Riflessioni essenziali sul sistema pensionistico italiano
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Riflessioni essenziali sul sistema pensionistico italiano
Università Commerciale Luigi Bocconi Econpubblica Centre for Research on the Public Sector SHORT NOTES SERIES Riflessioni essenziali sul sistema pensionistico italiano Roberto Artoni, Carlo Devillanova Short note n. 14 April 2007 www.econpubblica.unibocconi.it RIFLESSIONI ESSENZIALI SUL SITEMA PENSIONISTICO ITALIANO Roberto Artoni - Carlo Devillanova E’ nostra convinzione che i sistemi pensionistici pubblici siano una delle più importanti invenzioni di ingegneria sociale degli ultimi 130 anni. Hanno infatti permesso di circoscrivere drasticamente un problema potenzialmente dirompente, la povertà degli anziani, in un quadro sociale in cui le strutture famigliari, con il passaggio dalla famiglia patriarcale a quella monocellulare, non erano e non sono più in grado di farlo. Come tutte le istituzioni umane, il sistema pensionistico deve essere adattato alle mutate circostanze economiche e demografiche. Non deve tuttavia essere mai dimenticata la sua funzione essenziale di garanzia di un tenore di vita dignitoso, anche se ragionevolmente differenziato, a chi ha cessato l’attività lavorativa. Nonostante le ripetute affermazioni contrarie, il sovradimensionamento del sistema pensionistico italiano rispetto a quello dei principali paesi europei appare essere essenzialmente una questione definitoria. I dati pubblicati da Eurostat indicano una spesa pensionistica pari nel nostro paese al 15% del prodotto interno, contro, ad esempio, una spesa del 12,2% in Svezia . Ma in Svezia le spese per invalidità sono pari al 4,6% contro l’1,6 in Italia e le spese per la disoccupazione sono pari all’1,9% contro lo 0,5% in Italia. Considerazioni analoghe valgono per gli altri paesi europei. Il punto essenziale è che nel nostro paese classifichiamo come spese pensionistiche erogazioni destinate ai lavoratori anziani che in altri paesi sono fatte rientrare nella spesa per invalidità o per la disoccupazione o in ambito assistenziale. Si deve inoltre tener conto che l’incidenza dell’imposizione diretta sulle prestazioni sociali è in Italia molto più elevata che in altri paesi. Sempre sulla base di dati Eurostat, l’età media di uscita dalla forza lavoro è in Italia di 61 anni, pari alla media Eu calcolata su 25 paesi. Età di pensionamento più elevate si riscontrano in paesi che estendono i sussidi di disoccupazione o di invalidità fino all’età legale di pensionamento (come nei paesi scandinavi) o nel Regno Unito, dove l’erogazione della pensione pubblica avviene in media a 63 anni, ma dove le pensioni private sono in genere corrisposte ad un’età inferiore. Il sistema pensionistico italiano nella sua storia non ha mostrato un andamento esplosivo, se misurato in termini di quota del monte pensioni sul prodotto interno lordo. Dal 1981, quando il sistema era giudicato da tutti inadeguato, al 2005 il monte pensioni è cresciuto di 3 punti, contro un incremento della popolazione di età superiore ai 60 anni di 7 punti. Dal 1993 al 2005 la spesa per vecchiaia invalidità e superstiti è cresciuta di meno di 1 punto, nonostante il forte invecchiamento della popolazione In particolare, nell’arco di tempo che va dal 1981 al 2005 le erogazioni del fondo pensioni lavoratori dipendenti sono rimaste praticamente stabili, pur in presenza di importanti fenomeni di espulsione di mano d’opera dal settore manifatturiero verificatisi a partire dagli anni ’90. Le prospettive finanziarie del nostro sistema pensionistico per i prossimi decenni sono state recentemente sintetizzate in un Rapporto del Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale. Nonostante il forte aumento della quota di popolazione anziana, e quindi dei pensionati, sul totale della popolazione, la spesa pensionistica dovrebbe passare dal 14% nel 2005 al 15% nel 2038 per poi tornare al livello attuale nel 2050. La