Luigi Graziani

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Luigi Graziani
Ennio Dirani
Luigi Graziani tra Carducci e Pascoli
L‘autore del libro italiano più bello sulla neonata bicicletta – romagnolo come la maggior
parte dei prosatori e poeti che dal velocipede trassero ispirazione tra la fine dell‘800 e la prima guerra
mondiale — scriveva quasi cento anni fa: ―Come si chiamerà dunque il poeta italiano che fra non
molto scriverà l‘ode alla bicicletta?‖. Ed aggiungeva: ―Virgilio cantò il cavallo, Monti il pallone,
Carducci il vapore, molti la nave, nessuno ancora la bicicletta‖ (A. ORIANI, La bicicletta, scritta tra il
1897 ed il 1899). Non sapeva, il superbo e profetizzante ―solitario del Cardello‖, che quel poeta, nato
nella sua stessa terra quattordici anni prima di lui, aveva già un nome e si accingeva a scrivere l‘ode di
cui egli lamentava l‘assenza. Anzi, quel carme non solo sarebbe stato scritto, nel dicembre 1899,
prima che il suo libro vedesse la luce, ma anche pubblicato, magna laude ornatum, ad Amsterdam,
apud Io. Mullerum, nel 1900. Probabilmente, se anche avesse letto quel componimento, non avrebbe
modificato il suo testo, tanto era convinto — forse a ragione, questa volta — che la vera
consacrazione letteraria della bicicletta la stava operando lui stesso, sia pure in prosa. Ma qui questo
non interessa.
Interessa invece chiarire subito che Luigi Graziani — nato a Bagnacavallo ma vissuto in
prevalenza a Lugo e che amava presentarsi come lucensis nei Certamina poetica Hoefftiana cui
partecipò due volte, sempre premiato — è noto soprattutto come il poeta della bicicletta, sia per via
del poemetto del 1899, sia per quello, più lungo, composto nel 1902. L‘epigrafe apposta al primo
piano del suo ginnasio (palazzo Trisi) poco dopo la sua morte e distrattamente letta da generazioni di
adolescenti, quasi tutti appassionati ciclisti, gli rende pienamente giustizia — anche se registra dati
anagrafici errati — ricordandolo in apertura proprio come ―geniale cantore della bicyclula‖.
Superfluo aggiungere che si tratta — e si è sempre trattato —di una notorietà circoscritta ad ambienti
letterari di tipo particolare; superfluo anche testimoniare, per personale esperienza, che i ginnasiali di
cui sopra, per quanto tifosi, poniamo, di Binda o di Coppi, quasi sempre si sono affidati all‘autorità
dell‘epigrafe su cui ogni mattina posavano gli occhi salendo le scale, senza provare l‘impulso di
spingersi fino al secondo piano, dove allora era confinata la biblioteca comunale, a richiedere in
lettura il misterioso carme dal titolo così stravagante e poco accattivante. Se a ciascun giorno basta la
sua pena, a noi — particolarmente a noi ragazzi di campagna — bastava quella che allora ci veniva da
Ovidio, e la bicicletta ci piaceva troppo perché sentissimo il bisogno di conoscere come su di essa
avesse sproloquiato, in una lingua riesumata per il nostro tormento, un vecchio professore d‘altri
tempi, che magari di corse in bicicletta non ne aveva fatte mai.
Si rimedia subito a questo poco canonico modo di introdurre il nostro squisito umanista,
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fornendo le coordinate biografiche e bibliografiche essenziali.
Nasce in Bagnacavallo il 14 dicembre 1838 da genitori agiati. A dodici anni entra nel
seminario di Ravenna, dove resta fino al 1860. In quella scuola, secondo l‘autorevole testimonianza
di Dionigi Strocchi, tutta l‘attenzione era rivolta alla forma, nelle discipline letterarie. Graziani
comincia presto a comporre carmi latini. I limiti della scuola non compromettono la sua formazione,
perché ―nello studio dei solenni maestri non si indugiò al solo lato formale, come allora portava
l‘errato indirizzo scolastico; la dignità e grandezza del mondo romano lo commoveva e lo esaltava, il
senso realistico e l‘acuto spirito d‘osservazione dei Comici e dei Satirici latini gli avvivarono quella
limpida vena di festevolezza, quella socratica ironia, fatta di bonario compatimento, che dovevano
costituire uno degli eletti pregi della sua futura produzione dialettale‖ (V. RAGAZZINI, p.8).
