Jessoula_ItalianiEuropei 2014_def

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 L’equilibrio imperfetto: le pensioni italiane tra sostenibilità, adeguatezza, equità di Matteo Jessoula Pubblicato in “Italianieuropei” n. 3/2014 Matteo Jessoula Professore Associato, insegna Scienza Politica e Comparative Welfare States Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche Università degli Studi di Milano Email: [email protected] 1. Introduzione Dopo due decenni di riforme il sistema pensionistico italiano sembra aver raggiunto un punto di equilibrio, coniugando sostenibilità economica e adeguatezza delle prestazioni. La spesa per pensioni è ancora la più alta (16,1% del Pil nel 2011) tra i paesi dell’UE, ma le proiezioni sono ben più rassicuranti: secondo i dati contenuti nell’Ageing Report 2012 del Comitato di Politica Economica dell’UE, l’Italia è infatti tra i quattro paesi con una spesa pensionistica sul Pil in diminuzione nel lungo periodo e le riforme adottate tra il 2009 e il 2011 consentiranno la riduzione della spesa anche nel breve‐medio periodo, con un risparmio annuo previsto attorno al punto percentuale di Pil tra il 2014 e il 2030 circa (MEF 2013). I requisiti di accesso al pensionamento, tradizionalmente laschi, sono stati resi molto più stringenti – e Italia ha oggi una delle età pensionabili più elevate d’Europa (66 anni e 3 mesi) – oltre che collegati automaticamente all’incremento dell’aspettativa di vita, e sono in fase di definitivo allineamento (nel 2018) tra uomini e donne. Il tasso di occupazione nella fascia d’età 55‐64 anni è cresciuto dal 27,7% del 2000 al 42,7% del 2013, riducendo così il gap rispetto alla media UE‐28 (50,1%). Non solo, le modalità di calcolo delle pensioni sono state ampiamente armonizzate con l’introduzione del metodo contributivo, applicato integralmente ovvero pro rata a tutti i nuovi pensionati a partire dal 2012. Last but not least, circa l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici, a più alte età di pensionamento corrisponderanno più elevati livelli di pensione in virtù della logica del metodo contributivo. In particolare, l’effetto combinato delle tre riforme recenti sui requisiti di pensionamento dovrebbe effettivamente contribuire al mantenimento di elevati livelli di pensione anche nei decenni futuri e, secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato (MEF 2013), un lavoratore “standard”, con carriera completa e ininterrotta, che andrà in pensione nel 2046 a 69 anni e 2 mesi (l’età pensionabile “normale” prevista per quell’anno) dovrebbe ricevere una pensione netta pari all’80% dell’ultima retribuzione. È tutto oro quel che luccica? Una riflessione sul sistema pensionistico italiano sullo sfondo della tendenza all’assottigliamento e progressivo impoverimento del ceto medio ‐ e dunque con riferimento all’equità ‐ richiede un’analisi più approfondita circa l’adeguatezza dei benefici pensionistici, sia rispetto alla situazione attuale sia (soprattutto) con riferimento ai prossimi decenni. Circa la situazione attuale e le recenti tendenze degli importi pensionistici, si possono avanzare due considerazioni. Da un lato, gli ultimi dati Inps (2014) indicano che l’importo medio annuo dei trattamenti pensionistici ha raggiunto gli 11.482 euro nel 2012, con un incremento del 2,3% sul 2011, ed è più elevato se si considerano soltanto i trattamenti di vecchiaia e anzianità (15.803 euro). Inoltre, il valore delle pensioni è cresciuto in media del 3,2% negli ultimi cinque anni, a fronte di un tasso di inflazione medio nel periodo pari al 2,3%, cifre che indicano come i pensionati attuali abbiano attraversato relativamente indenni la crisi economica e le successive misure di austerità fiscale. Dall’altro lato, va detto non solo che il valore di pensioni/assegni sociali è molto modesto (5.210 euro annui), ma anche