Liber - Mensa Italia
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liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 Editoriale R ieccoci al concorso letterario, il LiberAccademia 2010. Quest’anno usciamo quasi in tempo reale, rispetto al convegno. Sorprese ce ne sono state, 4 premi vinti da Emanuela Verdone, 2 da Massimo Fissore e un divertente racconto verité su una riunione del Mensa Emilia. I pezzi vincitori sono stati 11, con due premi speciali, uno per la sezione racconti e uno per la sezione arte. Siamo particolarmente contenti del racconto di Emanuela Verdone, vincitore dal titolo “Per chiederti scusa”, che ha saputo trattare con garbo e discrezione un argomento scabroso. Per nostra scelta editoriale, infatti, non pubblichiamo roba osé o volgare, niente sesso e niente parolacce. Insomma, leggete e giudicate voi. Floreat Mensa!!! Cecilia Deni, Giuseppe Provenza e Loredana Bua Labyrinth Liber Con questa Guida, dal nome Labyrinth Liber, ricordiamo le sezioni di questo foglio letterario: Autori Liber Piccole note biografiche per presentare i soci, scritte dai soci stessi. Galleria Liber Qui viene presentata una creazione artistica di un socio alla volta. La Musa Calliope Dedicata alle liriche composte dai soci. Dal diario di un medico Sezione di Liber, dedicata ai racconti scritti da Cecilia Deni. LiberLibris Spazio aperto alle recensioni scritte dai soci. Ut Pictur a Poesis Dall’omonimo adagio Oraziano; in questa sezione è prevista la presentazione di una lirica, ispirata ad un qualunque celebre dipinto. Le voci di dentro Dall’omonima commedia di Edoardo de Filippo, da cui trae il solo titolo, dedicata a quei brani narrativi che adottino l’io narrante, senza cadere nella mera autobiografia. Il giallo e il nero Dedicato evidentemente ai misteri e al noir. Sogni Dall’omonima pellicola di Akira Kurosawa, tutto quanto fa sogno, fantastico – fantasy – fantascienza, irreale o non-sense. LibeRidendo Sezione dedicata all’umorismo Spazio Concorsi dedicato a quei concorsi che vorrete occasionalmente segnalare per Liber. 4 liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 Autori Liber Emanuela Verdone Studia Filosofia. Suoi scrittori preferiti: Buzzati, Baricco, Dostoevskij, Dickinson, Pessoa, Ende, H.D. Thoreau, Pennac. Frequenta un laboratorio di Teatro e una scuola di dizione da cinque anni, nella compagnia Spazio tre. Ama i viaggi, soprattutto quelli disorganizzati, solitari, avventurosi. Sue ultime mete: Istanbul, Francia, Austria, Germania, Slovenia, Corsica, Florida. Ama moltissimo la pittura e l’arte in genere. In particolare l’Impressionismo, l’Aeropittura, Escher, Magritte. Suoi sport preferiti: pattinaggio, free-climbing e corsa (cento metri). Ha partecipato per due anni alla manifestazione letteraria “Bologna ad alta voce”, con la lettura di racconti nei vari angoli della città, assieme a scrittori noti. In quest’occasione sono stati pubblicati due racconti, E-Help e Ciao tu, dalla casa editrice Pendragon Bologna. Inoltre è stata segnalata nel Premio Teramo 2004. Consuelo Pasca Classe ‘72, nata a Genova ma attualmente residente a Roma. La sua ignoranza spazia ad ampio spettro su diversi interessi. Diplomata presso un piccolo liceo classico imperiese ha proseguito i suoi studi prima orientandosi verso la fisica e poi sterzando bruscamente verso l’ingegneria. Ha palesato l’inadeguatezza della sua preparazione prima girovagando per un po’ in ambienti inerenti la moda, poi collaborando con un centro elaborazioni immagini astigiano. Dopo una parentesi come portinaia in un prestigioso palazzo del Parlamento italiano del quale rammenta ancora con rammarico il cattivo funzionamento del tasto di apertura-porta-principale, ha prestato servizio presso il cerimoniale di una Pubblica Amministrazione come assistente per arenarsi infine presso il suo ufficio stampa. Attualmente cerca di convincere la sua amica Sonia, ricercatrice di biofisica, a scrivere a quattro mani un testo di esercizi fisica generale di cui hanno già pronto un canovaccio. scoutman per una squadra maschile di serie B2. Lettore di narrativa e saggistica straniera, privilegia Ken Follet e ammira Oriana Fallaci. Amante di musical americani e dei Beatles. Gian Fr anco Zane tti È speleosub, ex maratoneta, campione italiano in carica Lion’s di tennis (over-over), appassionato di modellismo, esperto e collezionista di comics (quelli veri, ante 1960), legge molto, viaggia tanto. Cerca di fare cose interessanti anche nel lavoro, spesso a scapito del guadagno e del poco tempo che gli rimane per gli altri interessi. Ha progettato le piscine di Mosca per le Olimpiadi, ha realizzato scuole in Guatemala, in Africa ed in Jugoslavia . Al culmine del successo però ha scoperto compagni di scuola che si sono veramente arricchiti costruendo casette nel paese in cui sono nati e da cui non si sono mai mossi! Tuttavia ha deciso che gli va bene così, sapere tutto su Paperino è una gioia ineffabile! L’anno passato aveva anticipato l’intenzione di immergersi sulla flotta tedesca affondata nelle Orcadi ... L’ha fatto! Fabio Moioli Ha partecipato nel 2005 al primo concorso letterario MENSA LiberAccademia, ottenendo il primo, secondo, e terzo premio nella sezione poesia. Nello stesso anno ha scritto il suo primo racconto breve (Bianca), con il quale si è classificato primo assoluto alla II Edizione del Premio Letterario Nazionale Borghetto Santo Spirito - “Un racconto per l’estate”. Durante gli anni 2005 e 2006 ha proseguito a scrivere nuovi racconti e poesie, partecipando a una cinquantina di premi letterari e ottenendo quasi sempre una menzione speciale o segnalazione da parte della giuria, inclusi una ventina di podi e primi premi assoluti, sia con poesie che con racconti brevi. L’8 settembre 2006, in occasione del matrimonio ha pubblicato assieme alla moglie Viviana Sprio una raccolta di poesie dal titolo SÌ! LO VOGLIO! Tale “libro - bomboniera” è stato distribuito in 500 copie e recensito in diversi siti Internet, riviste letterarie, e trasmissioni televisive. Negli ultimi due anni, presso il MENSA Italia, si è classificato primo assoluto al concorso LiberAccademia con il racconto “Mare aperto”, secondo classificato con il racconto “Il segreto della Sig. Stella”, oltre ad aver ottenuto un premio speciale della giuria LiberAccademia con il racconto “IQ 500”. Fabio collabora con diversi Forum letterari on-line, fra cui Descrivendo.com e Scrivi.com. Maggiori dettagli possono essere trovati al sito: http://www.fabiomoioli.com/cw .html Roberto Rossi Fisioterapista e webmaster è nato a Padova nel 1964. Cresciuto a Padova, ha frequentato il liceo scientifico e successivamente conseguito la Laurea in Terapista della Riabilitazione. Sposato con due figli, Ludovico e Ilaria. Libero professionista, ha due attività. Lavora in un ambulatorio privato di fisioterapia. Ha creato, e cura, con la moglie un giornale online della città, un quotidiano di attualità, Padovando (www.padovando.com). Crea siti web per privati e aziende padovane. Appassionato di tecnologia, allenatore di pallavolo, attualmente 5 liber Massimo Fissore Mi chiamo Massimo Fissore, sono un mediocre diplomato e un modesto bancario. Abito a Bra, in provincia di Cuneo da quando sono nato. Sono separato da 2 anni. Da quando sono separato il tempo per i miei hobbies si è ridotto, ma per fortuna è, paradossalmente, aumentato quello per i miei figli. Oltre che imbrattare le tele, strimpello (molto male) il pianoforte, leggo (soprattutto romanzi, gialli, comunque nulla di impegnativo), Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 mi piacciono i films, ma visti con comodo, davanti al televisore (dietro sarebbe più difficile), e, possibilmente con un paio di birre a portata di mano (nel dubbio anche 3). Qualche anno fa avevo fatto pubblicare una specie di parodia della Divina Commedia, intitolata:”Di Vin Commedia” in rime alternate (casa editrice Lulu.com). Avevo fatto un corso di arabo qualche anno fa, ma senza esercizio penso di aver dimenticato tutto. Faccio un po’ di sport, soprattutto calcio, e (fino allo scorso anno) muntain-bike. Tra i nuovi sport che pratico me la cavo a cucinare, a fare il bucato e a stirare. Non amo, invece, lavare i vetri. Sono molto felice di essere stato ben considerato in questo concorso, in quanto mi è di stimolo a continuare ad imbrattare tele fino a quando potrò finalmente affermare che dipingo. Antonio Giannino Vive a Milano ed è nato nel 1989 Sezione Racconti 1° Premio L’ultima fuga, di Emanuela Verdone S i teme così tanto la morte. Non sappiamo che ci arriva a piccoli morsi ogni giorno. Nella persona che non vediamo più, nello schema d’azione che smettiamo di compiere, nell’amico delle medie che incrociamo senza riconoscere. Ce ne accorgiamo troppo tardi, quando un mattino la vediamo in fondo alla via. La morte, intendo. E poi c’è la solitudine, che è già una specie di morte. Ti accorgi ad un certo punto che attorno non c’è nessuno. Che il monologo è l’unica forma letteraria che ti rimane. Per anni non ho fatto altro che monologare, come il peggior protagonista di una tragedia shakespeariana. Prima di bere il veleno. Ma il fatto è che non sono più un giovanotto in cerca del proprio destino, smanioso di domande. Qualche