Strinam Svabhava. Un esempio di misoginia al
Transcript
Strinam Svabhava. Un esempio di misoginia al
Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo STRĪṆĀM SVABHĀVA. UN ESEMPIO DI MISOGINIA AL FEMMINILE. MARIO RUSSO La questione femminile nella cultura indiana offre innumerevoli spunti di riflessione sui rapporti tra le diverse componenti del tessuto sociale del subcontinente, dai tempi più antichi sino ai nostri giorni. Il ricchissimo patrimonio letterario dell’India permette, fortunatamente, di definire quale fosse il ruolo della donna nell’ambito della vita del villaggio, il grāma, e anche del microcosmo familiare. Possediamo, quindi, gli strumenti sufficienti per scrivere la storia di una sconosciuta donna dell’India vedica e delle sue discendenti, spaziando dalla vita domestica alla vita sociale, dal suo ruolo di donna nel pieno dell’esistenza come figlia, sposa, madre, alla fine della stessa, molto spesso come individuo indesiderato di cui la società auspica la scomparsa. Il tema centrale di questo studio, inserito nell’ampia tematica dello studio delle passioni nel mondo indiano, è un aspetto apparentemente ignoto all’animo femminile: la misoginia. Questa parola, che evoca un’infinità di stereotipi e credenze ancestrali di cui la donna continua ad essere vittima, è solitamente, e in tutte le culture del mondo, esclusivo strumento degli uomini. In realtà, non è difficile sentir dire, nella nostra società, frasi, o Studi Linguistici e Filologici Online ISSN 1724-5230 Volume 8.1 (2010) – pagg. 159-193 M. Russo – “Str Un esempio di misoginia al femminile” Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo meglio luoghi comuni, come: ‘I peggiori nemici delle donne sono le stesse donne’. Partendo proprio da quest’ultima affermazione, voglio dimostrare come questo concetto si possa applicare anche all’antica cultura indiana, la cui eredità è il fondamento dell’India moderna. Prendendo spunto da un caso particolare, cercherò di definire in quali termini e su quali comportamenti si basi l’opinione negativa delle donne rispetto alle altre donne. Lo spunto di riflessione sulla misoginia femminile è contenuto nello Śivapurāṇa, nello specifico nel capitolo 24 della Umāsaṃhitā, dove l’Apsaras bella e lasciva Pañcacūḍā, interrogata dal rigoroso saggio Nārada, soddisfa le richieste del suo interlocutore e elenca i tanti mali insiti nell’indole delle donne. La passione smodata, vissuta o solamente anelata, che l’Apsaras imputa alle donne, siano esse mogli o concubine, giovani o anziane, costituirà il bersaglio principale della presunta immoralità femminile. Non si può non partire, tuttavia, in una discussione su questo tema, dal caso più famoso di una donna che esprime parole di biasimo verso il suo stesso genere: la celeberrima frase che l’Apsaras Urvaśī pronuncia in RV X, 95. Rivolgendosi al mortale Purūravas afferma: ná vaí straíṇāni sakhyāni santi sālāvṛkāṇāṃ hṛdayāny etā: ‘È proprio vero, non esistono amicizie con le donne: di iena sono i loro cuori!’ (SANI 2000: 245). Queste parole di consolazione per un amore ormai impossibile suonano come una condanna definitiva. Vedremo come le parole che 160 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo pronuncerà Pañcacūḍā nello Śivapurāṇa saranno molto più violente e il paragone con le iene risuonerà come un amabile complimento. La fonte del citato dialogo è collocata nel Mahābhārata, dove il tema dei difetti delle donne e di come si debbano regolare i rapporti familiari e sociali è lungamente illustrato nel cosiddetto strīdharma, il quale occupa molta parte dell’Anuśāsanaparvan. In esso è dato poco spazio, come ben si può immaginare, ai meno numerosi pregi femminili. Yudhiṣṭhira interroga Bhiṣma sulla natura delle donne e se è vero che esse sono la radice di tutti i mali. Il saggio, perciò, rispondendo all’eroe, riporta quello che lui definisce “l’antica storia del discorso tra Nārada e Pañcacū ḍā”, la stessa che ritroviamo complessivamente identica nello Śivapurāṇa. Nel Mahābhārata, l’Apsaras inizialmente ammette la sua incapacità di descrivere l’indole femminile e dice: “Non sono capace, essendo io stessa una donna, di parlare male delle donne”. Ma questa premessa verrà ampiamente smentita. La scelta di soffermarsi sullo Śivapurāṇa e non sul più importante Mahābhārata è nata dalla riflessione sulla definizione stessa di Purāṇa e dei destinatari di questo cospicuo numero di opere; come è noto, il Purāṇa è lo strumento che permette alle donne e agli Śūdra di conseguire la conoscenza del dharma e del Brahman, essendo entrambe le categorie umane escluse dallo studio dei sacri Veda (BOCCALI, PIANO, SANI 2000: 219). Generazioni di indiane e indiani delle classi inferiori, quindi, hanno 161 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo costruito o consolidato il loro bagaglio culturale leggendo testi che riportavano in modo eterogeneo e sintetico un’enormità di nozioni, leggende, ecc., altrimenti contenute in opere sacre e monumentali a loro inaccessibili. I Purāṇa hanno diffuso nella società indiana, in maniera molto capillare, un patrimonio che, sin dall’inizio, era una prerogativa esclusiva delle classi alte. È interessante pensare, dunque, alla vastità dei fruitori delle parole di Pañcacūḍā, alle tante donne che hanno letto di loro, hanno trovato un riscontro quasi divino alle idee che circondavano le loro vite. Quante donne ferite o tradite da altre donne, inoltre, avranno creduto a quelle parole e avuto la prova di quanto affermato dall’Apsaras. Poche, probabilmente, avranno avuto il sospetto che a reggere i fili della feroce ninfa ci potesse essere un astuto Brahmano, convinto assertore e sostenitore di antichi pregiudizi. Ciononostante, il contributo dei Purāṇa al consolidamento di un intero sistema di valori fondanti della vita di un Hindū non deve essere stato marginale. E certo il sospetto o l’astio verso le donne non è un aspetto secondario di molta parte di questa cultura. Nella classificazione del corpus purāṇico, lo Śivapurāṇa si colloca nel gruppo dei Mahāpurāṇa, i quali sono in numero di diciotto, distinti da un secondo gruppo di opere, dette Upapurāṇa. Come lo stesso titolo dichiara, lo Śivapurāṇa appartiene alla corrente settaria śaiva, e in molte liste riportanti