che la distribuzione delle pensioni risulta ancora molto “schiacciata” verso il basso: il 42,6% dei pensionati (circa 7 milioni di persone) riceve prestazioni di importo inferiore ai 1.000 euro lordi mensili, a fronte di poco meno di un milione (5,4%) con pensioni superiori ai 3.000 euro. Il dato più interessante al riguardo è che in termini aggregati si spendono ogni anno 7,5 miliardi di euro per tutelare i 2,2 milioni di pensionati che ricevono prestazioni sotto i 500 euro mensili, contro 15 miliardi per i percettori di pensioni tra 5.000 e 10.000 euro, e 1,8 miliardi per i circa 11.000 pensionati più ricchi, con pensioni oltre i 10.000 euro al mese. 3
Di fatto, la distribuzione degli importi continua a scontare gli effetti dell’impianto tradizionale del sistema pensionistico italiano, incentrato su un modello‐assicurativo occupazionale a limitata capacità redistributiva verticale, nonché le conseguenze della “redistribuzione perversa” indotta dal metodo retributivo – premiante per i lavoratori con carriere più dinamiche e retribuzione più alta ‐ che continua ad applicarsi in larga parte anche ai nuovi pensionati. Se si eccettua l’intervento di sospensione dell’indicizzazione delle pensioni operato dal governo Monti – che è andato in effetti a incidere anche su pensioni relativamente basse attorno ai 1400‐1500 euro lordi mensili ‐ il dibattito pubblico e i più recenti provvedimenti di riforma, tra cui proprio la reintroduzione dell’indicizzazione per le pensioni più basse, sembrano muovere proprio dalla consapevolezza del modesto importo dei trattamenti pensionistici per un’ampia fascia di pensionati, e suggeriscono che eventuali nuove misure nel breve periodo debbano prevedere una componente esplicitamente redistributiva. Naturalmente il consenso non è unanime sul punto, e soprattutto nel breve periodo vi sono i limiti dettati dai cosiddetti “diritti acquisiti”, il rispetto dei quali è stato recentemente imposto anche da una sentenza della Corte Costituzionale proprio con riferimento alla legittimità di un contributo di solidarietà. Ciò detto, e consapevoli che le risorse ottenibili da interventi redistributivi sulle pensioni in pagamento non possono necessariamente essere ingenti ‐ appare condivisibile, e probabilmente necessario, perseguire tale strategia non soltanto “per cassa”, ma anche per equità, come han recentemente argomentato Boeri, Patriarca e Patriarca (2014) in un contributo apparso sul sito LaVoce.info. Rispetto al medio‐lungo periodo, è invece necessario valutare le principali implicazioni distributive di due decenni di riforme, e cioè le differenze di trattamento tra diversi gruppi e categorie di lavoratori alla luce di due processi fondamentali e dell’interazione tra questi: i) la transizione, lanciata nei primi anni Novanta, del sistema pensionistico verso un assetto multi‐pilastro, sullo sfondo della ii) trasformazione, e specialmente flessibilizzazione, del mercato del lavoro italiano. Circa il primo punto, va riconosciuto che, vent’anni dopo il primo provvedimento del 1992‐3, il piano volto a riconfigurare l’architettura pensionistica complessiva affiancando alla tradizionale assicurazione pubblica obbligatoria (il primo pilastro) schemi di previdenza complementare (secondo e terzo pilastro) capaci di coprire l’intera popolazione occupata si è rivelato di fatto impossibile da realizzare: nonostante i ripetuti interventi normativi fino al 2007, gli iscritti alle varie forme di previdenza complementare sono oggi circa 6 milioni su un’occupazione totale attorno ai 22,5 milioni, iscritti che sono tra l’altro concentrati tra i lavoratori a tempo indeterminato nei settori caratterizzati da imprese medio‐grandi ed elevata densità sindacale. Diversi sono i fattori che hanno influito sulla limitata espansione del secondo e terzo pilastro previdenziale, e tra questi