Parliamo di allevamenti alternativi e valorizzazione del

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Parliamo di allevamenti alternativi e valorizzazione del
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
FACOLTÀ DI AGRARIA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE ZOOTECNICHE
CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN PRODUZIONI ANIMALI
ATTI
CONVEGNO NAZIONALE
"Parliamo di ...
allevamenti alternativi e
valorizzazione del territorio"
CUNEO 25 SETTEMBRE 2003
CENTRO INCONTRI PROVINCIA
IN COLLABORAZIONE CON LA
PROVINCIA DI CUNEO
Convegno Nazionale "Parliamo di …
allevamenti alternativi e valorizzazione del territorio"
Cuneo 25 settembre 2003
Redazione a cura di:
Prof.ssa Graziella Toscano Pagano
Dott.ssa Carla Lazzaroni
Dott. Davide Biagini
Edito da:
Dipartimento di Scienze Zootecniche
Via Leonardo da Vinci 44
10095 Grugliasco (Torino)
Depositato presso:
Procura di Torino - Prefettura di Torino
17 marzo 2004
Convegno Nazionale "Parliamo di …
allevamenti alternativi e valorizzazione del territorio"
Cuneo 25 settembre 2003
PREFAZIONE
Gli allevamenti alternativi assumono un ruolo importante nell’ambito delle produzioni zootecniche
perché sono uno strumento essenziale per la valorizzazione di alcune produzioni tipiche in numerosi
comprensori italiani.
Il Convegno, che è stato tenuto quest’anno a Cuneo, ha avuto lo scopo di fare il punto della
situazione sul tema dei cosiddetti allevamenti alternativi e del loro impatto sulla valorizzazione del
territorio. Tutto ciò è stato realizzato con l’apporto di quattro relazioni principali che hanno
riguardato: la valorizzazione del territorio con attività diverse da quelle tradizionali; il ruolo
territoriale e le potenzialità produttive dell’allevamento ovi-caprino; la valorizzazione delle risorse
boschive con l’allevamento suino; l’allevamento della fauna di interesse venatorio. A queste
valutazioni sono seguite diverse comunicazioni orali e posters che hanno trattato problematiche
relative al tema generale del Convegno.
Il Convegno ha avuto un’appendice nel giorno successivo a Ceresole d’Alba (CN), dove si è svolto
un Workshop sul tema “Tinca e acquacoltura nelle acque interne”.
Con l’augurio che la partecipazione al Convegno ed una attenta lettura degli Atti, disponibili ormai
da alcuni anni sul sito web del Dipartimento di Scienze Zootecniche, possano giovare agli
argomenti trattati, si ringraziano tutti coloro che sono intervenuti: ricercatori, tecnici, allevatori e
studenti che hanno affollato la sala convegni della Provincia di Cuneo ed il salone in Ceresole
d’Alba.
Un ringraziamento particolare ai professori Graziella Toscano ed Ivo Zoccarato rispettivamente
promotori del Convegno e del Workshop ed ai relatori: prof.ssa Emilia Duranti, prof. Luca Maria
Battaglini, prof. Gustavo Campodoni, prof. Attilio Bosticco, prof.ssa Bianca Maria Poli, prof.
Roland Billard, dott. Piero Cornaglia ed al m.o Emilio Lombardi, Assessore all’Agricoltura della
Provincia di Cuneo che ha aperto i lavori, nonché a tutti coloro che hanno contribuito con
comunicazioni, posters ed interventi nell’ambito delle due giornate.
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Si ringraziano inoltre la Provincia di Cuneo, il Comune e l’Associazione “Amici della tinca” di
Ceresole d’Alba, l’Università degli Studi di Torino per il contributo che hanno dato per la buona
riuscita delle manifestazioni.
La programmazione, la preparazione e la realizzazione del Convegno e del Workshop hanno
richiesto impegno, tempo e capacità organizzative notevoli e ciò si è realizzato grazie all’eccellente
collaborazione della dott.ssa Carla Lazzaroni, del dott. Davide Biagini e della dott.ssa Laura Gasco,
del Dipartimento di Scienze Zootecniche che si sono assunti gran parte dell’onere ed ai quali va il
nostro ringraziamento.
Grugliasco, febbraio 2004
Prof. Enzo Tartari
Direttore del Dipartimento di Scienze Zootecniche
Università di Torino
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VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO CON ATTIVITÀ DIVERSE DA
QUELLE TRADIZIONALI
Emilia Duranti1 , Carmen Casoli 2
RIASSUNTO: Questo lavoro prende in esame diverse attività utili per valorizzare le terre a
produttività marginale. A questo scopo vengono considerati: l’utilizzazione faunistica, con
allevamenti di ungulati, avifauna e lepre, l’agriturismo e alcune operazioni agricole orientate verso i
miglioramenti ambientali.
PAROLE CHIAVE: allevamenti faunistici, agriturismo, miglioramenti ambientali.
IMPROVEMENT OF THE ENVIRONMENT WITH NOT TRADITIONAL ACTIVITIES
SUMMARY: This paper examines several activities suitable to improve the marginal lands. On this
purpose faunistic utilisation, with ungulate or avifauna or hare breeding, agritourism and some
agricultural operations, oriented towards the environmental improvement, are considered.
KEY WORDS: faunistic breeding, agritourism, environmental improvement.
PREMESSA
Lo sviluppo economico e sociale che si è avuto in Italia negli ultimi decenni ha determinato
profonde trasformazioni nell’agricoltura, che hanno portato a modificare il paesaggio e
l’utilizzazione del territorio. In particolare si è assistito ad una concentrazione dell’attività agricola
nelle zone più fertili, cioè nelle zone di pianura e pedocollinari, dove è stato possibile impiegare
tecniche colturali adatte all’incremento delle produzioni e al miglioramento delle condizioni di
lavoro dell’uomo, mentre l’agricoltura di collina e di montagna è andata marginalizzandosi.
Si sono differenziate quindi due agricolture: una caratterizzata da livelli produttivi elevati con largo
ricorso ai mezzi tecnici moderni, localizzata nelle zone largamente antropizzate; l’altra, a bassa
produttività, basata principalmente sull’utilizzo delle risorse naturali presenti nelle zone a scarsa
antropizzazione, che man mano sono state più o meno marcatamente abbandonate e ricolonizzate
dal bosco (Genghini, 1994; Lucifero, 1995).
Alla fine degli anni ’70, si è tentato di recuperare alla produttività queste terre incolte, soprattutto
laddove non sussistevano sufficienti condizioni di destinazione delle stesse ad attività agricole o
zootecniche di tipo tradizionale.
Le vie di utilizzazione di queste aree, stimabili in 15 milioni di ettari, sono state soprattutto quella
forestale e quella faunistica, peraltro non in contrasto tra loro e, almeno in parte, sovrapponibili.