stabilizzazione del rapporto monte pensioni prodotto nel 2050 rispetto ai livelli attuali dovrebbe essere in primo luogo il risultato del trasferimento totale del rischio demografico sui pensionati, attraverso l’applicazione dei coefficienti di trasformazione commisurati alla vita attesa prevista dalla Legge Dini. Ove non si applicassero questi coefficienti la spesa pensionistica sarebbe pari a poco meno del 17% del prodotto interno nel 2040 (contro il 15% che deriva dall’applicazione piena della Legge Dini) e al 16% nel 2050 (contro il 15%). Si deve sottolineare che, in assenza di applicazione dei coefficienti, l’ipotetico aumento di 2 punti della spesa pensionistica nel momento di picco non appare particolarmente drammatico, se associato all’incremento della quota di popolazione ultrasessantenne dal 26 al 41%. La stabilizzazione del rapporto monte pensioni prodotto interno, in caso di piena applicazione della Legge Dini, è poi il risultato di una caduta del tasso di sostituzione. Nel Rapporto si legge: “se confrontiamo il 2005 con il 2050 il calo delle prestazioni è di 26 punti per un dipendente con carriera dinamica che vada in pensione con 35 anni di anzianità e di 23 punti nel caso di pensionamento a 65 anni con 40 anni di servizio. Nel caso di lavoratore autonomo il calo è rispettivamente di 40 e 42 punti I dati relativi alla carriera piatta mostrano un calo minore, nell’ordine di 15-21 punti per i dipendenti e di 39 punti per gli autonomi”. Si noti che per effetto della Legge Dini la caduta del tasso di sostituzione rispetto ai livelli retributivi finali non avviene in ragione del livello di reddito raggiunto in media nella fase finale della vita lavorativa, ma in ragione inversa della velocità di carriera, con risultati molto discutibili sia sul piano equitativo, sia su quello del riconoscimento del progresso realizzato nel corso della vita lavorativa. Conviene soffermarsi ulteriormente sulle caratteristiche della Riforma Dini, varata nel 1995, ma non ancora pienamente applicata (rientrano parzialmente in questo regime solo coloro che nel 1996 avevano 18 anni di anzianità lavorativa). Il metodo contributivo adottato dalla riforma assimila di fatto la pensione individuale ad una sorta d’investimento finanziario (con rendimento pari al tasso medio di crescita del prodotto interno); il montante e la rendita vengono a dipendere esclusivamente dai contributi versati (siano essi a carico del lavoratore o del datore di lavoro) e dalla speranza di vita. Come abbiamo già osservato, tutto ciò fa sì che individui che finiscono la loro vita lavorativa con lo stesso reddito, a parità di durata, godono di pensioni anche molto diverse. L’effetto produttivistico da sempre attribuito agli istituti del welfare state viene ad essere ignorato. Non esiste peraltro alcun meccanismo che permetta di compensare i periodi di inattività o di ridotta contribuzione, come accadrebbe con metodi di calcolo che commisurano la pensione alla media rivalutata, ad esempio, dei venti anni migliori della vita lavorativa (come accade in molti paesi). Si deve qui sottolineare che la Riforma Dini è entrata in vigore nella fase, in cui in omaggio a dubbie teorie economiche, si procedeva a una forte precarizzazione del rapporto lavorativo; chi ha cominciato a lavorare con bassi salari e basse contribuzioni non potrà mai colmare le carenze originarie. A livello di finanza pubblica non sono previsti istituti che consentano di fronteggiare le situazione di inadeguatezza dei trattamenti; tutto ciò lascia chiaramente prevedere che in futuro la nostra spesa assistenziale sarà destinata ad aumentare sensibilmente. Abbiamo già osservato che l’accollo dell’intero rischio demografico alle classi inattive implica una forte divaricazione fra il reddito medio della popolazione attiva e quello dei pensionati: sulla base dei dati contenuti nel rapporto possiamo dimostrare sinteticamente gli effetti dell’assunzione di costanza del rapporto monte