i Purāṇa, esso è sostituito dal Vayupurāṇa, allo stesso modo dedicato al culto del dio Śiva. 162 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo L’opera è suddivisa in sette saṃhitā contenenti materiali di natura eterogenea. Questi riguardano in gran parte il culto śivaita e, in particolare, la venerazione del liṅga, la potenza di Śiva e la sua corrispondenza con il divino Brahman, le storie legate alle diverse manifestazioni della Śakti del dio, prima tra tutte il sacrificio di Satī. Segue una parte dedicata alle imprese belliche di Śiva: si narra, infatti, della distruzione della città degli Asura, Tripura, o delle numerose lotte che il dio ha intrapreso per sconfiggere i demoni. Nella Umāsaṃhitā, una delle parti più interessanti dell’opera intera, si narra dell’incontro sul monte Kailāsa tra Kṛṣṇa e Upamanyu, i quali contemplano la potenza di Śiva e denunciano i peccati e le punizioni che spettano agli uomini. Nella seconda parte della raccolta, invece, è presente una descrizione dell’universo e dei sette continenti. Si analizzano la condotta morale dell’umanità e gli aspetti legati al corpo, alla sua origine e formazione, e i concetti di purezza e impurità. In questa cornice si colloca il dialogo sulla natura delle donne, origine di tutti i mali e le calamità della vita di un uomo, offrendo, tuttavia, la ricetta per attenuarne le conseguenze più nefaste. L’opera si conclude con istruzioni su come istituire i vari tipi di sacrificio e le diverse occasioni in cui eseguirli e con un’ulteriore descrizione della potenza di Śiva e della grandezza di alcune delle sue imprese. Una questione su cui non mi pare opportuno soffermarsi in questo 163 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo lavoro è il problema della datazione dell’opera. Ciò non riguarda solo lo Śivapurāṇa, ma l’intero corpus purāṇico. La varietà dei materiali in essi contenuti, alcuni antichissimi e risalenti alla tradizione vedica, altri invece testimonianze degli sviluppi settari del pensiero hindū, rendono ardui i tentativi di attribuzione cronologica di ciascun Purāṇa. A questo proposito, Winternitz dichiara: “…the Purāṇas undoubtedly reach back to great antiquity and are rooted in Vedic literature; many a legend, already familiar from Ṛgvedic hymns and from the Brāhmaṇas, reappears in the Purāṇas; but, just as undoubtedly, those works which have come down to us under the title of ‘Purāṇa’ are of a later date”... (WINTERNITZ 1963: 518). È, dunque, altrettanto difficile stabilire quale sia la possibile cronologia del dialogo preso in esame. È certa solo l’antichità che già nel Mahābhārata era ad esso riconosciuta. Passiamo dunque alle parole di Pañcacūḍā. Il dialogo è introdotto brevemente dalla richiesta che Vyāsa, autore del Purāṇa, fa al saggio Sanatkumāra: vyāsa uvāca / kutsitaṃ yoṣidartham yatsaṃproktam pañcacū ḍayā / tanme brūhi samāsena yadi tuṣṭo’si me mune \1\ Vyāsa disse: O Saggio, se sei soddisfatto di me, raccontami in breve quanto fu detto da Pañcacūḍā riguardo la deprecabile “sostanza” delle donne. sanatkumāra uvāca / strīṇāṃ svabhāvaṃ vakṣyāmi śṛṇu vipra 164 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo yathātatham / yasya śravaṇamātreṇa bhavedvairāgyamuttama \2\ Sanatkumāra disse: Ascolta, o Saggio, ti parlerò della natura delle donne in modo appropriato; proverai grande disgusto dopo avere ascoltato. Come si può notare, la stessa premessa anticipa sostanzialmente i toni che la discussione assumerà con l’ingresso della ninfa. Ma sulla bocca di due uomini queste frasi non destano stupore. Vyāsa utilizza l’espressione kutsitam yoṣidartham, che ho voluto di proposito tradurre con ‘sostanza deprecabile delle donne’. Questo per dare al termine artha un valore di ‘essenza più profonda’, quasi come se il narratore si chiedesse il motivo stesso dell’esistenza del genere femminile, oltre che della sua utilità nel mondo. A mio parere, inoltre, la scelta di porre all’inizio del racconto il termine yoṣit non è casuale (MACDONELL, KEITH 1982: 485); esso ha una chiara valenza morale, indicando una donna né troppo giovane né troppo vecchia, ma una ragazza nubile pronta per il matrimonio, dotata quindi delle armi di seduzione ritenute lesive del maschio, se non frenate da un attento controllo familiare e sociale. Sanatkumāra adotta, al contrario, un registro più ‘ecumenico’, annunciando che egli soddisferà le richieste a lui rivolte e, quindi, parlerà dello strīṇām svabhāva, la natura di tutte donne, senza distinzione di età. Egli, perciò, utilizza il più comune strī, il quale non fa distinzioni in base allo status sociale o comportamentale della donna. 165 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Il sapiente conclude annunciando l’esito della loro conversazione, un vairāgya uttama, ‘profondo, estremo disgusto’, che farà impallidire l’assennato Vyāsa. striyo mūlaṃ hi doṣāṇāṃ laghucittāḥ sadā mune / tadāsaktirna kartavyā mokṣepsubhiratandritaiḥ \3\ O saggio, da sempre le donne hanno “poco cervello”, sono la radice dei mali. Coloro i quali stanno in guardia e desiderano ottenere la liberazione non devono provare devozione (per loro). Benché fosse più corretto tradurre l’attributo laghucitta rivolto da Sanatkumāra al genere femminile con un aggettivo che esemplificasse la sua leggerezza di mente e spirito, ho pensato di renderlo con un’espressione colloquiale e molto spesso abusata in italiano, ossia ‘poco cervello’. Ho trovato esilarante la corrispondenza di un luogo comune così radicato anche in una cultura tanto lontana dalla nostra e in un testo tanto remoto cronologicamente. La seconda parte dell’affermazione del saggio ribadisce un concetto già presente in un altro brano della Umāsaṃhitā, precisamente nel capitolo 6, dove sono elencati i diversi tipi di peccati, tra cui si cita ‘la servitù alle donne o l’intrattenersi con esse con mezzi fraudolenti’. L’uomo che intenda perseguire il mokṣa dovrà seguire delle regole morali e certo la compagnia delle donne ne pregiudica l’ottenimento. 