Abbandona il seminario, ma non perde la fede cristiana (―Io credo nel credo di mio padre‖,
dirà un giorno al Carducci, sotto il voltone del palazzo del Podestà), che riesce a coniugare col culto
della classicità pagana e ad aprire alle correnti più vivaci dell‘umanesimo moderno. Si mescola alla
vita e gira la Romagna in calesse, per esercitare — pare senza fortuna — il commercio del vino,
perché ha moglie e figli da mantenere. Nel 1872 è chiamato al ginnasio di Lugo, ed a Lugo si
trasferisce poi definitivamente. Perde la cattedra nell‘85, quando la scuola è statizzata e si richiede la
laurea che egli non ha. Nel ‗91, anche per intervento del Carducci, la riottiene, e la ricoprirà fino al
1910. L‘insegnamento, insieme con l‘attività letteraria, è stato la grande passione della sua vita.
Muore il 22 novembre 1916.
La produzione poetica, per molti anni consistente in traduzioni — a parte brevi componimenti
d‘occasione in lingua e poesie dialettali che mai volle pubblicare e di cui ci resta qualche non eccelso
esempio — può essere così suddivisa: a) epigrammi greci tradotti in latino; b) idilli di Teocrito
tradotti in versi italiani; c) Le nozze di Teti e di Peleo di Catullo in italiano; d) Inno a Giove di Paolo
Costa, i Sepolcri e 14 Odi barbare volti in latino; e) tre poemetti originali in latino: Bicyclula, In re
cyclistica Satan, In Romam.
Raccogliendo in volume queste poesie, già singolarmente pubblicate dal 1874 (traduzioni dal
Costa e dal Foscolo) al 1913 (In Romam), Graziani così scriveva nel 1915: ―Esse rappresentano, fra le
cosette mie, quelle che meno mi sono sembrate indegne di una ristampa, se debbo giudicare dal favore
con cui, specialmente alcune, furono accolte al loro primo apparire‖. I consensi erano stati numerosi,
in effetti, ed anche autorevoli, a partire dal vecchio Tommaseo, che lodò la traduzione dei Sepolcri,
entrando minuziosamente nel merito di certi esametri e perfino della quantità di certe sillabe, per
concludere poi con un‘esortazione a non sprecare i suoi talenti su poesie cui manca ―quel che in prosa
si chiama senso comune‖ come... i Sepolcri, ma a tradurre le canzoni All’Italia e Vergine bella del
Petrarca, oppure —saggio e, sia pure molto più tardi, accolto consiglio — a comporre cose originali.
Giudicare la qualità delle traduzioni del Graziani dal greco in latino esula dalle mie
competenze — e sarebbe in ogni caso fuori luogo in una storia di Lugo. Furono lodate dal Gandiglio,
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dal Ragazzini, dal Bione, da altri latinisti più recenti, e questo può bastare. Più praticabile parrebbe
l‘approccio alle traduzioni in latino dei testi del Costa, del Foscolo e del Carducci. Esso però
comporterebbe esami molto analitici, con precisi raffronti tra originale e traduzione, almeno per passi
particolarmente ardui o significativi. Dal momento che anche questa via è, in questa sede,
impercorribile, ci si limita a fornire, per il lettore più curioso, qualche esempio, senza la pretesa di
liquidare sbrigativamente un versante non secondario dell‘attività letteraria del Graziani. Il quale, a
dire il vero, era ben consapevole dei limiti dell‘operazione che stava compiendo, anche se aveva alle
spalle una lunga ed autorevole tradizione.
Si ricordi 1‘incipit dei Sepolcri, e poi la chiusa, e vediamo cosa diventano in latino:
Num minus umbriferas inter memoresque cupressus,
Inque superfusis lacrymarum rore sepulcris,
Urgebit mortale genus post funera somnus?
