Divina Commedia. Paradiso

Transcript

Divina Commedia. Paradiso
LECTURA DANTIS
dedicata a Mons. Giovanni Mesini
“il prete di Dante”
Divina Commedia. Paradiso
letto e commentato da
Padre ALBERTO CASALBONI
dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna
Canto XXV
Cielo ottavo o stellato: trionfo di Cristo. Il desiderio del ritorno in patria di Dante. S. Giacomo
esamina Dante sulla speranza. S. Giovanni, sua luminosità e momentanea cecità di Dante.
Per un attimo Dante abbandona il cielo stellato per esprimere un augurio, un desiderio a lungo cullato, e
anche lontano dagli eventi cui sta partecipando, “Se mai continga che ‘l poema sacro/ al quale ha posto
mano e cielo e terra,/ sì che m’ha fatto per molti anni macro”: questo che ormai sta portando a termine
è un “poema sacro” a cui “cielo e terra”, ingegno umano e ispirazione divina, stanno collaborando,
ancora in via, ma che ha già richiesto “molti anni” di duro lavoro sì da renderlo macro, affaticato, da
presagirgli la morte; e allora l’accorata preghiera che tanto lavoro “vinca la crudeltà che fuor mi serra/
del bello ovile ov’io dormi’ agnello”, che gli sia concesso il ritorno in patria; è però consapevole di
avere tanto osato, da agnello fattosi “nimico ai lupi che li danno guerra”; infine, in caso di ritorno, “con
altra voce omai, con altro vello/ ritornerò poeta”, l’auspicio di essere incoronato poeta “in sul fonte/ del
mio battesmo prenderò ‘l cappello”, lì dove ha ricevuto quella fede che rende amici di Dio, e in grazia
della quale, poc’anzi, lo stesso “Pietro per lei sì mi girò la fronte”, l’ha incoronato a conferma della
fedeltà all’ortodossia.
E con questa osservazione ritorna al suo cielo a dirci che da quella medesima spera da cui si era
distaccato Pietro, il primo dei vicari di Cristo in terra, “si mosse un lume verso noi”; a riconoscerlo è
ancora Beatrice che esorta Dante, “mira, mira: ecco il barone/ per cui là giù si vicita Galizia”,
alludendo ai tanti che si recano in pellegrinaggio a Compostela a visitarne la tomba. A significare le
scambievoli effusioni di carità fra Pietro e Giacomo, Dante ricorre alla similitudine dei colombi nell’atto
del reciproco scambio delle effusioni, come “l’uno a l’altro pande” l’affezione.
“Ma poi che ‘l gratular si fu assolto”, entrambi si presentano a Dante “coram me” in silenzio, ma così
splendenti da offuscarne vista. A rompere l’estatico silenzio, espresso dal sorriso di letizia disegnato sul
volto di Beatrice, ridendo, è sempre lei, che volgendosi a S. Giacomo così lo onora “inclita vita per cui
la larghezza/ de la nostra basilica si scrisse”, con allusione alla lettera di S. Giacomo che esalta la
disponibilità divina a ogni dono perfetto; ebbene lui che, insieme a Pietro e a Giovanni, ebbe a godere
della predilezione di Gesù, faccia risuonare in questo cielo la lode alla Speranza, egli sa come,
essendone egli stesso il simbolo, nella vita come negli scritti.
L’Apostolo acconsente e incoraggia Dante, “leva la testa e fa che t’assicuri”, infatti quelli che
ascendono al cielo maturano perfezione ai raggi della carità di quel beato regno; e dunque, se prima era
stato costretto ad abbassare gli occhi, ora può guardare in volto quegli spiriti eccelsi, “ond’io leväi li
occhi a’ monti/ che li ‘ncurvaron pria col troppo pondo”, scoprendo ora in sè inusitate possibilità. Ed è
giunto il momento di dire che cosa sia Speranza al cospetto della schiera dei beati, presentata come una
reggia, aula, alla cui sommità è l’Imperadore con i suoi conti. Lo scopo di tale professione è certo
quello di rendere onore a tale virtù, ma anche di corroborare sé e gli altri, dopo essere stato testimone
dell’oggetto della stessa; dica dunque “dì quel ch’ell’è”, in che misura la sua anima se ne abbellisca, “dì
come se ne ‘nfiora/ la mente tua” e, infine, “dì onde a te venne”: l’intensità della domanda è evidenziata
dalla triplice anafora dì, dica.
Segue l’intermediazione di Beatrice, come già prima dell’esame circa la Fede, che così previene la
risposta di Dante, “la Chiesa militante alcun figliuolo/ non ha con più speranza, com’è scritto/ nel Sol
che raggia tutto nostro stuolo”, in tal modo rispondendo alla seconda delle tre domande, a dire del
grado e della saldezza della speranza del pellegrino in cielo, in grazia della quale gli è stato concesso
che dalla terra “d’Egitto/ vegna in Ierusalemme per vedere,/ anzi che ‘l militar li sia prescritto”, sì da
pervenire qui prima di morire. Egitto è metafora del primo esilio degli Ebrei, come Gerusalemme è della
Patria celeste. Quanto agli altri due punti “che non per sapere/ son domandati, ma perch’ei rapporti/
quanto questa virtù t’è in piacere”, sia lui a rispondere, dice Beatrice, “ché non li saran forti/ né di
iattanza”. Si noti la delicatezza e la finezza tutta femminile nell’assumersi il compito di rispondere al
secondo quesito per impedire a Dante di parlare di sè, al fine di evitargli ogni forma di orgoglio, per
quanto legittimo; quanto agli altri due punti “non li saran forti/ né di iattanza”, né difficili né motivo di
vanagloria; e allora che “la grazia di Dio ciò li comporti”, lo assista nel suo dire. E come già sulla Fede,
anche sulla Speranza siamo in un’aula universitaria, reggia del sapere, e “come discente ch’a dottor
seconda/ pronto e libente in quel ch’elli è esperto,/ perché la sua bontà si disasconda”, come discepolo
sollecito e volenteroso, si dispone Dante a rispondere circa il primo quesito, con gli argomenti sui quali
è “esperto”, ben preparato.