Una maggiore utilizzazione faunistica del territorio, realizzabile con minimi interventi strutturali e
infrastrutturali, ha potuto infatti aumentare le potenzialità di numerose aziende agricole sotto
1
Professore Ordinario. Dipartimento di Scienze Zootecniche. Università degli Studi di Perugia.
2
Professore Associato. Ibidem.
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l’aspetto dell’integrazione dei redditi, e, contemporaneamente, contribuire alla ricostruzione
dell’equilibrio ecologico e al recupero economico attraverso la produzione di carne e, forse più
proficuamente, attraverso lo sviluppo turistico o turistico-venatorio (Lucifero e Giorgetti, 1997).
UTILIZZAZIONE FAUNISTICA
La possibilità di allevare selvatici si è presentata come strategia alternativa nella diversificazione
produttiva delle imprese. Nelle aree marginali è stato un fatto estremamente importante, da non
sottovalutare in quanto ha rappresentato una fonte di reddito e di occupazione, così come da tempo
avveniva in altri Paesi dell’Europa e del Mondo, che avevano avvertito assai prima dell’Italia la
portata del problema ed avevano operato in tal senso.
E’ fuori dubbio che l’animale selva tico si è rivelato un buon utilizzatore delle risorse naturali, in
quanto dotato di grande capacità di adattamento all’ambiente, di spiccata resistenza alle malattie e
di elevata possibilità di sopravvivenza anche in condizioni difficili. Peraltro, la reintroduzione di
selvatici nelle zone ad essi destinabili, ha costituito anche un fattore di riequilibrio ecologico, oltre
che una fonte di proteine animali di elevato pregio.
Gli allevamenti di ungulati selvatici a scopo alimentare sono stati resi possibili in Italia dalla legge
nazionale 968/77 sulla protezione della fauna. I primi allevamenti sono sorti agli inizi degli anni ’80
con la emanazione delle leggi regionali. E’ necessario ottenere autorizzazioni per l’esercizio di
questa attività, in quanto gli animali in libertà appartengono allo Stato e la detenzione senza
autorizzazione comporta ipotesi di appropriazione di beni statali con sanzioni di tipo amministrativo
e penale (Rambotti, 1991).
L’allevamento a scopo alimentare si è configurato quindi come attività zootecnica (art. 19 L
968/77) e si è differenziato, perciò, in maniera sostanziale dalle tipologie di allevamenti previste
dalla legge come strumenti della gestione faunistica e venatoria del territorio (centri di produzione
di selvaggina, recinti di caccia in aziende faunistico-venatorie). Per questo motivo essi sono
sottoposti a vincoli di estensione spaziale minima, di quantità massima di territorio impiegabile, di
autorizzazione e conduzione che ne rendono meno generalizzabile la realizzazione.
Ogni allevamento viene attuato in un ambiente confinato e, necessariamente, più o meno artificiale,
nel quale gli animali sono sottratti all’azione selettiva dell’ambiente e in parte anche alle normali
interazioni sociali. Oltre al rischio di consanguineità, i soggetti prodotti in cattività sono per lo più
inadatti a sopravvivere e riprodursi con successo in libertà. Gli allevatori tendono ad utilizzare, per
la produzione della carne, gli esemplari più prolifici e più grossi, che si rivelano invece molto meno
adatti per il ripopolamento.
E’ necessario, pertanto, orientare l’allevamento verso un tipo o l’altro di produzione, perché
“materia prima” e criteri di gestione sono completamente diversi (Lucifero e Giorgetti, 1997).
ALLEVAMENTO DEGLI UN GULATI SELVATICI
Nell’ultimo censimento dei primi anni ’90, in Italia è stata accertata la presenza di circa 970
allevamenti di ungulati selvatici, per complessivi 28.600 capi, con una media di circa 30 unità per
allevamento. Le prospettive sono per un trend positivo.
Le specie più allevate sono: cinghiali (14.100), daini (9.900), mufloni (2.100), cervi (1.600) e
caprioli (850) in numerosi allevamenti privati (~910), con un numero medio ridotto di capi (~20), e
pubblici (~60), con in media circa 180 capi. Questi allevamenti non risultano distribuiti
uniformemente sul territorio nazionale. Al primo posto per numero di capi allevati si trova la
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Toscana (~8.900), seguita da Umbria (~3.900), Piemonte (~3.300) e Lazio (~2.600); consistenze
minori sono state rilevate nelle altre regioni (in media 650 capi).
Si può osservare, pertanto, che la concentrazione maggiore di animali è presente nell’Appennino
centrale, dove si vanno qualificando anche le attività indotte, quali soprattutto la ristorazione e
l’attività venatoria, che possono contribuire alla valorizzazione del prodotto (Salghetti, 1994; 1997).
I problemi con cui debbono confrontarsi gli allevatori sono prevalentemente di tre tipi: legale,
finanziario e commerciale (Rambotti, 1991).
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’ottenimento dell’autorizzazione all’allevamento risulta
abbastanza facile, anche se alcune regioni tendono a limitare il numero di concessioni per evitare di
sottrarre troppo territorio alla caccia.
La legislazione sanitaria è quella che crea i problemi più grossi, in quanto la commercializzazione
della carne dei selvatici allevati non può essere ancora effettuata nelle macellerie accanto a quella
degli animali domestici (a meno che si ricorra a confezioni sotto vuoto o in atmosfera controllata).
Inoltre viene favorita la macellazione nei mattatoi pubblici, con riduzione delle autorizzazioni a
livello aziendale.
Il D.P.R. 30.12.1992, n. 559 “Regolamento di attuazione della direttiva 91/495/CEE concernente la
produzione e commercializzazione di carni di coniglio e di selvaggina di allevamento” (G.U. n. 28
del 4.2.1993), fissa i requisiti igienico-sanitari per la produzione e la commercializzazione delle
carni di coniglio e di selvaggina e stabilisce cosa si intende per “selvaggina in allevamento”.
Il D.P.R. 17.10.1996, n. 607, “Regolamento recante norme per l’attuazione della direttiva
92/45/CEE relativa ai problemi sanitari e di polizia sanitaria in materia di uccisione di selvaggina e
di commercializzazione delle relative carni” (G.U. n. 280 del 29.11.1996), stabilisce i requisiti
sanitari e di polizia sanitaria in materia di uccisione, preparazione e commercializzazione di
selvaggina cacciata, definendo la “selvaggina cacciata”, sostanzialmente differente dalla selvaggina
allevata per autonomia di ricovero e di approvvigionamento, anche se confinata in un territorio
chiuso.