certamente decisiva è stata la scelta per un sistema di previdenza complementare ad adesione (soltanto) volontaria1 – pur sostenuta dal meccanismo del “silenzio assenso” a partire dal 2007 ‐ che l’esperienza di vari paesi europei (in primis quella britannica) ha mostrato di condurre a significative lacune di copertura. Ciò comporta, in altre parole, che la previsione di un futuro pensionato che potesse contare sulla combinazione di una pensione pubblica di tipo contributivo con una pensione integrativa appare realistica solo per una minoranza degli attuali occupati. Cfr. Jessoula (2009) sul progetto di riconfigurazione multi‐pilastro del sistema pensionistico italiano. 1
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Sul secondo versante, il fuoco va posto sui provvedimenti (riforma Treu nel 1997, Legge 30/2003, riforma Fornero del 2012) volti a flessibilizzare in maniera progressiva ‐ e per lo più “al margine”, cioè tramite il sostegno alla diffusione dell’occupazione “atipica” – il mercato del lavoro italiano. In questa prospettiva è importante notare come tale processo sia stato avviato dopo il ridisegno dell’architettura pensionistica con le due grandi riforme Amato e Dini del 1992‐3 e 1995. Cogliere la dinamica temporale è cruciale perché, in aggiunta a quanto accennato sopra, le criticità che paiono delinearsi sul fronte dell’adeguatezza (o equità, si veda oltre) del sistema pensionistico nel medio‐lungo periodo sono in larga parte da ricondursi proprio all’interazione tra un mercato del lavoro caratterizzato da una quota consistente di lavoratori “atipici” (collaboratori, lavoratori a tempo determinato e/o part‐time, ecc…) e un sistema pensionistico che combina schemi di natura contributiva tanto nel primo quanto nel secondo/terzo pilastro ‐ con conseguente limitatissima redistribuzione verticale, che di fatto si sostanzia nelle modeste prestazioni assistenziali per gli anziani poveri (assegno sociale). Sia il metodo contributivo nel pilastro pubblico sia gli schemi complementari “a contribuzione definita” calcolano infatti le prestazioni pensionistiche in base ai contributi effettivamente versati nella fase di vita attiva, con due conseguenze fondamentali: primo, scaricano il rischio pensionistico (derivante da bassa crescita economica, dinamiche demografiche sfavorevoli, volatilità dei rendimenti sui mercati finanziari, ecc..) sui lavoratori‐assicurati; secondo, e più importante nella prospettiva di questo contributo, questi schemi “riflettono” fedelmente sugli importi pensionistici le dinamiche dell’intera carriera lavorativa, tra cui i sempre più frequenti – alla luce dell’incremento di flessibilità – periodi di disoccupazione ovvero inoccupazione. In altre parole, questi schemi tendono a trasferire nella fase di pensionamento l’insicurezza economica che caratterizza i lavoratori atipici sul mercato del lavoro. Su questo sfondo, negli ultimi anni vari contributi hanno analizzato le prospettive previdenziali delle varie categorie di lavoratori atipici, mettendo in evidenza il rischio di tutela insufficiente per questi lavoratori, che si trovano in effetti in condizione di “svantaggio cumulativo”. Infatti, da un lato essi rischiano di ricevere prestazioni molto modeste nel sistema pubblico – di poco superiori all’importo dell’assegno sociale nelle situazioni più critiche ‐ poiché hanno in genere carriere frammentate da periodi di disoccupazione, ricevono retribuzioni inferiori e in alcuni casi (ad esempio, i cosiddetti parasubordinati) sono stati soggetti ad aliquote contributive più basse rispetto ai lavoratori standard (ora in fase di definitiva armonizzazione). Si consideri, al riguardo, che il livello delle pensioni contributive diminuisce rapidamente in presenza di carriere più brevi: Raitano (2009) ha infatti calcolato una riduzione del tasso di sostituzione di 6 punti