risposta, nel mentre, avrei dovuto trovarla. Perché, si sa, nessuno conosce la sua via sulla mappa. Però si procede per istinto. Io sono un animale senza istinto, sfinito dalla paura, bruciato dall’incertezza, con gli occhi roteati verso l’alto, in attesa di 6 una risposta, un destino lo chiamano, che non mi scorre nelle vene, che non respiro nelle narici. Chissà se la gente come me continua a rimanere sulla linea di partenza per tutta la vita, o gira a vuoto sul tabellone, cercando fuori quello che non ha dentro. Chissà se arriva mai la pianura. Sono sempre stato troppo giovane per qualsiasi cosa mi accadesse. Soffrivo per ogni ciottolo sulla via. In tutti questi anni, e non restano tra le dita di una mano, non mi sono ancora abituato alla vita. Tutto cominciava sempre da capo e ogni volta dovevo comprendere come agire. Gli altri scivolavano dove io inciampavo. Gli altri sono cresciuti, hanno vissuto ogni gradino come il raggiungimento di una tappa. Io mi dilaniavo e puntavo i piedi, ma nonostante ciò alla fine ero costretto a salire quel gradino, di cui mi vergognavo, che censuravo. E ogni volta che sono passato al gradino più in alto, non dimenticavo il trauma di quello precedente, si univano orribilmente in uno più grande. Per questo, temo, sono e sarò sempre sconfinatamente solo, solo con le mie paure, perché non ho saputo parlare del mio gradino con chi mi stava accanto. Lui gioiva dove io mi disperavo. Mi sembra che sia sempre stato così. Quand’ero alle elementari tutti erano felici per i compleanni. Io esacerbavo quel giorno. C’erano un me e un loro. Poi alle medie si condivideva la trepidazione e il sapore indistinto della crescita. I mie compagni parlavano sottovoce di quello che stavano diventando. Io li guardavo come estranei. Non ero uno di essi, non ero con essi. Salvatemi dalle loro descrizioni grottesche, dalle loro condivisioni oscene. In prima liceo ero ai margini mentre gli altri giocavano al gioco della bottiglia, banale pretesto per dire di più. Rimasi atterrito dal racconto veristico di un primo bacio. Poi la fatica di trovarmi in un’altra città a studiare, sradicato dal mio minuscolo mondo e dalla mia infanzia. Poi la notizia di un compagno di giochi, che si sarebbe sposato di lì a poco. Poi il primo figlio di mio fratello, io che me lo ricordavo ancora ad liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 ascoltare Elvis Presley tutto il giorno, in camera nostra. La morte di mio padre, prima che facessi in tempo a smettere di guardarlo dal basso in alto. La barba brizzolata, prima che imparassi a radermi senza ferirmi ogni volta. E così via, di prima volta in prima volta, di gradino in gradino. Gli altri sempre lì a raccontare del loro gradino. Ho deciso che avrei dormito, per non sentirli più, per non vivere in contemporanea con loro. Devo aver dormito così a lungo che quando mi sono risvegliato, tutti avevano da tempo smesso di giocare alla bottiglia. Non che nel mentre non avessi fatto nulla. Avevo vissuto, a mio modo. Incespicando, tornando indietro, facendo le bizze ad ogni avanzamento di gradino. Avevo lavorato in un negozio di computer come programmatore, pur odiando l’informatica; avevo sposato una donna che amavo tiepidamente, mentre ne sognavo un’altra con cui parlavo in silenzio alla fermata del tram, ogni mattina. Mi piacevano le sue fossette e il suo modo di osservare la città che si sveglia. Poco dopo avevo perso mia moglie, e ciò mi aveva dato l’occasione di soffrire per qualcosa di concreto. Avevo partecipato come una spia a decine di serate nei pub, con gli amici di studio, poi con i colleghi. Sempre ai margini. Mi sarebbe piaciuto viaggiare, ma nel frattempo sognavo di farlo davanti ad un atlante, fuggendo di volta in volta. Fuggivo sia che andassi a Bucarest sul piano bidimensionale di una mappa, sia che camminassi tutto il pomeriggio, per i viali. Per tutta la vita mi è stato detto che non dovevo evadere, che gli adulti riescono ad affrontare le difficoltà senza voltare le spalle. Ma ora, tutto è diverso. In questo frangente intuisco che sia l’unica cosa seria da fare. Fuggire. Organizzare tutto senza destare sospetti, e lasciare al più presto questo posto. Come sono finito qui dentro? È difficile dirlo. So che da un po’ ero caduto in depressione, senza motivo apparente. Avevo smesso di lavorare, il minimo degli anni per la pensione, e mi ero ritirato in isolamento. Non avendo nulla da aspettare, avevo finito per indossare l’abito della trasandatezza. Bevevo un po’, ma poi chi lo sa qual è il giusto limite. Dimenticavo di guardare il calendario, lasciavo le bollette a sovrapporsi sulla credenza. In fondo non avevo fatto niente di così grave per finire qui dentro. O almeno, non ricordo. Nel momento in cui avevo smesso di pensare e di confrontarmi con i gradini degli altri, ero invecchiato tutt’ad un tratto. Ma poco importa, sono dentro, ormai da un anno e mezzo. Dei primi tempi non ricordo molto, è faticoso entrare nella parte. Mentre per gli altri, qui dentro, bastano alcune settimane per perdere la consapevolezza e sprofondare nel torpore, a me era capitata la sorte inversa. A poco a poco avevo riacquistato la lucidità: se per tutta la vita avevo vissuto in dissonanza; ora, per assurdo, mi sembrava di cogliere la giusta tonalità. Eppure, qui è quanto di più simile ad un inferno dantesco possa immaginare. 12 metri quadrati di solitudine, che hanno preso il posto dei 70 metri quadrati di prima. Tutto è spiacevolmente a portata di mano: il telecomando, il bicchiere, il giornale. Non mi occorre nemmeno affaticarmi troppo a girarmi da un fianco all’altro. Odore di disinfettante, pareti color crema. Sempre, in sottofondo, una tv troppo alta e guaiti. Perché la solitudine ha un proprio canto. Ma ognuno la intona con parole incomprensibili. Poi ci sono i luoghi di interazione, dato che la socievolezza è un dovere uamano ad ogni stadio. La mensa, la sala ricreativa. Le attività forzate: il karaoke, la serata danzante il sabato pomeriggio, la tombola per ogni stagione. L’ora d’aria nel giardino se fa bel tempo. In fondo il cancello, e il traffico, in ricordo della vita precedente. Un gatto rosso, maestoso, è il padrone del giardino. Anche gli assistenti lo temono. Vattene via gattaccio cattivo, gli dicono. Ma solo da lontano. La prospettiva del sentiero che conduce all’ingresso non è per noi, ma per i visitatori esterni. Si snoda nel piccolo giardino, affiancato da rose. Da lontano potrebbe sembrare un luogo di pace e di quieto garbo. L’edificio si alza avvitato sui suoi cinque piani, ognuno di un colore diverso. Se però il visitatore si ferma a guardare meglio, nota che non esistono balconi, e che le serrande sono abbassate come uno sguardo vuoto. Non ci sono passerotti qui intorno, neppure piccioni che si fermano alle nostre finestre. Anche il silenzio è artificiale: se si accosta l’orecchio ad una porta immancabile dall’altra parte c’è un lamento; e la pace è un ripiegarsi sulla panchina, o sul tavolo del salone. Tornando indietro, attraverso il sentiero di rose, il visitatore attento nota il cancello, una cesoia nei confronti della vita. Si affretta in direzione del cancello, riconsegna il pass al guardiano, che aprirà con uno scatto la porta elettronica. Noi restiamo sempre al di qua, nella quiete. Di vista ci conosciamo tutti. Con alcuni ho scambiato qualche parola, durante i pasti o nel tempo di una sigaretta. Di altri so qualcosa in più, perché per ognuno, qui dentro, arriva il momento della rivelazione. L’intervallo è variabile, ma tutti, prima o poi, ti guardano lucidi negli occhi e ti dicono: sono qui dentro per espiare la mia vita. Sono colpevole di questo, e forse anche di questo. Può trattarsi di una rivelazione asciutta, o di una confessione che va avanti per ore. Nessuno oserebbe interromperti, si tratta della vita, e qui ne siamo affamati. Prima che avvenga la rivelazione posso immaginare quello che gli altri sono stati, in passato. C’è Giacomo. È ancora giovane, energico. Qui dentro perché 7 liber incapace alla vita, come me. Ha un permesso speciale. Passa il giorno a fare la staffetta per piccole commissioni: un pacchetto di sigarette, dolci. È uno dei pochi privilegiati che varca il cancello. Vorrebbe parlare ma nessuno lo ascolta. Ogni volta che passa mi tende la mano con il suo faccione sorridente e imbarazzato. C’è Pietro, parla con il gatto rosso mentre fuma una sigaretta dopo l’altra, le mani gialle di nicotina. Non deve aver solo fumato per tutta la vita, perché ha mani robuste e nervose. Una smorfia amarissima tra le labbra. È il mio vicino di stanza. Lo sento tossire prima di addormentarsi, colpi amari e rauchi. Ancora non ha rivelato il suo prima, che faccio fatica ad indovinare perché è un uomo complesso, ancora acerbo. Per questo il gatto rosso non lo guarda con i suoi occhi ostili. Dividono un passato segreto. Certe sere ascolta senza tregua un cd di Marcella Bella, fino a che qualcuno non batte alla parete. C’è il maestro, Lorenzo. Passa il tempo a leggere, o a far finta, ormai non ci vede quasi più. Vorrebbe che qualcuno alzasse ancora la mano per fargli una domanda. Vorrebbe ancora scuotere la testa di fronte a studenti irrequieti. Lora ha fatto la fotomodella. Ha vissuto qualche anno di esaltazione sulle riviste negli studi dei dentisti, prima di cedere il posto. Anche qui, è distante e avvolta da un’aura di irraggiungibilità. Il suo guardaroba è giunto senza tarme dagli anni cinquanta, dalla serate in una Milano luccicosa ed esuberante. Non so cosa l’abbia portata qui. La sua bellezza la rende ancora più disperata. C’è poi il popolo dei rimorsi, che si lamenta per tutto il tempo, sperando in una telefonata, in una visita di un parente. C’è la compagnia dei rimpianti, che si dispera per quello che avrebbe potuto fare, quando ancora era fuori. Ci sono i nostalgici, che rivivono quello che è stato. 