Liber - Mensa Italia

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Liber - Mensa Italia
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
Editoriale
R
ieccoci al concorso letterario, il LiberAccademia 2010. Quest’anno usciamo quasi in tempo reale,
rispetto al convegno. Sorprese ce ne sono state, 4 premi vinti da Emanuela Verdone, 2 da Massimo Fissore
e un divertente racconto verité su una riunione del Mensa Emilia. I pezzi vincitori sono stati 11, con due
premi speciali, uno per la sezione racconti e uno per la sezione arte. Siamo particolarmente contenti
del racconto di Emanuela Verdone, vincitore dal titolo “Per chiederti scusa”, che ha saputo trattare con
garbo e discrezione un argomento scabroso. Per nostra scelta editoriale, infatti, non pubblichiamo roba
osé o volgare, niente sesso e niente parolacce.
Insomma, leggete e giudicate voi.
Floreat Mensa!!!
Cecilia Deni, Giuseppe Provenza e Loredana Bua
Labyrinth Liber
Con questa Guida, dal nome Labyrinth Liber, ricordiamo le sezioni di questo foglio letterario:
Autori Liber
Piccole note biografiche per presentare i soci, scritte dai soci stessi.
Galleria Liber
Qui viene presentata una creazione artistica di un socio alla volta.
La Musa Calliope
Dedicata alle liriche composte dai soci.
Dal diario di un medico
Sezione di Liber, dedicata ai racconti scritti da Cecilia Deni.
LiberLibris
Spazio aperto alle recensioni scritte dai soci.
Ut Pictur a Poesis
Dall’omonimo adagio Oraziano; in questa sezione è prevista la presentazione di una lirica, ispirata
ad un qualunque celebre dipinto.
Le voci di dentro
Dall’omonima commedia di Edoardo de Filippo, da cui trae il solo titolo, dedicata a quei brani
narrativi che adottino l’io narrante, senza cadere nella mera autobiografia.
Il giallo e il nero
Dedicato evidentemente ai misteri e al noir.
Sogni
Dall’omonima pellicola di Akira Kurosawa, tutto quanto fa sogno, fantastico – fantasy – fantascienza, irreale o non-sense.
LibeRidendo
Sezione dedicata all’umorismo
Spazio Concorsi
dedicato a quei concorsi che vorrete occasionalmente segnalare per Liber.
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
Autori Liber
Emanuela Verdone
Studia Filosofia. Suoi scrittori
preferiti: Buzzati, Baricco, Dostoevskij, Dickinson, Pessoa, Ende,
H.D. Thoreau, Pennac.
Frequenta un laboratorio di Teatro e una scuola di dizione da cinque anni, nella compagnia Spazio tre.
Ama i viaggi, soprattutto quelli disorganizzati, solitari, avventurosi.
Sue ultime mete: Istanbul, Francia, Austria, Germania, Slovenia,
Corsica, Florida.
Ama moltissimo la pittura e
l’arte in genere. In particolare l’Impressionismo, l’Aeropittura,
Escher, Magritte. Suoi sport preferiti: pattinaggio, free-climbing e
corsa (cento metri).
Ha partecipato per due anni alla
manifestazione letteraria “Bologna ad alta voce”, con la lettura
di racconti nei vari angoli della città, assieme a scrittori noti. In quest’occasione sono stati pubblicati
due racconti, E-Help e Ciao tu,
dalla casa editrice Pendragon Bologna. Inoltre è stata segnalata
nel Premio Teramo 2004.
Consuelo Pasca
Classe ‘72, nata a Genova ma attualmente residente a Roma.
La sua ignoranza spazia ad ampio spettro su diversi interessi. Diplomata presso un piccolo liceo
classico imperiese ha proseguito
i suoi studi prima orientandosi
verso la fisica e poi sterzando
bruscamente verso l’ingegneria.
Ha palesato l’inadeguatezza della
sua preparazione prima girovagando per un po’ in ambienti inerenti la moda, poi collaborando
con un centro elaborazioni immagini astigiano. Dopo una parentesi come portinaia in un prestigioso palazzo del Parlamento italiano del quale rammenta ancora
con rammarico il cattivo funzionamento del tasto di apertura-porta-principale, ha prestato servizio
presso il cerimoniale di una
Pubblica Amministrazione come
assistente per arenarsi infine
presso il suo ufficio stampa. Attualmente cerca di convincere la
sua amica Sonia, ricercatrice di
biofisica, a scrivere a quattro mani un testo di esercizi fisica generale di cui hanno già pronto un
canovaccio.
scoutman per una squadra maschile di serie B2. Lettore di narrativa e saggistica straniera, privilegia Ken Follet e ammira Oriana Fallaci.
Amante di musical americani e
dei Beatles.
Gian Fr anco Zane tti
È speleosub, ex maratoneta,
campione italiano in carica Lion’s
di tennis (over-over), appassionato di modellismo, esperto e collezionista di comics (quelli veri,
ante 1960), legge molto, viaggia
tanto.
Cerca di fare cose interessanti anche nel lavoro, spesso a scapito
del guadagno e del poco tempo
che gli rimane per gli altri interessi. Ha progettato le piscine di Mosca per le Olimpiadi, ha realizzato
scuole in Guatemala, in Africa ed
in Jugoslavia . Al culmine del successo però ha scoperto compagni di scuola che si sono veramente arricchiti costruendo casette nel paese in cui sono nati e da
cui non si sono mai mossi! Tuttavia ha deciso che gli va bene
così, sapere tutto su Paperino è
una gioia ineffabile!
L’anno passato aveva anticipato
l’intenzione di immergersi sulla
flotta tedesca affondata nelle Orcadi ... L’ha fatto!
Fabio Moioli
Ha partecipato nel 2005 al primo
concorso letterario MENSA LiberAccademia, ottenendo il primo,
secondo, e terzo premio nella sezione poesia. Nello stesso anno
ha scritto il suo primo racconto
breve (Bianca), con il quale si è
classificato primo assoluto alla II
Edizione del Premio Letterario
Nazionale Borghetto Santo Spirito
- “Un racconto per l’estate”.
Durante gli anni 2005 e 2006 ha
proseguito a scrivere nuovi racconti e poesie, partecipando a
una cinquantina di premi letterari
e ottenendo quasi sempre una
menzione speciale o segnalazione da parte della giuria, inclusi
una ventina di podi e primi
premi assoluti, sia con poesie
che con racconti brevi.
L’8 settembre 2006, in occasione
del matrimonio ha pubblicato assieme alla moglie Viviana Sprio
una raccolta di poesie dal titolo
SÌ! LO VOGLIO! Tale “libro - bomboniera” è stato distribuito in 500
copie e recensito in diversi siti Internet, riviste letterarie, e trasmissioni televisive.
Negli ultimi due anni, presso il
MENSA Italia, si è classificato primo assoluto al concorso LiberAccademia con il racconto “Mare
aperto”, secondo classificato
con il racconto “Il segreto della
Sig. Stella”, oltre ad aver ottenuto
un premio speciale della giuria LiberAccademia con il racconto “IQ
500”.
Fabio collabora con diversi Forum letterari on-line, fra cui Descrivendo.com e Scrivi.com. Maggiori dettagli possono essere trovati
al sito:
http://www.fabiomoioli.com/cw
.html
Roberto Rossi
Fisioterapista e webmaster è nato a Padova nel 1964. Cresciuto
a Padova, ha frequentato il liceo
scientifico e successivamente
conseguito la Laurea in Terapista
della Riabilitazione. Sposato con
due figli, Ludovico e Ilaria. Libero
professionista, ha due attività. Lavora in un ambulatorio privato di
fisioterapia. Ha creato, e cura,
con la moglie un giornale online
della città, un quotidiano di attualità, Padovando (www.padovando.com). Crea siti web per privati e aziende padovane.
Appassionato di tecnologia, allenatore di pallavolo, attualmente
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Massimo Fissore
Mi chiamo Massimo Fissore, sono un mediocre diplomato e un
modesto bancario. Abito a Bra,
in provincia di Cuneo da quando
sono nato. Sono separato da 2
anni. Da quando sono separato
il tempo per i miei hobbies si è ridotto, ma per fortuna è, paradossalmente, aumentato quello per
i miei figli.
Oltre che imbrattare le tele, strimpello (molto male) il pianoforte,
leggo (soprattutto romanzi, gialli,
comunque nulla di impegnativo),
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mi piacciono i films, ma visti con
comodo, davanti al televisore
(dietro sarebbe più difficile), e,
possibilmente con un paio di birre a portata di mano (nel dubbio
anche 3).
Qualche anno fa avevo fatto pubblicare una specie di parodia della Divina Commedia, intitolata:”Di
Vin Commedia” in rime alternate
(casa editrice Lulu.com). Avevo
fatto un corso di arabo qualche
anno fa, ma senza esercizio penso di aver dimenticato tutto. Faccio un po’ di sport, soprattutto
calcio, e (fino allo scorso anno)
muntain-bike. Tra i nuovi sport
che pratico me la cavo a cucinare, a fare il bucato e a stirare. Non
amo, invece, lavare i vetri. Sono
molto felice di essere stato ben
considerato in questo concorso,
in quanto mi è di stimolo a continuare ad imbrattare tele fino a
quando potrò finalmente affermare che dipingo.
Antonio Giannino
Vive a Milano ed è nato nel 1989
Sezione Racconti
1° Premio
L’ultima fuga, di Emanuela Verdone
S
i teme così tanto la morte.
Non sappiamo che ci arriva a
piccoli morsi ogni giorno. Nella
persona che non vediamo più,
nello schema d’azione che
smettiamo
di
compiere,
nell’amico delle medie che
incrociamo senza riconoscere.
Ce ne accorgiamo troppo tardi,
quando un mattino la vediamo in
fondo alla via. La morte, intendo.
E poi c’è la solitudine, che è già
una specie di morte. Ti accorgi
ad un certo punto che attorno
non c’è nessuno. Che il
monologo è l’unica forma
letteraria che ti rimane. Per anni
non ho fatto altro che
monologare, come il peggior
protagonista di una tragedia
shakespeariana. Prima di bere il
veleno. Ma il fatto è che non sono
più un giovanotto in cerca del
proprio destino, smanioso di
domande. Qualche risposta, nel
mentre, avrei dovuto trovarla.