…
… tuque
Qua lacrymatus erit, quis sanctus habebitur oris
Fusus pro patria sanguis, dumque altus ab axe
Sol super humanos perstet splendescere casus
Luctibus et lacrymis, Hector, celebrabere dignis.
La scelta non rende forse giustizia al Graziani, come potrebbe farlo questa quartina di Alle fonti del
Clitumno:
Alveo undanti in clamyde effluebant
Naides, glaucum genus ; et quieto
vespere alpinas ululans vocabat
quaeque sorores.
Ma anche in questo caso pare difficile andare oltre l‘ammirazione per la padronanza della
lingua e della metrica latina, per l‘eleganza e la scioltezza del verseggiare. Resta nel lettore moderno
un sospetto di artificiosità, fors‘anche di gratuità, se è vero che una traduzione, anche bellissima — e,
possibilmente, fedele —, si giustifica in fondo con ragioni funzionali, come ausilio al lettore. Per
questo meriterebbero più attento esame e più convinto apprezzamento le traduzioni in versi italiani,
particolarmente quelle da Teocrito e da Catullo, anche perché qui il Graziani ha messo a profitto, oltre
alla nativa vocazione al canto, la sua straordinaria familiarità con l‘endecasillabo della tradizione
classicistica italiana, dal Poliziano al Monti. Qualcuno (particolarmente P. PARADISI), in anni più
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recenti, ha mostrato, con puntuali riscontri testuali, che nelle traduzioni italiane del Graziani si
avvertono echi del Foscolo ed anche dell‘Alfieri, ed ha concluso che è riduttivo confinarlo dentro la
gabbia del classicismo aulico. È conclusione da sottoscrivere senza riserve.
Ma il meglio della produzione letteraria dell‘umanista lughese va cercato, si diceva, nei tre
poemetti latini, che costituiscono la sua opera poetica di libera invenzione, la sola veramente e
profondamente originale, scritta non casualmente negli ultimi anni, quando il Graziani ha ormai preso
coscienza dei propri mezzi e sa di poter poetare senza appoggiarsi a testi di altri.
Il primo è Bicyclula, stupenda celebrazione dello sport, come la definì Santi Muratori, del
ciclismo in particolare, in questa terra di Romagna dove, negli anni a venire, vi saranno più biciclette
che uomini, quando l‘umile veicolo, dopo la prima stagione borghese, si proletarizzerà e diventerà
strumento di lavoro e di lotta, oltreché di svago, per i braccianti. Il poemetto di 557 esametri suscitò
notevole sorpresa, e non solo per l‘originalità e la modernità del soggetto, come solitamente si crede.
In fondo, chi tra secondo Ottocento e primi anni del Novecento poetava in latino, prediligeva soggetti
moderni ed insoliti, ad eccezione del maggiore di essi, il Pascoli. In latino erano state celebrate la
caldaia a vapore, la ferrovia, il gas, il telegrafo, il caffè e... le uova al tegamino (lo aveva fatto
Gioacchino Pecci, prima di diventare Leone XIII e di scrivere intorno a ―cose nuove‖ di altra natura).
La stessa bicicletta era stata già mediocremente cantata in cento esametri da G.B. Giorgini, senatore
del regno. La sorpresa di fronte al poemetto del Graziani veniva dalla sua elevata qualità letteraria e
dall‘ispirazione autentica che lo pervade. Poggiava quindi su requisiti che hanno conservato il loro
potere di suggestione anche a distanza di quasi un secolo.