pensioni prodotto in presenza di un forte invecchiamento della popolazione e di crescita moderata del pil (1,5% medio annuo): il rapporto fra pensione media e prodotto per occupato, attualmente intorno al 17%, dovrebbe scendere nel 2050 al 12% (ove si applicassero i coefficienti di trasformazione) e al 13%, ove non si applicassero. Tutto ciò è la conseguenza dell’assenza di ogni meccanismo solidaristico o di ogni ipotesi di solidarietà intergenerazionale. Ad integrazione di quanto abbiamo osservato al punto 2, si deve ricordare che la spesa sociale complessiva in Italia è oggi al livello più basso dei principali paesi europei, e che anche la pressione fiscale non si distingue né per livello né per legittimazione. 9- Un’ultima caratteristica della riforma Dini è il ruolo attribuito alla cosiddetta previdenza privata o complementare. La caratteristica fondamentale di un sistema pensionistico è la garanzia di un reddito reale adeguato con la conseguenza che le prestazioni devono essere indicizzate (e la capacità di efficace indicizzazione è in sostanza attribuibile solo all’autorità pubblica). Le forme pensionistiche privatistiche a capitalizzazione pura si giustificano solo quando la componente pubblica si pone a un livello elevato. Questo livello elevato non si riscontra nella Social Security statunitense, dove infatti è stata bloccata la proposta di Bush di inserire componenti a capitalizzazione nel sistema pensionistico pubblico. Questa situazione non si verificherà in Italia nei prossimi decenni, dati i bassi tassi di sostituzione prevedibili; appare quindi piuttosto discutibile la sollecitazione sviluppatasi in questi mesi al trasferimento del TFR nei fondi pensione a capitalizzazione, dove il rischio è a carico dei lavoratori. Incidentalmente, nessuno ha mai fatto osservazioni sul costo della previdenza complementare in termini di perdita di gettito fiscale. Si può qui ricordare che alle pensioni private saranno applicate aliquote comprese fra il 9 e il 15%, contrariamente alle pensioni pubbliche, che entrano integralmente nella base imponibile dell’imposta personale, e al TFR, assoggettato ad un più oneroso prelievo fiscale. Quali prospettive sarebbero auspicabili? Non sarebbe inopportuno uscire dalla logica della riforma Dini, promettendo tassi di sostituzione ragionevoli compresi fra il 60 e il 65% per lunghe carriere (tassi di questo livello sarebbero inferiori a quelli garantiti dalla Dini per le carriere piatte). Si dovrebbero in altri termini circoscrivere la generalità dei richiami all’equità attuariale e riconoscere il carattere produttivistico, come abbiamo già accennato, degli istituti del welfare. Si dovrebbero prevedere, anche nel lungo periodo, specifiche modalità di finanziamento a carico della fiscalità generale per le componenti di base del sistema pensionistico. Si dovrebbe ricordare che in un contesto di forte invecchiamento della popolazione appare del tutto irrealistico assumere ad obbiettivo fondamentale la costanza del rapporto monte pensioni prodotto: sembra molto più sensato fare riferimento a un ragionevole legame fra pensione media e prodotto per occupato. Infine, dovrebbe essere usata in modo intelligente la flessibilità nell’età di pensionamento, allungando il periodo lavorativo. I sistemi pensionistici sono comunque sempre stati un meccanismo utilizzato per realizzare in maniera socialmente accettabile il ricambio della forza lavoro. Spostare in avanti l’età di pensionamento a puro fine di riduzione della spesa pensionistica, quando ad essa non corrispondano comportamenti coerenti dei datori di lavoro (che hanno in generale un incentivo ad espellere la forza di lavoro anziana), è uno sforzo per larga parte vano, nella misura in cui si fosse costretti a ricorrere ad istituti, quali le pensioni d’invalidità o i sussidi di disoccupazione o gli interventi strettamente assistenziali, che hanno un costo del tutto comparabile alle pensioni di anzianità del nostro paese.