Perché, si sa, nessuno conosce
la sua via sulla mappa. Però si
procede per istinto. Io sono un
animale senza istinto, sfinito
dalla
paura,
bruciato
dall’incertezza, con gli occhi
roteati verso l’alto, in attesa di
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una risposta, un destino lo
chiamano, che non mi scorre
nelle vene, che non respiro nelle
narici. Chissà se la gente come
me continua a rimanere sulla
linea di partenza per tutta la vita,
o gira a vuoto sul tabellone,
cercando fuori quello che non ha
dentro. Chissà se arriva mai la
pianura. Sono sempre stato
troppo giovane per qualsiasi
cosa mi accadesse. Soffrivo per
ogni ciottolo sulla via. In tutti
questi anni, e non restano tra le
dita di una mano, non mi sono
ancora abituato alla vita. Tutto
cominciava sempre da capo e
ogni volta dovevo comprendere
come agire. Gli altri scivolavano
dove io inciampavo. Gli altri
sono cresciuti, hanno vissuto
ogni
gradino
come
il
raggiungimento di una tappa. Io
mi dilaniavo e puntavo i piedi,
ma nonostante ciò alla fine ero
costretto a salire quel gradino, di
cui mi vergognavo, che
censuravo. E ogni volta che sono
passato al gradino più in alto,
non dimenticavo il trauma di
quello precedente, si univano
orribilmente in uno più grande.
Per questo, temo, sono e sarò
sempre sconfinatamente solo,
solo con le mie paure, perché
non ho saputo parlare del mio
gradino con chi mi stava
accanto. Lui gioiva dove io mi
disperavo. Mi sembra che sia
sempre stato così. Quand’ero alle
elementari tutti erano felici per i
compleanni. Io esacerbavo quel
giorno. C’erano un me e un loro.
Poi alle medie si condivideva la
trepidazione e il sapore indistinto
della crescita. I mie compagni
parlavano sottovoce di quello
che stavano diventando. Io li
guardavo come estranei. Non ero
uno di essi, non ero con essi.
Salvatemi dalle loro descrizioni
grottesche, dalle loro condivisioni
oscene. In prima liceo ero ai
margini mentre gli altri giocavano
al gioco della bottiglia, banale
pretesto per dire di più. Rimasi
atterrito dal racconto veristico di
un primo bacio. Poi la fatica di
trovarmi in un’altra città a
studiare, sradicato dal mio
minuscolo mondo e dalla mia
infanzia. Poi la notizia di un
compagno di giochi, che si
sarebbe sposato di lì a poco. Poi
il primo figlio di mio fratello, io
che me lo ricordavo ancora ad
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ascoltare Elvis Presley tutto il
giorno, in camera nostra. La
morte di mio padre, prima che
facessi in tempo a smettere di
guardarlo dal basso in alto. La
barba brizzolata, prima che
imparassi a radermi senza ferirmi
ogni volta. E così via, di prima
volta in prima volta, di gradino in
gradino. Gli altri sempre lì a
raccontare del loro gradino. Ho
deciso che avrei dormito, per
non sentirli più, per non vivere in
contemporanea con loro.
Devo aver dormito così a lungo
che quando mi sono risvegliato,
tutti avevano da tempo smesso
di giocare alla bottiglia. Non che
nel mentre non avessi fatto
nulla. Avevo vissuto, a mio
modo. Incespicando, tornando
indietro, facendo le bizze ad ogni
avanzamento di gradino. Avevo
lavorato in un negozio di
computer come programmatore,
pur odiando l’informatica; avevo
sposato una donna che amavo
tiepidamente,
mentre
ne
sognavo un’altra con cui parlavo
in silenzio alla fermata del tram,
ogni mattina. Mi piacevano le sue
fossette e il suo modo di
osservare la città che si sveglia.
Poco dopo avevo perso mia
moglie, e ciò mi aveva dato
l’occasione di soffrire per
qualcosa di concreto. Avevo
partecipato come una spia a
decine di serate nei pub, con gli
amici di studio, poi con i colleghi.
Sempre ai margini. Mi sarebbe
piaciuto viaggiare, ma nel
frattempo sognavo di farlo
davanti ad un atlante, fuggendo
di volta in volta. Fuggivo sia che
andassi a Bucarest sul piano
bidimensionale di una mappa,
sia che camminassi tutto il
pomeriggio, per i viali.
Per tutta la vita mi è stato detto
che non dovevo evadere, che gli
adulti riescono ad affrontare le
difficoltà senza voltare le spalle.
Ma ora, tutto è diverso. In questo
frangente intuisco che sia l’unica
cosa seria da fare. Fuggire.
Organizzare tutto senza destare
sospetti, e lasciare al più presto
questo posto.
Come sono finito qui dentro? È
difficile dirlo. So che da un po’ ero
caduto in depressione, senza
motivo
apparente.
Avevo
smesso di lavorare, il minimo
degli anni per la pensione, e mi
ero ritirato in isolamento. Non
avendo nulla da aspettare, avevo
finito per indossare l’abito della
trasandatezza. Bevevo un po’,
ma poi chi lo sa qual è il giusto
limite. Dimenticavo di guardare il
calendario, lasciavo le bollette a
sovrapporsi sulla credenza. In
fondo non avevo fatto niente di
così grave per finire qui dentro. O
almeno, non ricordo. Nel
momento in cui avevo smesso
di pensare e di confrontarmi con
i gradini degli altri, ero invecchiato
tutt’ad un tratto.
Ma poco importa, sono dentro,
ormai da un anno e mezzo. Dei
primi tempi non ricordo molto, è
faticoso entrare nella parte.
Mentre per gli altri, qui dentro,
bastano alcune settimane per
perdere la consapevolezza e
sprofondare nel torpore, a me era
capitata la sorte inversa. A poco
a poco avevo riacquistato la
lucidità: se per tutta la vita avevo
vissuto in dissonanza; ora, per
assurdo, mi sembrava di cogliere
la giusta tonalità. Eppure, qui è
quanto di più simile ad un
inferno
dantesco
possa
immaginare. 12 metri quadrati di
solitudine, che hanno preso il
posto dei 70 metri quadrati di
prima. Tutto è spiacevolmente a
portata di mano: il telecomando,
il bicchiere, il giornale. Non mi
occorre nemmeno affaticarmi
troppo a girarmi da un fianco
all’altro. Odore di disinfettante,
pareti color crema. Sempre, in
sottofondo, una tv troppo alta e
guaiti. Perché la solitudine ha un
proprio canto. Ma ognuno la
intona
con
parole
incomprensibili.
Poi ci sono i luoghi di interazione,
dato che la socievolezza è un
dovere uamano ad ogni stadio.
La mensa, la sala ricreativa. Le
attività forzate: il karaoke, la
serata danzante il sabato
pomeriggio, la tombola per ogni
stagione. L’ora d’aria nel giardino
se fa bel tempo. In fondo il
cancello, e il traffico, in ricordo
della vita precedente. Un gatto
rosso, maestoso, è il padrone del
giardino. Anche gli assistenti lo
temono. Vattene via gattaccio
cattivo, gli dicono. Ma solo da
lontano.
La prospettiva del sentiero che
conduce all’ingresso non è per
noi, ma per i visitatori esterni. Si
snoda nel piccolo giardino,
affiancato da rose. Da lontano
potrebbe sembrare un luogo di
pace e di quieto garbo. L’edificio
si alza avvitato sui suoi cinque
piani, ognuno di un colore
diverso. Se però il visitatore si
ferma a guardare meglio, nota
che non esistono balconi, e che
le serrande sono abbassate
come uno sguardo vuoto. Non ci
sono passerotti qui intorno,
neppure piccioni che si fermano
alle nostre finestre. Anche il
silenzio è artificiale: se si accosta
l’orecchio
ad
una
porta
immancabile dall’altra parte c’è
un lamento; e la pace è un
ripiegarsi sulla panchina, o sul
tavolo del salone. Tornando
indietro, attraverso il sentiero di
rose, il visitatore attento nota il
cancello, una cesoia nei confronti
della vita. Si affretta in direzione
del cancello, riconsegna il pass al
guardiano, che aprirà con uno
scatto la porta elettronica.
Noi restiamo sempre al di qua,
nella quiete. Di vista ci
conosciamo tutti. Con alcuni ho
scambiato qualche parola,
durante i pasti o nel tempo di una
sigaretta. Di altri so qualcosa in
più, perché per ognuno, qui
dentro, arriva il momento della
rivelazione.
L’intervallo
è
variabile, ma tutti, prima o poi, ti
guardano lucidi negli occhi e ti
dicono: sono qui dentro per
espiare la mia vita. Sono
colpevole di questo, e forse
anche di questo. Può trattarsi di
una rivelazione asciutta, o di una
confessione che va avanti per
ore.
Nessuno
oserebbe
interromperti, si tratta della vita,
e qui ne siamo affamati. Prima
che avvenga la rivelazione posso
immaginare quello che gli altri
sono stati, in passato. C’è
Giacomo. È ancora giovane,
energico. Qui dentro perché
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incapace alla vita, come me. Ha
un permesso speciale. Passa il
giorno a fare la staffetta per
piccole
commissioni:
un
pacchetto di sigarette, dolci. È
uno dei pochi privilegiati che
varca il cancello. Vorrebbe parlare
ma nessuno lo ascolta. Ogni
volta che passa mi tende la
mano con il suo faccione
sorridente e imbarazzato.
C’è Pietro, parla con il gatto rosso
mentre fuma una sigaretta dopo
l’altra, le mani gialle di nicotina.
Non deve aver solo fumato per
tutta la vita, perché ha mani
robuste e nervose. Una smorfia
amarissima tra le labbra. È il mio
vicino di stanza. Lo sento tossire
prima di addormentarsi, colpi
amari e rauchi. Ancora non ha
rivelato il suo prima, che faccio
fatica ad indovinare perché è un
uomo complesso, ancora
acerbo. Per questo il gatto rosso
non lo guarda con i suoi occhi
ostili. Dividono un passato
segreto. Certe sere ascolta senza
tregua un cd di Marcella Bella,
fino a che qualcuno non batte alla
parete.