166 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Nei tre brevi scambi che abbiamo analizzato sono già presenti numerosissimi elementi che, se nessuno conoscesse anche in parte la condizione antica e moderna della donna in India, basterebbero a delinearne un quadro preciso. A questo punto, però, entra in scena la protagonista Pañcacūḍā, definita dal narratore puṃścalī, la ‘prostituta’ che ronza intorno agli uomini, colei che stigmatizzerà i torti delle donne. Nārada, suo interlocutore, si trova di fronte una donna bellissima, lo stereotipo della ninfa celeste diffuso in tutta la letteratura indiana. Ella possiede i classici attributi delle Apsaras, è detta bālā e anuttamā ‘giovane e insuperabile in bellezza’, da sempre strumento di perdizione per dèi, saggi e comuni mortali. In tutta la tradizione letteraria indiana, le Apsaras sono l’oggetto della passione più carnale, quasi costrette nel ruolo di seduttrici dalla bellezza irresistibile. Esse sono l’emblema delle donne dai poteri oscuri, il loro scopo, in molti casi, è il plagio dell’uomo e l’appagamento del desiderio. Se da un lato i grandi saggi e gli dèi stessi invitano l’uomo all’ascesi e alla ricerca della liberazione finale, dall’altro, nel timore che la potenza da loro ottenuta con una condotta ferrea e di rinuncia sia una minaccia, utilizzano le ninfe come arma di distrazione. Di fronte alla ritrosia di Pañcacūḍā, convinta di non essere adatta a descrivere la natura delle donne, Nārada insiste e la cortigiana cos ì esordisce: 167 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo pañcacūḍovāca / mune śṛṇu na śakyā strī satī vai nindituṃ striyā / viditāste striyo yāśca yādṛśyaśca svabhāvataḥ \10\ Pañcacūḍā disse: O saggio, ascolta. Poiché io sono una donna, non certo posso censurare le donne. Tu sei a conoscenza di quale sia la loro natura. na mām arhasi devarṣe niyoktuṃ praśnamīdṛśam / ityuktvā sā’bhavastūṣṇīṃ pañcacūḍāpsarovarā \11\ O Devarṣi, non è giusto che risponda io a questo quesito. Dopo avere così parlato, la bellissima Apsaras Pañcacūḍā rimase in silenzio. na śakyā strī satī vai nindituṃ striyā: queste parole hanno due possibili interpretazioni, certo opposte, ma entrambe coerenti con il tono del dialogo. Se pensiamo alla ninfa nella sua immagine più classica, ossia come donna dal destino già stabilito e come strumento divino di corruzione dell’uomo, il ribadire la sua natura appare come una tacita rassegnazione a ciò che è immutabile. La seconda interpretazione, a parer mio, nasconderebbe una sottile ironia nonché la consapevolezza di Pañcacūḍā di essere migliore delle altre donne. La modestia e la presunta incapacità di parlare di un argomento così noto al genere maschile sono solo un espediente che renderà ancora più efficace la forza delle sue parole. Ella si definisce strī satī; benché satī possa non riferirsi, in questo contesto, alla pratica del suicidio della vedova, esso richiama involontariamente un concetto ritenuto di altissimo valore morale. La ninfa è, in questo caso, l’immagine simbolica di come l’uomo 168 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo vorrebbe la donna. Questo rende ovvia l’idea che questa Apsaras non sia nient’altro che la voce di un uomo, il quale regge i fili della marionetta- Pañcacūḍā, in un’ipotetica rappresentazione di un genere teatrale tanto famoso e amato in India. L’infinito ninditum rende ancora più subdolo l’intento del discorso. Con esso si può censurare o, in un altro senso, ridicolizzare la natura delle donne. I contenuti del dialogo consentono di giustificare entrambe le ipotesi. Sempre nella nostra ipotetica rappresentazione teatrale l’effetto delle parole dette avrebbe suscitato nel pubblico una folta gamma di sentimenti. Senza tralasciare la severa censura suggerita dalla statura morale dei personaggi, il gusto del ridicolo non sarebbe certo mancato. Vinti i dubbi dell’interlocutrice, la discussione prosegue: nārada uvāca / mṛṣāvāde bhaveddoṣassatye doṣo na vidyate / iti jānī hi satyaṃ tvaṃ vadātastatsumadhyame \13\ Nārada disse: Nel dire il falso c’è il male, non nel dire la verità. Perciò, o donna dai bei fianchi, dì la verità. sanatkumāra uvāca / ityuktā sā kṛtamatī rabhasā cārūhāsinī / strīdoṣāñśāśvatānsatyān bhāṣitum saṃpracakrame \14\ Sanatkumāra disse: Cos ì detto, risoluta e con impeto, sorridendo dolcemente iniziò a dire i veri eterni mali delle donne. 169 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo L’ambivalenza di Pañcacūḍā è su due piani: caratteriale e fisico. Nello stesso tempo è descritta come kṛtamatī e rabhasā, interiormente risoluta e presa dal fervore delle sue convinzioni, in una cornice fisica di leggiadria e dolcezza. Colpisce il termine con cui Nārada apostrofa la ninfa; egli la definisce jānī, non semplicemente donna, ma anche madre. Probabilmente, questo attributo rientra in un tentativo di ingraziarsi la donna per farle esprimere le sue idee. L’obiettivo è raggiunto e Pañcacūḍā è pronta a elencare le tante ‘qualità’ del genere femminile, i veri, eterni mali delle donne, gli strīdoṣāñśāśvatānsatya. pañcacūḍovāca / kulīnā nāthavantyaśca rūpavantyaśca yoṣitaḥ / maryādāsu na tiṣṭhanti sa doṣaḥ strīṣu nārada \15\ Pañcacūḍā disse: O Nārada, né le donne nobili, né quelle che hanno un marito, né quelle che hanno un bell’aspetto, si mantengono nei limiti della moralità: questo è il male delle donne. na strībhyaḥ kiṃcidanyadvai pāpīyastaramasti hi / striyo mūlaṃ hi pāpānāṃ tatha tvamapi vettha ha \16\ Non c’è nient’altro di peggiore delle donne. Certo tu sai che le donne sono la radice dei mali. Il bersaglio principale è subito individuato: la morale sessuale, o meglio l’immoralità. Torna nuovamente il termine yoṣit, e gli attributi della fanciulla giovane e bella, facilmente vista come 170 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo strumento di perdizione, completano il quadro. I limiti della moralità sono travalicati, innanzitutto, dalle più fortunate, le kulīnā, nāthavatī, rūpavatī, ossia le nobili, le maritate e le belle, senza dubbio quelle che prime tra tutte possono agevolmente trasgredire. E, dicendosi certa della assennatezza del saggio Nārada, la ninfa sintetizza il suo pensiero definendo le donne mūla pāpānām, ‘radice dei mali’. Da questo punto in poi sono passate in rassegna i tipi femminili principali e i loro comportamenti. Si parla principalmente della sposa; nella maggior parte dei casi si pone come termine di paragone il marito, ossia l’atteggiamento che la moglie ha nei suoi confronti. Si stigmatizza soprattutto la facilità dei tradimenti, con il corpo o solo con la mente, ritenendo il secondo molto più grave del primo. samājñātān arthavataḥ pratirūpān yathepsitān / yatīn antaramāsādyanālaṃ nāryyaḥ pratīkṣitum \17\ Se hanno un’opportunità, pur avendo mariti devoti, gradevoli, bellissimi e conosciuti per le loro ricchezze, le donne non sono in grado di guardare con indifferenza (altri uomini). asaddharmastvayam strīṇāṃasmākam bhavati prabho / pāpīyaso narān yadvai lajjām tyaktvā bhajāmahe \18\ O signore, questo è dunque il cattivo costume di noi donne: abbandonando la vergogna, ci concediamo agli uomini peggiori. 