“Spene... è un attender certo/ de la gloria futura, il qual produce/ grazia divina e precedente merto”. La
definizione comporta l’atteggiamento mentale di certezza, l’attender certo, su ciò che costituisce
l’oggetto stesso dell’attesa, la gloria futura, che certo è un dono di Dio, la grazia divina, ma che nel
contempo esige l’apporto personale, precedente merto, la corrispondenza alla gratuità.
Segue poi la risposta al terzo quesito “onde a te vene”; e qui il discorso si fa più articolato, essendo
molteplici le fonti, “da molte stelle mi vien questa luce”, e tutte dalla Sacra Scrittura, ad iniziare dal
Salmo, di cui cita il nono versetto, “sperino in te quanti conoscono il tuo nome”, salmo che Dante
definisce tëodia, canto in lode di Dio; indi, come a confermare le parole di Beatrice sulla solidità della
sua Speranza, eleva come un grido “e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?”; è poi la volta dell’Epistola dello
stesso Apostolo, “tu mi stillasti, con lo stillar suo,/ ne la pistola poi”, dove nella ripetizione del verbo
stillare possiamo leggere un calco biblico di attesa del Messia; “sì ch’io son pieno,/ e in altrui vostra
pioggia repluo”, a ribadire la pienezza in lui di questa virtù, sì da farla rifluire “in altrui”. Il beato è
entusiasta, “dentro al vivo seno/ di quello incendio” vi “tremolava un lampo/ sùbito e spesso a guisa di
baleno”, che gli fa dire: “l’amore ond’io avvampo/ ancor ver’ la virtù che mi seguette/ infin la palma e
a l’uscir del campo” come a confermare la solidità che fu in lui fino a guidarlo al martirio, detto con i
sintagmi palma/campo; questo amore, che lo spinge a rivolgersi ancora a Dante, “vuol ch’io respiri a te
che ti dilette/ di lei”, lo porta a chiedergli ancora il preciso oggetto della Speranza, “ed emmi a grato che
tu diche/ quello che la speranza ti ‘mpromette”, E Dante ritorna alla Scrittura, “le nove e le scritture
antiche/ pongon lo segno, ed esso lo mi addita,/ de l’anime che Dio s’è fatto amiche”: le Scritture
additano la misura, il segno: l’amore di Dio verso ciascun’anima, è commisurato dal grado del possesso
di questa virtù, secondo le parole di Isaia “che ciascuna vestita/ ne la sua terra fia di doppia vesta”,
laddove la doppia veste si riferisce alla misura della gloria e dell’amore che la Speranza genera, visto
che, di fronte alla visione la speranza cessa, come del resto conferma Giovanni, l’apostolo dell’amore “e
‘l tuo fratello assai vie più digesta,/ là dove tratta de le bianche stole,/ questa revelazion ci manifesta”,
con riferimento alla risurrezione dei corpi.
“Sperent in te” è il grido che dapprima echeggia nell’alta sfera ad accogliere le ultime parole del Beato,
cui segue la danza di “tutte le carole”; indi di “tra esse un lume si schiarì”, un lume cominciò a brillare
intensamente, molto più degli altri, tale che se la costellazione del “Cancro avesse un tal cristallo,/
l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì”, non vi sarebbe mai notte per un intero mese. “Lo schiarato
splendore” si avvicina agli altri due con la naturalezza della fanciulla che si inserisce nella danza per
fare onore alla sposa; Pietro e Giacomo lo accolgono “qual conveniesi al loro ardente amore”. Beatrice,
come sposa silente, li fissa, e senza muover ciglio lo annuncia, “questi è colui che giacque sopra ‘l
petto/ del nostro pellicano, e questi fue/ di su la croce al grande officio eletto”, a ricordarne la presenza
alla Cena e alla Crocifissione. Dante rimane abbagliato dalla sua luce come chi guarda direttamente
l’eclisse parziale del sole; e Giovanni, sfatando la credenza che anch’egli fosse asceso al cielo con il
corpo, gli dice che non è il caso di rimanere abbagliato, visto che il suo corpo è in terra come quello di
tutti, “qui non ha loco”, tranne appunto quelli di Gesù e di Maria, “con le due stole nel beato chiostro/
son le due luci che saliro”; come tutti gli altri, egli lo riprenderà al Giudizio universale, quando sarà
completo il numero dei salvati; “e questo apporterai nel mondo vostro”. Con questa missione affidatagli
da Giovanni, “l’infiammato giro/ si quïetò”, i tre apostoli sostano, come pure la danza e il canto,
all’unisono, a guisa di rematori al fischio del timoniere. “Ahi quanto ne la mente mi commossi,/ quando
mi volsi per veder Beatrice, per non poter veder, benché io fossi/ presso di lei, e nel mondo felice!”; e
non vederla! quale disappunto non vederci più, qui, “nel mondo felice”, cieco solo per aver osato
guardare l’insostenibile luce di Giovanni.