Prologo Cane. Cane. Cane, muso fremente Corri

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Prologo Cane. Cane. Cane, muso fremente Corri
Prologo
Cane. Cane. Cane,
muso fremente
Corri corri corri.
Ansiti,
terra umida,
collare, rami, gemiti.
Bau, bau, soffro tanto!
Cane e me
Cane oh
Cane e Re
Cane toh
E me oh e Re toh
M.O.R.T.O.
Ma niente eiaculazioni sul corpo.
Allora niente mandragola,
mandragola di terra
a forma di osso di gomma?
Loro, come i cani,
tutto il tempo
“Ah ah ah ah! È buono.”
Il cane impiccato come un negro.
Luce rossa, croce di fuoco.
Mi piacerebbe proprio
inchiodare un uomo sulla croce,
torcia di pece che brucia.
Loro loro loro,
tutto il tempo
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con le lingue di fuori,
grida di agonia
come se bruciasse.
Loro loro loro
come dei cani.
Anch’io l’ho fatto,
lei ha pianto.
Luce rossa, croce di sangue,
gambe incrociate
e cuore spezzato.
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Capitolo 1
Completamente nudo, braccia e gambe divaricate, il vecchio era stretto da cinghie sul ripiano di piastrelle bianche,
sporco di sangue e di materie organiche. I pochi capelli grigi
erano stati accuratamente pettinati all’indietro, mostrando il
viso scavato dai tratti spigolosi. La bocca dilatata rivelava un
ponte impeccabile.
Gli occhi riposavano al suo fianco in una ciotola d’acciaio inox, due globi blu e viscosi.
Léonard “Chib” Moreno si tolse i guanti di plastica extra
sottile tutti macchiati, li appallottolò e li gettò nel cestino dell’immondizia da cui fuoriuscivano dei tamponi d’ovatta
imbevuti di sangue. Infilò un paio di guanti nuovi e tese la
mano verso la collezione di strumenti chirurgici che scintillavano appesi al muro, a fianco del piano d’appoggio ingombro di fiale, barattoli sigillati con la cera, siringhe e tubetti.
Scelse un bisturi, lo fece sobbalzare nella sua mano scura
mentre canticchiava His Jelly Roll is Nice and Hot.
Poi, senza smettere di canticchiare, afferrò il pene flaccido tra le gambe villose e bianche del vecchio e lo tranciò via
di netto. Appoggiò il pezzo di carne sanguinolenta nella bacinella smaltata predisposta appositamente.
Il ronzio del climatizzatore pareva uno sciame di mosche.
Doveva fare bel tempo di fuori. Bello e caldo. Una lieve
brezza fra le palme. Il mare punteggiato di bianco.
Materassini. Martini con ghiaccio. Corpi stravaccati sulla
sabbia. Ma lí faceva freddo, un freddo dall’odore di formalina e sangue. Portò la temperatura del climatizzatore al massimo prima di indossare il gilet smanicato in Gore-tex.
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Poi colmò il cucchiaio di catrame caldo e si chinò nuovamente su quel corpo nudo.
– Vedrai, sarà un lavoro perfetto! – mormorò mentre inseriva lo strumento nelle narici arrossate dall’uncino di ferro di
cui si era servito qualche istante prima.
Il catrame sfrigolò a contatto con la carne, Chib inclinò il
cucchiaio con molta cautela, attento a non versare fuori nulla.
Ripeté l’operazione più volte, concentrato sul suo lavoro,
canterellando a bocca chiusa On the Killing Floor. Il catrame
doveva riempire tutta la cavità cerebrale.
La suoneria del telefono non lo fece sobbalzare, tuttavia
emise un breve sospiro di scontento e posò il cucchiaio
fumante sull’addome peloso per prendere il cellulare nella
tasca del camice bianco.
– Hi! Chib! Oye como va?
– Ho da fare, Greg.
– Due tipe, superfighe, alle otto stasera, al Navigator.
Conto su di te.