Il poemetto è dunque un entusiastico inno alla ―divina‖, essenziale, silenziosa e —
aggiungiamo noi che sappiamo a quale inferno abbia condotto la motorizzazione — ecologica
macchina che ha reso l‘uomo e la donna più liberi di quanto non fossero stati mai, come intuirono,
negli stessi anni del Graziani, Zola in Francia, Oriani e Olindo Guerrini in Italia. E che costituisce una
fonte inesauribile di piacere, di ebbrezza fisica e di esaltazione emotiva, perché ci colloca in un
rapporto nuovo col nostro corpo, libera la mente, ci immerge nel paesaggio, ci fa correre nell‘aria con
le nostre sole forze, ci permette di conoscere agevolmente luoghi e persone prima sconosciuti,
risveglia quel tanto di sano agòn che sonnecchia anche nel più pacioso degli uomini. C‘è tutto questo
in Bicyclula, come poi nel secondo poemetto, ed è singolare come l‘ultrasessantenne e sedentario e
contemplativo Graziani, di cui nessuna fonte o testimonianza dice che fosse ciclista, abbia saputo
interpretare ed esprimere lo spirito del ciclismo, che sedusse allora e trascinò in avventurose corse
sulle due ruote poeti e scrittori, particolarmente in Romagna.
Nunc mihi pertenui dicenda Bicyclula cantu, ―intendo dire con umile verso le lodi della
bicicletta‖, traduce Vittorio Ragazzini, che del Graziani fu amico e quasi figlio spirituale. Così prende
avvio il primo dei due carmi ciclistici, che continua con la descrizione della costruzione della prima
bicicletta ad opera di Vulcano: una pagina di inverosimile virtuosismo, se considerate che Graziani
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doveva parlare, in latino classico, di moltipliche, pignoni, catene, manubri, pedali, raggi, pneumatici
(gummea tegmina). E continua poi con raduni ciclistici, festeggiamenti, sfilate, cui partecipano le
rappresentanze di molte città, comprese l‘aemulaque excelsae Romae veneranda Ravenna e Lucus
ipse, s‘intende. Il carme devia per breve tratto, descrivendo una corsa su pattini in Olanda — omaggio
o captatio per i giudici del Certamen Hoefftianum? —, ma si riprende subito con un‘emozionante
gara ciclistica su pista, in cui trionfa, in volata, il rappresentante dell‘Umbria, per chiudersi infine con
l‘apostrofe alla prodigiosa macchina:
O amor et studium o magna insuperata voluptas
Labentis saecli, saeclis tradenda futuris;
O cunctis suprema salus mortalibus aegris,
Salve o, atque iterum, divina Bicyclula, salve.
Più lungo (770 esametri) e di intonazione narrativa In re cyclistica Satan (Satana nel ciclismo,
nella traduzione dello stesso autore), la cui ―ideologia‖ è dichiarata fin dalla citazione lucreziana in
esergo: . . . arctis — Relligionum animos nodis exsolvere pergo (nel carme precedente l‘intento
celebrativo dell‘uomo e della sua intraprendenza era affidato a Marziale: hominem pagina nostra
sapit). Prima di dare inizio al racconto, che sarà invero alquanto macchinoso e rocambolesco, l‘autore
dichiara il proprio assunto — si cita questa volta dalla traduzione in prosa dello stesso Graziani —: ―E
dirò come e di che arti infernali il fanatismo e una cieca superstizione si giovassero, perché la
Bicicletta, che pur nacque sotto l‘influsso di benigna stella, non potesse il suo pacifico impero
distendere su tutti i popoli della terra‖. E‘ significativo, perché il Graziani era un cattolico praticante,
che le ―arti infernali‖ siano nel carme messe nelle mani di un sacerdote, brava persona peraltro, ma
odiatore di ―tutti i portati del moderno progresso‖, a cominciare dalla bicicletta, opera del diavolo
(Nonne igitur Satan tam detestabile monstrum —invenit?). Il faustiano racconto, col diavolo e la sua
vittima in bicicletta, che egli fa per dissuadere il figlio del suo ospite dall‘uso del velocipede, non
sortisce l‘effetto voluto, anzi il carme si chiude con l‘orazione defensoria del giovane: ―Ah! La
bicicletta non è, non è vivaddio, una invenzione di Satana, ma il frutto di lunghe e aspre battaglie fra
la natura e l‘uomo, ma il portato di mille prove e riprove dell‘ingegno che poi creano la scienza e
accrescono più e più sempre il patrimonio dell‘umano sapere‖. Verrà giorno — conclude l‘entusiasta
giovane e con lui il non meno visionario umanista — che l‘umanità sarà affratellata dalla bicicletta e
la pace mantenuta da una legione internazionale di ciclisti, che interverrà contro gli aggressori, con
nella destra la spada e nella sinistra un ramo d‘ulivo (hinc gladium feret, hinc ramum praetendet
olivae). Come si vede, il contingente di pace dell‘ONU, per quello che può valere, non è
un‘invenzione dei nostri anni.