C’è il maestro, Lorenzo. Passa il
tempo a leggere, o a far finta,
ormai non ci vede quasi più.
Vorrebbe che qualcuno alzasse
ancora la mano per fargli una
domanda. Vorrebbe ancora
scuotere la testa di fronte a
studenti irrequieti.
Lora ha fatto la fotomodella. Ha
vissuto qualche anno di
esaltazione sulle riviste negli
studi dei dentisti, prima di cedere
il posto. Anche qui, è distante e
avvolta
da
un’aura
di
irraggiungibilità. Il suo guardaroba
è giunto senza tarme dagli anni
cinquanta, dalla serate in una
Milano luccicosa ed esuberante.
Non so cosa l’abbia portata qui.
La sua bellezza la rende ancora
più disperata.
C’è poi il popolo dei rimorsi, che
si lamenta per tutto il tempo,
sperando in una telefonata, in
una visita di un parente. C’è la
compagnia dei rimpianti, che si
dispera per quello che avrebbe
potuto fare, quando ancora era
fuori. Ci sono i nostalgici, che
rivivono quello che è stato.
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Ecco, sapete che cosa mi ha
spinto a decidere di fuggire da
qui? Per tutta la vita avevo
osservato
gli
altri
che
condividevano il proprio gradino,
ne parlavano, ne gioivano. La
morte era la grande temuta, ma
per lo più restava una metafora
sullo sfondo, un’ipotesi distante.
Si può persino scherzare, con
una metafora. Ora invece tutti
eravamo da soli, in omertà,
come lo ero sempre stato,
puntando i piedi. Questo, di
nuovo, me li rendeva gli altri.
Perché, diciamocelo, io non mi
sento
ancora
cadente,
immobilizzato ad una sedia. La
vita vissuta in superficie mi ha
lasciato poche rughe, anche i
capelli mi sono stati risparmiati
dagli anni. Rispetto agli altri che
hanno perfezionato già da tempo
l’arte del riporto, io resto un
capellone. Bianco, d’accordo, ma
con il ciuffo scomposto da
quindicenne. L’andatura che non
ha mai avuto l’energia della
giovinezza, ma che proprio per
questo
non
ha
ancora
l’incertezza della vecchiaia.
Non è solo questo. Da un po’non
sono solo un Amleto con le
rughe, ancora in preda agli
interrogativi come per tutta la vita.
Ma
anche
un
Romeo
innamorato, benchè fuori tempo
massimo. Non più della donna
della fermata del tram, del suo
caschetto ramato e della gonna
vaporosa di cui ormai ho perso
le seduzioni assieme al
batticuore. So che il nuovo
oggetto del mio amore è del tutto
stravagante; tutto è sui generis
qui. Non come la vita che passa
sulle pubblicità. Dopo aver
vissuto un’ esistenza distante,
ora ho quasi deciso di dar retta al
pizzicorio inconfondibile alla base
del naso. No, non sorridete, ho
deciso di rischiare.
Si chiama Sophia il mio amore
strambo. Dire che sia un po’ fuori
non è del tutto esatto. Tutti noi,
qui, giochiamo a dama con la
nostra solitudine. Abbiamo una
vita da scontare, e i testimoni
sono sempre di troppo. In ciò, ci
spegnamo di giorno in giorno,
ammettendo la nostra disfatta
poco alla volta. Ma lei vive a
tempo indeterminato in un
mondo a sé. Non fa parte dei
nostalgici, o del popolo dei
rimorsi, o dei rimpianti. Ed è
questo che me la rende speciale.
Lei è l’unica a suo modo felice,
qui dentro. Sophia è una
bambina. La pelle quasi liscia, i
capelli candidi arricciati, un po’
sbarazzini. Lo sguardo sfacciato
da ragazza dispettosa. Il passo
agile nelle ciabatte arancioni. Se
ne va in giro per il salone, e parla
alla sua bambina. Che è una
bambola con gli occhi vispi,
azzurri come i suoi, che l’ascolta
attenta. Non so se ci creda
veramente. La liscia, le canta
motivetti, la conduce in società.
Le racconta tutto quello che
accade attorno. Forse le parla
anche di me. Lei spensierata, io
troppo consapevole. La sento
scoppiare
in
una
risata
impertinente, mentre siamo a
pranzo, ciascuno piegato sul suo
piatto. Io faccio in modo di
mettermi sempre davanti al suo
tavolo. Chissà com’era prima, lo
stesso sguardo sfacciato, certo,
ma cosa faceva prima? Nessuno
lo sa.
Stasera mi sono fatto coraggio,
mi sono seduto al suo tavolo. Ci
separava solo il purè di patate, lo
spezzatino e le mele cotte nel
vassoio di plastica. Dobbiamo
andare via di qui. Le ho detto. Mi
ha
guardato
fissa
fissa,
improvvisamente lucida, e ha
sorriso complice. Poi è tornata al
suo purè, un boccone a lei, un
boccone alla sua bambola. Non
sapendo se il messaggio
l’avesse raggiunta veramente,
sono rimasto in silenzio per il
resto del tempo, osservandola
mentre imboccava Domenica, la
sua bambina dagli occhi vispi, e
le
sussurrava
qualcosa
all’orecchio. La guardavo e
pensavo che forse il mio progetto
era folle, che avrei fatto meglio a
ricadere nel mio torpore. Ho
continuato a pensarci quando
sono tornato in stanza, Marcella
Bella che cantava al di là della
parete. Ci ho pensato anche nei
due giorni successivi, diviso tra
Romeo e don Abbondio.
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
Poi. Sessantaquattro ore dopo,
dopo cena, Sophia mi appare alla
porta. È in camicia da notte rosa
pallido. Le ciabatte arancioni e il
passo
sicuro.
L’aria
da
cospirazione me la fa sembrare
ancora più giovane e graziosa.
Non sapevo nemmeno che
conoscesse la mia stanza.
“Se ce ne andiamo da qui, lei
viene con noi”. Lei è Domenica,
ovvio. Non avevo pensato
nemmeno per un attimo di
escluderla dai nostri propositi di
fuga, e le ho sorriso. È stato un
incoraggiamento che l’ha spinta
a sedersi sul bordo del mio letto,
gli occhi grandi illuminati, e
quello che non avrei mai
immaginato avviene. Entriamo in
contatto, non so bene se è
Sophia a raggiungermi nel mio
mondo, o il contrario. La
lampada a 30 watt ci fa da palo,
le sue guance si imporporano
mentre io le spiego come.
Marcella Bella smette di cantare,
perché è arrivata l’ora del sonno,
per noi che restiamo svegli notti
intere sperando di eludere il
grande sonno. Parliamo più
piano, le faccio ripetere ogni
passaggio, per vedere se ha
compreso. E mentre le parlo, il
mio sogno di fuga prende una
certa compattezza.
Decidiamo di andarcene via di
sabato, perché è il giorno delle
visite, e c’è movimento. Dodici
meno un quarto, quando
cominciano gli spostamenti
verso il refettorio, pochi alla
volta, chi può con i suoi piedi, gli
altri
accompagnati
dagli
assistenti. L’importante era
evitare di incontrare gente per i
corridoi, ci avrebbero chiesto il
perché degli abiti civili. Poi,
eludere la sorveglianza al
cancello, l’aspetto più difficile;
una volta fuori avremmo preso il
primo autobus per il centro.
Sono riaffiorati ricordi della mia
vita normale, delle attese alla
fermata; per timore, mi ero
sempre rifiutato di prendere la
patente. Sarei stato capace,
stavolta, di saltare il gradino?
Quando Sophia è uscita,
tuffandosi con la sua bambola
nel corridoio in penombra, ero in
subbuglio. Un po’per la sua
intrusione frizzante nei miei 12
metri quadri di solitudine. Il
cuore che batte forte dopo anni
di latitanza. Un po’ per l’assurdità
dell’impresa. Mi sento come un
dodicenne che progetta battaglie
di soldatini e assalti alla diligenza,
ben sapendo, in fondo, che si
tratta di una finzione. Ma ormai è
fatta, la mia frase a cena di
qualche sera prima ha reso
impossibile continuare a vivere
come avevo vissuto fino ad
allora. Fuggire ora, o aspettare
alla finestra l’arrivo.
Tre giorni ci separano dal sabato.
Non ho più nemmeno il coraggio
di mettermi di fronte a lei, a
mensa, per paura che qualcosa
trasudi. Lei con Domenica, io
con il mio vassoio insipido
lasciato a metà.
È maggio, il mese giusto per una
fuga. Mi preparo al grande addio,
osservo con più attenzione gli
altri. Mi sembra che anche gli altri
mi osservino con maggiore
perspicacia. Alla fine del primo
giorno, seduto sulla panchina
vicino ai roseti, mi accorgo che
il gatto rosso mi sta guardando,
e all’improvviso ho la certezza
che lui sa tutto. Temo per un
attimo che lo riveli a Pietro.
Il secondo giorno, dopo cena,
Sophia piomba in camera. È
allarmata,
Domenica
ha
l’influenza, pensa che non
potremo fuggire perché la piccola
non può prendere freddo. La
rassicuro come posso (non sono
stato padre, io); ai bordi del
giaciglio la curiamo per tutta la
notte. Faccio da spola tra il bagno
e il mio letto, con pezze bagnate.
Le regalo una mia pillola. Ma
certo, una cardioaspirina andrà
bene anche per l’influenza. Verso
mezzanotte Sophia è più calma,
mi sorride e dice che sta già
preparando il suo bagaglio, lo ha
nascosto sotto il letto. Ha
mandato Giacomo a comprarle
dei biscotti per il viaggio. Spero
che non gli abbia raccontato
nulla, vorrei dirle che una volta
fuori avremmo potuto comprare
da noi i biscotti, ma non glielo
faccio pesare. Un bacio sulla
guancia prima di andare a
dormire; è tutto un sss, fai piano
che ora sta per passare la tale
assistente, allora a domani, un
bacio sulla fronte anche a
Domenica, giusto per essere
sicuri che sia sulla via della
guarigione.