– Non credo che potrò. Ho una cosa da finire.
– Ehi, non ti sto parlando di cadaveri, qua, parlo di donne
vive e vegete.
– Esiste altro nella vita oltre che scopare, Greg.
– Cazzo! Non assumere quel tono da prete pedofilo con
me, ok? Andiamo, dai, a dopo!
Greg aveva già riattaccato. “Ma per quale motivo continuo
a frequentarlo?” si chiedeva Chib per l’ennesima volta mentre
si turava le narici fumanti con dell’ovatta. Un tipo, quello, col
quale la conversazione non verteva che su una sola parola:
“culo”, e la sua traduzione in trentasei lingue. Un arrapato che
gli guastava l’esistenza con il pretesto che avevano fatto il liceo
insieme in un periodo in cui Leonardo il bastardo era stato
molto felice di avere Greg il ricco a prendere le sue difese contro tutti quei cristoni della Banda dei Centauri, degli stronzi in
motorino tatuati con le decalcomanie, ma terrificanti per un
ragazzino magrolino e conciato con dei ridicoli occhiali.
La riconoscenza doveva dunque essere eterna, Signore?
Avrebbe dovuto ascoltare quelle oscenità fino alla morte?
Non che avesse nulla contro il sesso e le sue delizie, ma con
Greg non si trattava più di sesso, era “cazzo-fica” a volontà
e alla fine uno si rompe.
Guardò l’orologio, una nuova versione del Pilot’s Watch
1938 della Omega, una piccola pazzia che si era appena regalato. Le sei, quattro minuti e diciotto secondi. Bisognava
ancora immergere il cervello ridotto in poltiglia nella
vaschetta con gli aromi e pulire tutto.
E cosa si sarebbe messo?
Tre quarti d’ora dopo suonò il videocitofono. Si diresse
verso l’apparecchio incastrato nella parete e premette il pulsante video. Comparve un volto di donna, sui settanta ben liftati, grandi occhi scuri truccati con cura, bocca leggermente
gonfiata artificialmente, capelli bruno rossicci raccolti in uno
chignon non troppo stretto, collo ricoperto da fondotinta cremoso, ma sul quale si distinguevano i segni della vecchiaia e
le rughe scavate dall’eccessiva esposizione al sole. Il collo
mentiva raramente, si disse mentre si accingeva a parlarle
attraverso il citofono.
– Arrivo. Si accomodi.
Diede un buffetto al piede del cadavere che recava un’etichetta con scritto “Antoine Di Fazio, 1914-2002”, si tolse il
camice, lo lanciò sulla piccola lavatrice, si passò un guanto
da toilette sul corpo prima di indossare una camicia bianca di
popeline, dei pantaloni di alpaca neri e di salire al piano.
La contessa Di Fazio era seduta nella piccola sala d’attesa high-tech, in equilibrio sul bordo del canapé in cuoio nero,
sotto il De Staël grigio e blu, molto a suo agio nel suo tailleur pantalone in velluto smeraldo di Gucci. Due bracciali
del Bénin in oro a tortiglione le tintinnavano al polso sinistro.
Al destro sfoggiava solo il suo Tiffany First Lady, notò Chib.
S’inchinò leggermente verso la contessa che si era servita
un bicchiere d’acqua dal distributore e beveva a piccoli sorsi.
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– Come sta? – fece lei.
Era una domanda idiota trattandosi di un morto, ma lui si
mostrò cortese.
– Come meglio non potrebbe, madame.
– Ha finito?
– Sarà pronto fra quarantott’ore.
La contessa sospirò, Chib le allungò subito un kleenex
con cui la signora si tamponò delicatamente gli occhi.
– Il mio povero caro Antoine!
Uno sporco vecchio coglione che aveva bruciato uno stop
con la sua Bentley, uccidendo una ragazzina che stava attraversando, prima di sfracellarsi contro un palo della luce.
– Lo metterò nel salone blu – riprese lei mentre tirava su
col naso – con Lady Choupette ai suoi piedi.