171 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Curiosamente, in queste due strofe ritroviamo imputato alle donne un comportamento ritenuto generalmente maschile. Qui, infatti, la donna diventa la predatrice che non si lascia sfuggire qualsiasi occasione le si presenti, lasciando anche il marito più bello e ricco tradito in un angolo. Come se non bastasse, esse vengono dipinte come delle avventurose libertine, protagoniste di torbide relazioni con loschi figuri. E questo atteggiamento maschile delle donne sembra volutamente richiamato dal termine nārī (MACDONELL, KEITH 1982: 485) con cui vengono indicate in questo passo. Una parola del tutto simile, nel significato, al più comune strī, ma etimologicamente connesso con il ‘maschio’. striyaṃ ca yaḥ prārthayate sannikarṣaṃ ca gacchati / īṣacca kurute sevāṃ tamevecchanti yoṣitaḥ \19\ Le donne desiderano l’uomo che vuole un contatto con loro, che si avvicina a loro o si mette un po’ a loro servizio. anarthitvān manuṣyāṇāṃ bhayāt patijanasya ca / maryādāyām amaryādāḥ striyas tiṣṭhanti bhartṛṣu \20\ Le donne non hanno limiti nella condotta morale: rimangono con i mariti o per l’impossibilità di ricavare profitto dagli (altri) uomini o per paura (degli stessi). Da cacciatrice indomita, questi due śloka ci offrono un’immagine 172 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo della donna nel suo microcosmo familiare. Non più pronta a cercare la compagnia degli uomini peggiori, ma subdola sfruttatrice di chiunque si metta al suo servizio. Il marito recupera lo status di padrone, ora è detto pati e bhartṛ, colui che possiede e protegge la donna e la casa, il signore del più antico concetto patriarcale vedico della famiglia. Egli frena le aspirazioni femminili non perché la moglie sia pia o casta, ma perché suscita il bhaya, la paura della reazione. È sempre presente, tuttavia, il pregiudizio palese nei confronti della donna che si snoda in tutto quello che è detto. In questo passo l’autore sottolinea come, nonostante i freni sociali e familiari che la donna incontra, la sua natura infida sia sempre in agguato. nāsāṃ kaścidamānyo’sti nāsāṃ vayasi niścayaḥ / surūpaṃ vā kurūpaṃ vā pumāṃsam upabhuñjate \21\ Chiunque è degno di loro, e non si accertano dell’età (dell’uomo). Divorano sia gli uomini di bell’aspetto, sia quelli brutti. na bhayād atha vākrośānnārthahetoḥ kathaṃcana / naātijñ kulasambandhā striyastiṣṭhanti bhartṛṣu \22\ Le donne di nobile origine rimangono unite ai mariti, non per paura degli insulti, né tanto meno a causa del senso comune. Con queste parole di profondo disprezzo Pañcacūḍā riduce la donna, secondo la sua visione, a un animale dai tratti mostruosi, quasi una demonessa che divora la carne delle sue vittime. Non a caso, ella 173 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo sintetizza così il suo pensiero: sūrupaṃ vā kurūpaṃ vā pumāṃsam upabhuñjate. Il pasto della demonessa non fa distinzione, gioisce divorando belli e brutti, poiché, come aveva affermato in precedenza, non si accontenta neppure del marito più bello o più ricco. La strofa 22, al contrario, è ambigua e non è chiaro il senso di ciò che viene detto. È plausibile che si sottintenda che le donne di nobili natali rimangono con i mariti per non perdere i benefici della loro condizione, più che per la paura di essere denigrate o per rispetto del dharma. yauvane vartamānānāmiṣṭābharaṇavāsasām / nārīṇām svairavṛttīnāṃ spṛhayanti kulastriyaḥ \23\ Le donne di nobili natali provano invidia per le donne sfrenate, le quali indossano vestiti adorabili e in gioventù si muovono con gentilezza. yā hi śaśvadbahumatā rakṣyante dayitāḥ striyaḥ / api tāḥ samprasajjante kubjāndhajaḍavāmane \24\ Anche le donne amate, grandemente stimate e continuamente protette, anche quelle desiderano storpi, ciechi, stupidi e nani. Sebbene non siano espressamente citate, entrano in scena le cortigiane, le belle e colte intrattenitrici che tanta parte hanno in tutta la letteratura indiana. Nei loro confronti sembra esserci un atteggiamento di tolleranza, anzi, l’Apsaras, pur ricordando il loro essere sfrenate, immediatamente dopo ricorda la grazia e l’eleganza 174 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo di cui sono detentrici. Sono messe a confronto la kulastrī, la ‘donna nobile’, e la nārī svairavṛtti, ‘quella che non ha freni’; tuttavia, l’obiettivo non è la fustigazione dei costumi della cortigiana, ma i desideri mal celati della ricca signora. A parità di condizione, il palesamento di un comportamento è meno grave di un altro solo ipotizzato o fantasticato. Le donne, ormai ritenute da Pañcacūḍā esseri irrazionali, in balia delle forze oscure dentro di loro, si rivolgono agli uomini più infimi, quasi a completamento di un disegno mostruoso della natura. Sono elencati i principali tipi maschili da cui le donne sarebbero attratte: kubja, andha, jaḍa e vāmana, rispettivamente ‘storpi, ciechi, stupidi e nani’. paṅguṣvapi ca devarṣe ye cānye kutsitā narāḥ / strīṇāṃagamyo lokeṣu nāsti kaścin mahāmune \25\ O Devarṣi, insieme agli zoppi diventano persone vili. O grande saggio, non c’è niente nei mondi da evitare più delle donne. yadi puṃsāṃ gatirbrahmankathaṃcinnopapadyate / apyanyonyaṃ pravartante na ca tiṣṭhanti bhartṛṣu \26\ Nel caso in cui, o Brahmano, non riescono ad ottenere gli uomini (desiderati), certamente si tengono impegnate con un altro, e non stanno con i mariti. Certo non manca, dopo un elenco così lungo delle più basse attitudini 175 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo femminili, un sunto del pensiero generale di questo dialogo, prima di passare ad un’altra serie di