8 Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 Ecco, sapete che cosa mi ha spinto a decidere di fuggire da qui? Per tutta la vita avevo osservato gli altri che condividevano il proprio gradino, ne parlavano, ne gioivano. La morte era la grande temuta, ma per lo più restava una metafora sullo sfondo, un’ipotesi distante. Si può persino scherzare, con una metafora. Ora invece tutti eravamo da soli, in omertà, come lo ero sempre stato, puntando i piedi. Questo, di nuovo, me li rendeva gli altri. Perché, diciamocelo, io non mi sento ancora cadente, immobilizzato ad una sedia. La vita vissuta in superficie mi ha lasciato poche rughe, anche i capelli mi sono stati risparmiati dagli anni. Rispetto agli altri che hanno perfezionato già da tempo l’arte del riporto, io resto un capellone. Bianco, d’accordo, ma con il ciuffo scomposto da quindicenne. L’andatura che non ha mai avuto l’energia della giovinezza, ma che proprio per questo non ha ancora l’incertezza della vecchiaia. Non è solo questo. Da un po’non sono solo un Amleto con le rughe, ancora in preda agli interrogativi come per tutta la vita. Ma anche un Romeo innamorato, benchè fuori tempo massimo. Non più della donna della fermata del tram, del suo caschetto ramato e della gonna vaporosa di cui ormai ho perso le seduzioni assieme al batticuore. So che il nuovo oggetto del mio amore è del tutto stravagante; tutto è sui generis qui. Non come la vita che passa sulle pubblicità. Dopo aver vissuto un’ esistenza distante, ora ho quasi deciso di dar retta al pizzicorio inconfondibile alla base del naso. No, non sorridete, ho deciso di rischiare. Si chiama Sophia il mio amore strambo. Dire che sia un po’ fuori non è del tutto esatto. Tutti noi, qui, giochiamo a dama con la nostra solitudine. Abbiamo una vita da scontare, e i testimoni sono sempre di troppo. In ciò, ci spegnamo di giorno in giorno, ammettendo la nostra disfatta poco alla volta. Ma lei vive a tempo indeterminato in un mondo a sé. Non fa parte dei nostalgici, o del popolo dei rimorsi, o dei rimpianti. Ed è questo che me la rende speciale. Lei è l’unica a suo modo felice, qui dentro. Sophia è una bambina. La pelle quasi liscia, i capelli candidi arricciati, un po’ sbarazzini. Lo sguardo sfacciato da ragazza dispettosa. Il passo agile nelle ciabatte arancioni. Se ne va in giro per il salone, e parla alla sua bambina. Che è una bambola con gli occhi vispi, azzurri come i suoi, che l’ascolta attenta. Non so se ci creda veramente. La liscia, le canta motivetti, la conduce in società. Le racconta tutto quello che accade attorno. Forse le parla anche di me. Lei spensierata, io troppo consapevole. La sento scoppiare in una risata impertinente, mentre siamo a pranzo, ciascuno piegato sul suo piatto. Io faccio in modo di mettermi sempre davanti al suo tavolo. Chissà com’era prima, lo stesso sguardo sfacciato, certo, ma cosa faceva prima? Nessuno lo sa. Stasera mi sono fatto coraggio, mi sono seduto al suo tavolo. Ci separava solo il purè di patate, lo spezzatino e le mele cotte nel vassoio di plastica. Dobbiamo andare via di qui. Le ho detto. Mi ha guardato fissa fissa, improvvisamente lucida, e ha sorriso complice. Poi è tornata al suo purè, un boccone a lei, un boccone alla sua bambola. Non sapendo se il messaggio l’avesse raggiunta veramente, sono rimasto in silenzio per il resto del tempo, osservandola mentre imboccava Domenica, la sua bambina dagli occhi vispi, e le sussurrava qualcosa all’orecchio. La guardavo e pensavo che forse il mio progetto era folle, che avrei fatto meglio a ricadere nel mio torpore. Ho continuato a pensarci quando sono tornato in stanza, Marcella Bella che cantava al di là della parete. Ci ho pensato anche nei due giorni successivi, diviso tra Romeo e don Abbondio. liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 Poi. Sessantaquattro ore dopo, dopo cena, Sophia mi appare alla porta. È in camicia da notte rosa pallido. Le ciabatte arancioni e il passo sicuro. L’aria da cospirazione me la fa sembrare ancora più giovane e graziosa. Non sapevo nemmeno che conoscesse la mia stanza. “Se ce ne andiamo da qui, lei viene con noi”. Lei è Domenica, ovvio. Non avevo pensato nemmeno per un attimo di escluderla dai nostri propositi di fuga, e le ho sorriso. È stato un incoraggiamento che l’ha spinta a sedersi sul bordo del mio letto, gli occhi grandi illuminati, e quello che non avrei mai immaginato avviene. Entriamo in contatto, non so bene se è Sophia a raggiungermi nel mio mondo, o il contrario. La lampada a 30 watt ci fa da palo, le sue guance si imporporano mentre io le spiego come. Marcella Bella smette di cantare, perché è arrivata l’ora del sonno, per noi che restiamo svegli notti intere sperando di eludere il grande sonno. Parliamo più piano, le faccio ripetere ogni passaggio, per vedere se ha compreso. E mentre le parlo, il mio sogno di fuga prende una certa compattezza. Decidiamo di andarcene via di sabato, perché è il giorno delle visite, e c’è movimento. Dodici meno un quarto, quando cominciano gli spostamenti verso il refettorio, pochi alla volta, chi può con i suoi piedi, gli altri accompagnati dagli assistenti. L’importante era evitare di incontrare gente per i corridoi, ci avrebbero chiesto il perché degli abiti civili. Poi, eludere la sorveglianza al cancello, l’aspetto più difficile; una volta fuori avremmo preso il primo autobus per il centro. Sono riaffiorati ricordi della mia vita normale, delle attese alla fermata; per timore, mi ero sempre rifiutato di prendere la patente. Sarei stato capace, stavolta, di saltare il gradino? Quando Sophia è uscita, tuffandosi con la sua bambola nel corridoio in penombra, ero in subbuglio. Un po’per la sua intrusione frizzante nei miei 12 metri quadri di solitudine. Il cuore che batte forte dopo anni di latitanza. Un po’ per l’assurdità dell’impresa. Mi sento come un dodicenne che progetta battaglie di soldatini e assalti alla diligenza, ben sapendo, in fondo, che si tratta di una finzione. Ma ormai è fatta, la mia frase a cena di qualche sera prima ha reso impossibile continuare a vivere come avevo vissuto fino ad allora. Fuggire ora, o aspettare alla finestra l’arrivo. Tre giorni ci separano dal sabato. Non ho più nemmeno il coraggio di mettermi di fronte a lei, a mensa, per paura che qualcosa trasudi. Lei con Domenica, io con il mio vassoio insipido lasciato a metà. È maggio, il mese giusto per una fuga. Mi preparo al grande addio, osservo con più attenzione gli altri. Mi sembra che anche gli altri mi osservino con maggiore perspicacia. Alla fine del primo giorno, seduto sulla panchina vicino ai roseti, mi accorgo che il gatto rosso mi sta guardando, e all’improvviso ho la certezza che lui sa tutto. Temo per un attimo che lo riveli a Pietro. Il secondo giorno, dopo cena, Sophia piomba in camera. È allarmata, Domenica ha l’influenza, pensa che non potremo fuggire perché la piccola non può prendere freddo. La rassicuro come posso (non sono stato padre, io); ai bordi del giaciglio la curiamo per tutta la notte. Faccio da spola tra il bagno e il mio letto, con pezze bagnate. Le regalo una mia pillola. Ma certo, una cardioaspirina andrà bene anche per l’influenza. Verso mezzanotte Sophia è più calma, mi sorride e dice che sta già preparando il suo bagaglio, lo ha nascosto sotto il letto. Ha mandato Giacomo a comprarle dei biscotti per il viaggio. Spero che non gli abbia raccontato nulla, vorrei dirle che una volta fuori avremmo potuto comprare da noi i biscotti, ma non glielo faccio pesare. Un bacio sulla guancia prima di andare a dormire; è tutto un sss, fai piano che ora sta per passare la tale assistente, allora a domani, un bacio sulla fronte anche a Domenica, giusto per essere sicuri che sia sulla via della guarigione. Il terzo giorno piove. Piove così tanto, lì fuori, che non sembra nemmeno maggio. Ci è interdetta l’ora d’aria. Chi può, va avanti e indietro come un moscone, in attesa del pranzo. Il maestro è alla finestra come al solito, stavolta non fa nemmeno finta di leggere. Lora è in fondo al salone, avvolta in uno scialle che la protegge dalla pioggia e dallo spettacolo decadente che le offriamo. E poi c’è Sophia. Tremo quando la vedo. È sul divano, tutta rannicchiata. È diventata una bambina infelice. Le capita raramente, ma a volte anche lei esce dal suo mondo spensierato e sprofonda nella consapevolezza. Si dondola su se stessa, lamentandosi, mi sembra chiami i genitori. La solitudine ha raggiunto anche lei. Domenica è stata gettata in un angolo con malagrazia. Una assistente passa, le dice di smetterla se no la riporta in camera, e le getta nuovamente la bambola