Chib aveva impagliato Lady Choupette l’autunno precedente, una femmina di bulldog ringhiosa quanto il suo padrone.
– Non teme che... i suoi ospiti... – azzardò lui mentre
guardava di nascosto l’orologio.
– I nostri antenati riposano nelle catacombe del convento
dei Cappuccini, a Palermo – gli ribatté la signora, altezzosa.
– È una nostra usanza quella di esporre le spoglie dei nostri
cari defunti.
Per quanto ne sapeva Chib, l’unica usanza conosciuta
nella famiglia della contessa era quella della prostituzione
d’alto bordo, grazie alla quale era riuscita a farsi sposare dal
conte Di Fazio, ricchissimo armatore siciliano di venti anni
più vecchio di lei. E si stupiva del fatto che la contessa
riprendesse cosí le tradizioni della famiglia di suo marito.
Dopotutto, il sarcofago di Antoine Di Fazio non sarebbe stato
cosí male nel salone blu, colmo di ninnoli vittoriani e bambole di porcellana.
– Starò via una decina di giorni – riprese la contessa. – Il
matrimonio di nostro nipote a New York. Lo farò venire a
prendere al mio ritorno.
– Nessun problema.
La signora tirò fuori dalla borsetta di Chanel un pezzo di
carta ripiegato e lo posò sul tavolino basso di plexiglass.
Dopodiché si accommiatò e uscí con fare solenne nella frescura del crepuscolo.
Chib aprí l’assegno. Era la cifra convenuta. Una bella
sommetta. I suoi servizi costavano cari. Non c’era quasi più
nessuno capace di esercitare quel mestiere tanto secondo i
metodi all’ultima moda che secondo gli antichi rituali.
Si riempí un bicchiere d’acqua fresca, ne bevve la metà e
se ne versò il resto sulla testa rasata. Neanche il tempo di
farsi una doccia. Abbottonò il colletto italiano, si annodò una
cravatta di maglia nera, indossò una giacca in alpaca nera
abbinata ai pantaloni, si sistemò in testa il suo piccolo e stretto feltro nero. Stava per uscire quando si rese conto che
aveva ancora ai piedi le pantofole da chirurgo sopra i mocassini neri. Le tolse e le lanciò nel cestino vicino alla scrivania
di legno e acciaio dove teneva i conti e passò nel suo laboratorio di tassidermista, di fronte.
Era una stanza dalle tinte smorte, piena di volpi, donnole,
cervi e cinghiali, qualche tonno e pesce spada di notevole
taglia, appesi alla parete. Sul banco di lavoro troneggiava un
piccolo squalo pescato dal Rule Britannia, uno yacht ancorato nel porto vicino.
Fuori, il mare scintillava negli ultimi riflessi rossastri del
tramonto. La sua Ouabet, il Luogo Puro, come gli egizi
chiamavano i locali adibiti alla cura dei defunti, si trovava in
un quartiere decentrato e dava sulla spiaggia, all’uscita est
della città. Saltò sulla sua Floride verde acido, modello
decappottabile del 1964, e mise in moto.
Il boulevard du Midi era pieno di gente e impiegò dieci
minuti buoni prima di riuscire a sistemarsi sotto un cartello
che diceva “Attenzione deposito auto”. Raggiunse rapidamente il Navigator, il ristorante preferito di Greg, un locale
chic con camerieri solleciti e desolante arredamento giallo e
salmone.
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Greg stava accanto alla sua 4x4 rossa metallizzata.
Ancora infagottato nella sua muta in neoprene blu savoia,
sorta di grosso pacco di muscoli abbronzati, capelli biondi
decolorati dal sole e tirati all’indietro con una coda di cavallo, intento a ripiegare la vela fluorescente della sua tavola da
surf sotto lo sguardo placido di due ragazze appollaiate su
suole ortopediche di quindici centimetri, con le braccia
incrociate sulle loro camicette neo-seventies.
