialoghi articolati, niente spiegazioni, solamente la bizzarria della situazione. I ragazzini portano “Ophelia” all’ombra di un albero mentre la tensione sessuale aumenta. I due sono abbastanza grandi da conoscere l’attrazione per l’altro sesso ma, inaspettatamente, rivestono la ragazza e cominciano a costruirle una sorta di capanna coi rami. È difficile dire se quello di Annarita Zambrano sia un eccesso di ingenuità o un tentativo di stupire, ma il tutto funziona. D’altronde non si può spartire una ragazza e cedere agli istinti significherebbe litigare per il possesso di Ophelia, i due ragazzi lo capiscono subito. Più per continuare il gioco che per rispetto, mettono da parte quelle fantasie che ancora non comprendono e scelgono di rimanere bambini ancora per un po’. Corpi in bilico Corpi in Bilico è un documentario nato dal workshop Il documentario del vero, organizzato da OffiCine, L’Aura scuola di cinema e Aranciafilm. Sotto la supervisione di Giorgio Diritti, sedici ragazzi si sono divisi in sei unità operative per realizzare i vari capitoli del film collettivo. L’idea è di affrescare il mondo dei giovani lavoratori in Italia raccogliendo le testimonianze di sei ragazzi. I filmmaker li pedinano per strada, a casa o sul posto di lavoro, senza intervenire e senza commento fuori campo. Nonostante sia un film collettivo, a Corpi in bilico va riconosciuta un’ottima coerenza dello stile, segno che le riprese sono state precedute da una lunga fase di pianificazione. Ad accomunare le storie c’è sempre il racconto di una scelta drastica fatta in passato. C’è chi, dopo aver conseguito la laurea, torna al paese dei genitori per aprire una cooperativa agricola, chi trasforma casa sua in un laboratorio per imbottigliare pastis e chi si compra un calesse e porta in giro i bambini. Le aspirazioni dei protagonisti non sono poi così assurde, cercano la serenità e un lavoro che li soddisfi, ma le contingenze economiche in cui naviga il nostro Paese li fanno sembrare dei sognatori idealisti. L’incertezza è la grande costante che torna sempre a galla nelle loro parole. Sono consci di aver intrapreso una strada difficile che potrebbe condurli a vicolo cieco e si trovano tutti in bilico, impelagati in lavori temporanei e attività non redditizie mentre attendono conferme, risposte, opportunità. Non bisogna aspettarsi di trovare troppe risposte in questo film: lo scopo è di ritrarre un’Italia impoverita ma anche cogliere una condizione esistenziale di insicurezza mista all’euforia della gioventù che si gioca tutto. Le piccole sconfitte quotidiane fanno sì che l’idealismo si scontri con la realtà, come quando Antonio, Claudio e Daria si accorgono che il loro raccolto è stato rovinato da un errore nella semina, ma loro non mollano perché hanno fatto troppa strada per tornare indietro. “Bisogna fare degli errori per imparare il mestiere”, si tenta di sdrammatizzare, ma sappiamo che potrebbe non esserci un raccolto del prossimo anno.