Psicoanalisi e psicosomatica. La psicosomatica ha cercato di

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Psicoanalisi e psicosomatica. La psicosomatica ha cercato di
Psicosomatica e psicoanalisi
a cura di Elisabetta Cerruti Sola
La psicosomatica ha cercato di trovare un collegamento tra psichico e somatico ed
ha indubbiamente avuto da parte di Freud un interesse, anche se la sua è stata sin
dall'inizio una posizione contraddittoria perché ha sempre cercato di definire il campo di
lavoro dello psichico senza entrare in quello fisico e biologico, per timore che il metodo
applicato -la psicoanalisi- venisse tacciata di pseudo scienza, privandola per questo di
dignità scientifica (Todarello, Porcelli, 1992). Infatti, la concezione medica di quegli anni
era intrisa di positivismo che Descartes (Fabietti, 1981) aveva definito così bene, facendo
del corpo esteso qualcosa di molto meccanico «regolato da leggi biochimiche oggettive e
analizzato come corpo spazializzato al cui interno localizzare la sede patogenetica delle
malattie. Il modello epistemologico che ne deriva si basa, ancora oggi, su un duplice
pregiudizio, conseguenza del dualismo cartesiano. Da un lato la riduzione dei processi
fisiologici alle loro caratteristiche quantificabili[…], dall’altro l’esclusione di qualsiasi
spiegazione dei processi fisici in base ai principi delle cosiddette scienze dell’uomo
normativamente opposte alle scienze della natura» (Todarello, Porcelli, 1992, p. 48).
In tale clima s’inserisce Freud, preoccupato di non sconfinare con le proprie
ricerche al di fuori dello psichico, per salvaguardare la scientificità della psicoanalisi. Così
le malattie fisiche, organiche, biologiche s’indagano con dati quantificabili, obiettivi, offerti
dalla medicina, mentre la psiche s’indaga con la psicoanalisi (Todarello, Porcelli, 1992).
Nell’eterno, e ancora non superato, dibattito tra scienza e non-scienza, Freud,
rendendosi conto che il corpo tralasciato rientrava prepotentemente nella stanza d’analisi,
propose quindi la sua tesi con la ripartizione tra:
-
corpo rappresentato dell’isterico che soffre a causa di quelle rappresentazioni che
non sono accessibili alla coscienza (simbolizzazione);
-
corpo anatomico delle nevrosi attuali (nevrosi d’angoscia agita direttamente sul
soma senza simbolizzazione) (idem).
Rispetto al «rapporto psiche-soma, Freud non espresse mai né una posizione chiara né
evoluzioni chiare nel suo pensiero» (ibidem, p. 54). Una spiegazione può essere data dal
fatto che «Freud si rendeva conto che una teoria psicologica poteva avere come oggetto
solo degli eventi puramente psichici e non neurofisiologici» (ibidem, p. 57), ma questo
purtroppo non ha facilitato a chiarire il “misterioso salto della mente al corpo” che oggi
come ieri, sembra ancora avvolto dal mistero e anche i tentativi successivi di portare luce
sono stati complessi.
Gli psicoanalisti che seguirono svilupparono il concetto di conversione così come
l’aveva postulato Freud nel 1894, e cioè «come processo secondo cui una
rappresentazione incompatibile può essere resa inoffensiva quando viene “strappata” la
somma di eccitamento affettivo a cui era legata; quest’ultima viene indirizzata verso altre
utilizzazioni e, nel caso del sintomo isterico, viene trasformata in qualcosa di somatico»
(Freud, 1894, p. 124). Così Groddeck (Todarello, Porcelli, 1992) che fu uno dei primi ad
occuparsi di disturbi organici, lo fece guardando all’uomo nella sua totalità di corpo e
mente. E’ sua l’introduzione del concetto di “Es” che con la sua modalità animalesca e
impulsiva dice ciò che l’Io non potrebbe mai dire perché ritenuto inaccettabile, una forza
che si esprime nel sintomo, e che rappresenta «un’espressione simbolica di un’unica
entità inconscia che determina ogni comportamento dell’essere umano, sia in salute che in
malattia» (Trombini, Baldoni, 1998, p. 28).
Quindi un allievo di Freud, Felix Deutsch, sviluppò il concetto di conversione fino a
considerarlo come un processo continuo, che opera senza interruzioni per tutta la vita.