denunce. La ninfa, infatti, ricorda al suo interlocutore che in ciascuno dei mondi esistenti, nulla è da tenere più lontano della donna: strīṇāṃ agamyo lokeṣu nāsti kaścit. I mariti che proteggono e curano una moglie-mostro non sono mai l’oggetto del desiderio femminile, al contrario, sono in ogni caso sostituiti da un maschio anche privo di ogni qualità, fisica e psichica. alābhāt puruṣāṇāṃ ca bhayāt parijanasya ca / vadhabandha bhayāccaiva tābhagnāśā hi yoṣitaḥ \27\ Le speranze delle donne si infrangono per la mancanza di uomini, per paura della servitù, per paura della morte e delle catene. calasvabhāva duśceṣṭā durgāhyā bhavatas tathā / prājñasya puruṣasyeha yathā ratiparigrahāt \28\ Poiché si intrattengono in rapporti sessuali, agli occhi dell’uomo saggio e gentile esse diventano incomprensibili, portano il male e sono di natura sfrenata. Chi ha realmente in mente l’Apsaras mentre parla di sé e delle altre donne? Sembra che non sia mai esistito il modello della moglie e della madre indiana, tacita presenza all’interno delle pareti domestiche. Ci viene presentata come unicamente dedita al soddisfacimento dei desideri carnali, abile calcolatrice, bhagnāśā, ossia frustrata nelle sue speranze, sempre preda della paura, il bhaya che già in precedenza 176 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo abbiamo incontrato. Ora, però, l’uomo, il marito non è il solo freno, ma insorge la paura della privazione della libertà, della morte. È ossessivo il ricordo del male insito nella radice stessa della natura femminile, è, per così dire, un mantra ripetuto costantemente, in cui gli elementi nuovi sono sempre meno di quelli più e più volte ricordati. Lo spettro della sessualità femminile si scontra con l’ascesi e l’astinenza del saggio, il quale addirittura considera le donne durgāhya, incomprensibili, e la loro essenza insondabile. Sembra voluto, in questo passo, il riferimento alla terrificante dea Durgā, la dea inaccessibile, moglie di Śiva, temutissima dai suoi fedeli. Quella delle donne è un calasvabhāva, una natura instabile e fluttuante, la quale rimane un mistero anche per gli uomini più avveduti. nāgnistuṣyati kāṣṭhānāṃ nāpagānāṃ mahodadhiḥ / nāntakas sarvabhūtānāṃ na puṃsāṃ vāmalocanāḥ \29\ Il fuoco non trae soddisfazione dai ciocchi di legna, il grande oceano dai fiumi, Yama da tutte le creature, le donne dai begli occhi dagli uomini. idamanyacca devarṣe rahasyaṃ sarvayoṣitām / dṛṣṭvaiva puruṣaṃ sadyo yoniḥ praklidyate striyāḥ \30\ O Devarṣi, questo è un altro segreto delle donne: nel momento stesso in cui vedono un uomo, la vagina diventa umida. 177 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Lo śloka 29 mette in risalto la voracità e l’incapacità delle donne di appagare i loro desideri, paragonandole addirittura all’insaziabilità del dio della morte. Come Yama, infatti, divora gli esseri viventi senza mai soddisfare il suo desiderio di vite, così la donna, detta qui vāmalocanā, dallo sguardo dolce e apparentemente onesto, non si accontenta mai degli uomini. Come agni e mahodadhi, il fuoco e il grande oceano, che ricevono legna e acqua, non smettono di volere altra materia, così le voglie delle donne non si placano. Nella strofa 30, l’Apsaras accenna soltanto quello che spiegherà con più dettagli successivamente. Si limita ad affermare che alla vista di un uomo yoniḥ praklidyate, ma va oltre e spiega meglio ciò che intende. susnātaṃ puruṣaṃ dṛṣṭvā sugandhaṃ malavarjitam / yoniḥ praklidyate strīṇāṃ dṛteḥ pātrādivodakam \31\ Vedendo un uomo ben pulito dopo un bagno, privo di sporco e profumato, la vagina delle donne diventa umida, come acqua (che trasuda) da un vaso di pelle. kāyānāmapi dātāraṃ karttāraṃ māna sāṃtvayoḥ / rakṣitāraṃ na mṛṣyanti bhartāraṃ paramaṃ striyaḥ \32\ Le donne non tollerano affatto l’uomo che le sostiene, che le protegge, che dà loro tutto e le rispetta con parole dolci. 178 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo In questa parte conclusiva del dialogo, Pañcac ū ḍā illustra a Nārada gli effetti sul corpo femminile della vista di un uomo e, se in un primo momento si era limitata a focalizzare l’attenzione sul fenomeno in sé, ora aggiunge: susnātaṃ puruṣaṃ dṛṣṭvā sugandhaṃ malavarjitam, yoniḥ praklidyate strīṇāṃ dṛteḥ pātrāt iva udakam (31). Ho voluto riportare interamente la strofa 31 per dare un’idea dell’estrema chiarezza del concetto espresso dal testo sanscrito, di cui non serve dare alcuna interpretazione. All’aspetto razionale e intellettivo della tanto ricordata corruzione femminile si unisce il lato fisico, con la minuziosa descrizione delle manifestazioni corporali. I piani caratteriale e fisico si intersecano nuovamente nella strofa 32, dove si ribadisce la volubilità delle donne e l’estrema insofferenza che provano verso l’uomo mite, soprattutto il marito, il bhartṛ. na kāmabhogāt paramānnālaṃkārārthasaṃcayāt / tathā hitaṃ na manyante yathā ratiparigrahāt \33\ Le donne pensano che niente, né una collezione di ricchezze né di gioielli, né la più grande gratificazione dei desideri, valga più dei rapporti sessuali. antakaśśamano mṛtyuḥ pātālaṃ vaḍavāmukham / kṣuradhārā viṣaṃ sarpo vahnirityekataḥ striyaḥ \34\ Le donne singolarmente sono il fuoco, il serpente, il veleno, il bordo del rasoio, il fuoco sottomarino Pātāla, Mṛtyu, Yama, Antaka. 179 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Il ratiparigraha, ovvero la capacità di avere più rapporti sessuali possibili, è il loro scopo primario. Nessun desiderio ha motivo di essere appagato più della carne, l’unico dio che riconoscono è Kāma. La rappresentazione finale che l’Apsaras dà del genere femminile è emblematica. Come abbiamo visto in tutto il dialogo, o meglio nel monologo di Pañcacūḍā, il passaggio dal piano fisico al piano morale è quasi regolare. Nelle battute finali, invece, la natura femminile è presentata come il crogiolo degli elementi più pericolosi e mortali dell’universo. Nello śloka 34, infatti, ogni singola donna è paragonata ad elementi negativi, mostruosi o a divinità ferali. Sono parole che evocano morte e rovina. Il potere che si attribuisce alle donne è smisurato. Ciascuna di esse può scatenare una potenza distruttiva paragonabile a quella delle divinità degli inferi e del fuoco. Sono chiamati in