sul divano. Mi siedo con lei, vorrei prenderle la mano ma so che non me lo perdonerebbe, ho assistito altre volte a queste crisi. Vuole stare da sola di fronte alla sua solitudine. Chiama di nuovo i genitori, sembra che abbia male ovunque. Allora, raccolgo con dolcezza Domenica, e piano comincio a cullarla, cantandole l’unica nina nanna che ricordo. Continuo così forse per un’ora, senza curarmi dello sguardo freddo di Lora, che si è accorta del mio strano comportamento. Continuo fino a che anche Sophia smette di dondolarsi e di piangere, e si addormenta come una bambina sfinita dopo un pianto dirotto. Le lascio Domenica a fianco, mentre torno in camera. So che ormai il mio progetto di fuga non ci sarà. A Romeo manca la sua scintilla di 9 liber pazzia per arrampicarsi fino al balcone. Anche stavolta, non salirò il gradino. Mi rigiro nel letto, la pioggia continua a cadere. Quando mi addormento, sogno il gatto rosso che mi guarda, dietro il roseto. Sogno il maestro che mi spiega come funziona la vita. Lora che mi sussurra: “Io sì che ho vissuto, quando potevo”. Arriva il giorno. Mi sveglio controvoglia. Nessuna visita e nessuna fuga in programma, questo sabato. Poi il mio sguardo cisposo mette a fuoco qualcuno al margine dei miei 12 metri quadri. Per un attimo avverto un particolare pudore, che pensavo di aver perso da mesi: qui la privacy non ha serrature, e le barriere mentali vengono oltrepassate con facilità. È Sophia, ovviamente. Sophia felice, quella di ieri l’ha lasciata sul divano. Quasi non la riconosco senza le ciabatte arancioni e la camicia da notte rosa. Ora è vestita con una maglia di cotone celeste, e una gonna da scolaretta. Deliziosa. Anche Domenica ha il vestitino della festa, i capelli pettinati. Si affaccia da un sacco di tela, poggiato a terra. Una cartolina naif. È lo spettacolo più scombinante che abbia mai avuto davanti. Piccola Sophia, bentornata tra noi, mi sa che stavolta dovrò saltare. Sono le 9, penso, ce la possiamo ancora fare. Ma in questo momento, bussa l’assistente. Sophia fa appena in tempo a chiudersi nel bagno. L’infermiera mi fa le domande di rito, mi prepara i vestiti sul letto, poggia le pillole sul comodino. “È il giorno del bagno, Matteo”. “Ma no, oggi no, mi sembra di avere un principio di raffreddamento”. Se ne esce sollevata, toccherà all’assistente della domenica, quella che lavora part-time. Tiro un sospiro di sollievo, mi alzo di scatto dal letto, ingoio le pasticche meccanicamente (bisogna che sia in buona forma per la mia fuga). Tranquillizzo Sophia nell’altra stanza, e mi vesto in gran fretta. Raccolgo qualcosa nello zaino che avevo 10 Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 abbandonato un anno e mezzo prima sul ripiano più alto. Alle 10 in punto smetto di appartenere al popolo degli uomini in pantofole. Resta il problema di come non dare nell’occhio. Decidiamo di scendere in vestaglia, e di lasciare i bagagli nel ripostiglio a piano terra. Quello in cui i visitatori abbandonano i cappotti. “Domenica non avrà paura del buio?”. La tranquillizzo, poi, ciascuno per conto suo, entriamo nel salone, dove è già in corso il rito delle visite. Parenti che sfoderano sorrisi tirati, e intanto guardano l’orologio sulla parete facendo il conto alla rovescia. Qualcuno di noi che si lamenta che qui gli rubano i soldi, scompaiono i vestiti. Un’assistente guarda compiacente i familiari, si sa, ad una certa età è normale lavorare di immaginazione. C’è sempre chi cede alla malinconia, piange con pudore e chiede di essere riportato a casa. Il prossimo sabato ti porto Saretta, poi pranziamo insieme al ristorante, va bene? Saretta non ci sarà, sabato prossimo, e spero che nemmeno io sarò qui, se tutto va bene. Undici meno un quarto. I parenti guardano con liberazione gli assistenti che annunciano la fine dell’orario di visite, è tempo di andare. Qualche abbraccio, saluti da recapitare. Io e Sophia ci allontaniamo di nuovo dal salone, e ci mimetizziamo tra i visitatori che passano nel ripostiglio prima di uscire. Nessuno si accorge del fatto che abbiamo abbandonato la vestaglia in un angolo, ed ora siamo tra i civili, impacciati, ormai vicinissimi, recitando la normalità. Usciamo in giardino assieme a compagni improvvisati, c’è persino il sole stamattina che brilla sul roseto. Sembra un sogno. Tutto troppo facile. Guardo Sophia che si aggrappa alla mia manica, e sorride alternativamente a me e a Domenica. Ha le guance colorate. Chi dice che solo i giovani sanno arrossire? Ma poi, il roseto curva verso il cancello, e il sogno finisce di proteggermi. C’è il guardiano, al cancello. So che non passeremo inosservati. C’è anche Pietro, seduto alla panchina con il gatto rosso. Ci guardano imbronciati, ho paura. Non c’è scampo, penso, dovrò ricondurre la mia Giulietta in cima al balcone, e lasciarla lì in attesa della nutrice. Meglio costituirsi, forse. Non sono abituato a decidere in fretta, in realtà non sono abituato a prendere decisione neanche con tutta calma. Ma per fortuna arriva un segno. Non dall’alto, ma dalla fine del viale. È il camioncino del pane, prima di pranzo si ferma davanti all’ingresso e lascia il suo carico davanti alla mensa, per poi ripartire. Anche Sophia sembra averlo notato. Mi libero dalla lenta razionalità e con un salto poco senile siamo nello scomparto posteriore. Il camioncino riparte, nel buio sento Sophia che respira più forte. Penso a cosa succederà una volta fuori, quando l’inserviente si occorgerà dei due intrusi. Penso a cosa faremo, io, Sophia e Domenica, lontano dai nostri 12 metri quadri di solitudine. Getto uno sguardo fuori, mentre il guardiano fa aprire lentamente il cancello elettrico. “Residenza Happy Days”, leggo mentre facciamo lentamente manovra. Mi aspetto giorni felici, penso. Se non saranno anni, almeno potrò dire di aver salito il gradino, senza puntare i piedi. E ho qualcuno con cui condividere il mio gradino. Qualcuno a cui domandare il suo prima, e a cui raccontare il mio. Una fuga in grande stile, di maggio, su una diligenza di fortuna, lontani dall’edificio a cinque piani, dalla nostra solitudine, dalle metafore. Provate a prenderci, ora. Una fuga che sa di pane. Anche Sophia è eccitata per la nostra impresa, gli occhi le brillano anche nel pulmino buio. Inizia a fischiettare, la fermo giusto in tempo con una mano sulle labbra, e le sorrido. “Due delle stelle più belle del firmamento”. Mi viene da dirle. Non sembra capire subito, mi sorride anche lei. Poi resta solo un bacio. liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 Sezione Racconti 2° Premio Controtempo, di Consuelo Pasca un tempo per nascere un tempo per morire un tempo per pascere un tempo per dormire e tutto era perfetto logica ogni azione il treno era diretto vicina la stazione un tempo per pregare un tempo per godere un tempo per peccare un tempo per vedere un tempo. (Andrea Camilleri 1948) Andrea non capiva. Era piccolino ed incredulo in mezzo ad infinite e lunghe figure nere che gli si ripiegavano addosso. Tante persone mai viste, tante parole mai sentite, tante lacrime a rigare volti non sempre noti e il papà pallido vicino ad una lunga cassa marrone: il bambino cominciò a stringere la mano della mamma. Avrebbe voluto dirle che voleva andar via ma la piccola folla che li circondava gli toglieva il fiato al punto di non riuscire ad emettere alcun suono. I bimbi spesso non capiscono i rituali degli adulti e quello era particolarmente strano e doloroso. Il suo papà gli apparve improvvisamente minuscolo, fragile e sottile come i fogli di carta velina su cui ogni tanto lo facevano disegnare. “Torniamo a casa. Andiamo da nonno?” Riuscì finalmente a parlare, ma con la bocca impastata da uno strano senso di nausea. Come risposta ricevette solo uno sguardo smarrito e il malessere aumentò. Era qualche giorno che non vedeva suo nonno. Dovevano finire la sonatina che gli stava insegnando. Andrea amava suonare il pianoforte insieme a lui: gli spiegava sempre un sacco di cose interessanti, delle magie! ‘Si dice’ – gli raccontava il nonno – ‘che imbrigliandolo in ritmi giusti e battute controllate si possa diventare addirittura padroni del tempo...’ Non che glielo avesse detto apertamente... ma il bimbo supponeva che suo nonno fosse proprio uno di quegli eletti che erano riusciti a prendere il pieno controllo del tempo. Le note struggenti che riusciva a creare ne erano una prova evidente: ogni minuto e ogni secondo erano perfettamente incastrati, ogni battuta si chiudeva su di essi avvolgendoli e il loro flusso non era più un disordinato scorrere: era musica! “Voglio andare da nonno!” forte lo colpì in pieno volto. Guardò il padre incredulo. Cominciò a correre lontano fino ad urtare la grande cassa. Cadde a terra e con lui una serie di corone di fiori. Tutto intorno si era cosparso di petali: era una pioggia di colori che pigramente si dondolavano al suolo. “Non c’é più, Andrea. Il nonno non c’é più! Il nostro tempo insieme a lui è finito”. Seduto a terra sotto la grande cassa il piccolino capì... non si sa bene cosa... ma capì. Comprese quel senso d’oppressione, i volti di cartapesta, l’assenza del nonno e comprese pure perché suo padre era improvvisamente diventato piccolino come lui. E lo perdonò. Il papà lo prese in braccio e lui rimase zitto zitto e immobile fra le sue braccia mentre dei lacrimoni di bimbo rigavano i volti di entrambi. Pensava al Signore del Tempo e intanto il senso di nausea si faceva sempre più forte, pensava alle battute che mettono ordine sul casuale fluire degli istanti e si sentiva sempre più stordito. “Andrea, non si può!” Gli salì la febbre. Il tono della voce del padre si era fatto secco e tagliente. Era cattivo! Non ci voleva stare lì, in mezzo a tutti quegli sconosciuti con le facce di cartapesta, non ci voleva stare in quella chiesa fredda senza luci, voleva andare dal nonno, voleva andare a giocare col gatto e voleva la cioccolata calda che bevevano sempre tutti assieme (con qualche effetto collaterale sulla linea del gatto) prima di cominciare a suonare. Lui era piccolo! Non c’entrava nulla con quei loro rituali stupidi. Cominciò a piangere forte, fortissimo! ... e una sberla altrettanto “Luca, lo porto a casa. Non sta bene, scotta”, la mamma lo prese dalle braccia quasi senza forze del padre e se lo strinse al petto. Andrea per un attimo si addormentò: nella testa continuava ad ascoltare battute e sonatine mentre lo stordimento lo trascinava in un vortice. Arrivati a casa cercarono di metterlo a letto ma Andrea corse dal pianoforte: sembrava così agitato che la mamma lo lasciò fare senza intervenire. Si limitò a seguirlo 11 liber con lo sguardo mentre cercava confuso qualcosa in mezzo ai suoi piccoli spartiti. ... ma Andrea non era confuso, Andrea aveva un’idea precisa. Trovò lo spartitino che il nonno aveva scritto per lui e cominciò a suonare dalla fine all’inizio. Suonava e piangeva, sbagliava e ricominciava. Nell’invertire l’ordine delle battute si creavano suoni a volte sgradevoli ma Andrea pensava che fosse a causa dello stridere del tempo che veniva costretto a tornare sui suoi passi, immaginava che fosse il lamento degli istanti che si opponevano a quel drastico cambio di direzione. Suonò ininterrottamente per ore. Se fosse riuscito a completarla senza errori dalla fine all’inizio, forse in prossimità della battuta d’apertura avrebbe ritrovato il nonno... ma era difficile e continuava a fare un sacco di sbagli grossolani e allora ricominciava da capo e poi da capo e poi da capo ancora. La madre lo guardava dalla soglia della porta atterrita, non sapendo se intervenire e mettere un punto a quella febbricitante manifestazione isterica. Il bimbo pareva ipnotizzato. Suo- Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 nava e ricominciava e risuonava alla ricerca di quella perfezione che gli avrebbe restituito il nonno. Una chiave girata nella toppa annunciò lo stanco rientro del padre. Andrea non si distrasse. Luca si trovò di fronte allo spettacolo del figlioletto impazzito in un mare di suoni sconnessi e improvvisamente si ricordò di una storia che suo padre gli raccontava quando era piccolo. Era la storia del Signore che controlla il Tempo imprigionandolo in battute e ritmi ordinati. Luca chiuse gli occhi e si fermò per qualche istante ad ascoltare. Andrea era quasi riuscito a portare a termine la sua sonatina inversa senza errori. Quasi giunto alle ultime battute, vide le mani del nonno aggiungersi sulla tastiera di fianco alle sue per accompagnarlo. Si riempì d’orgoglio e continuò a suonare con il cuore che gli batteva all’impazzata. La sonatina inversa venne ultimata senza più sbagli in una sequenza di magici virtuosismi. Andrea suonò la sua ultima battuta e si girò di scatto per stringere le grandi mani del nonno che si erano rincorse sulla tastiera insieme alle sue. Si abbandonò ad occhi chiusi fiducioso tra le sue braccia. Era tornato per lui e non lo avrebbe mai più abbandonato! Mentre piangeva e lo stringeva, riconosceva ogni singola parte di quel corpo enorme e protettivo e assaporava il senso di pace e protezione che riusciva a infondergli. Si addormentò felice di aver riconquistato il suo nonno. Luca faticò a staccarsi di dosso le braccia di Andrea che, sebbene il bimbo fosse caduto in un sonno profondissimo, gli rimanevano serrate intorno al collo. Mentre si piegava per adagiare il figlio nel lettino scorse la propria immagine riflessa in uno specchio. Rimase per un istante stupito. Non se ne era mai accorto in precedenza e non sapeva bene quando ciò fosse accaduto, ma era evidente che il Tempo lo aveva reso in tutto e per tutto identico a suo padre. Rimboccò le coperte e sorrise. Norme editoriali Con l’invio dei Vs. scritti a Liber, s’intende resa implicita attestazione di paternità dell’elaborato. Si ricorda che le opinioni espresse nei testi sono quelle dei rispettivi autori e non riflettono necessariamente quelle degli altri soci o del Mensa stesso. In caso di ripensamento da parte dei rispettivi autori su quanto fornito a Liber, gli stessi autori sono tenuti a darne tempestiva comunicazione a [email protected]. Per principio del silenzio assenso, la mancata comunicazione di correzioni o di divieto di pubblicazione, da parte dei soci che hanno inviato i loro contributi creativi a questo foglio letterario, autorizza Liber ad avere piena libertà di pubblicare sulle sue pagine quanto ricevuto, nella forma e nella sostanza in cui è stato ricevuto, salvo ovvie correzioni sintattiche e di stile, pubblicazione che può porsi in essere anche a considerevole distanza di tempo dall’invio. Liber è con questa nota sollevato da qualunque responsabilità derivante da omesse correzioni – tanto nei testi che nelle note biografiche - o da omesse revoche di consenso alla pubblicazione da parte degli stessi autori. Solo i rispettivi autori sono responsabili di quanto scritto su questo foglio letterario. Pertanto ed eventualmente, Liber non ne risponde in nessuna sede di contenzioso. In ogni caso, a insindacabile giudizio della redazione di Liber, non si accettano elaborati che possano esporre Liber, Memento ed il Mensa Italia a contenziosi di qualsiasi natura. La Redazione di Liber 12 liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 Sezione Racconti 3° Premio Per chiederti scusa, di Emanuela Verdone C orro nella notte con il motorino. Quasi estate. In realtà, è come se fuggissi. Ho appena incontrato il Bianconiglio per strada, squarciava il buio dell’asfalto. Mi ha fatto cenno di fermarmi. Nonostante il rombo dello scooter sapevo ciò che stava dicendomi. Era un appuntamento rimandato da anni. “Fermati, è tempo che tu ritorni piccola. Fermati, e abbi il coraggio di affrontare la Regina”. La Regina non è che una grassa pazza. Il suo potere è solo quello di essere adulta, di volerti trascinare nel suo mondo, in cui detta lei le regole. Regole tiranniche, non puoi domandarle il perché. Prima o poi devi obbedire. Ma io non mi sono fermata. A distanza di dieci anni ho ancora paura. Ho paura di dar retta al Bianconiglio, e di tornare indietro, attraverso la porticina Ho paura di te, anche se non te lo dico chiaramente, mentre corro in scooter, ed ho superato di molto la velocità consentita. Mi ronzi che la colpa non era stata tua. Lo so, la colpa era mia, che non ho avuto il coraggio di venirti a salvare. Lo sguardo mi si appanna, le due ruote mi tradiscono sull’asfalto sdrucciolevole. Sbando. La corsa si interrompe in verticale, vedo il cielo stellato di fine maggio. Si sentono già i grilli. Mi sembra di vedere una sagoma che si avvicina, è ancora il Bianconiglio. Mi ha raggiunta, finalmente… Tu eri la mia amica, Monica. Su questo non c’erano dubbi. Eri l’amica più affidabile e sincera che potessi avere. La nostra era un’amicizia intessuta giorno per giorno, con pazienza certosina, accostando fili di seta di colori in- soliti. Avevi un sorriso aperto come l’orizzonte, me lo ricordo ora, su questo sfondo di stelle. È il sorriso di quando ti ho conosciuta alle elementari. La maggior parte di noi piangeva, il primo giorno di scuola. Tu sorridevi, con le fossette e un dente mancante. Tutto era più facile allora, ricordi? Ricordi le lettere che scrivevamo assieme ai bambini della scuola di Jesi, chiedendo loro come fosse il loro mondo, che in fondo era così poco distante, se non avessimo avuto solo otto anni. Ricordi le recite, i nostri giochi in cortile. A te non importava che io fossi più brava a recitare e a fare i temi, avevi la lealtà rara delle amiche rare. Ricordi l’ombra dell’albero vicino alla palestra, quello che occupava tutte le nostre foto di fine anno. In una di queste siamo vicine. Forse era la quarta elementare. Avevi una felpa rosa, due codine, il tuo volto rotondo e gli occhiali tondi. Non ci teniamo la mano, come facevano le altre bambine. Però tu sei un po’ obliqua, e sono sicura che con la coda dell’occhio mi guardavi. La vita di un bambino è così precaria, arrivi una mattina in classe e il mondo è finito in schegge. L’infanzia è una specie di repubblica democratica fondata sul gioco, dove i bambini sono uguali e hanno uguali diritti. In quinta, ogni cosa diventa più complicata. A undici anni si vive nel precariato. A dodici la cancrena è già in stato avanzato. È solo questione di tempo. Ci si divide tra gamberi e canguri. I canguri erano quelli che la sapevano lunga sulla vita e sul futuro. Conoscevano cose che gli altri sospettavano soltanto. Erano al corrente del volto delle nostre pri- me inquietudini sfocate. Doveva