Questo processo di “conversione continua” (Deutsch, 1959, p. 77) diventa fondamentale
per il mantenimento dello stato di salute. La malattia somatica, provocata da eventi
traumatici che Deutsch assimila ad esperienze primarie di perdita, avviene per un
eccessivo investimento su di un organo che interrompe la conversione continua e che il
corpo non riesce ad assorbire (Todarello, Porcelli, 1992).
Incontriamo allora la Dunbar che cercò di rintracciare il rapporto tra personalità e
disturbi psicosomatici e basandosi su osservazioni di persone affette dalle stesse
patologie, individuò profili specifici di personalità tra i malati che avevano in comune
determinate
caratteristiche.
Ad
esempio
identificò
personalità
con
una
certa
predisposizione agli incidenti tra le persone impulsive, insofferenti, ribelli, oppure individuò
una personalità coronaropatica, tra gli individui molto disciplinati, ligi al dovere, disposti a
grandi sacrifici (Trombini, Baldoni, 1999). Queste indicazioni sono state riprese
recentemente e hanno permesso l’identificazione del Comportamento di Tipo A e quello di
Tipo C simili alle due personalità sopra citate (Solano, 2001; Trombini, Baldoni, 1999).
Proseguendo, incontriamo Alexander (Trombini, Baldoni, 1999; Todarello, Porcelli,
1992) che approfondì il lavoro della Dunbar ed elaborò la teoria chiamata “nevrosi
d’organo” per spiegare i conflitti che riguardano la dipendenza o l’aggressività e attivano il
sistema simpatico o parasimpatico, causando l’esordio di malattie come coliti, diarrea,
ulcera, in risposta all’inibizione delle richieste di cure e attenzione; o l’ipertensione e
l'infarto per la cronicizzazione della rimozione di emozioni aggressive. Peraltro, ancora
oggi si riconosce che le emozioni possano provocare modificazioni a livello intestinale o
cardiaco (idem).
Successivamente e in periodo temporalmente più vicino a noi, Pierre Marty (1963),
partendo dall’osservazione della difficoltà di mentalizzazione ed elaborazione delle
emozioni nei pazienti con disturbi psicosomatici, teorizzò il concetto di “pensée
opératoire”, pensiero operatorio. Gli individui presentavano, secondo tale teoria, scarsa
capacità verbale, poca attività fantasmatica, con pensiero estremamente concreto e rivolto
alla realtà quotidiana, senza immaginazione e investimento affettivo (Todarello, Porcelli,
1992).
A conclusioni analoghe giunsero negli stessi anni anche Nemiah e Sifneos
scoprendo che «persone affette da malattie psicosomatiche presentano:
- Difficoltà ad esprimere verbalmente le emozioni;
- Scarsità di fantasia;
- Stile comunicativo incolore» (Solano, 2001, p. 201).
Nemiah e Sifneos coniarono così la parola «a-lessi-timia, per denotare la mancanza
di parole appropriate per descrivere le proprie emozioni» (Todarello, Porcelli, 1992, p.
125).
Ciò che sottolineano i modelli dell'alessitimia e del pensiero operatorio riguardano la
considerazione che il paziente psicosomatico sia molto diverso da un comune nevrotico,
per la sua incapacità di simbolizzazione, di trasformazione dell’emozione in pensiero, di
mentalizzazione ed elaborazione psichica (McDougall, 1989).
Infatti, la McDougall riterrà il sintomo psicosomatico come qualcosa di differente
dal disturbo nevrotico, perché negli stati psicosomatici non c’è traccia di quelle difese
utilizzate dalla nevrosi, come la rimozione o la negazione, perché «le fonti potenziali
d’angoscia non sono state simbolizzate, come avviene nelle organizzazioni nevrotiche»
(idem, p.36). Abbiamo qui qualcosa di più arcaico, un qualcosa che sembra ricordare
meccanismi di difesa più primitivi e che possono essere assimilati alla «forclusione che
consiste nel rigetto non solo della rappresentazione, ma anche dell’affetto intollerabile a
essa legato1» (McDougall, 1989, p. 72). Nei pazienti psicosomatici, infatti, non rimane
traccia di quei segnali d’angoscia che consentono alla psiche di prepararsi a far fronte alla
situazione traumatica, il che equivale a dire che quelle fonti potenziali d’angoscia non sono
divenute simbolizzabili come avviene nelle organizzazioni nevrotiche, giacché non hanno
subito una rimozione (McDougall, 1989), ma «arrivano a congelare l’affetto e la
rappresentazione che lo connota polverizzandola, come se non avesse mai avuto accesso
al soggetto» (idem, p. 33) per un’incapacità di contenere un eccesso di esperienza
affettiva (vicina all’angoscia psicotica) e di riflettere sull’esperienza (ibidem).