Chib si avvicinò osservandole nei dettagli. Quella più alta
era sulla trentina, capelli rossi ispidi, piercing al naso e alle
sopracciglia. La più piccola, grassottella, pettoruta, con i
capelli tinti biondo platino e bizzarramente irti di pinzette di
plastica. Greg doveva averle rimorchiate sulla spiaggia, si
disse Chib, mentre lanciava un gentile “Ciao”.
– Ah, eccoti! – esclamò Greg togliendosi la muta, fiero
dei suoi addominali d’acciaio e dei suoi pettorali da pesista.
– Ragazze, vi presento Chib.
– Chip? – ridacchiò quella alta. – Come cipollata?
– Chib come chibre 1, bella! – la corresse Greg mentre si
infilava i suoi jeans Liberty.
La ragazza scoppiò di nuovo a ridere e Chib sentí che
stava arrossendo fino al midollo. Greg calzò le sue
Timberland scalcagnate, infilò il maglione senape Marlboro,
si pettinò con le dita e buttò là un “In marcia, compagnia!”
passando un braccio sotto quello di ciascuna ragazza.
– Cazzo! Ma ci vuoi rovinare la serata o cosa con questo
abbigliamento da beccamorto? – sbuffò Greg. – Perché non
metti mai la Lacoste che ti ho regalato?
Una maglietta rosa? No grazie. La fantasia segreta di
Chib erano gli anni Cinquanta, il jazz nero. Lui era Lester
Young e andava a letto con Billie Holiday, mentre suonava
magici assolo nei locali immersi nel fumo, sempre in bianco
e nero per via delle foto. Niente magliette rosa per Lester
Young.
Greg aveva riservato il tavolo migliore, nell’angolo vicino alla finestra, con vista sul mare al di sopra delle capote
delle macchine parcheggiate lungo il marciapiede, e boschetto di palme all’angolo della strada, breve scorcio del Porto
vecchio e del blocco del palazzo dei Congressi.
Quella alta si chiamava Sophie, la tombolotta Pam. Pam!
Chib ingurgitò il suo succo di pomodoro senza schiudere i
denti mentre Greg ne raccontava una bella. L’aveva fatto apposta a prendere il succo di pomodoro, sapendo che dava fastidio
a Greg che si scolava il suo secondo pastis e incoraggiava le
due ragazze a ordinare ancora qualcosa, nell’attesa dei frutti di
mare. Come se si fosse ancora all’epoca in cui bisognava far
ubriacare le donne per poter abusare delle loro grazie. Come
se si fosse ancora all’epoca in cui tre marinai neri in prolungata libera uscita avevano violentato Ida Moreno in un vicolo
cieco, Ida Moreno che aveva vent’anni e che aveva accettato
di bere un bicchiere con loro dopo aver terminato il lavoro
come maschera al cinema. Dal che, nove mesi più tardi, nascita di Léonard Moreno, di padri ignoti. Nome in omaggio a
Leonard Bernstein: Ida era una melomane e suonava il violino
nell’orchestra locale. Chib, glielo avevano affibbiato in seguito, quando aveva cominciato a occuparsi di morti.
Un sollecito cameriere poggiò al centro della tavola un
grande piatto guarnito di ostriche, cozze, cappe, cuori di
mare, granchi, granseole, ricci e uova di mare. Greg si buttò
su un cetriolo di mare il cui aspetto glabro e lucido ricordò a
Chib il vecchio pene di Antoine Di Fazio.
Pam e Sophie parlavano di Metz, loro città natale. Erano
venute in treno e pensavano di spingersi fino a Genova, in
Italia, per un piccolo giro 2 sulla Riviera. Greg iniziò a scio-
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Voc. gergale che indica il membro maschile.
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In italiano nel testo.
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rinare la sua interminabile lista dei posti migliori dove andare, mentre tagliava il cetriolo di mare che stillava bollicine
come un uomo che affoga.
Chib prese delle ostriche non troppo grasse, una chela di
granchio, tre ricci, il tutto abbondantemente innaffiato di
limone. Doveva smetterla di farsi tiranneggiare da Greg.