Lo spunto per il racconto intimidatorio del prete, e forse per tutto il poemetto, venne al
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Graziani da un articolo apparso su ―Il Resto del Carlino‖ del 22 agosto 1901 e conservato tra le sue
carte, in cui si parla di un pope amante della bicicletta cui il vescovo ne vieta l‘uso perché essa ―è
un‘invenzione del gran nemico Satana‖. Il Graziani, che in un passo del poemetto esalta i sacerdoti
che accorrono in bicicletta al capezzale dei moribondi, sembra ignorare i divieti in vigore per molto
tempo — senza scomodare Satana per la verità —anche nei confronti del clero cattolico. Sono ben
noti. Basti richiamarne uno, di casa nostra: il documento approvato dalla conferenza episcopale dei
vescovi romagnoli del 20 ottobre 1909 (Forlì), in cui si dice che usum huiusmodi vehiculi nulla
ratione esse permittendum.
L‘ultimo carme, In Romam, di 366 esametri, fu composto nel 1912, nel quadro delle
celebrazioni per il cinquantenario dell‘unità nazionale. Tra le poesie originali del Nostro è
sicuramente quella che più deve al Carducci, nell‘ispirazione generale, nel modo in cui si rapporta
alla classicità pagana, in certi calchi (crine ruber [...] victor Galilaeus; Surge eja [...] Turbida
transierunt tibi saecula; ecc.).
È importante notare come il Graziani eviti i luoghi comuni connaturati al tema — che perfino
il Pascoli, partecipando al medesimo concorso, schivò solo in parte — e come, dopo un rapido
omaggio al periodo repubblicano, abbandoni i fasti della Roma antica per celebrare Cola di Rienzo,
Arnaldo da Brescia, Garibaldi, la Repubblica romana del 1849, la breccia di Porta Pia. Non per nulla
il poemetto è dedicato ad Ernesto Nathan, sindaco di Roma, è vero, ma pur sempre gran maestro della
massoneria ed esponente di spicco della cultura laica. La critica nazionalista e fascista, facendo leva
su di un fugace accenno finale alla guerra di Libia allora in corso, ha interpretato il carme come un
inno alla virtù guerriera ed alla missione imperiale della stirpe italica, unica erede, si sa, di Roma. La
verità è che anche questo poema è pervaso da spirito di libertà e di umanità, senza cedimenti ai miti
della forza e della potenza, del tutto estranei alla sensibilità morale ed alla cultura del Graziani. In
esso ritroviamo il laico, il tolstoiano, se si vuole, o il pascoliano, che resta fedele ai valori cristiani dei
suoi avi, senza ostentazione e con totale, intima adesione; con profondo rispetto ed ammirazione per
le virtù degli uomini; con indulgenza, venata di ironia, per le loro miserie. In fondo, è lo stesso
Graziani che dieci anni prima aveva inventato l‘originale figura del giovane ciclista, ―gioiosa
creatura, che si esalta nel moto‖ (RAGAZZINI), ma rimanendo profondamente umana, senza
sconfinamenti nei miti pericolosi messi in circolazione, proprio in quel tempo, da Nietzsche, da
D‘Annunzio, da Morasso.