Così i mammiferi biungulati (daini, cervi, mufloni) possono essere macellati in impianti autorizzati
per grossi animali (bovini, equini, suini, ovini e caprini) ai sensi del D.L.vo 286/94, in quanto i
requisiti di questi mattatoi ben si prestano a far fronte alle esigenze igienico-sanitarie derivanti dalla
macellazione di specie, che con i grossi animali hanno molto in comune. Analogamente quaglie,
piccioni, fagiani possono essere macellati in mattatoi riconosciuti ai sensi del D.P.R. 503/82 per
volatili da cortile (polli, oche, anatre, ecc.).
Relativamente all’aspetto finanziario, l’impianto di un allevamento completamente funzionale
necessita di investimenti di somme elevate per le recinzioni e per le altre strutture (trappola di
cattura, mangiatoie, abbeveratoi, ecc.), più facilmente realizzabile da parte di cooperative, che
possono fruire di finanziamenti pubblici (locali, regionali, nazionali o comunitari), o da parte di
imprenditori di provenienza extra agricola piuttosto che di singoli allevatori.
L’aspetto più critico, con rischio di compromissione della redditività delle aziende, è quello
commerciale, legato soprattutto ai costi molto elevati della carne prodotta da un numero limitato di
animali in allevamenti privati, sui quali incidono fortemente le spese di macellazione, lavorazione,
trasporto, visite sanitarie e ammortamento delle strutture. A questo si deve aggiungere la
concorrenza della carne di provenienza venatoria da altri Paesi (sia fresca che congelata) e la
commercializzazione di animali da vita sotto costo da parte degli enti pubblici.
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Allevamento dei cervidi
L’allevamento dei cervidi e del muflone è riconducibile a tre modelli fondamentali, semi- intensivo,
semi-estensivo e sfruttamento estensivo (gestione faunistica) (Perco, 1977; Badino e Orsi, 1988;
Brelurut e coll., 1990; Lucifero, 1995; Lucifero e Giorgetti, 1997).
Allevamento semi-intensivo
Generalmente adottato per Cervo e Daino, secondo moduli riconducibili ad una stabulazione libera
“ampia”, semplificata rispetto a quella caratteristica degli animali domestici.
L’allevamento semi- intensivo, finalizzato prevalentemente alla produzione di carne, prevede una
scelta iniziale di soggetti provenienti di preferenza da allevamenti analoghi, che, naturalmente, non
sono adatti al ripopolamento (Duranti e coll., 1994; 1997a).
In questa tipologia gli animali (densità superiore a 10 q PV/ha) sono alloggiati in recinti
generalmente intercomunicanti, per una utilizzazione a rotazione, e collegati con un impianto di
cattura. Per la recinzione si usa rete metallica, alta circa 2 m leggermente interrata e sormontata da
2-4 ordini di filo spinato. I sostegni possono essere realizzati con pali di legno o metallo posti ogni
5-7 m. Ogni recinto deve essere provvisto di abbeveratoi, mangiatoie a rastrelliera e per concentrati;
sono necessari anche ricoveri per la protezione dai venti dominanti. Un elemento indispensabile è la
trappola di cattura, piccolo recinto in contatto con tutti i paddok dell’allevamento, in rapporto con
uno stretto corridoio che permette il passaggio di un solo animale alla volta. Essa è comunicante
con una struttura in metallo per l’immobilizzazione (crush), munita di finestre laterali e di una
bilancia a bascula, per i controlli ponderali.
Le risorse naturali all’interno dei recinti spesso non sono sufficienti a coprire i fabbisogni degli
animali e quindi si deve provvedere all’integrazione o alla somministrazione completa della razione
ricorrendo ad alimenti prodotti in azienda o del commercio; per la completa soddisfazione delle loro
esigenze nutritive è necessario considerare l’elevato dispendio energetico, non sempre
quantificabile, per il movimento, per la termoregolazione e per i frequenti stati di stress (Casoli e
coll., 1996; 1997; Duranti e coll., 1996; 1997b; Massitti e coll., 2001).
Allevamento semi-estensivo
Presuppone ampie superfici e basso carico di animali (1÷5 q PV/ha). La superficie deve essere
suddivisa in recinti, ognuno dei quali di dimensioni intorno ai 2-3 ha.
Gran parte dell’alimentazione è assunta direttamente dagli animali, che utilizzano le produzioni
vegetali spontanee; tuttavia durante i periodi difficili sono previste integrazioni.
I costi per le recinzioni sono più elevati, dato il maggior sviluppo delle superfici, mentre sono più
bassi i costi di gestione. Anche in questo caso deve essere previsto un impianto di cattura del tipo
precedentemente descritto.
Le condizioni di vita degli animali si avvicinano di più alla situazione naturale, quindi questo tipo di
allevamento è più idoneo per la produzione di soggetti da destinare alla vita in libertà (allevamenti a
scopo di ripopolamento, centri pubblici e privati di riproduzione della fauna selvatica).
Gestione estensiva
Lo scopo principale è quello venatorio. La densità di animali prevista per unità di superficie è molto
bassa. Le spese di investimento, per la realizzazione di quelli che vengono definiti recinti venatori e
che vanno da un minimo di 300 ha in su, sono limitate alle recinzioni esterne, che possono essere in
gran parte sostituite da delimitazioni naturali.
Sono comunque opportuni punti di foraggiamento, di abbeverata, nonché punti di insoglio e
strutture strategiche per le osservazioni; devono inoltre essere previsti punti per la cattura e i
trattamenti sanitari.
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Il carico deve essere accuratamente controllato e mantenuto intorno al valore massimo sostenibile
dall’ambiente, per evitare danni alle coperture vegetali, onde un’evoluzione negativa delle
fitocenosi, e carenze nutrizionali agli animali; questo presuppone una buona conoscenza dell’offerta
pabulare, nei diversi periodi dell’anno, ed altrettanto buona conoscenza dei fabbisogni alimentari
degli animali (Donnini e coll., 2001). Quindi è corretto calcolare il numero massimo di capi
allevabili in funzione dei periodi di minima offerta. Tutti questi dati concorrono alla predisposizione
del così detto “piano di assestamento”, che prevede un numero adeguato di animali appartenenti alle
varie classi di età di una determinata specie, al fine di conservare le popolazioni senza arrecare
danni alla copertura vegetale. Ad equilibrio raggiunto si può programmare un “piano di
abbattimento selettivo”, cioè definire, nell’ambito di ciascuna specie, il numero e la categoria di
soggetti da abbattere (o vendere) in modo da mantenere la popolazione ai livelli e nella struttura
prevista dal piano di assestamento (Spagnesi e Toso, 1991; Tosi e Toso, 1992; Spagnesi e coll.,
1994; Simonetta e Dessì-Fulgheri, 1998; Besa e Genovesi, 1999).
Rientrano in questa tipologia di gestione le aziende faunistico-venatorie.