Doveva smetterla di passare le serate cercando di essere carino con le effimere conquiste di Greg. Non era Greg, non
aveva il carisma volgare di Greg, non sarebbe mai stato alto,
biondo, bello e coglione in una botta sola. Era troppo basso,
un metro e sessantacinque, troppo magro, neanche cinquantacinque chili, troppo scuro, ma neanche sufficientemente
nero, con grandi occhi da husky, di un azzurro pallido, che
stonavano sul suo viso bruno dorato. Gli occhi di Ida. Uno
dei suoi padri violentatori doveva avere un gamete azzurro.
Ida aveva voluto sporgere denuncia, ma la USS Constellation
aveva già preso il largo. Un vecchio poliziotto dai denti giallastri le aveva consigliato di metterci una pietra sopra. Era
giovane, si sarebbe ripresa.
Giovane, senza una famiglia, e madre di un bastardo di
colore. Nel 1959 a Cannes non era davvero il massimo, questione di integrazione sociale. Ida aveva trovato un posto
dove stare, ai piedi della città, al Suquet, un vecchio palazzo
i cui primi due piani era occupati da Mme Hortense, la madre
di Greg, che gestiva il più celebre american bar della città,
un club con accompagnatrici e per incontri di coppie la cui
insegna campeggiava di fronte al porto. Al terzo piano alloggiava Monsieur El Ayache, che aveva trasformato una stanza
del suo appartamento in un laboratorio dove praticava il
mestiere di impagliatore, come si diceva a quei tempi.
– Rosso o bianco?
– Hmmm?
Greg gli stava indicando due bottiglie di sancerre. Chib
optò per il rosso, a caso, immerso ancora nei suoi ricordi.
Sophie inghiottiva le sue ostriche con degli “slurp” entusia-
stici, Pam combatteva con la sua granseola. Greg inanellava
un aneddoto dopo l’altro, provocando le risate delle ragazze,
molto a suo agio come sempre, come se avesse infilata fra i
denti la sua carta di credito platino, che gli assicurava un
eterno sorriso.
Il piccolo Léonard aveva cominciato ben presto a passare
le sue serate con il vecchio egiziano, che lo aveva iniziato
alla sua arte. Era dotato, apprendeva rapidamente e si appassionava. Quando aveva compiuto dodici anni, El Ayache gli
aveva donato un libro molto antico in pelle, cucito a mano,
coperto di segni incomprensibili. Lui, Farid El Ayache,
apparteneva alla confraternita dei Misteri, era uno degli ultimi discendenti dei sacerdoti imbalsamatori, aveva confidato
ancora al ragazzino, sbalordito. Aveva un cancro, stava per
morire e voleva trasmettere i suoi segreti a Léonard affinché
lui riprendesse quella professione millenaria.
Era come una fiaba, un eroico romanzo di fantascienza di
cui Léonard era diventato all’improvviso il protagonista.
Aveva accettato, naturalmente, e aveva giurato di mantenere
il segreto più assoluto, scarnificandosi dodici volte la pancia
con il coltello di silice. Poi aveva bevuto il decotto di erbe e
sangue di batrace, si era fatto ungere con mirra e incenso, e,
alla morte di Monsieur El Ayache, sopraggiunta due anni
dopo, era diventato ufficialmente, e clandestinamente, gran
sacerdote imbalsamatore e maestro dei misteri, rappresentante dell’ordine di Amon Ra per tutta la Costa Azzurra.
A quattordici anni pensava che non fosse poi cosí male,
anche se purtroppo non bastava per respingere quei porci
stronzi razzisti del liceo. Greg era assi più efficace per questo, ed era sufficiente fargli i compiti in cambio.
– Può aprirmela?
– Hmmm?
Pam gli stava allungando una chela riottosa, chitinosa e
aguzza. Chib la inserí nella pinza di metallo e la ruppe, liberando la polpa bianca e gustosa.