La McDougall parla di linguaggio del corpo che si vuole sbarazzare di sostanze tossiche
che avvelenando, rendono impossibili la vita, e lo scenario di questa storia è il corpo, un
corpo che si comporta come se impazzisse nel tentativo di arginare un’angoscia
impossibile da mentalizzare e che trova nel soma l’unica via d’uscita (McDougall, 1997).
Un contributo importante nell’orizzonte psicoanalitico/psicosomatico viene offerto
dal pensiero di Winnicott (1949,1969) che affronta il problema dell’unità tra il corpo e la
mente andando a cogliere l’importanza del passaggio dall’unità fusionale tra madrebambino, all’autonomia, che può avere successo solo se l’ambiente è stato
sufficientemente buono e accogliente e ha risposto ai bisogni del bambino (Winnicott,
1949, 1965, 1971). «L’ambiente perfetto è quello che si adatta attivamente ai bisogni dello
psiche-soma recentemente formatosi, a ciò che noi osservatori sappiamo essere il
neonato nei primi tempi. Si potrebbe dire che la psiche e il soma (cioè la persona e il corpo
che insieme costituiscono la persona) non partono come unità: esse formano un’unità se
tutto va bene nello sviluppo dell’individuo, ma questa è una conquista » (Winnicott, 1969 in
Rocchetto, p. 75).
Questo accenno alle carenze ambientali ci porta a Bolbwy e agli studi effettuati
nell’ambito della Strange Situation da Mary Ainsworth (Ainsworth, Blehar, Waters, Wall,
1978), alle figure di attaccamento e ai modelli operativi interni. Per modelli operativi interni
s’intendono «insiemi di memorie e aspettative riguardanti tanto il Sé del bambino quanto
1
La forclusione psichica viene qua intesa come meccanismo che si avvicina a quello che
Freud ha definito Verwerfung (Freud, 1894), «un meccanismo ripreso da Lacan che ha
mostrato essere legato in modo specifico alla psicosi» (McDougall, 1989, p.131). «La
forclusione cancella definitivamente un avvenimento che non rientrerà mai più nella
memoria psichica[…]. I significanti forclusi, non essendo integrati nell’inconscio del
soggetto, non riappaiono dall’interno, ma “in seno al reale” e in particolare nel fenomeno
allucinatorio» (Galimberti, 1994, p.192).
gli atteggiamenti dei genitori in risposta alle richieste di vicinanza che il bambino rivolge
loro» (Liotti, 1996, p. 66) e che vedremo più dettagliatamente nel III°capitolo. Qui voglio
solo sottolineare l’importanza con cui Bolbwy (1988) definisce l’ambiente di cura e
accudimento per lo sviluppo armonico del bambino e che costituisce la caratteristica più
importante dell’essere genitori (idem). Così fornire una “base sicura” al bambino o ad un
adolescente, risulta per loro indispensabile onde poter affacciarsi al mondo esterno, sicuri
di poter ritornare da chi li accoglierà sempre benevolmente, offrendo protezione e
sicurezza (Bolbwy, 1969, 1973, 1978, 1980). Così se l’attaccamento che si sviluppa tra
madre e figlio è di tipo sicuro, lo sviluppo della futura persona adulta sarà armonico,
mentre
contrariamente,
avremo
nell’attaccamento
insicuro
(evitante
o
ansioso-
ambivalente) uno sviluppo segnato da reazioni (evitamento, fuga dalle relazioni, resistenza
al conforto dell’altro, eccessiva difesa, attacco, indifferenza…) che porteranno ad un
inevitabile disequilibrio. In seguito «nel 1986 viene identificato da Main e Solomon (1986)
un quarto pattern di attaccamento, quello disorganizzato-disorientato» (Albasi, 2003, p.