Il terzo giorno piove. Piove così
tanto, lì fuori, che non sembra
nemmeno maggio. Ci è interdetta
l’ora d’aria. Chi può, va avanti e
indietro come un moscone, in
attesa del pranzo. Il maestro è
alla finestra come al solito,
stavolta non fa nemmeno finta di
leggere. Lora è in fondo al
salone, avvolta in uno scialle che
la protegge dalla pioggia e dallo
spettacolo decadente che le
offriamo.
E poi c’è Sophia. Tremo quando
la vedo. È sul divano, tutta
rannicchiata. È diventata una
bambina infelice. Le capita
raramente, ma a volte anche lei
esce dal suo mondo spensierato
e
sprofonda
nella
consapevolezza. Si dondola su
se stessa, lamentandosi, mi
sembra chiami i genitori. La
solitudine ha raggiunto anche lei.
Domenica è stata gettata in un
angolo con malagrazia. Una
assistente passa, le dice di
smetterla se no la riporta in
camera, e le getta nuovamente la
bambola sul divano. Mi siedo
con lei, vorrei prenderle la mano
ma so che non me lo
perdonerebbe, ho assistito altre
volte a queste crisi. Vuole stare
da sola di fronte alla sua
solitudine. Chiama di nuovo i
genitori, sembra che abbia male
ovunque. Allora, raccolgo con
dolcezza Domenica, e piano
comincio a cullarla, cantandole
l’unica nina nanna che ricordo.
Continuo così forse per un’ora,
senza curarmi dello sguardo
freddo di Lora, che si è accorta
del mio strano comportamento.
Continuo fino a che anche
Sophia smette di dondolarsi e di
piangere, e si addormenta come
una bambina sfinita dopo un
pianto dirotto. Le lascio
Domenica a fianco, mentre torno
in camera. So che ormai il mio
progetto di fuga non ci sarà. A
Romeo manca la sua scintilla di
9
liber
pazzia per arrampicarsi fino al
balcone. Anche stavolta, non
salirò il gradino.
Mi rigiro nel letto, la pioggia
continua a cadere. Quando mi
addormento, sogno il gatto rosso
che mi guarda, dietro il roseto.
Sogno il maestro che mi spiega
come funziona la vita. Lora che
mi sussurra: “Io sì che ho
vissuto, quando potevo”.
Arriva il giorno. Mi sveglio
controvoglia. Nessuna visita e
nessuna fuga in programma,
questo sabato. Poi il mio sguardo
cisposo mette a fuoco qualcuno
al margine dei miei 12 metri
quadri. Per un attimo avverto un
particolare pudore, che pensavo
di aver perso da mesi: qui la
privacy non ha serrature, e le
barriere
mentali
vengono
oltrepassate con facilità. È
Sophia, ovviamente. Sophia
felice, quella di ieri l’ha lasciata sul
divano. Quasi non la riconosco
senza le ciabatte arancioni e la
camicia da notte rosa. Ora è
vestita con una maglia di cotone
celeste, e una gonna da
scolaretta. Deliziosa. Anche
Domenica ha il vestitino della
festa, i capelli pettinati. Si affaccia
da un sacco di tela, poggiato a
terra. Una cartolina naif. È lo
spettacolo più scombinante che
abbia mai avuto davanti. Piccola
Sophia, bentornata tra noi, mi sa
che stavolta dovrò saltare. Sono
le 9, penso, ce la possiamo
ancora fare.
Ma in questo momento, bussa
l’assistente. Sophia fa appena in
tempo a chiudersi nel bagno.
L’infermiera mi fa le domande di
rito, mi prepara i vestiti sul letto,
poggia le pillole sul comodino. “È
il giorno del bagno, Matteo”. “Ma
no, oggi no, mi sembra di avere
un principio di raffreddamento”.
Se ne esce sollevata, toccherà
all’assistente della domenica,
quella che lavora part-time.
Tiro un sospiro di sollievo, mi alzo
di scatto dal letto, ingoio le
pasticche
meccanicamente
(bisogna che sia in buona forma
per la mia fuga). Tranquillizzo
Sophia nell’altra stanza, e mi vesto
in gran fretta. Raccolgo qualcosa
nello
zaino
che
avevo
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
abbandonato un anno e mezzo
prima sul ripiano più alto. Alle 10
in punto smetto di appartenere al
popolo degli uomini in pantofole.
Resta il problema di come non
dare nell’occhio. Decidiamo di
scendere in vestaglia, e di lasciare
i bagagli nel ripostiglio a piano
terra. Quello in cui i visitatori
abbandonano
i
cappotti.
“Domenica non avrà paura del
buio?”. La tranquillizzo, poi,
ciascuno per conto suo, entriamo
nel salone, dove è già in corso il
rito delle visite. Parenti che
sfoderano sorrisi tirati, e intanto
guardano l’orologio sulla parete
facendo il conto alla rovescia.
Qualcuno di noi che si lamenta
che qui gli rubano i soldi,
scompaiono i vestiti. Un’assistente
guarda compiacente i familiari, si
sa, ad una certa età è normale
lavorare di immaginazione. C’è
sempre chi cede alla malinconia,
piange con pudore e chiede di
essere riportato a casa. Il
prossimo sabato ti porto Saretta,
poi pranziamo insieme al
ristorante, va bene? Saretta non ci
sarà, sabato prossimo, e spero
che nemmeno io sarò qui, se tutto
va bene.
Undici meno un quarto. I parenti
guardano con liberazione gli
assistenti che annunciano la fine
dell’orario di visite, è tempo di
andare. Qualche abbraccio, saluti
da recapitare. Io e Sophia ci
allontaniamo di nuovo dal salone,
e ci mimetizziamo tra i visitatori
che passano nel ripostiglio prima
di uscire. Nessuno si accorge del
fatto che abbiamo abbandonato
la vestaglia in un angolo, ed ora
siamo tra i civili, impacciati,
ormai vicinissimi, recitando la
normalità. Usciamo in giardino
assieme
a
compagni
improvvisati, c’è persino il sole
stamattina che brilla sul roseto.
Sembra un sogno. Tutto troppo
facile. Guardo Sophia che si
aggrappa alla mia manica, e
sorride alternativamente a me e
a Domenica. Ha le guance
colorate. Chi dice che solo i
giovani sanno arrossire? Ma poi,
il roseto curva verso il cancello, e
il sogno finisce di proteggermi.
C’è il guardiano, al cancello. So
che non passeremo inosservati.
C’è anche Pietro, seduto alla
panchina con il gatto rosso. Ci
guardano imbronciati, ho paura.
Non c’è scampo, penso, dovrò
ricondurre la mia Giulietta in
cima al balcone, e lasciarla lì in
attesa della nutrice. Meglio
costituirsi, forse. Non sono
abituato a decidere in fretta, in
realtà non sono abituato a
prendere decisione neanche con
tutta calma.
Ma per fortuna arriva un segno.
Non dall’alto, ma dalla fine del
viale. È il camioncino del pane,
prima di pranzo si ferma davanti
all’ingresso e lascia il suo carico
davanti alla mensa, per poi
ripartire. Anche Sophia sembra
averlo notato. Mi libero dalla lenta
razionalità e con un salto poco
senile siamo nello scomparto
posteriore. Il camioncino riparte,
nel buio sento Sophia che respira
più forte. Penso a cosa
succederà una volta fuori,
quando l’inserviente si occorgerà
dei due intrusi. Penso a cosa
faremo, io, Sophia e Domenica,
lontano dai nostri 12 metri quadri
di solitudine. Getto uno sguardo
fuori, mentre il guardiano fa
aprire lentamente il cancello
elettrico. “Residenza Happy
Days”, leggo mentre facciamo
lentamente manovra. Mi aspetto
giorni felici, penso. Se non
saranno anni, almeno potrò dire
di aver salito il gradino, senza
puntare i piedi. E ho qualcuno
con cui condividere il mio
gradino. Qualcuno a cui
domandare il suo prima, e a cui
raccontare il mio. Una fuga in
grande stile, di maggio, su una
diligenza di fortuna, lontani
dall’edificio a cinque piani, dalla
nostra solitudine, dalle metafore.
Provate a prenderci, ora. Una
fuga che sa di pane. Anche
Sophia è eccitata per la nostra
impresa, gli occhi le brillano
anche nel pulmino buio. Inizia a
fischiettare, la fermo giusto in
tempo con una mano sulle
labbra, e le sorrido. “Due delle
stelle più belle del firmamento”.
Mi viene da dirle. Non sembra
capire subito, mi sorride anche
lei. Poi resta solo un bacio.
liber
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
Sezione Racconti
2° Premio
Controtempo, di Consuelo Pasca
un tempo per nascere
un tempo per morire
un tempo per pascere
un tempo per dormire
e tutto era perfetto
logica ogni azione
il treno era diretto
vicina la stazione
un tempo per pregare
un tempo per godere
un tempo per peccare
un tempo per vedere
un tempo.
(Andrea Camilleri 1948)
Andrea non capiva.
Era piccolino ed incredulo in
mezzo ad infinite e lunghe figure
nere che gli si ripiegavano addosso.
Tante persone mai viste, tante
parole mai sentite, tante lacrime
a rigare volti non sempre noti e
il papà pallido vicino ad una lunga cassa marrone: il bambino cominciò a stringere la mano della
mamma. Avrebbe voluto dirle
che voleva andar via ma la piccola folla che li circondava gli toglieva il fiato al punto di non riuscire ad emettere alcun suono.
I bimbi spesso non capiscono i
rituali degli adulti e quello era particolarmente strano e doloroso.
Il suo papà gli apparve improvvisamente minuscolo, fragile e sottile come i fogli di carta velina su
cui ogni tanto lo facevano disegnare.
“Torniamo a casa. Andiamo da
nonno?”
Riuscì finalmente a parlare, ma
con la bocca impastata da uno
strano senso di nausea.
Come risposta ricevette solo
uno sguardo smarrito e il malessere aumentò.
Era qualche giorno che non vedeva suo nonno.
Dovevano finire la sonatina che
gli stava insegnando.
Andrea amava suonare il pianoforte insieme a lui: gli spiegava
sempre un sacco di cose interessanti, delle magie!