essere qualcosa di sconvolgente, a giudicare dal riserbo e dalle loro esclamazioni. Ne parlavano a ricreazione, come se si trattasse di una setta di iniziati. Le informazioni venivano dai genitori, dai fratelli maggiori, dagli amici grandi. Il sapere era potere. Guardavano gli altri con compassione, già adulti. Non erano più bambini, ma piccole donne e piccoli uomini. L’albero della conoscenza li stava spingendo fuori dal paradiso terrestre dell’infanzia. Poi c’erano gli altri, i gamberi, quelli a cui la boa dei dodici anni non aveva ancora sagomato i corpi uniformi, che si attardavano nell’ignoranza e nel comodo tepore della fanciullezza. Percepivano la distanza che si stava creando, ma non avevano voglia di fare il fiatone per raggiungere gli altri. Io ero un gambero. Un gambero consapevole di esserlo. Nessuno è legato ad una terra, come chi vive ai confini. Avevo fatto un patto con il folletto del tempo perché mi lasciasse in pace per un altro po’. L’importante, mi aveva detto, è non smettere nemmeno per un attimo di desiderare di rimanere bambina. Era la mia occupazione principale, non smettevo nemmeno di notte, quando dormivo con le gambe piegate in modo da rallentare la circolazione e non crescere tutta d’un colpo durante il sonno. Funzionava a meraviglia. Portavo i miei dodici anni benissimo. Non c’era nulla che potesse far prevedere un cedimento della mia florida infanzia. Per te era diverso, Monica. Dentro eri ancora la bambina che avevo conosciuto a sei anni, con 13 liber le guance da Heidi e il sorriso a circonferenza. Ma il folletto del tempo non ti aveva risparmiata. Il tuo corpo si era trasformato in un’estate senza che ne’ tu ne’ io potessimo fare nulla per impedirlo. Così, continuavi a fare la vita da gambero, come me. Troppo ingenua per entrare ufficialmente tra i canguri, troppo naïve, con il tuo abbigliamento colorato da bambina di paese. Ma sapevo che eri nel mezzo. Paradossalmente, i canguri ti rispettavano perché eri molto più cresciuta rispetto a loro. Ti invitavano a partecipare ai loro discorsi, ti facevano domande e chiedevano se in palestra ti saresti cambiata davanti a loro. A volte assistevo a queste conversazioni, imbarazzatissima. Lo so che anche tu non eri a tuo agio, nei panni di soldato non volontario in avanscoperta. Quando i canguri ti lasciavano libera subito mi sorridevi, e correvamo a giocare nel cortile della Villa. In quell’autunno cominciai ad avere soggezione del tuo corpo. O forse a presagire qualcosa. Avevo persino paura di un contagio. Ma c’era ancora un’amicizia a proteggerci dall’età adulta, così banale, così prosaica, fatta di genitori che lavoravano, uno stipendio ogni mese, le bollette, le preoccupazioni, i telegiornali, i ritmi veloci. Noi avevamo ancora le nostre recite, i libri da raccontarci, i discorsi della consistenza delle nuvole, ultimo delirio dell’infanzia, sedute sulle panchine della Villa nell’ombra obliqua di quell’autunno caldo. Parlavamo di ciò che avremmo amato fare da grandi, tu la giardiniera in un’enorme serra di cristallo. Io l’acrobata in un circo. No che non avremmo avuto una vita come quella dei nostri genitori. Avremmo viaggiato per la maggior parte del tempo. Di tanto in tanto, saremmo tornate del nostro castello, senza mai sposarci. A volte mi rivelavi anche i tuo pensieri tristi. Tuo padre voleva che aiutassi nel bar, il sabato, mentre tuo fratello di un anno più piccolo giocava tutto il giorno. Avresti voluto seguirlo, come 14 Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 avevi sempre fatto, arrampicarti sugli alberi, ma lui te lo proibiva. “Sei grande, diceva, comportati da signorina”. Il folletto del tempo ci ascoltava da dietro la siepe. Forse scuoteva la testa, forse ridacchiava. Voglio ricordarti con la tua felpa rosa ancora da bambina, l’ultimo 8 marzo della nostra infanzia. Quando sono arrivata in classe i nostri banchi, al centro dell’aula, erano ricoperti di mazzolini di mimose. Ce n’era uno per ogni professoressa, avvolti con un nastro di raso. Ti ho associata a quel profumo gentile ma intenso, mentre mi sorridevi. Un compagno, da un banco più avanti, ti ha un po’ presa in giro: “Ma sono i maschi che devono regalare le mimose. A te invece nessuno te le ha regalate”. Lei non ha colto la provocazione, sorridendo ha detto che le faceva piacere regalare le mimose. “E poi, non sono una donna, sono solo una ragazzina. Mi va bene così”. Di solito ci si distrae un momento, magari inseguendo il sorriso ammiccante dello Stregatto. Basta solo un attimo di distrazione, una porticina di troppo, la curiosità di mordere la mela, e ti ritrovi in tribunale davanti alla Regina che ti urla dietro: “Uccidetela, tagliatele la testa!”. Ma tu non eri una bambina curiosa. Saresti rimasta a parlare con me dei nostri sogni ancora a lungo. Quella volta è uscita la Regina a prenderti, con la sua risata raccapricciante. Si vede che eri un essere speciale, fatta di sole e di rugiada, e sei stata sacrificata per questo. Arrivo una mattina in classe. I canguri parlano animatamente nel loro angolo. Troppo animatamente per riferirsi ai temi abituali. Hanno perso anche un po’ della loro superiorità spavalda. I gamberi sono perplessi e disorientati, si guardano tra loro senza dire nulla. Non faccio domande, per rispetto alla regola che l’ignoranza è protettrice. Ma ho lo stomaco in subbuglio, come un presagio. Soprattutto perché tu non ci sei, e non è un’assenza qualsiasi. Mi siedo vicino al tuo posto vuo- to. Mi fa compagnia la nausea soffusa, è una sensazione che ho sperimentato altre volte nell’infanzia, quando ti trovi di fronte alle omissioni degli adulti, che si materializzano come voragini di paure. So che è meglio non sapere, soprattutto stavolta. Vorrei ottundermi nel mio mondo, ma mi arrivano spezzoni di frase, e la mente le elabora e le ricuce. Fa congetture. …Monica… (e dunque non è davvero casuale il vuoto a fianco a me)….L’hanno detto stamattina i giornali, che schifezza… (allora si tratta di qualcosa di serio, forse un incidente, forse è in ospedale, o persino…il cuore mi punge, lo stomaco rimbalza). …C’era anche la sua foto, l’ho vista in edicola passando (magari con la tua felpa rosa). …Suo padre addirittura, com’è possibile fare una cosa del genere (qui le mie congetture si arenano. Che c’entrava tuo padre?). Per fortuna arriva la professoressa di lettere, ha cercato di ristabilire il silenzio. Ci ha parlato imbarazzata, senza spiegare. “Sono cose bruttissime, ma a volte capitano”. Altre espressioni di disappunto dalla classe. “Non so cosa succederà adesso; ma se tra qualche settimana la vostra compagna tornerà tra noi, dovremo starle molto vicini”. Continuavo a non capirci nulla, ma la spia di allarme mi consigliava di fuggire finché ero in tempo. Sarei fuggita, se ad ogni passo non incontravo il sassolino di una frase, un particolare misterioso. Sarei fuggita fino alla Villa, alla nostra panchina sotto gli alberi. Ma non avevo fegato di affrontare le ombre del parco, senza di te. Sono corsa a casa, in cerca di un nido, e anche lì ho trovato persone che sussurravano. Pura disperazione. Sensi di colpa per un reato sconosciuto. Mi hanno detto: “Domani, se capita che qualcuno porti il giornale, tu non lo leggere”. Altri buchi neri minacciosi. In effetti, il giorno dopo una dei canguri, Sara, aveva portato un quotidiano locale. Entrando in au- liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 la ho fotografato i compagni raccolti attorno al banco, che commentavano lanciando esclamazioni disgustate. Mi sono seduta al mio banco, aprendo il libro di antologia. Mi arrivavano le loro chiose anche premendo i palmi delle mani sugli orecchi, anche se serravo gli occhi fino a che le palpebre mi pulsavano. Ho cantato tra me e me il ritornello di una canzone, ma neanche questo ha funzionato tanto bene. Poi c’è il limbo indefinito. Dopo la bufera dei primi momenti ( l’ennesimo particolare più ruvido degli altri che qualcuno era pronto a riferire perché l’aveva sentito o letto da qualche parte), mano a mano recuperammo la normalità. Si tornò a fare lezione. I canguri ruppero la momentanea alleanza con i gamberi. Io ero sempre nel mezzo, da sola. Il mio banco vuoto mi impediva di far finta di nulla. Forse parlavano di me, della mia imperturbabilità. Niente emozioni, niente commenti. Quasi fredda. Ero una migliore amica anomala. Passarono un numero indefinito di settimane. Un mattino di maggio per la seconda volta la professoressa di lettere è entrata in classe e ha provato a dettarci le didascalie della vita. Con lo stesso imbarazzo della prima volta. Parlare alla terra di mezzo dei bambiniadulti in un linguaggio faticoso. “Domani torna tra noi Monica. È stata per qualche settimana in una casa di accoglienza, ci sarà un processo, forse il prossimo anno cambierà scuola. Vi prego di starle vicina, di non farle domande. Cercate di trasmettere la normalità. È in queste situazioni che si riconosce un’amicizia. Allora, chi vuole essere la sua compagna di banco?” Cara Monica, nella lista delle cose che provo a dimenticare da dieci anni, c’è anche quella di non aver alzato la mano, quel giorno. Si sollevarono molte braccia, alcune per vera solidarietà, altre per protagonismo. Ma non c’era quello della