Limbania_Fieschi_files/quando il feticcio

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Limbania_Fieschi_files/quando il feticcio
Quando il feticcio diventa racconto
Il sesso è stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere.
Woody Allen
Questa personale di Limbania Fieschi, voluta non casualmente da Caterina
Gualco, gallerista e attenta cultrice del fenomeno artistico Fluxus,
frequentatrice frequentata da protagonisti del movimento come i due Ben,
Patterson e Vautier, è una mostra A Luci rosa: rosa carne, rosa confetto, rosa
maiale, colore prediletto quest’ultimo da una Lady Gaga stilista.
Erotismo e Kitsch sono la tematica di base della mostra di Ania Limb,
anagramma di Limbania, nome originario di una santa nativa di Cipro, in
passato dominio genovese, vissuta nel secolo XII e talmente amata a Genova
che ne viene decapitato il cadavere per duplicarne le reliquie, tanto preziose
quanto rare. Si racconta che la beata vivesse in grande penitenza,
flagellandosi con verghe e pettini di ferro, in una cavità sotto il pavimento della
cucina del monastero cistercense della Chiesa di San Tomaso, dove venne poi
creata una cappella a lei dedicata. Insistendo sugli effetti e la risonanza sacrale
del nome, vien fatto di ricordare che la famiglia patrizia genovese degli Adorno
annovera, nel Quattrocento, tra le sue presenze femminili una Limbania
monaca nel monastero di S. Maria delle Grazie, nonché sorella di Caterinetta
Fieschi Adorno, autrice del Trattato del Purgatorio, beatificata, dopo una vita di
mortificazione estrema. Ancora alla Santa Limbania cipriota è dedicata la
calata omonima, sita nell’arco del porto di Genova. È ipotizzabile che per la
figlia il nome di Limbania sia stato deciso scientemente da una figura paterna
della cultura mitteleuropea e della sensibilità estetica di un Giannetto Fieschi,
artista, recentemente scomparso, internazionalmente riconosciuto quale
ideatore di un linguaggio pittorico arcano-simbolico con inflessioni
espressioniste e iscrizioni gotiche. Visionarietà, ironia, senso dell’ineluttabile,
non difettano certo in Ania Limb, anagramma che riflette lacanianamente la
père version, la versione del padre, che suona omofona, evidentemente, al
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termine perversione. Come possono, in questo raffinato, colto e nobile clima di
santità diffusa, misticamente permeata di autoflagellazione, non risuonare
all’orecchio le parole di Anatole France quando dice che «Facendone un
peccato, il cristianesimo ha fatto molto per il sesso»?
Il sesso, l’erotismo e i suoi feticci, appunto, ricorrono nell’opera di Limbania
Fieschi sotto forma di abitini della sua infanzia o di oggetti da sexy shop come
membri di plastica, bambole gonfiabili, seni di silicone, piume, scarpe dai tacchi
a spillo, rossetti, parrucche bionde, stivali sadomaso. Come non ricordarla già
Bad Girl nella rassegna sull’”altra metà del cielo”, recentemente realizzata da
Caterina Gualco e Clelia Belgrado a UnimediaModern e Vision Quest, tra le più
radicali compagne di avventura come le storiche Carol Rama, Meret
Oppenheim, Niki de Saint Phalle e le contemporanee Nan Goldin, Tracey
Emin, Kiki Smith, Bettina Rheims, Laura Zicari, Ivana Falconi?
Tutta la sua opera è sottesa all’incessante sostituzione del surreale al reale, in
particolare nei suoi dipinti a tecnica mista di soggetti in procinto di gustare un
gelato o divorare una bistecca (Entra dentro di me I e II, 2007, 2009), cibi che
resteranno tuttavia, come un miraggio, sospesi nel vuoto senza mai arrivare a
deliziare le rispettive papille gustative; in questi brutali profili avidamente
protesi verso l’alto, imprevedibilmente si accende una zona del cervello o il
naso.
Tra i corpi violati e contorti delle poupée grandeur nature del gotico Hans
Bellmer, adolescenti dallo sguardo cristallizzato in una fissità sofferente eppur
seducente e le bambole teatralmente meccaniche del bauhausiano Oskar
Schlemmer, le bambole Self-Portrait di Ania Limb parlano il linguaggio criptico
del simbolo, vivono indifferentemente l’innocenza o il vizio, adagiate come
sono su una sedia interamente ricoperta da una cerata bianca: corpi vuoti,
punteggiati da due minuscoli seni di plastica, sormontati da una testa con
parrucca bionda e occhioni azzurri sgranati alla Goldie Hawn, con alla base un
paio di scarpette sexy, immancabilmente rosse o nere.