causa Yama, il serpente, il suo potente veleno. Spesso, nelle parole dell’Apsaras, il confronto con il serpente è sottinteso. In molti casi, infatti, ella aveva presentato la donna come insinuante e strisciante, apparentemente innocua ma, in realtà, sempre in agguato e abile tessitrice di trame. yataśca bhūtāni mahānti pañca yataśca loko vihito vidhātrā / yata ḥ pumāṃsaḥ pramadāśca nirmitāḥ sadaiva doṣaḥ pramadāsu nārada \35\ 180 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo O Nārada, sebbene i cinque grandi elementi e il mondo siano stati creati da Brahmā, e gli uomini e le donne siano stati da Lui creati, il male è sempre nelle donne. L’incontro dei due personaggi così si conclude. Brahmā stesso, nella sua funzione di vidhātṛ, ossia creatore del mondo e del destino di ogni essere, nulla ha potuto per rendere meno dannosa la stirpe delle donne, pur sempre una sua creatura. Ironicamente, nell’ultima strofa, e solo in questo caso, Pañcacūḍā utilizza il termine pramadā, che sì ha il senso generale di donna, ma che letteralmente indica ‘colei che dà il piacere, la gioia’, e anche ‘colei che rende folli, ebbri’. La capacità di rendere folli, in primo luogo tramite la condotta sessuale, rende il genere femminile, a detta proprio di una donna, potente al punto che anche gli dèi non possono controllarla. Il ritratto che emerge da questo brano dello Śivapurāṇa e dall’omologo del Mahābhārata è senza dubbio raccapricciante. Riassumendo, la donna è presentata come un animale, subdolo, strisciante, pronto a divorare le sue vittime, senza alcuna moralità. Il corpo risponde solo agli istinti più primordiali, la razionalità è usata al solo scopo di trarre vantaggio da ogni situazione e il sentimento è del tutto assente. L’arma di seduzione, o meglio di conquista, sono gli occhi. La sessualità qui descritta è principalmente visiva; infatti, alla reazione della vista risponde quella degli organi sessuali, escludendo l’apporto 181 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo degli altri sensi. La ninfa insiste molto sulla mancanza di freni inibitori, non esiste morale o paura in grado di arginare i comportamenti delle donne. Quello che più stupisce leggendo questo brano, soprattutto ai nostri occhi, è la facilità con cui si possono mutare i termini di paragone e riferire le stesse identiche parole al comportamento maschile. Ciò che la nostra protagonista imputa a sé e alle altre donne coincide con un modello maschile di cui spesso sentiamo parlare nella nostra società. Secondo gli stereotipi classici, è l’uomo che non si cura dei sentimenti, colleziona prede una dopo l’altra, ha il solo scopo di soddisfare i propri istinti. Abbiamo letto di mariti infelici lasciati a casa da mogli in giro a caccia di prede facili, ignari di avere accanto una persona senza scrupoli. Certamente ci saremmo stupiti meno se avessimo letto il contrario. Questo emblematico caso di misoginia, per di più femminile, rimane, tuttavia, un fatto isolato all’interno dello Śivapurāṇa, almeno nei termini incontrati. La maggior parte delle storie con protagoniste delle donne hanno tinte diverse e offrono anche esempi di grande virtù, sebbene non manchino storie di perfide madri o mogli gelose o assassine. Riporto in sintesi qualche esempio delle numerose storie con protagoniste le donne distribuite in tutta l’opera. In Śatarudrasaṃhitā 26 si narra la vicenda della bellissima e molto devota prostituta Mahānandā, le cui àqualit fisiche e morali 182 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo deliziavano re e regine, umili e ricchi. Il suo amore per il dio Śiva la spingeva a compiere quotidianamente i più rigorosi rituali, tra cui la recita dei nomi del Signore, oltre a danze e canti in Suo onore. Spinto dalla voglia di mettere alla prova le virtù della donna,Śiva si incarnò in un mercante e si presentò alla sua porta. Accolto con i più grandi onori e la massima riverenza, il mercante notò l’interesse della prostituta per il bellissimo bracciale che egli portava al polso, ricco di gemme. Mahānandā espresse senza esitazione il desiderio di possedere quel monile e Śiva, sotto mentite spoglie, le chiese quale prezzo avrebbe pagato per impossessarsene. Ella rispose che sarebbe stata sua moglie per tre giorni e per tre notti, svolgendo tutte le mansioni che competono ad una legittima consorte. Il mercante acconsentì e oltre al bracciale le consegnò una immagine del fallo divino a cui dichiarò di essere molto legato. La prostituta collocò il liṅga nel mezzo della sala dove eseguiva le sue danze e andò a letto. Durante la notte, l’immagine sacra si incendiò e tutto intorno fu avvolto dalle fiamme. Colpito da una grande paura per l’evento e interpretandolo come un segno divino, il mercante-Śiva annunciò alla moglie che desiderava morire tra le fiamme di una pira che avrebbe dovuto far costruire fuori dalla casa. Alla notizia Mahānandā prov ò un profondo dolore e maturò la decisione di accompagnare il marito nella morte, come si addice ad 183 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo una pia moglie. Sebbene le loro nozze fossero avvenute in una maniera insolita e solo per tre giorni, sentiva il dovere di seguire la sorte del marito. Impressionato dalla risoluzione della donna, Śiva infine si manifestò nella sua forma universale e chiese alla devota cosa desiderasse come ricompensa. Ella disse che non avrebbe desiderato altro che essere condotta insieme al suo seguito nelle regioni celesti e evitare il ciclo delle rinascite. Il dio acconsentì. In questo episodio si nota nuovamente l’atteggiamento di tolleranza nei confronti delle prostitute, di cui addirittura si elogiano la devozione religiosa e la dedizione matrimoniale tipiche della sposa e della madre, in contrasto con le demoniache donne, apparentemente nobili e caste, descritte da Pañcacūḍā. Nei capitoli 3 e 4 della Koṭirudrasaṃhitā, è presentata la storia della casta Anasūyā, moglie devota di Śiva e del marito Atri. Essi vivevano nella foresta Kāmada sulla quale imperversava un vento fortissimo che rendeva impossibile la vita di tutti gli esseri. La coppia praticava una severissima ascesi; entrambi erano devoti di Śiva e non risparmiavano nessuna energia pur di venerarlo. La moglie, in realtà, superava il