Allevamento del cinghiale
Per il cinghiale sono previsti sistemi di allevamento intensivi, con attrezzature e impianti del tutto
simili a quelli del suino domestico, e sistemi più o meno estensivi (Hector e coll., 1976; Lucifero e
Giorgetti, 1997; Casoli e coll., 2000a).
Nel primo caso si fa ricorso a vere e proprie stalle in muratura, con box, provvisti di recinti esterni
da utilizzare anche per l’insoglio, separati per i verri, le scrofe e i cinghialetti in accrescimento; può
essere utile un reparto “maternità”, costituito da gabbie provviste di vie di fuga per i suinetti, nei
primi giorni di vita, al fine di evitare i rischi di schiacciamento.
Per quanto riguarda l’alimentazione vengono generalmente impiegati i prodotti del commercio di
norma utilizzati nell'allevamento suino; è comunque sempre opportuna una integrazione con
ghiande e castagne.
I sistemi estensivi e semiestensivi prevedono uno o più recinti, con ampie radure e zone boscate,
delimitati da rete con altezza fuori terra di 140-150 cm, interrata per 30-40 cm, e un impianto di
cattura, costituito per lo più da un piccolo recinto, ovale o circolare, delimitato da una robusta
palizzata alta un paio di metri con chiusura a saracinesca azionata dallo stesso animale.
La densità degli animali può essere molto diversa in funzione della quantità e della qualità
dell’alimentazione fornita artificialmente; un capo ogni due ettari si può considerare il valore
ottimale per limitare i danni alla copertura vegetale, per contenere l’alimentazione artificiale e per
mantenere in buona salute gli animali. Si consiglia comunque di non superare i due capi adulti per
ettaro, anche nei casi in cui si faccia ampio ricorso all’alimentazione “esterna”.
ALLEVAMENTO DELL’AVIFAUNA SELVATICA E DELLA LEPRE
L’allevamento dell’avifauna e della lepre può essere ricondotto a due forme, semi-estensiva ed
intensiva, che hanno però indirizzi e finalità non molto diversi fra loro, in quanto ambedue
destinano la loro produzione al ripopolamento e all’esercizio venatorio (Lucifero, 1995).
L’allevamento allo stato naturale (semi-estensivo) è quello in cui le risorse alimentari spontanee
vengono integrate con la somministrazione di mangimi nei periodi critici dell’anno e con la
predisposizione di “colture a perdere”. Possono rientrare in questa tipologia di gestione le zone di
ripopolamento e cattura, le aziende faunistico-venatorie ed alcuni centri di riproduzione della
selvaggina.
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Più diffuso è l’allevamento intensivo, del quale vengono di seguito descritte le tecniche più
utilizzate per diverse specie.
Allevamento dell’avifauna selvatica
Per questo tipo di allevamento l’ideale sarebbe l’utilizzazione di riproduttori autoctoni di elevato
pregio genetico, al contrario di quanto viene finora attuato attraverso l’importazione di soggetti,
prevalentemente dai paesi dell’Est europeo, con risultati insoddisfacenti e notevoli danni per la
fauna locale.
In quest’ottica è preferibile eliminare gli allevamenti di tipo industriale e far prevalere quelli di
piccola e media dimensione, tenendo conto delle capacità faunistiche della zona. La diminuzione
del numero di capi allevati comporta un aumento dei costi, ma una migliore gestione igienicosanitaria e l’ottenimento di animali di maggior pregio, grazie alla conservazione delle caratteristiche
di selvaticità e rusticità.
L’allevamento può essere iniziato in due diversi modi: acquistando uova o utilizzando riproduttori
adulti. Nel primo caso, rispetto al secondo, si ha una riduzione dei costi, ma un allungamento dei
tempi di entrata in produzione (circa un anno).
I volatili vengono allevati in voliere, dette parchetti, poste in luoghi tranquilli e soleggiati, su terreni
permeabili (Casanova, 1981; Mussa e coll., 1991).
Allo stato naturale fagiano e quaglia sono poligami, quindi anche in cattività è necessario rispettare
questo stato.
Nel caso del fagiano si ricorre più comunemente all’allevamento in "famiglie", cioè un maschio con
5-7 femmine; in alcuni casi si può optare per quello in "colonie", in cui 6-7 maschi vengono allevati
in grandi recinti con circa 40-45 femmine. La presenza di più maschi determina competizione e
quindi una maggiore attività di quelli più vigorosi; in questa situazione, però, è difficile individuare
i riproduttori poco attivi per procedere alla loro eliminazione.
L’allevamento della quaglia (1 maschio/5-7 femmine) viene effettuato generalmente al chiuso.
La starna e la pernice, sia in libertà che in allevamento, sono monogame, quindi ogni coppia deve
disporre di un proprio parchetto. Poiché in cattività la scelta dei partner non avviene per simpatia,
come in natura, è necessario formare le coppie con debito anticipo, entro la metà di gennaio nelle
regioni a clima mite ed entro la metà di febbraio nelle regioni a clima freddo.
Generalmente la femmina di fagiano depone in media 50-60 uova a stagione (inizio aprile- inizio
luglio); la starna e la pernice da 20 a 80 uova (fine aprile- fine luglio); la quaglia produce in media
un uovo al giorno per tutto l’anno.
Le uova raccolte, prima di essere incubate, vengono conservate (massimo una settimana) in luoghi
freschi, fino al raggiungimento di un numero sufficiente da giustificare l’avvio dell’incubatrice.
Essa deve essere scelta in funzione del numero di femmine presenti e delle uova deposte e sistemata
in locale apposito (T ambiente intorno ai 16-20 °C). All’interno dell’incubatrice (T media: 37,5 °C;
umidità: 70% - 80%) le uova vengono rivoltate periodicamente, a mano o in modo automatico, e,
sempre periodicamente, si esegue la speratura, per eliminare le uova non fecondate o con embrione
morto. La durata dell’incubazione è di circa 16 giorni per la quaglia, 24 per il fagiano, per la pernice
e per la starna.
In tutte le specie avicole, i riproduttori restano in produzione per no n più di tre anni, dopo di che
vengono messi in libertà a fine inverno. Al termine della stagione di riproduzione viene effettuata
una cernita dei soggetti più prolifici, che vengono utilizzati per la rimonta. E’ necessaria
l’immissione, ogni 2-3 anni, di alcuni maschi acquistati presso altri allevamenti per ridurre al
minimo i rischi di consanguineità.