In questa fedeltà al suo umanesimo antiretorico, parente prossimo di quello di Orazio e di
Montaigne; nel gusto di godere in letizia ciò che di bello e di grande la vita offre, dalla famiglia
all‘amore all‘amicizia alla sociabilità, dalla poesia all‘incanto della natura; nel giovanile entusiasmo
per ciò che di buono e di nuovo porta il progresso, sta la modernità — a dispetto delle apparenze — di
questo umanista di provincia, che era nato suddito di Gregorio XVI e che potrebbe essere considerato,
prima facie, l‘ultimo letterato di ancien régime vissuto dalle nostre parti. Qui va cercato anche il
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rapporto profondo con la sua terra e con la sua gente, il suo essere romagnolo. A lui ed alla sua opera,
come a pochi altri, si addicono le celebri parole che un altro grande umanista romagnolo scrisse
cinquant‘anni fa: ―La Romagna più vera [...] è quella della intimità recòndita, della confidenza
discreta, della bontà assoluta, dell‘amicizia sicura; è quella delle case ospitali che aprono la porta al
viandante senza nemmeno sapere chi è e gli offrono ristoro e ricovero; è quella dell‘antiretorica,
dell‘antioratoria, dell‘antieloquenza‖ (VALGIMIGLI, Gentilezza di Renato Serra, in Uomini e
scrittori del mio tempo, p. 303).
NOTA BIBLIOGRAFICA
Le singole traduzioni del Graziani furono pubblicate a partire dal 1874. poi raccolte dall‘autore, insieme
con altri scritti. nel volumetto Traduzioni e poemetti originali. Faenza 1915. Vale la pena di registrare invece
l‘edizione originale dei tre poemetti latini: Bicyclula, carmen Ludovici Gratiani lucensis in certamine poetico
hoeufftiano magna laude ornatum Amstelodami MDCCCC; In re cyclistica Satan, carmen Ludovici Gratiani
lucensis in certamine poetico hoeufftiano magna laude ornatum, Amstelodami MDCCCCII; In Romam
natalem diem nunc quidem magnifìcentissime renovantem Ludovici Gratiani carmen, Faventiae M.CM.XIII.
Tutta la produzione poetica sarà poi raccolta nell‘elegante volume postumo Lira classica. Versioni e poemetti
originali di LUIGI GRAZIANI. Bologna 1931, a cura di EZIO CHIÒRBOLI, ADOLFO GANDIGLIO e
GIULIANO MAMBELLI. Bicyclula fu pubblicata, sempre a Bologna, nel 1932, con introduzione e note di V.
Ragazzini (ma senza la traduzione in italiano). Sono inediti quattro brevi scritti d‘occasione: Natura ed arte,
sermone; Lucilio e Orazio; Quid est causae cur Horatius in satyra audaciam Lucilii non habeat; Parole per
Girolimo Teofilo Folengo o Merlin Cocai (ringrazio l‘amico Marcello Savini per avermi segnalato e messo a
disposizione i quattro manoscritti).
Sul Graziani si segnalano: L. AMBROSINI, Un poeta latino cantore della bicicletta. ―L‘illustrazione
italiana‖, luglio 1902; In memoria del professor Luigi Graziani per cura dei colleghi, Lugo 1917 (si tratta di
una raccolta di testimonianze, tra le quali di particolare interesse quelle di C. Calcaterra e S. Muratori); V.
RAGAZZINI. L’umanesimo di Luigi Graziani. Rocca San Casciano 1918; E. CHIÒRBOLI, Il Graziani. “I
sepolcri” del Foscolo latini e il Tommaseo, ―L‘Archiginnasio‖, gennaio-aprile 1927, pp. 29-42 (riproduce
anche le due lettere del Tommaseo al Graziani del 15 e 26 marzo 1874); ID. Luigi Graziani: l’uomo e l’artista,
in L. GRAZIANI. Lira classica cit., pp. VII-XXVIII; V. LUGLI. Un poeta umanista di Romagna, ―Il Popolo di
Romagna‖, 24 giugno 1933; C. BIONE, Di Luigi Graziani poeta latino e della tradizione umanistica in
Romagna, in Atti del III Congresso Nazionale di studi romani, v. IV, Bologna 1935. pp. 129—133; P.
PARADISI. Strocchi, Landoni. Graziani: momenti di storia della traduzione, in Scuola classica romagnola,
Modena, 1988, pp. 193-226.
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