La giustizia può fare a meno della messinscena? Chiunque
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La giustizia può fare a meno della messinscena? Chiunque
La giustizia può fare a meno della messinscena? Chiunque partecipi ad un'udienza di tribunale non può fare a meno di notare i numerosi simboli e le scenografie che caratterizzano l'attività processuale. Partendo dall'abbigliamento dei giudici, la toga è la più antica tra le consuetudini rituali ancora in vigore. Essa costituisce uno schermo protettivo che non può far altro che ingenerare un senso di superiorità e responsabilità, tanto che un giudice potrebbe comportarsi diversamente rispetto a come farebbe se fosse spogliato di tale abito. Essa consente una perfetta immedesimazione di colui che la indossa con il personaggio, incarna la vittoria dell'apparire sull'essere. Indossando la toga, il giudice, l'avvocato ed il pubblico ministero, indossano anche un ruolo che li esonera dalla responsabilità soggettiva dei loro atti. In qualche senso, la toga, maschera gli individui che ricopre, li spersonalizza. Mascherando l'elemento umano, la giustizia viene mistificata; il costume non magnifica la persona, quanto piuttosto la funzione e l'ordine sociale che ha fornito l'investitura. Inoltre, il rituale processuale si compone di gesti che insinuano la gravità e la insignificanza di un gioco. Il corpo, è il punto di riferimento primordiale di ogni esperienza, la postura di ciascun attore nel processo è predeterminata; ad esempio sappiamo che in piedi si depone, si risponde alle domande del presidente e si arringa. Le “prescrizioni corporali” riguardano anche i giudici, il pubblico ministero ad esempio, si alza per le sue requisitorie e sta seduto per porre domande; comunemente è colui che si erge, si indigna e si oppone, accusa non solo con le parole ma anche con i gesti, con l'indice puntato. Il giudice, invece, resta seduto, ascolta, raccoglie pareri e riflette; la sua ritualità è più discreta. Durante il dibattimento, al pubblico è imposto un religioso silenzio, ma il momento in cui questo silenzio è davvero inquietante è quello in cui ha inizio il processo, quasi a dire che di lì a poco vi sarà un evento molto importante. Ma, l'aula d'udienza è anche il regno delle parole: se la legge è scrittura, la giustizia è oralità. La voce del presidente sarà neutra e priva di eccessi, quella del pubblico ministero sarà sempre più marcata nel corso della requisitoria, fino a raggiungere toni forti e vendicativi. L'accusato risponderà per lo più con monosillabi, la sua voce sarà flebile ed insicura, tale che, i migliori alibi potranno infrangersi sullo scoglio della giuria a causa di un tono di voce sbagliato e poco convincente. La voce dell'avvocato è invece molto rassicurante, egli di rado si servirà del microfono, preferendo muoversi in tutto lo spazio a sua disposizione. La sua voce sarà di volta in volta, violenta, glaciale o commossa, dovrà carpire l'attenzione; spesso ricorre all'uso della prima persona singolare, identificandosi così con il cliente e rafforzando la sua credibilità e le sue giustificazioni. Un vasto movimento di “ deformalizzazione ” della giustizia si è imposto nel corso del Novecento negli Stati Uniti, in Europa e soprattutto in Francia. Si sostiene che la cerimonia non agevola né la comprensione della causa, né della personalità di colui che deve essere giudicato. La giustizia informale propone di sostituire alla messinscena l'immediatezza del dialogo, del confronto, che meglio si prestano a sviscerare la personalità di chi si ha di fronte. Per essere più giusta, la giustizia deve comprendere meglio. La giustizia informale è quella che si svolge nello studio del giudice, la quale abbandona ogni riferimento al rituale. Si giunge ad una banalizzazione dei luoghi della giustizia ed il momento del giudizio diviene sempre meno identificabile con precisione: alla giustizia si chiede di rispondere in tempo reale a qualsivoglia sollecitazione. L'intensità del rapporto che la giustizia informale crea tra giudice e utente, svilisce il principio del contraddittorio. Nel processo penale tradizionale, l'avvocato, instaurando un rapporto di fiducia con il suo cliente, lo conoscerà meglio di quanto sia concesso al giudice; nel processo minorile (che può essere qualificato come informale), invece, il giudice incontra il ragazzo e la sua famiglia più spesso di quanto non accada al difensore. La giustizia informale tende all'intimismo, vuole interferire il meno possibile nella vita privata dei soggetti, crede che le cose si aggiustino spontaneamente, senza il doveroso ricorso alle artificiose categorie del diritto; nella sua visione il criminale non è un ribelle o un nevrotico, quanto un individuo fragile in guerra con se stesso. In tal modo ci si dimentica che la giustizia costituisce luogo di confronto, prima di tutto con la vittima; il riconoscimento pubblico della sua qualità di innocente, è altrettanto importante della condanna del suo aggressore. Nel processo, fondamentale è il dialogo e il dibattito tra le parti, e la decisione non può essere frutto di un giudizio immediato, bensì il risultato di un'attività interpretativa. Un'altra conseguenza della giustizia informale è l'impoverimento dei simboli, eludendo il linguaggio simbolico, il legislatore ha privato gli utenti del silenzio e della fissità dei simboli che riescono ad essere più eloquenti dei lunghi discorsi di un magistrato. Nel momento in cui il giudice notifica oralmente la sua decisione, illustra agli utenti della giustizia i loro diritti, riunendo così nella sua persona il compito di spiegare la legge e giustificarne il fondamento. Se un tempo, il giudice, traeva la propria autorità da un' investitura simbolica, ora appare come l'incarnazione vivente della giustizia e della legge. Il giudice è sedotto dalla tentazione di identificarsi con il legislatore e l'utente diventa preda di tale immaginario, trovandosi di fronte ad un giudice onnipotente. Privato dei suoi simboli, il diritto appare incerto, disorientato, certo che il rituale ha i suoi punti deboli, primo tra tutti il suo carico di violenza, ma questo è un rischio connaturato al principio stesso della pubblica accusa. Emerge, in conclusione, una “ragion d'essere” del gioco, dell'elemento ludico e teatrale che riveste ogni forma di vita sociale, anche se, non è men vero che il rituale non sempre ha attori alla sua altezza, molti sono come preti con la cattiva coscienza e senza fede che trasformano, o meglio deformano il senso del rito. Angela Galeotti