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– Cosa fa di lavoro? – s’informò Pam mentre addentava
la sua granseola.
– Ho un piccolo laboratorio di tassidermia – rispose Chib
versandole un po’ di sancerre bianco.
– Si occupa di animali – interruppe Greg. – È un naturalista.
– Ah! – esclamò Pam. – Mi piacciono molto gli animali.
– Anche a lui... eh, Chib? È un uomo molto sensibile!
Chib si sentiva ridicolo. Pam attaccò a parlare di
Greenpeace, poi del naufragio della petroliera sulle coste
bretoni e della morte degli uccelli a causa della nafta. Chib
pensò alla stessa fine per Antoine Di Fazio. La contessa
aveva fatto preparare un sarcofago dorato con oro fino, con
la sua effigie, dove sarebbero state rinchiuse le sue spoglie.
– Andiamo a ballare? – propose Greg mentre chiedeva il
conto. – Conosco un locale veramente cool. Il proprietario è
un amico. È lí che vanno tutte le star durante il Festival.
Sophie e Pam si scambiarono un’occhiata del tipo “Bene,
bene, amica mia” mentre Greg firmava il conto. Chib si sentiva stanco, aveva voglia di andare a dormire. Ma già si figurava le proteste di Greg.
Fuori, alcuni tizi facevano rombare le loro motociclette,
un vento tiepido soffiava dal mare, portando con sé il fragore delle onde che si frangevano in basso sulla spiaggia deserta. Un tipo suonava un pezzo di McLaughlin con la chitarra
elettrica, neanche poi cosí male, vicino ai tavolini all’aperto
della pizzeria accanto...
Chib tentò di congedarsi, ma come previsto Greg protestò
vivacemente. Accettò di seguirli fino al Sofa, il covo notturno di Greg. Nella Rover le ragazze non la smettevano più di
ridacchiare, squadrando i curiosi che se ne andavano a zonzo
per il molo, estasiate dagli yacht ben lucidati. Passando di
fronte al casinò gettarono dei gridolini d’eccitazione e Greg,
gran signore, fece inversione con la sua 4x4 e si fermò
davanti al guardiamacchine, con gran stridio di pneumatici.
Clac, lanciare le chiavi al tipo in tenuta blu e oro, “Tieni,
caro”, hop, aiutare le signorine a scendere, “Muoviti un po’,
Chib”, e via si entra, tranquilli e con aria da dominatori,
come se si stesse a casa propria.
Musica soft, un po’ jazzata, ambiente Art Deco, acquario
gigante guarnito di pesci esotici, la sala delle macchinette,
vibrante di ticchettii, suonerie, lucine tintinnanti, faretti e
clamori. Un immenso brusio si levava in ampie volute sotto
gli alti soffitti decorati. Greg tirò fuori una grossa mazzetta
di pezzi da cento euro dalla tasca, tutta stropicciata. Ne allungò uno a ciascuna delle ragazze. “Divertitevi un po’, bellezze.” Ri-ridacchiata. Consigli di Greg lo stratega esperto sulle
macchinette buone e quelle da evitare, “Oplà, andiamo dritti
dritti a quelle da 2 euro, noi non giochiamo con i cafoni, e
toh, io mi faccio un bel giretto con quelle da 10 euro a botta,
che ne dici Chib?”
Chib assentí: “Come vuoi tu, Greg, andiamo Greg, sperperiamo la tua grana.”
Greg con la sua cassettina piena di grossi gettoni, un
Monte Cristo infilato all’angolo della bocca, intento a studiare la macchinetta, occhi strizzati, stile “Vedrai, con me
comprenderai cos’è la sofferenza, razza di baldracca.” Pam e
Sophie nel frattempo si stavano scolando le coppe di champagne offerte dalla casa.
Chib, lui pensava ad Antoine Di Fazio. Aveva abbastanza
segatura? Si era dimenticato di controllare in magazzino.