La sua ironia, sul terreno delle pulsioni erotiche, rimuove con delicatezza e
humour malinconico la censura dei tabù. Quando il soggetto che esercita
l’ironia coincide con l’oggetto ironizzato allora si approda all’autoironia.
Limbania la utilizza come strumento espressivo su un versante e, sull’altro,
come condizione in cui il comico non intende indurre al riso, ma
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sensibilizzare, forse, su possibili problematiche esistenziali, sollevando
situazioni di carattere relazionale nei confronti del mondo, della famiglia, del
sesso, della procreazione, del lavoro, degli affetti. Talvolta le sue creature,
riflessi prossimi o remoti del suo doppio, assemblate, disegnate al computer,
dipinte, entrano ed escono, maliziosamente o ingenuamente, da territori
onirici, sovente recitando nonsense come Kiss my lips mentre si presentano
con un volto senza bocca, vivendo una crisi acuta di identità quando
dichiarano I’m not what I am. Particolarmente sensibile e vibratile è il suo
segno quando delinea nudi femminili su sconfinati fondi rosa. Le sue
innumerevoli Barbie, icone della donna americana anni Sessanta, utilizzate
disinvoltamente come micro-feticci usa e getta, si fanno sculacciare, usare
come giocattoli del sesso, accendere o spegnere come paralumi, quando non
assumono, a dispetto della loro perfezione fisica, pose erotico-ginniche
grottesche, collocabili fra il tenero e il patetico. Nelle sue concertazioni in
rosa, giulive sono le sue piccole Susanne gonfiabili, mesti i volti e i busti
maschili, allucinati e danzanti i suoi Animaletti, in serie i suoi Bambini,
impietosi i suoi Autoritratti, colte in imbarazzo, nell’immagine pubblicitaria, le
sue donne nei giorni del mestruo, nude ma calzate con scarpette azzurre e
fiori tra i capelli le sue Barbie rapite da King Kong, fatali, sexy e sdegnosi i
suoi nudi femminili anche quando sognano, senza mai sfiorarli, nuvolette di
membri eretti. Particolarmente coinvolgenti tanto nella celebrazione della
bellezza che nell’umiliazione sessuale di un’oggettistica da sexy shop, i suoi
ritratti Ancien Régime di una Marie Antoinette, la bionda Autrichienne
decapitata, figura regale celebrata in letteratura da Leopardi, Dumas padre
fino a Stefan Zweig, ammirata e derubata dal ladro-gentiluomo Arsenio Lupin,
musicalmente omaggiata da Haydn, dal gruppo rock dei Queen, da un exleader dei Pink Floyd, impersonata nel cinema dai volti mitici di Norma
Shearer e Michèle Morgan, evocata come compositrice in un film di Sofia
Coppola, perfino eroina sacrificale nei manga giapponesi.
Quando Jean Baudrillard pone l’accento sul feticismo dell’oggetto di consumo
che caratterizza la nostra civiltà, con l’ineludibile conseguenza di una
reificazione dell’individuo, preconizza lucidamente la fine della scena della
storia, della scena del politico, della scena del fantasma, della scena del
corpo, anticipando profeticamente la fine del segreto davanti alla galoppante
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e inarrestabile irruzione dell’osceno. È alla luce di tutto questo che le
ossessioni, il rimosso, la pornografia, di innocente malizia, di Limbania
Fieschi hanno perso segreto e intimità per divenire, come non ha mancato di
puntualizzare ancora Baudrillard in Les stratégies fatales, un’oscenità fuori
scena (obscène hors-scène), irrappresentabile perché presentata nella sua
più assoluta trasparenza.
Il messaggio sotteso all’opera di Limbania Fieschi potrebbe essere quello di un
feticcio che diventa il racconto di un corpo in frammenti, quello di un desiderio
che tende a risolversi in un gioco erotico senza pathos, congedando il ciclo di
un’umanità che ha finito per riconoscersi nel riflesso della propria un’immagine.
Con l’elegante nonchalance di un Lord Byron, Ania Limb, tuttavia,
è
consapevole del fatto che se Il piacere è un peccato, qualche volta il peccato
è anche un piacere.
Viana Conti
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