Canto XXX - Centro Dantesco

Transcript

Canto XXX - Centro Dantesco
LECTURA DANTIS
dedicata a Mons. Giovanni Mesini
“il prete di Dante”
Divina Commedia. Paradiso
letto e commentato da
Padre ALBERTO CASALBONI
dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna
Canto XXX
Cielo decimo o Empireo: Dio, angeli e beati. Dante vi arriva. Fiume di luce. La “candida rosa” e la
corte angelica. Il seggio vuoto di Arrigo VII.
È l’alba, manca un’ora al sorgere del sole, mentre sulla terra, lontana “forse seimila miglia”, è
mezzogiorno, quando il Poeta si accinge a lasciare i nove cieli che all’orizzonte si eclissano come da noi
le stelle all’apparire della luce del giorno: il tutto espresso con ampia perifrasi tratta dal mondo
dell’astronomia, e il numero delle miglia questa volta vuole essere un dato scientifico preciso, non già
metaforico. E dunque, mentre qui da noi “ci ferve l’ora sesta”, e la terra proietta la sua ombra
inclinandola verso il piano, allo zenit, lì, dove egli si trova, il cielo si sta chiarendo all’avanzare de “la
chiarissima ancella/ del sol”: e come sulla terra, sul far del giorno, le stelle ad una ad una scompaiono
alla vista “perde il parere”, e tutte si eclissano “di vista in vista infino a la più bella”, così lì, “al mio
veder si stinse”, si eclissò, “il trïunfo che lude/ sempre”, il tripudio angelico che sempre inneggia a Dio
“al punto che mi vinse”. Scompare ormai alla vista l’universo creato, i nove cieli; rimane il luogo senza
luogo, la mente di Dio, il cielo Empireo, il paradiso vero, senza tempo, senza spazio, senza confine.
Pertanto, nell’istante del trapasso, “nulla veder e amor mi costrinse” a “tornar con li occhi a Bëatrice”,
ora così splendida che, tutto quello che di lei fin qui ha detto, seppur condensato “in una loda”, poco o
nulla direbbe di questa Beatrice così trasfigurata alle soglie dell’Empireo; e precisa “la bellezza ch’io
vidi si trasmoda/ non pur di là da noi, ma certo io credo/ che solo il suo fattor tutta la goda”, ed è
espressione ardita, metafora poetica che ci riporta al Genesi, alla meraviglia di Dio stesso nei confronti
del suo creato; e dunque bellezza nuova quella di Beatrice che solo il suo Fattore può comprendere in
tutta la sua intensità e compiacersene: “si trasmoda”, oltrepassa il nostro modo, la misura delle capacità
di un ente creato di comprenderla e di dirla: è l’ineffabile; e ancora, al solo ricordo, gli vien meno la
mente come a colui che mira il sole e gli vien meno la vista “lo rimembrar del dolce riso/ la mente mia
da me medesmo scema”. E insiste: “dal primo giorno ch’i vidi il suo viso/ in questa vita, infino a questa
vista,/ non m’è il seguire al mio cantar preciso”, ossia dal primo vederla ho sempre tentato di rendere in
versi o in prosa il suo sorriso, “ma or convien che mio seguir desista/ più dietro a sua bellezza,
poetando,/ come a l’ultimo suo ciascuno artista”, ma ora poeta e poesia sono impari, non si può che
desistere di fronte all’impossibile delle capacità umane. Altri la canterà “la lascio a maggior bando/ che
quel de la mia tuba”, non certo uno di noi, ma solo Colui che può intenderla nel suo fulgore, riandando
a quel fattor che solo tutta la gode.
Egli invece procederà nel suo compito. Riprende così Beatrice la funzione di guida: “noi siamo usciti
fore/ del maggior corpo”, eccoci ormai fuori dell’Universo creato, fuori dal Primo Mobile, giunti “al
ciel ch’è pura luce”, l’Empireo; a descriverlo si serve dell’artificio retorico della concatenazione; solo il
più grande poeta teologo poteva rendere con una terzina dal climax concettuale il Paradiso, che è “luce/
luce intellettüal, piena d’amore;/ amor di vero ben, pien di letizia;/ letizia che trascende ogne dolzore”;
ogni termine della concatenazione genera e si fonde con il successivo in un meraviglioso crescendo:
luce d’intelletto, amore, letizia oltre ogni gaudio: originale sintesi di un’eterna beatitudine che mai più
precisa fu scritta, di angeli e beati insieme, “qui vederai l’una e l’altra milizia/ di paradiso”. Indi si
sprigiona un baleno che vince la facoltà visiva di Dante, del resto sempre impari alla crescente
beatitudine; ancora straordinaria la sequenza lessicale dell’evento straordinario: lampo, spiriti visivi,
occhio, luce viva, fulgor; ne è abbagliato!