La macchinetta mangiasoldi sparava un ritornello travolgente a ogni giro di rullo e delle note trionfali a ogni colpo
vincente. Ben inteso, Greg vinceva. Le uniche volte che Chib
aveva giocato, aveva perso. Perso di brutto. Invece Greg vinceva sempre. Greg era il simbolo dell’ingiustizia dell’esistenza umana. Non aveva mai fatto il minimo sforzo per arrivare là dove si trovava, non pensava ad altro che a divertirsi,
se ne fregava altamente di tutto ciò che lo circondava, e gli
diceva sempre tutto bene.
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“Il successo materiale è solo un’illusione, un pugno di
sabbia che si perde nel vento dell’eternità” sussurrò
Monsieur El Ayache all’orecchio di Chib. Sí, beh, forse.
Sbadigliò, con discrezione. Nessuna voglia di ritrovarsi a
letto con una Pam piena di entusiasmo, olezzante di granseola, oppure con una Sophie che magari avrebbe cavillato criticando l’arredamento. Piuttosto aveva voglia di tornare a
casa e buttarsi a letto da solo ad ascoltare l’ultimo disco della
No Smoking Orchestra, che si era appena comprato, scolandosi una Bud ghiacciata.
Approfittò del momento in cui Greg andò a cambiare l’enorme mucchio di gettoni seguito dalle ragazze a quel punto
adoranti, per eclissarsi.
Ritornò verso la sua Floride, miracolo: era ancora lí. Tirò
fuori il mini lettore laser dalla tasca della camicia e lo infilò
nel pannello del cruscotto. Tom Waits, Lowside on the Road.
Una volta di fronte a casa spense il motore e rimase qualche istante ad ascoltare il mare e i gabbiani. Si sentiva stanco. Avvertí il desiderio che qualcosa accadesse.
Entrato in casa, accarezzò con gesto meccanico la testa di
Foxy la volpe, la sua prima opera in assoluto. Una povera
vecchia volpe sdentata, il cui pelo si staccava a ciuffi.
Salí al mezzanino, si sdraiò sul futon sistemato direttamente sulle mattonelle verniciate. Il segnale intermittente
della segreteria emetteva la sua lucina rossa. Bip.
– Buonasera – disse una voce di donna, bassa e profonda.
– La prego di richiamarmi al numero 06 07 12 31 14.
Chib inarcò le sopracciglia: niente nome. Sicuramente si
trattava di lavoro. Ma che ora era? Le undici. Fece il numero. Tre squilli. Poi la donna, con la sua voce grave.
– Sí?
– Sono Léonard Moreno, mi ha lasciato un messaggio.
– Ah, monsieur Moreno, la ringrazio di aver richiamato.
Mi hanno consigliato di rivolgermi a lei per un lavoro un po’
particolare.
– La ascolto – disse Chib, soave come un sacerdote che
incoraggi una confessione.
– Abbiamo da poco perduto il nostro piccolo angelo –
proseguí la donna con un lieve fremito di basso. – La nostra
cara piccola Elilou.
– Desolato – borbottò Chib, chiedendosi se si trattava di
una cagnetta.
– Mai quanto noi – replicò la donna. – Quel povero piccolo tesoro aveva appena otto anni.
Tirò su col naso. Dio santo, non si trattava pur sempre di
una piccina?
– Quella maledetta scala... mi scusi...
Ora si era messa a piangere, dei singhiozzi discreti, irrefrenabili. Seduto sul futon, Chib si grattava gli stinchi, a disagio.
– Dovremmo incontrarci – riprese la donna dopo essersi
soffiata...
– Abito al 128 di boulevard Gazagnaire – fece lui. – Può
passare quando vuole.
– Preferirei che ci incontrassimo al bar del Majestic, se
non le è d’incomodo, domattina alle dieci.
Riattaccò senza attendere risposta. Una donna disperata,
ricca e abituata a essere obbedita senza discussioni. Il genere di cliente pronta ad allungare una bella somma. Per far
imbalsamare la sua piccina.
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