75). Ciò che caratterizza questo pattern è «la mancanza di organizzazione del
comportamento…sia nell’avvicinamento, sia nell’evitamento della figura di accudimento,
mescolando le due tendenze in un’azione caotica, goffa, incoerente» (Liotti, 2003, pp. 6465). «Il bambino con attaccamento disorganizzato-disorientato si è trovato, nel corso del
suo primo anno di vita, a interagire con un genitore turbato dal continuo e frammentario
emergere alla coscienza di dolorose, e spesso terrorizzanti memorie relative a lutti e
traumi (la frammentarietà e compulsività nella rievocazione di un lutto o di un trauma è un
dei principali contrassegni della sua mancata elaborazione)» (Liotti, 1996, p. 74). Questo
porta il genitore «ad espressione di dolore, paura, o talora improvvisa e immotivata collera,
mentre risponde alle esigenze di attaccamento del bambino» (idem). Tale comportamento
può spaventare il bambino, che essendo molto piccolo, non riesce a comprendere la
contraddizione nel vivere un’esperienza contrastante tra la ricerca di protezione nella
figura di attaccamento e la paura che questa stessa figura provoca (Liotti, 1996, 2003). Ne
consegue un turbamento dell’integrazione della coscienza che porta alla formazione di un
modello operativo interno di attaccamento frammentario, molteplice e contraddittorio che
può sfociare nella formazione di disturbi dissociativi (Liotti, 1996, 2003).
Infine particolare importanza riveste la teoria del codice multiplo della Bucci (1997)
secondo cui l’attività mentale si sviluppa attraverso tre sistemi:
A. Non verbale-non simbolico fatto di esperienze dirette come gli odori, i sapori, il tatto, la
voce che permettono al bambino di riconoscere la madre (processo primario);
B. Non verbale-simbolico: le immagini vengono raggruppate in simboli, sistema che
promuove l’elaborazione simbolica;
C. Verbale-simbolico: avvio del sistema verbale-simbolico con l’utilizzo del codice del
linguaggio che è quello che usiamo per comunicare e rapportarci con gli altri. Tale
funzionamento può essere considerato simile al processo secondario (Bucci, Zoppi,
Solano, 2001).
La figura che si occupa di accudire il bambino, che risponde ai suoi bisogni fisici,
emotivi ed affettivi, è anche «la persona la cui presenza organizza la vita simbolica
emergente del bambino» (idem, p. 239). Così una carenza ambientale data da
un’inadeguata o insufficiente cura può causare difficoltà nella formazione simbolica. Le
difese possono comportare «una interruzione o un blocco di nessi referenziali tra i
contenuti degli schemi emozionali e le parole o in un senso più profondo una distruzione di
connessioni all’interno degli schemi emozionali, tra i pattern di attivazione subsimbolici,
somatici, o motori e le immagini prototipiche necessarie ad organizzare questi schemi»
(idem, p. 240). Il paziente si ritrova pertanto non solo senza parole, ma soprattutto senza
capacità di simbolizzare. E la simbolizzazione è determinante per lo sviluppo dell’essere
umano che altrimenti rischia di rimanere inchiodato in un pre-verbale, pre-simbolico abitato
da meccanismi difensivi primitivi, «giacché la psiche, in disperata difficoltà, si esprime solo
in modo arcaico, non simbolico, attraverso il disfuzionamento somatico» (McDougall,
1989, p. 176). Vedremo, infatti, nei prossimi capitoli come gli eventi traumatici possano
rimanere scritti nel corpo senza che se ne conservi memoria, e come quando questo
avviene essi possano dare avvio ad una serie di disturbi sia somatici sia dissociativi.
Le concezioni attuali vedono nelle affezioni psicosomatiche una realtà complessa
che interessa varie componenti e nella quale si intrecciano vari fattori, ma che ancora
riportano validità alle parole di Freud: «la reazione epilettica[…], si pone senza dubbio al
servizio della nevrosi, la cui essenza consiste nell’eliminare per via somatica masse di
eccitamento che il soggetto non riesce a padroneggiare psichicamente” (Freud, 1928, p.
522).
Ma l’apporto più significativo della psicoanalisi alla psicosomatica può essere
considerato «il fatto fondamentale che la teoria analitica ci permette di trovare un
significato ed un senso al sintomo[…], non solo come modalità di relazione, ma anche
come espressione di un conflitto intrapsichico» (Lalli, 1997, p. 4).