Beatrice lo invita a non più sorprendersi, “sempre l’amor che queta questo cielo/ accoglie in sé con sì
fatta salute, per far disposto a sua fiamma il candelo”, questa luce d’amore accecante è come il
crogiuolo che vaglia l’oro, preambolo a recepire la fiamma; all’istante “io compresi/ me sormontar di
sopr’ a mia virtute”, a compimento dell’iniziale trasumanar; “di novella vista mi raccesi/ tale, che nulla
luce è tanto mera,/ che li occhi miei non si fosser difesi”, in grado ormai di fissare ogni luce, per quanto
mera; e vede e fissa un “lume in forma di rivera/ fulvido di fulgore, intra due rive/ dipinte di mirabil
primavera”, con i beati, quali faville vive, fiori, “rubin che oro circunscrive”, “inebrïate da li odori”, nel
miro gurge, vertiginoso vortice di beatitudine, che la similitudine gaia di un fiorir di primavera appena
rende. Di fronte alla meraviglia, comprende Beatrice la sete di sapere di Dante “l’alto disio che mo’
t’infiamma e urge,/ d’aver notizia di ciò che tu vei” e se ne compiace; ma, dice, prima di sapere fino in
fondo la realtà devi prima accontentarti di vedere in figura di fiume, di faville e di fiori, “prima che
tanta sete in te si sazi”; infatti “il fiume e li topazi/ ch’entrano ed escono e ‘l rider de l’erbe/ son di lor
vero umbriferi prefazi”, ancora per Dante sono pure immagini a nasconderne l’identità, dal momento
“che non hai viste ancor tanto superbe”, capaci a discernere di che cosa siano immagine. E, dunque, lo
spettacolo nasconde altro; occorre penetrare nel vero, superare la figura, ancora e sempre strumento; ma
al vero anela la mente di Dante, più che il fantin al latte materno, “non è fantin che sì sùbito rua/ col
volto verso il latte, se si svegli/ molto tardato dall’usanza sua”, e corre la mente di Dante all’acqua della
conoscenza vera della quale mai è sazia e “chinandomi a l’onda/ che si deriva perché s’inmegli”, e
correndo a bere di quell’acqua, vede quel fiume di lungo farsi tondo, lago; e, come di persone che si
tolgono la maschera, “così mi si cambiaro in maggior feste/ li fiori e le faville, sì ch’io vidi/ ambo le
corti del ciel manifeste”, lo splendore di Dio, angeli e beati, non più fiori e faville! “io vidi/ l’alto trïunfo
del regno verace”; e come descriverlo? o Dio “dammi virtù a dir com’ïo il vidi!”.
Lassù vi è una luce che consente la visione di Dio, il lumen gloriae, “lume è la sù che visibile face/ lo
creatore a quella creatura/ che solo in lui vedere ha la sua pace”: è la prima delle sei terzine che
introducono alla presentazione della candida rosa, terzine dall’andamento regolare, argomentativo,
lento, a seguire la meraviglia del primo incanto; lassù, dice, c’è una luce che rende visibile il Creatore
alle creature, l’oggetto del loro desiderio innato; e questo fiume di luce si stende in forma circolare,
quasi una cintura, ma talmente ampia che sarebbe “troppo larga” anche per il sole; ed è come un lucente
raggio di luce che si riflette sul Primo Mobile “che prende quindi vivere e potenza”, da questo infinito
cielo sgorga la vita che scende poi di cielo in cielo fin laggiù sulla terra. “Come clivo in acqua di suo
imo si specchia”, come un colle fiorito che a primavera si specchia nelle acque pure e profonde
sottostanti che ne riflettono erbe e fiori, così sopra quella cintura luminosa “vidi specchiarsi in più di
mille soglie/ quanto di noi là sù fatto ha ritorno”, tutte le creature tornate al Creatore: “E se l’infimo
grado in sé raccoglie/ sì grande lume, quanta è la larghezza/ di questa rosa ne l’estreme foglie”, e
questo, dice Dante, era il raggio circolare più basso, immaginarsi quello più alto. Ora la vista di Dante è
pari allo stato in cui si trova “la vista mia ne l’ampio e ne l’altezza/ non si smarriva, ma tutto prendeva/
il quanto e ‘l quale di quella allegrezza”; ecco il prodigio, lì non esiste realtà o concetto di spazio,
lontano/vicino, prerogativa della materia, con le sue leggi, “presso e lontano, lì, né pon né leva:/ che
dove Dio sanza mezzo governa,/ la legge natural nulla rileva”, legge della materia appunto. “Nel giallo
de la rosa sempiterna,/ che si dilata ed ingrada e redole/ odor di lode al sol che sempre verna”: al
centro della rosa, dove in ogni suo petalo si canta la lode a Dio che irraggia l’eterna primavera, è tratto
da Beatrice, che lo invita: “mira/ quanto è ‘l convento de le bianche stole!”, questa candida rosa è la
nostra sede ormai completa, dagli “scanni sì ripieni/ che poca gente più ci si disira”. E il pensiero torna
a noi: pochi gli scanni ancora vuoti: a dire della fine prossima del mondo o che in questa Umanità così
disastrata pochi ancora si salveranno? A questo sembra alludere la chiusa del canto; sopra un gran
seggio vuoto c’è un diadema a custodirlo, “prima che tu a queste nozze ceni,/ sederà l’alma, che fia giù
agosta,/ de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia/ verrà in prima ch’ella sia disposta”, invano! poiché la “la
cieca cupidigia che v’ammalia” vi ha reso come il bimbo che ha fame e scaccia la nutrice; ma la colpa
risiede in chi “fia prefetto nel foro divino”, un papa “tal, che palese e coverto/ non anderà con lui per un
cammino”, ma non passerà molto tempo e si scoprirà: questo Clemente V, che con i fatti contraddice le
parole nei confronti dello stesso Arrigo. Discorso questo ancor più amaro se si pensa che sono le ultime
parole di Beatrice, e in questo luogo! ma “poco poi sarà da Dio sofferto/ nel santo officio: ch’el sarà
detruso/ là dove Simon mago è per suo merto,/ e farà quel d’Alagna intrar più giuso”, nel cerchio
infernale dei simoniaci, di Nicolò III, di Bonifacio VIII e di quelli poco sopra condannati dallo stesso
Pietro!