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Dopo la schiusa i pulcini vengono affidati a madri artificiali (generalmente lampade a raggi
infrarossi del tipo a campana), disposte nelle pulcinaie (~5 m2 ), locali caldi e ben aerati, provvisti di
abbeveratoi e mangiatoie. La temperatura iniziale di 38-39 °C viene diminuita gradualmente dopo il
quarto giorno per arrivare alla temperatura ambiente verso il 14° giorno di vita. Trascorse 2-3
settimane, gli allievi sono trasferiti nelle voliere di transizione, preferibilmente sistemate in luoghi
riparati dai venti e ben soleggiati, dove possono tentare i primi voli e abituarsi all’ambiente aperto.
Da 30 giorni fino a circa 60-90 giorni di età (momento più opportuno per il lancio) gli animali
sostano in voliere di allevamento, dove dispongono ad libitum, oltre che dei consueti mangimi
bilanciati, anche di granaglie e verdure fresche, in modo da abituarsi all’alimentazione naturale.
Allevamento della lepre
La maggior parte dei tentativi compiuti per allevare le lepri in recinti a terra sono falliti per
l’insorgere, entro breve tempo, di vari tipi di epidemie, i cui agenti patogeni permangono nel terreno
anche per anni, rendendo, di fatto, impossibile un reale controllo sanitario. Inoltre, le elevate
densità, necessarie per rendere economicamente valido l'allevamento, possono indurre negli animali
vere e proprie sindromi da stress.
E' più usuale, pertanto, adottare l’allevamento in gabbia per i riproduttori (Spagnesi e Trocchi,
1993). Le gabbie, sollevate da terra per consentire la più completa pulizia e disinfezione, sono di
maggiori dimensioni rispetto a quelle dei conigli; mangiatoie, abbeveratoi, rastrelliere debbono
essere accessibili dall’esterno per non arrecare disturbo agli animali.
I nati per coppia sono in media 8-10 all’anno, con mortalità neonatale molto elevata (intorno al
50%).
I leprotti, tolti alle madri dopo 20-30 giorni dal parto, vengono alloggiati in gabbie sistemate in zone
protette dal vento e sollevate da terra; quelli destinati ai ripopolamenti vengono trasferiti in recinti a
terra, provvisti di buona copertura erbacea e di un numero sufficiente di ripari, per favorire il loro
adattamento alla vita libera.
Per l’alimentazione si ricorre prevalentemente all’uso di mangimi integrati, in minor misura a
quello di alimenti freschi, quali erba, foglie, ortaggi, frutta, ecc..
AGRITURISMO E TURISMO RURALE
Un’altra possibilità di valorizzazione del territorio è l’agriturismo, disciplinato dalla Legge quadro
n. 730/85, le cui finalità sono prevalentemente di tipo economico e socioculturale, di conservazione
dell’ambiente e di valorizzazione del territorio. Le norme legislative indicano, infatti, la necessità di
una compatibilità delle attività turistiche con la vocazione del territorio, legano l’esistenza stessa
dell’agriturismo alla componente agricola dell’impresa e alle qualità professionali delle risorse
umane.
Il settore si è andato sempre più sviluppando e l’iniziativa di poche aziende agricole è diventata
comparto particolarmente idoneo per favorire l’integrazione dei redditi aziendali, il miglioramento
delle condizioni di vita degli operatori e la valorizzazione dei prodotti tipici. Si tratta quindi di una
visione moderna dell’agricoltura, che integra la salvaguardia del patrimonio rurale, ambientale ed
edilizio con le risorse e le potenzialità della terra.
La maggior parte delle imprese operanti in questo settore si sono sviluppate su percorsi individuali,
raggiungendo a volte livelli qualitativi notevoli, mentre sono ancora pochi gli esempi di sviluppo
collettivo che prevedono un forte coordinamento tra le attività dei singoli.
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Forse più che di agriturismo sarebbe opportuno parlare di turismo rurale, come fanno intendere gli
interventi della politica agricola comunitaria, mirati allo sviluppo dell’ambiente rurale nel suo
complesso, coinvolgendo le diverse componenti che operano sul territorio.
In quest’ottica trovano spazio nuove attività, tra le quali si può annoverare anche quella
dell’allevamento degli ungulati selvatici, che ampliano l’offerta agrituristica con favorevoli
ricadute, quali: la valorizzazione di terreni difficili; il mantenimento di equilibri biologici, tipici
degli allevamenti allo stato naturale; la differenziazione delle produzioni; il richiamo di visitatori; la
valorizzazione delle carni nella ristorazione interna. Tra l’altro gli ungulati selvatici sono una
produzione biologica di fatto, viste le condizioni in cui vivono e si alimentano.
MIGLIORAMENTI AMBIENTALI A FINI FAUNISTICI
Nel recupero produttivo delle zone marginali, condizione necessaria per il miglioramento
dell’ambiente e per il mantenimento dell’equilibrio tra questo e le popolazioni di selvatici è una
opportuna gestione faunistica del territorio (L. 394/1991 “Legge quadro sulle aree protette”; L.
157/1992 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”).
La modificazione di habitat idonei allo sviluppo equilibrato di popolazioni selvatiche ha
comportato, in certe tipologie ambientali (zone intensamente coltivate), la riduzione di un
considerevole numero di specie più strettamente legate al territorio (piccola selvaggina stanziale) e,
in altre (zone a produttività marginale), l’incremento di gran parte degli ungulati, con particolare
riferimento a quelle specie più adattabili all’ambiente ecologicamente alterato.
Gli interventi sull’ambiente a fini faunistici hanno lo scopo, da un lato, di migliorare le disponibilità
alimentari, incrementare le aree di rifugio e di protezione ed i siti di riproduzione delle specie
selvatiche di maggiore interesse, dall’altro di limitare o eliminare le cause di mortalità della fauna
selvatica indotte dal ricorso ad alcune pratiche agricole pericolose (Genghini, 1994).
Naturalmente la realizzazione di questi interventi si differenzia a seconda dell’area geografica (tipo
di habitat) e delle specie selvatiche che si intende tutelare o favorire. Ogni situazione ambientale
rappresenta un caso a sé stante e necessita quindi di scelte specifiche. Tuttavia, considerando le
caratteristiche del territorio nazionale, è possibile individuare quattro tipologie principali:
1. zone di pianura e bassa collina, intensamente coltivate;
2. zone di collina e montagna coltivate in modo estensivo;
3. zone di collina e montagna con prevalenza di pascolo, incolto e forestazione;
4. zone umide.
Sulla base di questa suddivisione del territorio si distinguono in modo implicito anche le specie
selvatiche prevalenti nei diversi ambienti e quindi l’indirizzo faunistico dei provvedimenti.
Nelle prime due tipologie prevale la piccola selvaggina stanziale (fagiani, starne, pernici rosse,
lepri, ecc.).