‘Si dice’ – gli raccontava il nonno
– ‘che imbrigliandolo in ritmi giusti
e battute controllate si possa diventare addirittura padroni del
tempo...’
Non che glielo avesse detto
apertamente... ma il bimbo supponeva che suo nonno fosse
proprio uno di quegli eletti che
erano riusciti a prendere il pieno
controllo del tempo. Le note
struggenti che riusciva a creare
ne erano una prova evidente:
ogni minuto e ogni secondo erano perfettamente incastrati, ogni
battuta si chiudeva su di essi avvolgendoli e il loro flusso non era
più un disordinato scorrere: era
musica!
“Voglio andare da nonno!”
forte lo colpì in pieno volto. Guardò il padre incredulo.
Cominciò a correre lontano fino
ad urtare la grande cassa.
Cadde a terra e con lui una serie
di corone di fiori. Tutto intorno si
era cosparso di petali: era una
pioggia di colori che pigramente
si dondolavano al suolo.
“Non c’é più, Andrea. Il nonno
non c’é più! Il nostro tempo insieme a lui è finito”.
Seduto a terra sotto la grande
cassa il piccolino capì... non si sa
bene cosa... ma capì. Comprese
quel senso d’oppressione, i volti
di cartapesta, l’assenza del nonno e comprese pure perché suo
padre era improvvisamente diventato piccolino come lui.
E lo perdonò.
Il papà lo prese in braccio e lui rimase zitto zitto e immobile fra le
sue braccia mentre dei lacrimoni
di bimbo rigavano i volti di entrambi.
Pensava al Signore del Tempo e
intanto il senso di nausea si faceva sempre più forte, pensava alle
battute che mettono ordine sul
casuale fluire degli istanti e si sentiva sempre più stordito.
“Andrea, non si può!”
Gli salì la febbre.
Il tono della voce del padre si era
fatto secco e tagliente.
Era cattivo!
Non ci voleva stare lì, in mezzo
a tutti quegli sconosciuti con le
facce di cartapesta, non ci voleva
stare in quella chiesa fredda senza luci, voleva andare dal nonno,
voleva andare a giocare col
gatto e voleva la cioccolata
calda che bevevano sempre
tutti assieme (con qualche effetto
collaterale sulla linea del gatto) prima di cominciare a suonare.
Lui era piccolo! Non c’entrava
nulla con quei loro rituali stupidi.
Cominciò a piangere forte, fortissimo! ... e una sberla altrettanto
“Luca, lo porto a casa. Non sta
bene, scotta”, la mamma lo
prese dalle braccia quasi senza
forze del padre e se lo strinse al
petto.
Andrea per un attimo si addormentò: nella testa continuava
ad ascoltare battute e sonatine
mentre lo stordimento lo trascinava in un vortice.
Arrivati a casa cercarono di metterlo a letto ma Andrea corse dal
pianoforte: sembrava così agitato
che la mamma lo lasciò fare senza intervenire. Si limitò a seguirlo
11
liber
con lo sguardo mentre cercava
confuso qualcosa in mezzo ai
suoi piccoli spartiti. ... ma Andrea
non era confuso, Andrea aveva
un’idea precisa. Trovò lo spartitino che il nonno aveva scritto per
lui e cominciò a suonare dalla fine
all’inizio. Suonava e piangeva,
sbagliava e ricominciava. Nell’invertire l’ordine delle battute si
creavano suoni a volte sgradevoli
ma Andrea pensava che fosse a
causa dello stridere del tempo
che veniva costretto a tornare sui
suoi passi, immaginava che fosse il lamento degli istanti che si
opponevano a quel drastico
cambio di direzione. Suonò ininterrottamente per ore. Se fosse
riuscito a completarla senza
errori dalla fine all’inizio, forse in
prossimità della battuta d’apertura
avrebbe ritrovato il nonno... ma
era difficile e continuava a fare un
sacco di sbagli grossolani e
allora ricominciava da capo e poi
da capo e poi da capo ancora.
La madre lo guardava dalla soglia della porta atterrita, non sapendo se intervenire e mettere
un punto a quella febbricitante
manifestazione isterica.
Il bimbo pareva ipnotizzato. Suo-
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
nava e ricominciava e risuonava
alla ricerca di quella perfezione
che gli avrebbe restituito il nonno.
Una chiave girata nella toppa annunciò lo stanco rientro del padre.
Andrea non si distrasse.
Luca si trovò di fronte allo spettacolo del figlioletto impazzito in
un mare di suoni sconnessi e improvvisamente si ricordò di una
storia che suo padre gli raccontava quando era piccolo.
Era la storia del Signore che controlla il Tempo imprigionandolo in
battute e ritmi ordinati. Luca chiuse gli occhi e si fermò per qualche istante ad ascoltare.
Andrea era quasi riuscito a portare a termine la sua sonatina inversa senza errori. Quasi giunto
alle ultime battute, vide le mani
del nonno aggiungersi sulla tastiera di fianco alle sue per accompagnarlo. Si riempì d’orgoglio e continuò a suonare con il
cuore che gli batteva all’impazzata. La sonatina inversa venne ultimata senza più sbagli in una sequenza di magici virtuosismi. Andrea suonò la sua ultima battuta
e si girò di scatto per stringere le
grandi mani del nonno che si erano rincorse sulla tastiera insieme
alle sue. Si abbandonò ad occhi
chiusi fiducioso tra le sue braccia.
Era tornato per lui e non lo avrebbe mai più abbandonato! Mentre
piangeva e lo stringeva, riconosceva ogni singola parte di quel
corpo enorme e protettivo e assaporava il senso di pace e protezione che riusciva a infondergli.
Si addormentò felice di aver riconquistato il suo nonno.
Luca faticò a staccarsi di dosso
le braccia di Andrea che, sebbene il bimbo fosse caduto in un
sonno profondissimo, gli rimanevano serrate intorno al collo.
Mentre si piegava per adagiare il
figlio nel lettino scorse la propria
immagine riflessa in uno specchio.
Rimase per un istante stupito.
Non se ne era mai accorto in precedenza e non sapeva bene
quando ciò fosse accaduto, ma
era evidente che il Tempo lo aveva reso in tutto e per tutto identico a suo padre.
Rimboccò le coperte e sorrise.
Norme editoriali
Con l’invio dei Vs. scritti a Liber, s’intende resa implicita attestazione di paternità dell’elaborato.
Si ricorda che le opinioni espresse nei testi sono quelle dei rispettivi autori e non riflettono necessariamente quelle degli altri soci o del Mensa stesso.
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In ogni caso, a insindacabile giudizio della redazione di Liber, non si accettano elaborati che possano
esporre Liber, Memento ed il Mensa Italia a contenziosi di qualsiasi natura.
La Redazione di Liber
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
Sezione Racconti
3° Premio
Per chiederti scusa, di Emanuela Verdone
C
orro nella notte con il motorino. Quasi estate. In realtà, è
come se fuggissi. Ho appena incontrato il Bianconiglio per strada, squarciava il buio dell’asfalto.
Mi ha fatto cenno di fermarmi.
Nonostante il rombo dello scooter sapevo ciò che stava dicendomi. Era un appuntamento rimandato da anni. “Fermati, è tempo
che tu ritorni piccola. Fermati, e
abbi il coraggio di affrontare la Regina”. La Regina non è che una
grassa pazza. Il suo potere è solo
quello di essere adulta, di volerti
trascinare nel suo mondo, in cui
detta lei le regole. Regole tiranniche, non puoi domandarle il perché. Prima o poi devi obbedire.
Ma io non mi sono fermata. A distanza di dieci anni ho ancora
paura. Ho paura di dar retta al
Bianconiglio, e di tornare indietro,
attraverso la porticina Ho paura di
te, anche se non te lo dico chiaramente, mentre corro in scooter,
ed ho superato di molto la velocità consentita.
Mi ronzi che la colpa non era stata tua.
Lo so, la colpa era mia, che non
ho avuto il coraggio di venirti a
salvare. Lo sguardo mi si appanna, le due ruote mi tradiscono
sull’asfalto sdrucciolevole. Sbando. La corsa si interrompe in verticale, vedo il cielo stellato di fine
maggio. Si sentono già i grilli. Mi
sembra di vedere una sagoma
che si avvicina, è ancora il Bianconiglio. Mi ha raggiunta, finalmente…
Tu eri la mia amica, Monica. Su
questo non c’erano dubbi. Eri
l’amica più affidabile e sincera
che potessi avere. La nostra era
un’amicizia intessuta giorno per
giorno, con pazienza certosina,
accostando fili di seta di colori in-
soliti. Avevi un sorriso aperto come l’orizzonte, me lo ricordo ora,
su questo sfondo di stelle. È il
sorriso di quando ti ho conosciuta alle elementari. La maggior
parte di noi piangeva, il primo
giorno di scuola. Tu sorridevi,
con le fossette e un dente mancante. Tutto era più facile allora,
ricordi? Ricordi le lettere che scrivevamo assieme ai bambini
della scuola di Jesi, chiedendo loro come fosse il loro mondo, che
in fondo era così poco distante,
se non avessimo avuto solo otto
anni. Ricordi le recite, i nostri giochi in cortile. A te non importava
che io fossi più brava a recitare
e a fare i temi, avevi la lealtà rara
delle amiche rare. Ricordi l’ombra
dell’albero vicino alla palestra,
quello che occupava tutte le nostre foto di fine anno. In una di
queste siamo vicine. Forse era la
quarta elementare. Avevi una felpa rosa, due codine, il tuo volto
rotondo e gli occhiali tondi. Non
ci teniamo la mano, come facevano le altre bambine. Però tu sei
un po’ obliqua, e sono sicura che
con la coda dell’occhio mi guardavi.
La vita di un bambino è così precaria, arrivi una mattina in classe
e il mondo è finito in schegge.
L’infanzia è una specie di repubblica democratica fondata sul gioco, dove i bambini sono uguali e
hanno uguali diritti. In quinta, ogni
cosa diventa più complicata. A
undici anni si vive nel precariato.
A dodici la cancrena è già in stato
avanzato. È solo questione di
tempo. Ci si divide tra gamberi e
canguri.
I canguri erano quelli che la sapevano lunga sulla vita e sul futuro.