percentuali per un lavoratore con 35 anni di contribuzione di 35 anni rispetto a un lavoratore con 40 anni. Dall’altro lato, i lavoratori atipici risultano sostanzialmente esclusi – non de jure, bensì di fatto – dagli schemi di previdenza complementare. In sostanza, ad oggi gli schemi di previdenza complementare non riescono a tutelare proprio quei lavoratori che più avrebbero bisogno di una prestazione pensionistica integrativa alla luce del modesto livello previsto delle pensioni pubbliche. Come hanno inciso su questa situazione le tre riforme recenti adottate dai governi Berlusconi e Monti? Come già anticipato, l’innalzamento dell’età pensionabile, favorendo un più elevato livello atteso delle pensioni nei decenni futuri, potrebbe giovare anche ai lavoratori con carriere atipiche. Tuttavia, la misura più rilevante in proposito è rappresentata dalla clausola, introdotta dalla riforma Fornero, che impedisce il pensionamento all’età pensionabile 4
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“standard” nel caso in cui la prestazione pensionistica pubblica attesa sia inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale ‐ pari a circa 650 euro mensili, un livello non trascurabile alla luce di quanto detto sopra: di fatto, un lavoratore con carriera frammentata e a basso reddito rischia in futuro di dover raggiungere l’età pensionabile massima, prevista attorno ai 73‐74 anni tra il 2040‐2050, per accedere al pensionamento. Tale clausola, che da un lato risolve alla radice il problema dell’adeguatezza, e cioè di pensioni troppo basse per alcuni lavoratori, solleva dall’altro importanti questioni di equità se si considera che l’aspettativa di vita non si distribuisce in modo omogeneo nella popolazione, e tende a essere più ridotta proprio tra le fasce sociali a basso status socio‐economico. Sul punto, e più in generale sul ri‐disegno delle regole pensionistiche al fine di trovare un migliore equilibrio tra sostenibilità, adeguatezza ed equità a fronte di un mercato del lavoro ormai compiutamente post‐industriale, dovrà necessariamente tornare il dibattito previdenziale italiano – peraltro in analogia a quanto sta già avvenendo nel settore della tutela della disoccupazione. Per ragioni di spazio non è questa la sede per delineare specifiche proposte di intervento, e tuttavia il raffronto internazionale con i paesi che hanno già affrontato la sfida di conciliare sistemi pensionistici multi‐pilastro con mercati del lavoro (più o meno) flessibili (Danimarca, Gran Bretagna, Olanda, Svizzera) suggeriscono almeno due grandi vie maestre da seguire (Hinrichs e Jessoula 2012): la prima consiste nella piena integrazione dei lavoratori atipici nei diversi pilastri pensionistici; la seconda prevede il rafforzamento della componente redistributiva del sistema pensionistico pubblico, come recentemente suggerito anche dalla Banca Mondiale (WB 2014). Riferimenti bibliografici Boeri, T., Patriarca, F. e S. Patriarca (2014), Pensioni: l’equità possibile, in “La Voce.Info”, 14.1.14, www.lavoce.info. Jessoula, M. (2009), La politica pensionistica, Bologna, Il Mulino. Hinrichs, K. e Jessoula, M. (a cura di) (2012), Labour market flexibility and pension reforms. Flexible today, secure tomorrow?, Basingstoke, Palgrave. Inps (2014), Trattamenti pensionistici e beneficiari. Anno 2012, http://www.inps.it. MEF ‐ Ministero dell’economia e delle Finanze (2013), Le tendenze di medio‐lungo periodo del sistema pensionistico e socio‐sanitario, Roma. Raitano, M. (2009), I tassi di sostituzione attesi della previdenza obbligatoria e integrativa: alcuni scenari di simulazioneʺ, in Pizzuti F. R. (a cura di) Rapporto sullo stato sociale 2010, Milano, Academia Universa Press. WB‐World Bank (2014), The Inverting Pyramid, http://www.worldbank.org/content/dam/Worldbank/Feature%20Story/ECA/ECA‐Pensions‐
Report‐2014.pdf 5