tua migliore amica. Quando sei entrata, la mattina dopo, eravamo tutti un po’ imbarazzati. Ho evitato di alzare lo sguardo, quando hai varcato la porta accompagnata da un’assistente sociale. Si è giocato per tutta la mattina alla normalità: niente domande, solo gesti di gentilezza, i professori ti passavano affianco trattenendo il respiro e regalandoti grandi sorrisi. Tutti ti guardavano per vedere cosa fosse cambiato in te. Io ti ho ignorata, lo sguardo ostinatamente direzionato alla cattedra. Sei stata tu, a ricreazione, a venirmi incontro. “Mi sei mancata”, il tuo era una richiesta di abbraccio, forse sarebbe bastato solo questo per dimenticare. Ma sono rimasta con le braccia conserte, rigida come una statua. “Sono ancora in un collegio. Però l’altra settimana ho parlato con l’avvocato di mio padre. Mi ha detto che se al processo dico che non è vero niente mi rimandano a casa con la mia famiglia”. Persino i miei dodici anni sentivano l’abiezione di quella frase che ti avevano messo in bocca. Non ti ho risposto nulla. Perdonami per questo. Avevo perso la capacità di parlarti. Di più, ero arrabbiata con te per avermi abbandonata per sempre. Sei tornata al tuo banco, quando è suonata la campanella. Ho capito subito che erano bastate solo tre settimane per spegnere la tua luce. Quel giorno ho smesso un attimo di pensare che non volevo crescere. È stato fatale. Ho continuato a fuggire inutilmente per tutto questo tempo. Forse ti ho anche odiata. Non avresti dovuto farmi questo, cara dolce Monica. Mi ci sono voluti dieci anni per perdonarti. Dieci anni per arrivare fino a qui. Anche se non ho idea di dove tu sia ora. Se alla fine hai assolto la Regina cattiva. Se hai perdonato anche me che ti ho abbandonata. Se sei diventata una ragazza grande ma con il tuo sorriso panoramico e le fossette. Dieci anni mi ci sono voluti per venire a chiederti scusa. Lo dico a queste stelle di maggio, perché te lo riferiscano. CONVOCAZIONE ASSEMBLEA NAZIONALE L'Assemblea generale ordinaria dei generale ordinaria dei Soci del Mensa Italia si terrà il prossimo 1 maggio a Trani, nell'hotel che ospiterà il XXVII Convegno nazionale, in sede che verrà indicata successivamente. L'Ordine del Giorno è il seguente: - approvazione del Rapporto annuale del Consiglio Nazionale - approvazione del bilancio associativo per il 2009 - presentazione delle attività programmate per il prossimo anno - varie ed eventuali. Si ricorda che le decisioni dell'Assemblea dei Soci sono vincolanti per il Consiglio e che l'Assemblea può prendere decisioni valide purché siano presenti almeno il 5% dei Soci effettivi, con un minimo di 50 Soci, oltre a quelli eventualmente rappresentati per delega. Per il Consiglio del Mensa Italia il Presidente Corrado Giustozzi 15 liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 Racconti Premio Speciale Un’ordinaria riunione del Mensa Emilia, di Gianfranco Zanetti (Questo racconto fu scritto per costituire oggetto di lettura ad una festa del Mensa Emilia. Per l’occasione sono state accentuate di proposito le caratteristiche peculiari dei vari personaggi al fine di consentire una bonaria presa in giro degli intervenuti. Naturalmente chi non li conosce può avere più difficoltà a comprendere le sfumature del racconto; spero che comunque ne sia nato un argomento godibile.) E ra il martedì della prima settimana di dicembre. Alle 20,30 Gianfranco e Claudia suonarono al cancello dell’abitazione di Alberto Atti per partecipare alla solita riunione mensile dei soci Mensa. Alberto aprì cancello e porta e con un sorriso atteggiato a lieve stupore, chiese: “Ciao! Come mai siete qui?”. “Siamo forse in anticipo?” chiese Gian Franco premurosamente. “Allora non avete letto la mia email!” rispose Alberto, “ho scritto a tutti per rimandare l’incontro di una settimana perché proprio questa sera arriverà Giunco dal Giappone! Quindi ho fissato la nostra riunione a martedì prossimo!”; continuò Alberto; “L’avevo scritto chiaramente!” aggiunse con tono indagatore e di lieve rimprovero. Gian Franco inventò sui due piedi che aveva il computer in riparazione, mentre Claudia disse semplicemente che non leggeva le e-mail da 15 giorni. Alberto ricordò che si chiedeva spesso se aveva senso inviare email che poi nessuno avrebbe letto e cercò di capire come fosse possibile non leggere proprio le SUE, e, non trovando alcuna giustificazione, espresse altre considerazioni desolate. Dopo quest’ulteriore conferma alle sue peggiori supposizioni Atti propose generosamente ai due amici di intrattenersi comunque in chiacchiere qualche minuto; più tardi però lui sarebbe 16 uscito per andare alla riunione dei nudisti con cui doveva organizzare la cena di fine anno, poi nella notte sarebbe arrivata Giunco (la sua fidanzata giapponese) che era proprio in quelle ore in viaggio tra Tokio, Roma ed infine Bologna. I due ospiti si accomodarono appoggiando sul tavolo il panettone da 1 euro che avevano premurosamente acquistato. Suonarono alla porta: era Enzo Chiesi. “Non hai letto la mia email?” chiese Alberto in tono lievemente accusatorio. “Quale email?” replicò Enzo entrando in sala con in mano i dolci tipici di Sassuolo. “Sto aspettando Giunco!” disse Alberto tra l’incredulo ed il contrariato. “Ah! Bene!” rispose Enzo sedendosi su una delle sedie ‘800 bolognese della sala. Arrivarono Massimo e Miriam. “Pensa che ci siamo ricordati solo all’ultimo momento della riunione! Stavamo andando al cinema e Massimo ha detto: ma oggi è martedì! dovremmo essere da Alberto!, così siamo venuti...” esordì Miriam garrula mentre Massimo appoggiava sul tavolo l’immancabile bottiglia di vino che Gian Franco provvedeva immediatamente a stappare. Alberto chiese se avevano letto la sua e-mail ma i due stavano parlando con Claudia e non lo ascoltarono. Arrivò Simona Spisni in motorino: “precedo mio fratello” disse mentre Alberto le chiedeva qualche cosa che lei non afferrò bene, poi si mise a raccontare la sua vita. Mentre tutti mangiavano il panettone arrivò il fratello, Marcello Spisni, professione vigile urbano, che portava come d’abitudine i dolcetti buoni fatti in casa dalla moglie. “Non posso rimanere molto! Domattina sarò di servizio presto!” disse entrando seguito da Roberto, Marzia e Mario Orlandini. E proseguì: “Vorrei tanto sapere chi è quel deficiente che ha parcheggiato il motorino di traverso proprio qui sotto! Naturalmente gli ho dovuto fare la multa!”. Simona interruppe un attimo il racconto della sua vita in cui era già arrivata ad un episodio delle materne per asciugarsi furtivamente una lacrima mentre Alberto chiese ad alta voce se qualcuno leggeva mai le sue e-mail. Continuarono parlando di tutto in grande allegria; a volte qualcuno riusciva anche ad afferrare la frase di un altro. Nella confusione generale Atti zittì tutti dicendo: “Non so se avete capito, ma vi ho appena detto che sto aspettando Giunco, che deve arrivare da Tokio proprio questa sera!” “Ahh! Bene! Ma allora non era il caso di rimandare la riunione?” chiese Miriam, molto partecipativa, pensando di dimostrare così un grande interesse per Alberto, “Come mai l’hai tenuta ugualmente?”. Alberto mormorò qualche cosa che si perse nel frastuono dei saluti che intanto veniva- liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 no rivolti a Valentino, appena entrato. Telefonò Dario. Si scusava gentilmente per non poter venire; si era ricordato che avrebbe dovuto parlare della vecchia Bologna, ma purtroppo aveva dei problemi. “Ma hai letto la mia e-mail?” Chiese Alberto. “La tua e-mail?! Certamente!” mentì Dario, e rimase in silenzio in attesa di un aiuto che gli consentisse di capire quale accidenti fosse il contenuto del messaggio; poi, visto che la tattica risultava infruttuosa, continuò: “E allora?”. “Allora la riunione questa sera non c’è!” rispose Alberto con la prepotenza che gli derivava dalla certezza di essere nel giusto. “E allora perché siete lì? A me sembra di sentire le voci di tutti!” osservò Dario non senza una certa logica. In effetti, parecchi dei presenti, non appena avevano saputo chi stava chiamando si erano affrettati ad urlare dei fragorosi “ Ciao Dario!”, che risultavano abbastanza inequivocabili. Alla replica di Dario,Atti cercò di radunare le idee per organizzare una risposta veramente lapidaria e definitiva, ma questa non gli venne e ne scaturì un prolungato silenzio. Avvertito il disagio e la minaccia latente, Dario furbescamente concluse: “Beh! …come vedi, io appunto non sono venuto! Ciao, stai bene, saluta tutti!” e riagganciò. Nel frattempo la riunione procedeva come sempre: tutti gli intervenuti sghignazzavano e mangiavano a quattro palmenti. “Dovremmo programmare qualche cosa di culturale per i prossimi incontri!” propose Massimo soffiando l’ultima fetta di panettone a Simona che non era stata sufficientemente pronta ad afferrarla. “Giusto! Dobbiamo farlo anche per rispetto verso i nuovi soci!” approvò immediatamente Claudia. “E chi volete che ci frequenti se vede il casino che facciamo ?!” proseguì Enzo. La sua uscita fu accolta da grasse risate. Erano ormai le 11 di sera quando Alberto disse: “… e pensare che io dovevo essere all’Associazione Nudisti per concordare la cena di fine anno alla quale ho convinto anche Giunco a partecipare!