Conoscevano cose che gli altri
sospettavano soltanto. Erano al
corrente del volto delle nostre pri-
me inquietudini sfocate. Doveva
essere qualcosa di sconvolgente,
a giudicare dal riserbo e dalle loro
esclamazioni. Ne parlavano a ricreazione, come se si trattasse di
una setta di iniziati. Le informazioni venivano dai genitori, dai
fratelli maggiori, dagli amici grandi. Il sapere era potere. Guardavano gli altri con compassione,
già adulti. Non erano più bambini, ma piccole donne e piccoli uomini.
L’albero della conoscenza li stava spingendo fuori dal paradiso
terrestre dell’infanzia.
Poi c’erano gli altri, i gamberi,
quelli a cui la boa dei dodici anni
non aveva ancora sagomato i
corpi uniformi, che si attardavano
nell’ignoranza e nel comodo tepore della fanciullezza. Percepivano la distanza che si stava creando, ma non avevano voglia di
fare il fiatone per raggiungere gli
altri.
Io ero un gambero. Un gambero
consapevole di esserlo. Nessuno
è legato ad una terra, come chi
vive ai confini. Avevo fatto un patto con il folletto del tempo
perché mi lasciasse in pace per
un altro po’. L’importante, mi
aveva detto, è non smettere
nemmeno per un attimo di desiderare di rimanere bambina. Era
la mia occupazione principale,
non smettevo nemmeno di notte, quando dormivo con le gambe piegate in modo da rallentare
la circolazione e non crescere tutta d’un colpo durante il sonno.
Funzionava a meraviglia. Portavo
i miei dodici anni benissimo. Non
c’era nulla che potesse far prevedere un cedimento della mia florida infanzia.
Per te era diverso, Monica. Dentro eri ancora la bambina che
avevo conosciuto a sei anni, con
13
liber
le guance da Heidi e il sorriso a
circonferenza. Ma il folletto del
tempo non ti aveva risparmiata.
Il tuo corpo si era trasformato in
un’estate senza che ne’ tu ne’ io
potessimo fare nulla per impedirlo. Così, continuavi a fare la vita
da gambero, come me. Troppo
ingenua per entrare ufficialmente
tra i canguri, troppo naïve, con il
tuo abbigliamento colorato da
bambina di paese. Ma sapevo
che eri nel mezzo. Paradossalmente, i canguri ti rispettavano
perché eri molto più cresciuta rispetto a loro. Ti invitavano a partecipare ai loro discorsi, ti facevano domande e chiedevano se in
palestra ti saresti cambiata davanti a loro. A volte assistevo a
queste conversazioni, imbarazzatissima. Lo so che anche tu
non eri a tuo agio, nei panni di
soldato non volontario in avanscoperta. Quando i canguri ti lasciavano libera subito mi sorridevi, e correvamo a giocare nel cortile della Villa.
In quell’autunno cominciai ad
avere soggezione del tuo corpo.
O forse a presagire qualcosa.
Avevo persino paura di un contagio. Ma c’era ancora un’amicizia a proteggerci dall’età adulta,
così banale, così prosaica, fatta
di genitori che lavoravano, uno
stipendio ogni mese, le bollette,
le preoccupazioni, i telegiornali,
i ritmi veloci.
Noi avevamo ancora le nostre recite, i libri da raccontarci, i discorsi della consistenza delle nuvole,
ultimo delirio dell’infanzia, sedute
sulle panchine della Villa nell’ombra obliqua di quell’autunno caldo. Parlavamo di ciò che avremmo amato fare da grandi, tu la
giardiniera in un’enorme serra di
cristallo. Io l’acrobata in un circo.
No che non avremmo avuto una
vita come quella dei nostri genitori. Avremmo viaggiato per la
maggior parte del tempo. Di tanto
in tanto, saremmo tornate del nostro castello, senza mai sposarci.
A volte mi rivelavi anche i tuo
pensieri tristi. Tuo padre voleva
che aiutassi nel bar, il sabato,
mentre tuo fratello di un anno più
piccolo giocava tutto il giorno.
Avresti voluto seguirlo, come
14
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
avevi sempre fatto, arrampicarti
sugli alberi, ma lui te lo proibiva.
“Sei grande, diceva, comportati
da signorina”.
Il folletto del tempo ci ascoltava
da dietro la siepe. Forse scuoteva
la testa, forse ridacchiava.
Voglio ricordarti con la tua felpa
rosa ancora da bambina, l’ultimo
8 marzo della nostra infanzia.
Quando sono arrivata in classe i
nostri banchi, al centro dell’aula,
erano ricoperti di mazzolini di mimose. Ce n’era uno per ogni professoressa, avvolti con un nastro
di raso. Ti ho associata a quel
profumo gentile ma intenso,
mentre mi sorridevi. Un compagno, da un banco più avanti, ti ha
un po’ presa in giro: “Ma sono i
maschi che devono regalare le
mimose. A te invece nessuno te
le ha regalate”. Lei non ha colto
la provocazione, sorridendo ha
detto che le faceva piacere regalare le mimose. “E poi, non sono
una donna, sono solo una ragazzina. Mi va bene così”.
Di solito ci si distrae un momento, magari inseguendo il sorriso
ammiccante dello Stregatto. Basta solo un attimo di distrazione,
una porticina di troppo, la curiosità di mordere la mela, e ti ritrovi
in tribunale davanti alla Regina
che ti urla dietro: “Uccidetela, tagliatele la testa!”. Ma tu non eri
una bambina curiosa. Saresti rimasta a parlare con me dei nostri
sogni ancora a lungo. Quella volta è uscita la Regina a prenderti,
con la sua risata raccapricciante.
Si vede che eri un essere speciale, fatta di sole e di rugiada, e sei
stata sacrificata per questo.
Arrivo una mattina in classe. I
canguri parlano animatamente
nel loro angolo. Troppo animatamente per riferirsi ai temi abituali.
Hanno perso anche un po’ della
loro superiorità spavalda. I gamberi sono perplessi e disorientati,
si guardano tra loro senza dire
nulla. Non faccio domande, per
rispetto alla regola che l’ignoranza è protettrice. Ma ho lo stomaco in subbuglio, come un presagio. Soprattutto perché tu non ci
sei, e non è un’assenza qualsiasi.
Mi siedo vicino al tuo posto vuo-
to. Mi fa compagnia la nausea
soffusa, è una sensazione che
ho sperimentato altre volte nell’infanzia, quando ti trovi di fronte alle omissioni degli adulti, che si
materializzano come voragini di
paure.
So che è meglio non sapere, soprattutto stavolta. Vorrei ottundermi nel mio mondo, ma mi arrivano spezzoni di frase, e la mente
le elabora e le ricuce. Fa congetture.
…Monica… (e dunque non è davvero casuale il vuoto a fianco a
me)….L’hanno detto stamattina i
giornali, che schifezza… (allora si
tratta di qualcosa di serio, forse
un incidente, forse è in ospedale,
o persino…il cuore mi punge, lo
stomaco rimbalza). …C’era anche
la sua foto, l’ho vista in edicola
passando (magari con la tua felpa rosa). …Suo padre addirittura,
com’è possibile fare una cosa del
genere (qui le mie congetture si
arenano. Che c’entrava tuo padre?).
Per fortuna arriva la professoressa di lettere, ha cercato di ristabilire il silenzio. Ci ha parlato imbarazzata, senza spiegare. “Sono
cose bruttissime, ma a volte capitano”. Altre espressioni di disappunto dalla classe. “Non so
cosa succederà adesso; ma se
tra qualche settimana la vostra
compagna tornerà tra noi, dovremo starle molto vicini”.
Continuavo a non capirci nulla,
ma la spia di allarme mi consigliava di fuggire finché ero in tempo.
Sarei fuggita, se ad ogni passo
non incontravo il sassolino di una
frase, un particolare misterioso.
Sarei fuggita fino alla Villa, alla nostra panchina sotto gli alberi.
Ma non avevo fegato di affrontare
le ombre del parco, senza di te.
Sono corsa a casa, in cerca di un
nido, e anche lì ho trovato persone che sussurravano. Pura disperazione. Sensi di colpa per un
reato sconosciuto. Mi hanno
detto: “Domani, se capita che
qualcuno porti il giornale, tu
non lo leggere”. Altri buchi neri
minacciosi.
In effetti, il giorno dopo una dei
canguri, Sara, aveva portato un
quotidiano locale. Entrando in au-
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
la ho fotografato i compagni raccolti attorno al banco, che commentavano lanciando esclamazioni disgustate. Mi sono seduta
al mio banco, aprendo il libro di
antologia. Mi arrivavano le loro
chiose anche premendo i palmi
delle mani sugli orecchi, anche
se serravo gli occhi fino a che le
palpebre mi pulsavano. Ho cantato tra me e me il ritornello di
una canzone, ma neanche questo ha funzionato tanto bene.
Poi c’è il limbo indefinito. Dopo la
bufera dei primi momenti ( l’ennesimo particolare più ruvido degli altri che qualcuno era pronto
a riferire perché l’aveva sentito o
letto da qualche parte), mano a
mano recuperammo la normalità. Si tornò a fare lezione. I canguri ruppero la momentanea alleanza con i gamberi.
Io ero sempre nel mezzo, da sola. Il mio banco vuoto mi impediva di far finta di nulla. Forse parlavano di me, della mia imperturbabilità. Niente emozioni, niente
commenti. Quasi fredda. Ero una
migliore amica anomala.
Passarono un numero indefinito
di settimane. Un mattino di maggio per la seconda volta la professoressa di lettere è entrata in classe e ha provato a dettarci le didascalie della vita. Con lo stesso imbarazzo della prima volta. Parlare
alla terra di mezzo dei bambiniadulti in un linguaggio faticoso.
“Domani torna tra noi Monica. È
stata per qualche settimana in
una casa di accoglienza, ci sarà
un processo, forse il prossimo
anno cambierà scuola. Vi prego
di starle vicina, di non farle domande. Cercate di trasmettere la
normalità. È in queste situazioni
che si riconosce un’amicizia. Allora, chi vuole essere la sua compagna di banco?”