marito in dedizione e purezza. Erano diventati l’esempio della perfetta ascesi. Un giorno Atri le chiese dell’acqua, ma Anasūyā, non sapendo dove procurarsela cadde nella disperazione. Mentre vagava per la foresta, incontrò una bellissima fanciulla sotto le cui sembianze si celava la dea Gaṅgā, compiaciuta della santità di quella donna. La dea le concesse dell’acqua e Anasūyā la port ò ad 184 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Atri, il quale immediatamente ne riconobbe il potere divino. La donna raccontò l’evento al marito, ma egli, incredulo, volle verificare di persona quanto ascoltato. La moglie lo accompagnò nel luogo dell’incontro con la dea ed essi trovarono Gaṅgā ancora ìl che li attendeva. Quell’acqua, disse la dea, era la ricompensa per la grande castità di Anasūyā, una dote che Ella apprezza più di ogni altra. Meno positivo è l’episodio narrato in Koṭirudrasaṃhitā 32-33, i cui protagonisti sono il Brahmano Sudharman e sua moglie Sudehā. Pur essendo entrambi fervidi devoti di Śiva, la loro dedizione al dio non era stata premiata dalla nascita di un figlio, mancanza che rendeva triste principalmente la vita della donna. Duramente attaccata da una vicina di casa proprio per la sua sterilità, āSudeh cadde in un profondo sconforto, tanto da accettare che il marito prendesse una seconda moglie che certamente avrebbe concepito un figlio. Fu così che spinse Sudharman a sposare la sorella minore, Ghuśmā, dalla quale nacque il tanto atteso figlio, bellissimo e pieno di tutte le qualità. Nel cuore di Sudehā, tuttavia, cresceva l’odio e l’invidia per la sorella e il bambino, per l’amore di Sudharman verso la nuova moglie. Offuscata da tutti questi sentimenti, Sudehā si reca nella stanza del figliastro e lo uccide, facendo a pezzi il corpo e lanciandolo nel lago vicino casa. Grande fu lo stupore quando si scoprì il delitto, sebbene i genitori, nella piena devozione e contemplazione di Śiva, non ebbero eccessive reazioni di dolore. Mentre la povera madre si recava sulle sponde del lago dove era stato gettato il corpo del figlio, 185 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo ella lo vide vivo, seduto sulla riva, e nello stesso tempo ebbe una visione di Śiva che le ònarr tutto quanto accaduto e il nome dell’assassino. La donna, tuttavia, chiese al dio di risparmiare la vita della sorella maggiore, e di avere come ricompensa del dono della vita del figlio la presenza costante del dio in quel luogo con il suo nome. Fu così che Śiva assunse la forma fallica denominata Ghuśmeśa, che avrebbe garantito felicit à e ricchezze a molte generazioni. Sudehā e Ghuśmā incarnano i due opposti modelli femminili sin qui incontrati: la prima in apparenza moglie devota e molto religiosa, ma in realtà rancorosa e piena di odio, l’altra perfetto esempio di tutte le migliori qualità, tra cui il perdono. Non bisogna tralasciare, inoltre, la grande importanza data nell’opera all’elemento femminile di Śiva, spesso presentato nel suo aspetto di Ardhanārīśvara, ossia met à uomo e metà donna. La sua parte femminile è espressamente definita ‘l’elemento eccellente che completa l’opera del Creatore’. Senza la divina Śivā, Śakti del dio Supremo, la creazione fino a quel punto approntata da Brahmā era resa vana dall’incapacità degli esseri di riprodursi. Sebbene il dio sapesse di dover continuare la creazione per mezzo delle coppie, Egli non era in grado di procedere. Con grande meditazione Brahmā pensò a Śiva e alla sua Śakti, per mezzo della quale sarebbe potuta esistere la copulazione. Grazie alla sua ascesi ottenne dalla dea Śivā il potere di creare la stirpe delle donne e mettere in atto la copulazione e la generazione. 186 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Bisogna sottolineare, tuttavia, come sin dal mito della creazione della donna, l’immagine che se ne ha non è omogenea, ma parziale. Le parole di Pañcac ū ḍā appaiono come il risultato del fallimento dell’immagine della madre feconda e fedele, suonano come la vendetta di un principio patriarcale tradito, che vede nella sessualità della donna la fonte dell’onore e del rispetto (ROSSELLA 2002: 1). Nell’ottica del mito, la ‘femmina’ viene al mondo per completare il ‘maschio’, perché il maschio possa procreare. A conferma di come tutto ciò sia vero non solo nel mito ma anche nella vita reale, riporto la definizione della donna in Manusmṛti IX, 33: ‘La tradizione sacra dichiara che la donna è il terreno, l’uomo il seme; la produzione di tutti gli esseri corporei ha luogo tramite l’unione del seme con il terreno’. E prosegue nella strofa 35: ‘Confrontando il seme e il suo ricettacolo, il seme è considerato più importante; la progenie di tutti gli esseri creati è marcata dalle caratteristiche del seme’. Nella Manusmṛti, e soprattutto nel capitolo IX, sono ribadite quasi integralmente le convinzioni sulla donna espresse da Pañcacūḍā nello Śivapurāṇa. In questo caso, tuttavia, la sacralità e l’importanza della fonte rendono ancora più profondo il consolidamento di tali idee, elevandole a livello di legge eterna. In Manusmṛti IX si definiscono, tra le altre cose, le regole a cui si devono attenere uomini e donne, specialmente un marito ed una moglie, della quale si dice: ‘La donna deve dipendere dagli uomini (della sua famiglia) giorno e notte…’. Non è prevista nessuna forma 187 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo di indipendenza, al contrario, ogni età della donna deve avere un tutore: il padre nell’infanzia, il marito nella giovinezza, i figli nella vecchiaia. Il padre ha il dovere di dare la figlia in matrimonio nel momento opportuno. Il concetto di opportunità concerne anche il marito e il figlio; il primo non cercherà di avvicinare sessualmente la moglie nei periodi inadeguati, il secondo, invece, assicurerà alla madre la dovuta assistenza e protezione dopo la morte del padre. Le cattive inclinazioni femminili, tante volte sentite, sono ribadite in Manusmṛti IX, 5: ‘Le donne devono essere sorvegliate soprattutto contro le cattive inclinazioni, per quanto appaiano insignificanti. Perché, se non si sorvegliano, esse causeranno dolore a due famiglie’. Sei sono dette essere le cause della rovina di una donna: il bere alcol, la compagnia di persone malvagie, la