…“ “ .. e se lei non avesse niente da mettersi?” chiese candidamente Gian Franco mentre Claudia lo folgorava con un’occhiataccia ed interveniva sua volta per dire una parola gentile: “Però, Alberto, potevi almeno andare tu a Roma e portare fuori Giunco per una cena romantica, poi avreste potuto fare una bella passeggiata ed infine rientrare assieme domani, con calma!”. “No! No!, Costa troppo!” tagliò corto Alberto “.. e poi lei è già stata in Italia e sa benissimo come muoversi!” concluse. Arrivò Cecilia Deni che aveva appena curato 827 malati terminali e quindi si sentiva un po’ stanca, così si addormentò subito. Intanto Alberto cominciava a preoccuparsi per Giunco sia perché questa non era ancora arrivata sia perché il poveretto aveva trascorso la giornata a pulire tutta la casa con l’intenzione di fare bella figura ed ora invece nell’appartamento regnava una confusione indescrivibile. Roberto, per dare una mano, verificò sul cellulare tutti gli orari dei voli provenienti da Tokio, dall’Estremo Oriente, intercontinentali e non, fino alla compagnia di bandiera della Nuova Zemlia e gli disse di non preoccuparsi senza però fornire ulteriori chiarimenti. Marzia, sorniona, ascoltava in silenzio. La riunione proseguì. Si parlò anche di politica e di religione. Siccome ognuno ascoltava solo quello che lui stesso stava dicendo alla fine furono praticamente tutti d’accordo. Poi Miriam propose di organizzare una cena culturale utilizzando i fondi appositi del Mensa. Nel frattempo aveva cominciato a tuonare con lampi che provenivano da sud; Gian Franco disse che dovevano essere pernacchie di Pippo Provenza in risposta alla proposta di Miriam; Claudia lo gelò con un’occhiataccia. Alberto ricordò che a lui non avevano rimborsato un biglietto dell’autobus, “Se lo avessi saputo non lo avrei preso!” concluse chiedendosi perché mai erano andati tutti sotto il tavolo. A mezzanotte telefonò Giunco: “Sono a Roma, c’è uno sciopero, ci hanno portati tutti in albergo, arriverò solo domattina con il primo volo!” disse concitatamente. “Non sapevo niente, ero in pensiero! Se me lo dicevano mi regolavo diversamente! Hai fatto bene a telefonarmi!” le disse premurosamente Alberto. “Veramente, appena arrivata qui in albergo ti ho mandato un’email per informarti, pensavo che mi avresti telefonato qui all’hotel …, ma non ho ricevuto alcuna risposta …, alla fine mi sono decisa a chiamarti io stessa …., ma, senti: tu, le leggi le e-mail?” concluse Giunco. Ad Alberto andò di traverso l’ultimo bicchiere di vino e si mise a tossire fragorosamente, i capelli gli si drizzarono in testa mentre veniva scosso da violenti singhiozzi. Decisero quasi contemporaneamente che era ora di rientrare. La riunione era ormai finita. Alberto, sulla porta, ricordò che il prossimo incontro sarebbe avvenuto il giorno di Pasqua (era un furbo trabocchetto per vedere se lo stavano ascoltando). Tutti approvarono convinti, solo Enzo ricordò che il prossimo anno la Pasqua non sarebbe venuta di martedì. Il gruppo si sciolse e scese a schiamazzare in strada mentre arrivava Alfonso con le solite birre. Gli chiesero come mai aveva fatto così tardi e lui rispose che si era incamminato di buon ora, verso le 4 del pomeriggio, ma effettivamente se l’era presa un po’ comoda. Poi cominciarono i saluti lanciati da una parte all’altra della via mentre arrivavano maledizioni dalle finestre vicine, infine a malincuore si separarono. Un’altra riunione mensile si aggiungeva al già ricco carnet del Mensa. Ognuno avrebbe conservato il ricordo dei lavori svolti e dell’arricchimento che ne era conseguito. 17 liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 Sezione Poesia 1° Premio Felicità, di Roberto Rossi 2° Premio Verso mezzanotte… , di Fabio Moioli Chiudi gli occhi e fatti abbracciare dall’azzurro del cielo in un volo di libertà. Ascolta cosa ti racconta il vento mentre un raggio di sole scalda il tuo viso. Lascia che un gabbiano ti doni quel sogno del passato chiamato felicità. Insegui quel sogno, afferralo con la voglia di libertà e vestiti con il suo destino. Se proverai un fremito, svegliati lentamente e ti accorgerai di poter vivere il presente con gioia. Verso mezzanotte...semplicemente tu, tu che mi sorridevi con gli occhi, tu che mi stringevi forte le mani, tu con i tuoi capelli castani, tu, con quel tuo passo dolce e spensierato, i tuoi folli pensieri, le tue attenzioni, tu complicata, tu sincera, tu... in una giornata all’apparenza comune, in un giorno sereno, senza nemmeno una nube, dietro una ricerca di sguardi come la luna che riflette il sole dentro di me il mare esplodeva con mille sfumature un gabbiano, forse un aquilone volava libero oltre le verdi cime tutta la natura lì, di fronte a me come un cieco che ha visto improvvisa la luce, poi, fra tutte le persone, tu, eternamente tu, semplicemente... tu. 3° Premio Inutilmente…, di Massimo Fissore Corri, corri, corri E senti il fiato mancare E senti il cuore scoppiare Corri, corri, corri E il sudore si scioglie sul viso E ti senti le gambe bruciare Corri, corri, corri E quasi ci sei E quasi la tocchi …Poi, stanco, ti fermi Senza mai raggiunger la tua vita SIG - Special Interest Groups I SIG attivi del Mensa Italia sono: Accademia Alighieri, Borsa, Calcio, Cinema, Cucina, Domandedaporci, Donazioni, Eros, Fantacalcio, Fotografia, Giochi, Giovani, Informatica, Job, Libri, MLab, M-obilita, Nautica, Parapsicologia, Scienze, Scrivere, Vincere, Vizi. Non tutti i Sig sono dotati di Mailing List o di Sito Internet dedicato. Per iscriversi alla mailing list spedire una e-mail con oggetto subscribe (unsubscribe per cancellarsi) a un indirizzo del tipo [email protected]. Altre informazioni e link: mensa.it » gruppi di interesse. 18 Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 liber Sezione Pittura 1° Premio Burano in una giornata livida, di Massimo Fissore B ella immagine dai colori sapidi e pastosi, questo olio o acrilico che sia, mostra una giornata nuvolosa, non tersa, della zona di Burano, famosa per i suoi merletti. E come in merlettato appare il riflesso delle barche e delle palazzine sull’acqua, una frammistione a largo respiro di toni caldi e freddi, dove però vive un senso di passione disperata per un luogo piccino e, forse, non molto visitato dai turisti. Accesso all’area riservata del sito Internet mensa.it Oltre il 97% degli iscritti al Mensa Italia è oggi raggiungibile via posta elettronica. Se non hai ancora comunicato il tuo indirizzo e-mail, scrivi a [email protected] specificando il tuo nome, cognome e numero di tessera (è consigliabile indicare, se disponibili, due indirizzi email con indicazione del principale). Se invece hai dimenticato la chiave d’accesso all’area riservata “clicca” su “accedi all’area riservata” (nella home page del sito mensa.it) e premi “annulla” nella finestra di dialogo senza inserire alcun dato; il sistema ti porterà ad una pagina dove ti sarà richiesto di inserire il tuo alias (cioè nome.cognome). Premendo su “richiedi dati di accesso”, riceverai immediatamente la password di accesso all’indirizzo email principale (email1) disponibile in elenco Soci. Memento 19 liber Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 Sezione Arte 2° Premio Sotto un verde ombrello, di Emanuela Verdone L a cosa curiosa è che sotto questo verde ombrello non c’è nessuno, solo la sua ombra. Segno che, sotto questa fresca verzura, può esserci spazio per chiunque, una coppia che si ripara da un acquazzone, dei ragazzi che si siedono sotto di esso a studiare o scherzare, insetti e animali di qualunque specie possa vagare per il paese. L’inquadratura delle tre porte ad arco romano e le tre finestre a strombatura di origine gotica, fanno pensare che quest’albero abbia effettivamente dei proprietari, le persona che abitano la casa bianca sullo sfondo. 3° Premio In motu vita, di Emanuela Verdone E in effetti nel movimento c’è la vita. Lo dimostra il moto giocoso dei bambini che sembrano rincorrere una palla sulla battigia, e un anziano, ormai al tramonto del suo movimento di vita, gioca con loro. A questo, si aggiunge il moto ondoso del mare, il mare che nasconde molte forme di vita e rappresenta esso stesso una parte della vita, dato che ci fornisce i suoi frutti che usiamo per il nostro sostentamento, i pesci da mangiare in primis. Il tutto è reso dinamico dall’inquadratura dell’onda di sbieco e dalla presenza tutta a destra delle figure protagoniste. In lontananza, a sinistra, dei puntini che sono persone immerse in 20 acqua, che si lasciano cullare dai movimenti della marea e che go- dono anche’essi di questo girotondo che è la stessa vita. Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010 liber Sezione Arte Premio Speciale Ancora non son tenebra, di Antonio Giannino A nche qui un’immagine che vede il mare come parte del tutto. Una porta in un interno buio si apre al sole. La tenebra è dentro, ma ancora la tenebra non è scesa sul mondo. Un’allusione all’interiorità umana, talvolta oscura a noi stessi, che viene illuminata dalle finestre e dalle porte aperte sul mondo, negando quindi l’adagio che “le monadi non hanno finestre”. Noi non siamo monadi, siamo esseri che si relazionano fra loro e godono della luce degli altri e del mondo. Loredana Bua 21