Tra i più significativi interventi di miglioramento ambientale si possono indicare:
♦ incremento di siepi, arbusti, alberature frangivento, etc.;
♦ set-aside di alcuni terreni per un certo numero di anni (Reg. CEE 1765/92) ;
♦ semina di “colture a perdere”, destinate cioè esclusivamente all’alimentazione della fauna
selvatica;
♦ modificazione dei sistemi di coltivazione (maggiore frammentazione degli appezzamenti,
ripristino delle rotazioni colturali, ricorso alle lavorazioni minime del terreno e alle tecniche di
agricoltura biologica) (Reg. CEE 2078/92).
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Per quanto riguarda gli interventi rivolti alla limitazione delle pratiche agricole sfavorevoli si
possono prevedere le seguenti misure:
♦ riduzione dell’impiego di concimi e fitofarmaci;
♦ gestione della vegetazione spontanea con modalità e tempi utili alla fauna.
Nella terza tipologia sono presenti soprattutto ungulati ed altre specie di piccola selvaggina.
L’ambiente è quello che comprende le fasce altitudinali al di sopra delle zone coltivate, in cui
prevalgono prati, bosco e fasi di transizione. Da una valutazione della distribuzione attuale della
fauna selvatica sul territorio, risulta la presenza di ungulati in quasi tutte le fitocenosi
dell’Appennino centrale, con incremento numerico della maggior parte delle popolazioni e, per
alcune specie (daino, cinghiale), con ampliamento del proprio areale (Casoli e coll., 2000b).
Gli obiettivi principali dei miglioramenti ambientali per queste aree sono quelli tesi a favorire la
gestione delle specie selvatiche presenti, attraverso una loro omogenea distribuzione sul territorio al
fine di limitare i danni all’ambiente forestale e alle coltivazioni agrarie limitrofe (Casoli e coll.,
2000c).
Le “colture a perdere”, non solo specie erbacee, ma anche arboree e arbustive, sono in grado di
colmare, almeno in parte, i vuoti alimentari che interessano soprattutto i mesi autunnali ed invernali.
Nelle aree boscate si può prevedere una gestione dei tagli al fine di favorire la eterogeneità
dell’ambiente e di mantenere una struttura quanto più disetanea del ripopolamento forestale; si può
prevedere inoltre l’impianto e lo sviluppo di essenze arboree autoctone diverse da quelle prevalenti
(Reg. CEE 2080/92).
L’ultima tipologia riguarda le zone umide, che costituiscono l’habitat di una parte dell’avifauna
acquatica, svolgono il ruolo di zone di sosta e di svernamento per numerose specie nordiche e
fungono da rifugio per certe specie stanziali. Sono tra gli ambienti naturali più ricchi per numero di
specie presenti e per numero di individui. In questo caso gli interventi di miglioramento e
conservazione dell’habitat sono volti a:
♦ proteggere le zone umide esistenti per mantenerle al migliore livello biologico (molti biotopi
umidi sono in via di rarefazione e progressivo degrado per l’utilizzazione come deposito di
rifiuti urbani o di scorie industriali, o per il prosciugamento e bonifica a fini agricoli);
♦ incrementare le disponibilità alimentari, i luoghi di rifugio e nidificazione per gli animali;
♦ limitare l'impiego dei fitofarmaci e dei fertilizzanti, estremamente dannosi per l’avifauna
acquatica.
CONCLUSIONI
L’incremento del patrimonio faunistico, i suoi equilibri e la sua necessaria diversificazione, oltre
alle attività agrituristiche, possono costituire alcune possibilità di incremento delle potenzialità di
numerose aziende agricole sotto l’aspetto dell’integrazione del reddito. La gestione corretta del
territorio, attraverso il ripristino e il mantenimento di habitat adeguati, oggi in gran parte
compromessi da molteplici fattori, è la condizione essenziale per il recupero produttivo delle terre
incolte.
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RUOLO TERRITORIALE E POTENZIALITÀ PRODUTTIVE
DELL’ALLEVAMENTO OVI-CAPRINO NELL’ARCO ALPINO
OCCIDENTALE
Luca Battaglini 1
RIASSUNTO: La relazione verte sul contributo dei sistemi zootecnici ovini e caprini nelle realtà
rurali montane, con particolare riferimento all’arco alpino occidentale. Dopo una prima panoramica
sull’argomento, attraverso la trattazione del ruolo multifunzionale di questa tipologia di
allevamento, vengono illustrate alcune esperienze locali, anche relative a ricerche in corso, per
giungere a considerazioni sull’impatto e sulle ricadute di questi sistemi nelle diverse realtà
territoriali alpine.
PAROLE CHIAVE: sistemi zootecnici, montagna, piccoli ruminanti, qualità delle produzioni
TERRITORIAL ROLE AND POTENTIALITIES OF SHEEP AND GOAT BREEDING IN
MOUNTAIN ENVIRONMENT
SUMMARY: The review presents the role of livestock farming systems (LFS) with small ruminants
in a mountainous environment (W Italian Alps). After an introduction of the topic through a
discussion on the multifunctional role of these livestock systems, some local experiences are
presented. The products of these local realities are in some cases objective of researches, here
summarily described. Considerations on impact and fall-out of these LFS on alpine rural
environment conclude the contribution.
KEY WORDS: livestock farming systems, mountain, small ruminants, products quality
PREMESSA
Nella seconda metà del secolo scorso l’attività zootecnica dell’arco alpino italiano ha subito
profonde variazioni e, dove possibile, si è orientata verso un tipo di azienda più specializzata e
rappresentata dall’allevamento di soggetti caratterizzati da migliori produzioni quantitative (Bianchi
e Tartari, 2000). Il sistema produttivo agricolo aveva come obiettivo principale la massimizzazione
delle produzioni essendo influenzato dal mercato, dal regime di sostegno dei prezzi e dalla necessità
di conseguire la massima efficienza economica. A livello comunitario si è andati progressivamente
verso una intensificazione ed una specializzazione produttiva che ha sfavorito lo sviluppo delle aree
marginali, rappresentate soprattutto dalle zone montane, pedemontane e collinari. In queste zone si
è assistito ad un progressivo abbandono dell’attività agricola, che ha peraltro determinato la perdita
di biodiversità e la conseguente “banalizzazione” del territorio. La consistenza di razze locali, in
maggior misura appartenenti alle specie ovina e caprina e caratterizzate da attitudini produttive più
diversificate, si è nel contempo profondamente ridimensionata e ciò con gravi conseguenze (FAO,
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Professore straordinario. Dipartimento di Scienze Zootecniche, Università degli Studi di Torino.
