Delitto di Immagine

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Delitto di Immagine
Delitto di Immagine - Massimo Fini
Nel venticinquesimo anniversario del tragico pomeriggio di Dallas si assiste a un diluvio di
rievocazioni nostalgiche di John Kennedy. Dopo un quarto di secolo la sua leggenda resta
intatta, anzi si incrementa. Anche perché pochi, in America, e la cosa è abbastanza spiegabile,
ma anche in Europa, e lo è meno, hanno voluto andare a guardare negli occhi questa leggenda.
In realtà proprio con John Fitzgerald Kennedy inizia un'era sinistra della storia politica, non solo
americana, in cui si afferma il principio che l'immagine fa premio sulla sostanza, la forma sul
contenuto, la rappresentazione sulla realtà. Con Kennedy si entra a vele spiegate in quella
politica-spettacolo, oggi diventata norma, dove il successo d'un leader dipende dalla capacità,
sua e del suo staff di pubblicitari, di bene impressionare i mass media più che da ragioni di
sostanza. Dwight Eisenhower, il predecessore di Kennedy, fu eletto perché era il generale che
aveva guidato gli Stati Uniti alla vittoria sui nazisti. Quando Kennedy divenne presidente era
solo il rampollo più ruspante d'una potente famiglia americana, piuttosto losca, che si era
arricchita durante il proibizionismo. Ma Kennedy era belIo e gentile di aspetto, era gIovane, era
sorridente, aveva un bel ciuffo, una bellissima moglie, dei bellissimi bambini, si faceva scrivere
dai suoi ghost writer, Goodwin e Soresen, frasi come: «Non chiedetevi ciò che il paese può fare
per voi, ma ciò che voi potete fare per il paese». E fu subito mito massmediologico. Ciò
consenti al bel ciuffo di tentare un vergognoso e disastroso colpo di Stato a Cuba, di dare inizio
alla guerra del Vietnam (diventata, chissà perché, «sporca» solo col suo successore), di
accelerare la corsa agli armamenti nucleari, che in quel periodo superarono di tre volte quelli
dell'Urss, ma di passare ugualmente alla storia come il presidente degli Stati Uniti che più
aveva amato la pace e la coesistenza; Nixon invece era brutto, aveva una faccia antipatica, e a
nulla gli valse aver chiuso la guerra del Vietnam ed essersi riaccostato, con felice intuizione
politica oltre che con benefici effetti sulla distensione internazionale, alla Cina: rimase sempre
«Nixon boia». La presidenza di John Kennedy fu caratterizzata da un nepotismo, un
clientelismo, una corruzione scandalosi, ma ciò non gli impedì, in virtù del bel ciuffo, d'essere
unanimemente considerato il campione, duro e puro, della democrazia. Nel processo di
beatificazione, Kennedy è spesso accomunato a Nikita Kruscev e a papa Giovanni, considerati,
tutti e tre, più o meno per gli stessi motivi di immagine, come gli interpreti di una stagione
indimenticabile, di una mitica età dell'oro, della pace e della speranza per gli uomini di buona
volontà. Anche di Kruscev piacque l'aria bonacciona, contadina e furba, il suo parlar per antichi
proverbi russi, la sua umoralità che lo portava a sfilarsi una scarpa all'Onu e a sbatterla sul
tavolo, cosa che lo rendeva umano, molto umano. Poco importa che al momento del dunque,
quando nel '56 gli ungheresi insorsero per togliersi di dosso il tallone di ferro dell'Unione
Sovietica, il contadino tanto umano si sia comportato esattamente come si sarebbe comportato
Stalin: mandando i carri armati a spianare nel sangue la rivolta ungherese bollata, in stile
perfettamente Ghepeù, come «complotto di elementi nazifascisti». In quanto a papa Giovanni
sarà stato anche «buono», non discuto, ma fu promotore d'un Concilio, il Vaticano Il, dai cui
sconquassi la Chiesa sta solo oggi, a fatica, riprendendosi. In realtà la tanto decantata triade
Kennedy-Kruscev-papa Giovanni è stata, a mio parere, una delle più nefaste apparse sulla
scena politica mondiale del dopoguerra. Troppo spesso, forse, ci si dimentica che fu proprio
durante questa mitica età della pace che il mondo, con la crisi di Cuba, andò più vicino di
quanto mai lo sia stato alla terza guerra mondiale. Ma tant'è. È da tempo che preferiamo vivere
di immagini e di apparenze che altro non sono, se andiamo a ben guardare, che strette parenti
della retorica (per Savinio retorica è sproporzione fra immagine e realtà). Quando papa Luciani
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salì al Soglio centinaia di penne, penne laiche, laicissime, si esercitarono a trarre dal suo
sorriso formidabili e felicissimi auspici per il futuro dell'umanità. E quando un Dio pietoso e poco
rispettoso della retorica fulminò Luciani dopo solo un mese di pontificato, queste penne non si
scomposero affatto ma si diedero ad applicarsi nel medesimo modo a Wojtyla. Durante il
settennato di Pertini fummo asfissiati dalla retorica dell'umiltà, della modestia, della democrazia
del presidente che «si comporta proprio come uno di noi» perché ogni tanto si fermava a
prendere un caffè al bar. Nessuno si interessò al fatto che Pertini avesse, fra le altre, l'abitudine
di telefonare ai direttori di giornale per chiedere il licenziamento in tronco dei giornalisti che non
esaltavano le sue virtù democratiche. Del resto la retorica del «proprio come uno di noi» è una
delle più pericolose e subdole. Perche è una retorica democratica e perciò più difficile da
riconoscere. È quindi con un certo sgomento che leggo su 7 a proposito di John Kennedy jr: «Il
peso del nome glorioso non lo ha guastato. Suona la chitarra, va all'università in blue-jeans... L'
America lo considera il principe ereditario della sua dinastia senza trono». Siamo pronti a
cascarci di nuovo: a confondere la democrazia con i blue-jeans.
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