Cara Monica, nella lista delle cose
che provo a dimenticare da
dieci anni, c’è anche quella di
non aver alzato la mano, quel
giorno. Si sollevarono molte
braccia, alcune per vera solidarietà, altre per protagonismo. Ma
non c’era quello della tua migliore
amica.
Quando sei entrata, la mattina
dopo, eravamo tutti un po’ imbarazzati. Ho evitato di alzare lo
sguardo, quando hai varcato la
porta accompagnata da un’assistente sociale.
Si è giocato per tutta la mattina alla normalità: niente domande, solo gesti di gentilezza, i professori
ti passavano affianco trattenendo
il respiro e regalandoti grandi sorrisi. Tutti ti guardavano per vedere cosa fosse cambiato in te. Io
ti ho ignorata, lo sguardo ostinatamente direzionato alla cattedra.
Sei stata tu, a ricreazione, a venirmi incontro. “Mi sei mancata”,
il tuo era una richiesta di abbraccio, forse sarebbe bastato solo
questo per dimenticare. Ma sono
rimasta con le braccia conserte,
rigida come una statua. “Sono
ancora in un collegio. Però l’altra
settimana ho parlato con l’avvocato di mio padre. Mi ha detto
che se al processo dico che non
è vero niente mi rimandano a casa con la mia famiglia”.
Persino i miei dodici anni sentivano l’abiezione di quella frase che
ti avevano messo in bocca.
Non ti ho risposto nulla. Perdonami per questo. Avevo perso la capacità di parlarti. Di più, ero arrabbiata con te per avermi abbandonata per sempre. Sei tornata al
tuo banco, quando è suonata la
campanella. Ho capito subito che
erano bastate solo tre settimane
per spegnere la tua luce.
Quel giorno ho smesso un attimo
di pensare che non volevo crescere. È stato fatale. Ho continuato a fuggire inutilmente per tutto
questo tempo. Forse ti ho anche
odiata. Non avresti dovuto farmi
questo, cara dolce Monica.
Mi ci sono voluti dieci anni per
perdonarti. Dieci anni per arrivare
fino a qui. Anche se non ho idea
di dove tu sia ora. Se alla fine hai
assolto la Regina cattiva. Se hai
perdonato anche me che ti ho
abbandonata. Se sei diventata
una ragazza grande ma con il tuo
sorriso panoramico e le fossette.
Dieci anni mi ci sono voluti per
venire a chiederti scusa. Lo
dico a queste stelle di maggio,
perché te lo riferiscano.
CONVOCAZIONE ASSEMBLEA NAZIONALE
L'Assemblea generale ordinaria dei generale ordinaria dei Soci del Mensa Italia si terrà il prossimo
1 maggio a Trani, nell'hotel che ospiterà il XXVII Convegno nazionale, in sede che verrà indicata
successivamente.
L'Ordine del Giorno è il seguente:
- approvazione del Rapporto annuale del Consiglio Nazionale
- approvazione del bilancio associativo per il 2009
- presentazione delle attività programmate per il prossimo anno
- varie ed eventuali.
Si ricorda che le decisioni dell'Assemblea dei Soci sono vincolanti per il Consiglio e che l'Assemblea
può prendere decisioni valide purché siano presenti almeno il 5% dei Soci effettivi, con un minimo
di 50 Soci, oltre a quelli eventualmente rappresentati per delega.
Per il Consiglio del Mensa Italia
il Presidente Corrado Giustozzi
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
Racconti
Premio Speciale
Un’ordinaria riunione del Mensa Emilia, di Gianfranco Zanetti
(Questo racconto fu scritto per costituire oggetto di lettura ad una festa del Mensa Emilia. Per l’occasione
sono state accentuate di proposito le caratteristiche peculiari dei vari personaggi al fine di consentire una
bonaria presa in giro degli intervenuti. Naturalmente chi non li conosce può avere più difficoltà a comprendere
le sfumature del racconto; spero che comunque ne sia nato un argomento godibile.)
E
ra il martedì della prima
settimana di dicembre. Alle
20,30 Gianfranco e Claudia suonarono al cancello dell’abitazione
di Alberto Atti per partecipare alla
solita riunione mensile dei soci
Mensa.
Alberto aprì cancello e porta e
con un sorriso atteggiato a lieve
stupore, chiese: “Ciao! Come mai
siete qui?”.
“Siamo forse in anticipo?” chiese
Gian Franco premurosamente.
“Allora non avete letto la mia email!” rispose Alberto, “ho scritto
a tutti per rimandare l’incontro di
una settimana perché proprio
questa sera arriverà Giunco dal
Giappone! Quindi ho fissato la
nostra riunione a martedì prossimo!”; continuò Alberto; “L’avevo
scritto chiaramente!” aggiunse
con tono indagatore e di lieve
rimprovero.
Gian Franco inventò sui due piedi
che aveva il computer in riparazione, mentre Claudia disse
semplicemente che non leggeva
le e-mail da 15 giorni.
Alberto ricordò che si chiedeva
spesso se aveva senso inviare email che poi nessuno avrebbe
letto e cercò di capire come fosse
possibile non leggere proprio le
SUE, e, non trovando alcuna giustificazione, espresse altre considerazioni desolate.
Dopo quest’ulteriore conferma
alle sue peggiori supposizioni Atti propose generosamente ai
due amici di intrattenersi comunque in chiacchiere qualche minuto; più tardi però lui sarebbe
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uscito per andare alla riunione
dei nudisti con cui doveva organizzare la cena di fine anno, poi
nella notte sarebbe arrivata
Giunco (la sua fidanzata giapponese) che era proprio in quelle
ore in viaggio tra Tokio, Roma
ed infine Bologna. I due ospiti si
accomodarono appoggiando
sul tavolo il panettone da 1 euro
che avevano premurosamente
acquistato.
Suonarono alla porta: era Enzo
Chiesi. “Non hai letto la mia email?” chiese Alberto in tono lievemente accusatorio. “Quale email?” replicò Enzo entrando in
sala con in mano i dolci tipici di
Sassuolo. “Sto aspettando Giunco!” disse Alberto tra l’incredulo
ed il contrariato.
“Ah! Bene!” rispose Enzo sedendosi su una delle sedie ‘800 bolognese della sala.
Arrivarono Massimo e Miriam.
“Pensa che ci siamo ricordati solo all’ultimo momento della riunione! Stavamo andando al cinema e Massimo ha detto: ma oggi
è martedì! dovremmo essere da
Alberto!, così siamo venuti...”
esordì Miriam garrula mentre
Massimo appoggiava sul tavolo
l’immancabile bottiglia di vino
che Gian Franco provvedeva immediatamente a stappare.
Alberto chiese se avevano letto
la sua e-mail ma i due stavano
parlando con Claudia e non lo
ascoltarono.
Arrivò Simona Spisni in motorino:
“precedo mio fratello” disse mentre Alberto le chiedeva qualche
cosa che lei non afferrò bene, poi
si mise a raccontare la sua vita.
Mentre tutti mangiavano il panettone arrivò il fratello, Marcello Spisni, professione vigile urbano,
che portava come d’abitudine i
dolcetti buoni fatti in casa dalla
moglie.
“Non posso rimanere molto! Domattina sarò di servizio presto!”
disse entrando seguito da Roberto, Marzia e Mario Orlandini. E
proseguì: “Vorrei tanto sapere chi
è quel deficiente che ha parcheggiato il motorino di traverso proprio qui sotto! Naturalmente gli ho
dovuto fare la multa!”. Simona interruppe un attimo il racconto della sua vita in cui era già arrivata
ad un episodio delle materne per
asciugarsi furtivamente una lacrima mentre Alberto chiese ad alta
voce se qualcuno leggeva mai le
sue e-mail.
Continuarono parlando di tutto in
grande allegria; a volte qualcuno
riusciva anche ad afferrare la frase di un altro.
Nella confusione generale Atti zittì
tutti dicendo: “Non so se avete
capito, ma vi ho appena detto
che sto aspettando Giunco, che
deve arrivare da Tokio proprio
questa sera!”
“Ahh! Bene! Ma allora non era il
caso di rimandare la riunione?”
chiese Miriam, molto partecipativa, pensando di dimostrare così
un grande interesse per Alberto,
“Come mai l’hai tenuta ugualmente?”. Alberto mormorò qualche cosa che si perse nel frastuono dei saluti che intanto veniva-
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
no rivolti a Valentino, appena entrato.
Telefonò Dario. Si scusava gentilmente per non poter venire; si
era ricordato che avrebbe dovuto
parlare della vecchia Bologna,
ma purtroppo aveva dei problemi. “Ma hai letto la mia e-mail?”
Chiese Alberto. “La tua e-mail?!
Certamente!” mentì Dario, e rimase in silenzio in attesa di un aiuto
che gli consentisse di capire quale accidenti fosse il contenuto del
messaggio; poi, visto che la tattica risultava infruttuosa, continuò: “E allora?”.
“Allora la riunione questa sera
non c’è!” rispose Alberto con la
prepotenza che gli derivava dalla
certezza di essere nel giusto. “E
allora perché siete lì? A me sembra di sentire le voci di tutti!” osservò Dario non senza una certa
logica. In effetti, parecchi dei presenti, non appena avevano saputo chi stava chiamando si erano
affrettati ad urlare dei fragorosi “
Ciao Dario!”, che risultavano abbastanza inequivocabili. Alla replica di Dario,Atti cercò di radunare le idee per organizzare una risposta veramente lapidaria e definitiva, ma questa non gli venne
e ne scaturì un prolungato silenzio. Avvertito il disagio e la minaccia latente, Dario furbescamente
concluse: “Beh! …come vedi, io
appunto non sono venuto! Ciao,
stai bene, saluta tutti!” e riagganciò.
Nel frattempo la riunione procedeva come sempre: tutti gli intervenuti sghignazzavano e mangiavano a quattro palmenti. “Dovremmo programmare qualche
cosa di culturale per i prossimi incontri!” propose Massimo soffiando l’ultima fetta di panettone a Simona che non era stata sufficientemente pronta ad afferrarla.
“Giusto! Dobbiamo farlo anche
per rispetto verso i nuovi soci!”
approvò immediatamente Claudia. “E chi volete che ci frequenti
se vede il casino che facciamo
?!” proseguì Enzo. La sua uscita
fu accolta da grasse risate.