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1993, 2000; C.N.R., 1983; Monitoring Institute for Rare Breeds and Seeds in Europe, 2002). Tali
razze, infatti, avevano storicamente interessato ambienti montani e pedemontani dove lo
spopolamento da parte dell’uomo è stato assai evidente e dove si è dimenticato il loro ruolo a favore
della conservazione del “territorio” (Battaglini e coll., 1996). Studi recenti (Battaglini e coll., 2000;
Cavallero e coll., 2000) hanno evidenziato che l’abbandono progressivo di aree meno dotate da un
punto di vista agronomico e perciò tendenti alla marginalità, potrebbe essere contenuto con
opportuni interventi di carattere zootecnico. In queste aree le razze autoctone riescono a
sopravvivere a dispetto della forte pressione esercitata dall’introduzione di animali domestici
ritenuti più redditizi, dimostrando una migliore adattabilità all’ambiente ed una elevata capacità di
utilizzazione di foraggi provenienti da pascoli poveri, senza evidenziare particolari problemi legati
alla riproduzione (Bianchi e coll., 1998). Inoltre, l’allevamento di popolazioni di ovini e caprini
orientato ad una produzione più qualificata consente di ottenere prodotti tipici che possono favorire
la valorizzazione di particolari microeconomie locali (Battaglini e coll., 1998; Fortina e coll., 1998).
Nel contempo, termine sempre più diffuso è quello delle cosiddette “esternalità”, neologismo che
indica il ruolo dell’attività agricola nei confronti dell’ambiente, del territorio e della società. Tale
aspetto è stato preso in considerazione anche con la riforma della PAC del 1999, recepita a livello
regionale dal Piano di Sviluppo Rurale 2000-2006: quest’ultimo documento mira “alla promozione
di uno sviluppo sostenibile in tutte le aree rurali della Regione, mediante il consolidamento della
multifunzionalità dell’agricoltura (Battaglini e Biagini, 2000).
Le normative vigenti contengono quindi, un implicito riconoscimento di tale concetto nell’impresa
agricola e della pluriattività dell’imprenditore, che emerge come soggetto inserito non solamente
nel contesto economico e sociale, ma anche in quello territoriale, per i suoi compiti di presidio,
tutela e valorizzazione delle risorse ambientali (Toscano e Lazzaroni, 2001). A livello regionale, il
riconoscimento di specifiche funzioni ambientali agli agro-ecosistemi, assume una rilevante
importanza anche alla luce degli ultimi eventi alluvionali e del progressivo abbandono delle aree
montane. Da queste considerazioni scaturisce la necessità di consolidare il rapporto tra animale
allevato, territorio e produzioni locali tipiche per le implicazioni di carattere sociale, economico ed
ambientale che da esso derivano.
SISTEMI ZOOTECNICI ALPINI E RAZZE OVI-CAPRINE PER LA VALORIZZAZIONE
LOCALE DEL TERRITORIO
I sistemi zootecnici alpini hanno rappresentato per secoli esempi di sostenibilità grazie al
mantenimento di un equilibrio ambientale manifestatosi attraverso la creazione di scenari e paesaggi
ordinati, ben strutturati e in grado di fornire non solo interessanti risorse economiche ma anche
importanti spazi ricreativi per la nostra società. Tali sistemi rappresentano, ancora oggi un esempio
di integrazione armonica tra vocazione territoriale e processi produttivi, consentendo di sfruttare in
modo accorto le produzioni foraggere locali. Va tuttavia ricordato che nelle Alpi occidentali,
nell’ultimo trentennio, tali sistemi sono stati interessati da una profonda evoluzione: parallelamente
al già ricordato spopolamento delle aree alpine, il numero di capi allevati nelle valli e monticati in
alpeggio si è ridotto di quasi un terzo. Ciò ha determinato una sensibile contrazione della superficie
pascoliva e per la forte diminuzione dei piccoli allevamenti stanziali, un sensibile incremento della
dimensione media delle mandrie e delle greggi. Il passaggio dalla tradizionale economia agropastorale ad altre attività, in gran parte legate ad un turismo sempre più svincolato dal contesto
rurale ha provocato, in molte situazioni, un crescente degrado del paesaggio. Sul piano montano e
subalpino tale degrado è stato la conseguenza della riduzione di attività quali lo sfalcio dei prati o il
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pascolamento, comportando l’invasione di vegetazione arbustiva, preludio, nel medio- lungo
periodo, alla ricostituzione della copertura forestale (Battaglini e coll., 2002). La progressiva
riduzione di queste formazioni può portare diverse conseguenze tra le quali la perdita di prodotti
tipici legati all'attività zootecnica. E’ noto, infatti, che queste produzioni erano l’effetto
dell’interazione tra natura e uomo-pastore-allevatore, realizzato attraverso l’attento sfruttamento
delle colture prato-pascolive trasformate dagli animali allevati in alimenti essenziali per il
mantenimento della famiglia. Un altro aspetto da tenere presente è la difficoltà, in tali ambienti, di
applicare con successo tecniche più intensive come accade invece nelle zone di pianura. Ciò, se da
un lato ha permesso di evitare fenomeni di inquinamento e degrado del territorio dovuti allo
squilibrio tra attività produttiva e disponibilità di risorse (Nardone e coll., 2000), dall’altro ha
determinato una progressiva perdita di interesse economico per le produzioni di montagna
(Ubertalle e coll., 1994).
L’ambiente montano piemontese conserva un ampio grado di variabilità rispetto ad altri areali
(Pastorini e coll., 1980). Questa variabilità si manifesta innanzitutto nella presenza di suoli con
pendenza, esposizione, giacitura e caratteristiche fisiche assai differenti. Determinante, poi, risulta
la variabilità di tipo climatico: la vicinanza al mare delle Alpi Marittime e delle Alpi Cozie
determina, in questi territori, condizioni di maggiore piovosità rispetto, ad esempio, alla Valle di
Susa e alla confinante Valle d’Aosta, che risentono di condizioni di maggiore ventosità e secchezza.
L’arco alpino piemontese e le contigue zone pedemontane (Langhe e prealpi biellesi, novaresi e
vercellesi) sono interessati dalla presenza di numerose razze autoctone ovine e caprine; in alcune di
queste aree il legame tra razza, ambiente di allevamento e prodotto è evidente (Vezzani, 1937; Corti
e Brambilla, 2002). Volendo citare alcuni esempi: la razza Biellese, razza ovina ampiamente diffusa
su tutto il territorio regionale e spesso allevata da pastori nomadi; la Sambucana, pecora allevata
quasi esclusivamente in Valle Stura, in provincia di Cuneo; la Frabosana, pecora da latte in
espansione numerica presente in alcune valli delle provincie di Torino e Cuneo; e infine razzepopolazioni caprine caratteristiche di molti di questi ambienti.