separazione dal marito, il girovagare, il dormire nelle ore inappropriate e il vivere nella casa di altri uomini. Il loro carattere libertino ritorna. Ritroviamo anche la libidine sfrenata e la mancanza di moralità. Si afferma, infatti, in Manusmṛti IX, 14: ‘Le donne non si preoccupano della bellezza o dell’età (degli uomini); (esse pensano) ‘è sufficiente che sia un uomo’. Concedono se stesse ad uno bello e ad uno brutto’. Se Pañcacū ḍā considerava se stessa e le altre donne un fallimento della creazione di Brahmā, nel codice di leggi si attribuisce a Manu stesso la scelta di instillare nella donna le peggiori qualità. Manusmṛti X, 17 così recita: ‘Manu (nel momento della creazione) 188 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo assegnò alle donne l’amore per il letto, per la sedia, per gli ornamenti, i desideri impuri, l’ira, la disonestà, la malizia e la cattiva condotta’. La natura delle donne in Manu, a differenza dello Śivapurāṇa, è priva, se così si può affermare, di quei tratti che la associavano alle forze infernali, sottomarine e distruttive. Il piano è prettamente terreno e gli effetti nefasti del contatto con la donna si ripercuotono, se non debitamente controllati, sulla famiglia e sulla reputazione. A differenza dell’immagine dell’uomo e del marito emersa dalle parole della ninfa, nella Manusmṛti è ribadita la necessità dell’uomo forte, del capofamiglia nel pieno delle sue funzioni di patriarca. Non più maschi vittime dei giochi delle mogli o amanti, ma abili esecutori di un controllo privato e sociale sulla donna, unica garanzia del funzionamento delle dinamiche della vita quotidiana. Sebbene la questione femminile sia tra i temi più analizzati e noti della storia e della cultura indiana, essa non smette mai di stupire per la molteplicità e, a volte, la contraddittorietà delle informazioni. Dalla parziale ricostruzione qui svolta, dalla quale è stata esclusa una consistente parte di fonti letterarie vediche e postvediche, è emerso, a mio parere, l’aspetto peggiore della concezione della donna. Sono stati evidenziati in particolare i toni di disprezzo e diffidenza che rappresentano, probabilmente, la parte più arcaica e tradizionale del pensiero indiano, eredità ancora ben visibile dell’antico uomo vedico. 189 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo L’esempio purāṇico e il breve accenno alla Manusmṛti hanno permesso di stabilire alcuni punti fermi della misoginia in India, valida, tuttavia, anche in altre culture. La pericolosità delle donna è vista, principalmente, e direi ovviamente, nella condotta sessuale. Sono stigmatizzate l’eccessiva lussuria, la mancanza di dedizione totale al marito e il desiderio smodato di tutto ciò che possa soddisfare i loro capricci. Implicitamente si riconoscono alle donne doti quali una grande intelligenza, astuzia, indipendenza di giudizio e autonomia decisionale. È questo, probabilmente, il motivo che rende inevitabile la sottomissione e il controllo serrato. La paura di quanto una donna potrebbe fare rende ancora più forte il disprezzo nei suoi confronti, come è bene esemplificato dalle affermazioni dell’Apsaras Pañcacūḍā. Non è possibile avere, nel caso della cultura indiana, un’idea che sintetizzi i molteplici aspetti interiori ed esteriori di una donna. Di essa si evidenziano solo aspetti parziali che non ne ricostruiscono un quadro completo. Ciò riguarda la donna comune e la divinità femminile. Le stesse dee hindū, infatti, sono la personificazione di aspetti parziali delle forze della natura o dei valori della famiglia. Sono venerate o per il loro aspetto terrifico o per la loro amorevole figura materna, mai come totalità di vari aspetti. MARIO RUSSO 190 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo [email protected] Bibliografia Bader, C. (1987) Women in Ancient India, Delhi: Anmol Publications. Bhattacharyya, N. N. (1975) History of Indian Erotic Literature, New Delhi: Munshiram Manoharlal Publishers. Boccali, G. (2002) Poesia d’Amore Indiana, Venezia: Marsilio. Boccali, G., Piano, S., Sani, S. (2000) Le Letterature dell’India, Torino: UTET. Dange, S. A. (1989) Encyclopaedia of Purāṇic Beliefs and Practices, Vol. 4, Delhi: Navrang; - (1979) Sexual Symbolism from the Vedic Ritual, Delhi: Ajanta Publications. Doniger, W. (1993) Purāṇa Perennis, Reciprocity and Transformation in Hindu and Jaina Texts, New York: State University of New York Press. Ganguli, K. M. (1981) The Mahābhārata, Anuśāsana-parvan, Fourth edition, New Delhi: Munshiram Manoharlal Publishers. Griffith, R. (1973) The Hymns of the Ṛgveda, Delhi: Motilal Banarsidass. 191 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Jamison, W. S. (1998) “Sacrificed Wife, Sacrificer’s Wife: Women, Ritual, and Hospitality in Ancient India”, Journal of the American Oriental Society, 118: 422-426. Macdonell, A. A., Keith, A. B. (1982) Vedic Index of Names and Subjects, Delhi: Motilal Banarsidass. Pieruccini, C. (2002) “Occhi di loto”, Atti del Seminario “La Natura nel Pensiero, nella Letteratura e nelle Arti dell’India”, Undicesimo Convegno Nazionale di Studi Sanscriti, Milano 2002 (pubblicati a Torino, 2004) 34-50. Rossella, D. (2002) “Amori ridicoli, il senso del comico nella poesia d’amore indiana”, Atti dell’Undicesimo Convegno Nazionale di Studi Sanscriti, Milano 2002 (pubblicati a Torino, 2004) 191-207. Sani, S. (2000) Ṛgveda, Le strofe della sapienza, Venezia: Marsilio. Somadeva, L’oceano dei fiumi dei racconti, a cura di Baldissera F., Mazzarino V., Vivanti M. P., Giulio Einaudi editore, Torino 1993. Stepaniants, M. T. (1992) “The Image of Woman in Religious Consciousness: Past, Present and Future”, Philosophy East and West, Moscow Regional East-West Philosophers’ Conference on Feminist Issues East and West 42: 239-247. Upadhyaya, B. S. (1974) Women in Ṛgveda, Third edition, New Delhi: S. Chand & CO. Vātsyāyana, Kāmasūtra, a cura di Pieruccini C., Marsilio Editori, Venezia 1990. Winternitz, M. (1963) A History of Indian Literature, Vol. 1, Epics and Purāṇas, Calcutta: University of Calcutta. 192 Studi Linguistici e Filologici Online 8.1 Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa www.humnet.unipi.it/slifo Śivapurāṇa, trad. a cura di un gruppo di studiosi, AITM 1-4, MLBD, Delhi 1970. 193