Erano ormai le 11 di sera quando
Alberto disse: “… e pensare che
io dovevo essere all’Associazione Nudisti per concordare la cena
di fine anno alla quale ho convinto anche Giunco a partecipare!…“
“ .. e se lei non avesse niente da
mettersi?” chiese candidamente
Gian Franco mentre Claudia lo
folgorava con un’occhiataccia ed
interveniva sua volta per dire una
parola gentile: “Però, Alberto, potevi almeno andare tu a Roma e
portare fuori Giunco per una cena romantica, poi avreste potuto
fare una bella passeggiata ed infine rientrare assieme domani,
con calma!”. “No! No!, Costa
troppo!” tagliò corto Alberto “.. e
poi lei è già stata in Italia e sa benissimo come muoversi!” concluse.
Arrivò Cecilia Deni che aveva appena curato 827 malati terminali
e quindi si sentiva un po’ stanca,
così si addormentò subito. Intanto Alberto cominciava a preoccuparsi per Giunco sia perché questa non era ancora arrivata sia
perché il poveretto aveva trascorso la giornata a pulire tutta la casa
con l’intenzione di fare bella figura ed ora invece nell’appartamento regnava una confusione indescrivibile.
Roberto, per dare una mano, verificò sul cellulare tutti gli orari dei
voli provenienti da Tokio, dall’Estremo Oriente, intercontinentali e non, fino alla compagnia di
bandiera della Nuova Zemlia e gli
disse di non preoccuparsi senza
però fornire ulteriori chiarimenti.
Marzia, sorniona, ascoltava in silenzio.
La riunione proseguì. Si parlò anche di politica e di religione. Siccome ognuno ascoltava solo
quello che lui stesso stava dicendo alla fine furono praticamente
tutti d’accordo.
Poi Miriam propose di organizzare una cena culturale utilizzando
i fondi appositi del Mensa. Nel
frattempo aveva cominciato a
tuonare con lampi che provenivano da sud; Gian Franco disse che
dovevano essere pernacchie di
Pippo Provenza in risposta alla
proposta di Miriam; Claudia lo gelò con un’occhiataccia.
Alberto ricordò che a lui non avevano rimborsato un biglietto
dell’autobus, “Se lo avessi saputo
non lo avrei preso!” concluse
chiedendosi perché mai erano
andati tutti sotto il tavolo.
A mezzanotte telefonò Giunco:
“Sono a Roma, c’è uno sciopero,
ci hanno portati tutti in albergo, arriverò solo domattina con il
primo volo!” disse concitatamente.
“Non sapevo niente, ero in pensiero! Se me lo dicevano mi regolavo diversamente! Hai fatto
bene a telefonarmi!” le disse premurosamente Alberto.
“Veramente, appena arrivata qui
in albergo ti ho mandato un’email per informarti, pensavo che
mi avresti telefonato qui all’hotel
…, ma non ho ricevuto alcuna risposta …, alla fine mi sono decisa a chiamarti io stessa …., ma,
senti: tu, le leggi le e-mail?” concluse Giunco.
Ad Alberto andò di traverso l’ultimo bicchiere di vino e si mise
a tossire fragorosamente, i capelli
gli si drizzarono in testa mentre
veniva scosso da violenti singhiozzi.
Decisero quasi contemporaneamente che era ora di rientrare. La riunione era ormai finita.
Alberto, sulla porta, ricordò che
il prossimo incontro sarebbe avvenuto il giorno di Pasqua (era
un furbo trabocchetto per vedere se lo stavano ascoltando).
Tutti approvarono convinti, solo
Enzo ricordò che il prossimo anno la Pasqua non sarebbe venuta di martedì. Il gruppo si
sciolse e scese a schiamazzare
in strada mentre arrivava Alfonso con le solite birre. Gli chiesero come mai aveva fatto così
tardi e lui rispose che si era incamminato di buon ora, verso
le 4 del pomeriggio, ma effettivamente se l’era presa un po’
comoda.
Poi cominciarono i saluti lanciati
da una parte all’altra della via
mentre arrivavano maledizioni
dalle finestre vicine, infine a malincuore si separarono. Un’altra
riunione mensile si aggiungeva
al già ricco carnet del Mensa.
Ognuno avrebbe conservato il
ricordo dei lavori svolti e dell’arricchimento che ne era conseguito.
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
Sezione Poesia
1° Premio
Felicità, di Roberto Rossi
2° Premio
Verso mezzanotte… , di Fabio Moioli
Chiudi gli occhi
e fatti abbracciare
dall’azzurro del cielo
in un volo di libertà.
Ascolta cosa ti racconta
il vento mentre
un raggio di sole
scalda il tuo viso.
Lascia che un gabbiano
ti doni quel sogno
del passato chiamato
felicità.
Insegui quel sogno,
afferralo con la voglia
di libertà e vestiti
con il suo destino.
Se proverai un fremito,
svegliati lentamente
e ti accorgerai di poter
vivere il presente con gioia.
Verso mezzanotte...semplicemente tu,
tu che mi sorridevi con gli occhi,
tu che mi stringevi forte le mani,
tu con i tuoi capelli castani,
tu, con quel tuo passo dolce e spensierato,
i tuoi folli pensieri, le tue attenzioni,
tu complicata, tu sincera, tu...
in una giornata all’apparenza comune,
in un giorno sereno, senza nemmeno una nube,
dietro una ricerca di sguardi
come la luna che riflette il sole
dentro di me
il mare esplodeva con mille sfumature
un gabbiano, forse un aquilone
volava libero oltre le verdi cime
tutta la natura lì, di fronte a me
come un cieco che ha visto improvvisa la luce,
poi, fra tutte le persone, tu,
eternamente tu,
semplicemente... tu.
3° Premio
Inutilmente…, di Massimo Fissore
Corri, corri, corri
E senti il fiato mancare
E senti il cuore scoppiare
Corri, corri, corri
E il sudore si scioglie sul viso
E ti senti le gambe bruciare
Corri, corri, corri
E quasi ci sei
E quasi la tocchi
…Poi, stanco, ti fermi
Senza mai raggiunger la tua vita
SIG - Special Interest Groups
I SIG attivi del Mensa Italia sono: Accademia Alighieri, Borsa, Calcio, Cinema, Cucina,
Domandedaporci, Donazioni, Eros, Fantacalcio, Fotografia, Giochi, Giovani, Informatica, Job, Libri,
MLab, M-obilita, Nautica, Parapsicologia, Scienze, Scrivere, Vincere, Vizi. Non tutti i Sig sono dotati
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
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Sezione Pittura
1° Premio
Burano in una giornata livida, di Massimo Fissore
B
ella immagine dai colori sapidi e pastosi, questo olio o acrilico che sia, mostra una giornata nuvolosa, non tersa, della zona di Burano, famosa per i suoi merletti. E come in merlettato appare il riflesso
delle barche e delle palazzine sull’acqua, una frammistione a largo respiro di toni caldi e freddi, dove
però vive un senso di passione disperata per un luogo piccino e, forse, non molto visitato dai turisti.
Accesso all’area riservata del sito Internet mensa.it
Oltre il 97% degli iscritti al Mensa Italia è oggi raggiungibile via posta elettronica. Se non
hai ancora comunicato il tuo indirizzo e-mail, scrivi a [email protected] specificando il
tuo nome, cognome e numero di tessera (è consigliabile indicare, se disponibili, due indirizzi
email con indicazione del principale). Se invece hai dimenticato la chiave d’accesso all’area
riservata “clicca” su “accedi all’area riservata” (nella home page del sito mensa.it) e premi
“annulla” nella finestra di dialogo senza inserire alcun dato; il sistema ti porterà ad una pagina dove
ti sarà richiesto di inserire il tuo alias (cioè nome.cognome). Premendo su “richiedi dati di
accesso”, riceverai immediatamente la password di accesso all’indirizzo email principale (email1)
disponibile in elenco Soci.
Memento
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Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
Sezione Arte
2° Premio
Sotto un verde ombrello, di Emanuela Verdone
L
a cosa curiosa è che sotto
questo verde ombrello non c’è
nessuno, solo la sua ombra. Segno che, sotto questa fresca verzura, può esserci spazio per
chiunque, una coppia che si ripara da un acquazzone, dei ragazzi
che si siedono sotto di esso a
studiare o scherzare, insetti e animali di qualunque specie possa
vagare per il paese. L’inquadratura delle tre porte ad arco romano e le tre finestre a strombatura
di origine gotica, fanno pensare
che quest’albero abbia effettivamente dei proprietari, le persona
che abitano la casa bianca sullo
sfondo.
3° Premio
In motu vita, di Emanuela Verdone
E
in effetti nel movimento
c’è la vita.
Lo dimostra il moto giocoso dei
bambini che sembrano rincorrere una palla sulla battigia, e un
anziano, ormai al tramonto del
suo movimento di vita, gioca
con loro.
A questo, si aggiunge il moto ondoso del mare, il mare che nasconde molte forme di vita e rappresenta esso stesso una parte
della vita, dato che ci fornisce i
suoi frutti che usiamo per il nostro sostentamento, i pesci da
mangiare in primis.
Il tutto è reso dinamico dall’inquadratura dell’onda di sbieco e dalla
presenza tutta a destra delle figure protagoniste.
In lontananza, a sinistra, dei puntini che sono persone immerse in
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acqua, che si lasciano cullare dai
movimenti della marea e che go-
dono anche’essi di questo girotondo che è la stessa vita.
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2010
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Sezione Arte
Premio Speciale
Ancora non son tenebra, di Antonio Giannino
A
nche qui un’immagine che vede il mare come parte del tutto. Una porta in un interno buio si apre
al sole. La tenebra è dentro, ma ancora la tenebra non è scesa sul mondo. Un’allusione all’interiorità
umana, talvolta oscura a noi stessi, che viene illuminata dalle finestre e dalle porte aperte sul mondo,
negando quindi l’adagio che “le monadi non hanno finestre”. Noi non siamo monadi, siamo esseri che
si relazionano fra loro e godono della luce degli altri e del mondo.
Loredana Bua
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