L’allevamento della razza Biellese rappresenta ancora oggi, nelle province di Novara, Biella,
Vercelli e Verbania, una radicata tradizione zootecnica di tipo “nomade”: nei mesi estivi le pecore
vengono portate all’alpeggio in valle Sesia e nelle valli Ossolane, seguendo percorsi che consentano
un continuo e adeguato approvvigionamento di erba e di acqua. Nella pianura novarese le greggi
transitano in primavera e in autunno e vi stazionano nei mesi invernali. A differenza da aree a più
spiccata vocazione risicola (bassa pianura vercellese e Lomellina), il territorio novarese conserva
ancora oggi un’ampia varietà di ambienti agrari e seminaturali che consentono tale pratica. Gli
areali delle province di Novara e del Verbano-Cusio-Ossola assumono pertanto un ruolo
fondamentale per il mantenimento di questa attività, a cui sono indissolubilmente legate numerose
peculiarità paesaggistiche ed ambientali, come ad esempio la brughiera o “baraggia”. Un progetto
del WWF su “Le vie della pastorizia” in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Zootecniche
di Torino, ha esaminato pochi anni fa l’entità della transumanza definendone tempi e luoghi: sono
state evidenziate le valenze naturalistica e paesaggistica delle zone attraversate dai pastori,
evidenziando il ruolo ambientale svolto da questo tipo di allevamento e le possibili implicazioni di
carattere economico e turistico (Fortina e coll., 2000). Attraverso la realizzazione di una serie di
guide sono anche stati considerati gli aspetti culturali ed architettonici delle località interessate dal
transito delle greggi (fiere, mercati, monumenti, ecc.), rimarcando inoltre l’importanza economica
dei prodotti dell’allevamento. L’indagine ha individuato nella conurbazione ed infrastrutturazione
delle aree di pianura il maggior ostacolo al mantenimento della pastorizia nomade; il permesso di
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transito è spesso negato a causa dei possibili disagi arrecati alla popolazione residente, che sovente
sono però irrilevanti.
L’esame dei territori percorsi dalle greggi ha evidenziato la presenza di un interessante “reticolo
ecologico” che va però sempre più riducendosi e per il quale sarebbero opportune misure di
salvaguardia. La valorizzazione del ruolo ambientale delle pastorizia e una maggiore diffusione dei
prodotti dell’allevamento potrebbero contribuire al mantenimento di tali aree naturali e
seminaturali, necessarie alla sopravvivenza di questa tradizionale attivit à zootecnica.
Un altro interessante esempio di valorizzazione della zootecnica montana è rappresentato dalla
Sambucana, razza ovina forse appartenente al gruppo degli ovini appenninici con influenza di
sangue Merinos. Conosciuta anche con il nome di "Demontina", la Sambucana è allevata quasi
esclusivamente in Valle Stura; pochi capi sono presenti in valle Tanaro, Casotto e Negrone.
L’attuale consistenza numerica è di oltre 3000 capi, nettamente superiore a quella rilevata dai
censimenti dell’Associazione Nazionale della Pastorizia (Asso.Na.Pa.) del 1970 e del Consiglio
Nazionale delle Ricerche nei primi anni ‘80 (C.N.R., 1983). Nel 1979 la FAO segnalava la
Sambucana come razza ”vulnerabile” (1400 - 1600 capi); la già citata indagine del CNR del 1983
aveva messo tra l’altro in evidenza un elevato numero di meticci Biellese × Sambucana presenti
nelle greggi della zona di allevamento.
Nel 1985 venne avviato un programma di recupero della razza partendo da una decina di arieti e
circa cento pecore con la nascita di un Consorzio, denominato "Escaroun" (in dialetto occitano:
“piccolo gregge”), per la salvaguardia e la valorizzazione della razza Sambucana che portò
successivamente alla costituzione di un Centro Arieti a Pietraporzio, in Valle Stura, presso il quale
vengono ancora oggi effettuati i performance test sui capi in selezione. Nel Centro, oltre ai migliori
riproduttori maschi, sono anche allevate le agnelle e gli agnelli nati nei diversi allevamenti aderenti
al piano di miglioramento e selezionati previa va lutazione morfologica; nel periodo antecedente la
monticazione (maggio-giugno) gli arieti sono ridistribuiti ai proprietari per la stagione riproduttiva.
Per quanto riguarda le produzioni ottenibili dalla razza, la Sambucana oggi è allevata quasi
esclusivamente per la produzione di carne, ottenuta prevalentemente da agnelli macellati a peso
vivo variabile (da 15 e 25 kg) o ancora da agnelloni (denominati tardun) di oltre 40 kg e da soggetti
a fine carriera. Alcune valutazioni circa la qualità della carne degli agnelloni rivelano elementi di un
certo interesse: la carne sembra essere infatti, più apprezzata dai consumatori anche per il basso
tenore in grassi e l’elevato contenuto proteico. Le indagini sul profilo acidico di queste carni
evidenziano inoltre, alcune favorevoli proprietà, dal punto di vista nutrizionale, circa il rapporto tra
acidi saturi e insaturi (Fortina e coll., 1998; Battaglini e coll., 2003a).
La produzione lattea, seppur modesta, consente ad alcuni allevatori la trasformazione in formaggi a
pasta semicotta di media stagionatura. Negli ultimi anni un lanificio piemontese ha avviato una
interessante produzione di indumenti ottenuti con lana di pecora Sambucana, caratterizzata da
discrete caratteristiche tecnologiche e buona attitudine alla tintura, fornendo un prodotto di nicchia
molto apprezzato.
Le attività del Consorzio ”Escaroun” riguardano anche l'organizzazione di mostre, l'assistenza
tecnico-sanitaria agli allevatori, il recupero e la ristrutturazione di aziende idonee all'allevamento
ovino, la promozione dell'agnello sambucano attraverso la costituzione di un marchio a
denominazione di origine, la realizzazione di un macello in Valle Stura e, infine, la già ricordata
valorizzazione della lana. Tra le altre attività che il Consorzio persegue vi sono iniziative di
carattere socio-culturale, quali la Festa del Pastore e la realizzazione di un Ecomuseo sulla storia
della pastorizia e degli alpeggi (Bianchi e coll., 1998; www.ecomusei.net).
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Dal punto di vista della gestione delle greggi, la recente ricomparsa del lupo nelle Alpi occidentali e
nelle Alpi Marittime in particolare, ha imposto un cambiamento delle tecniche di allevamento
durante il periodo di alpeggio. La presenza del predatore, assieme a quella di numerosi cani randagi
o inselvatichiti, è stata infatti, particolarmente conflittuale nei confronti della pecora Sambucana, le
cui greggi erano tradizionalmente lasciate incustodite durante il periodo estivo. Le frequenti
predazioni, nonostante il rimborso dei capi uccisi elargito dalle amministrazioni locali e da altri
Enti, hanno indotto gli allevatori ad accorpare gli animali in poche grandi greggi custodite,
cambiando radicalmente la tecnica di allevamento e di sfruttamento delle cotiche erbose.
La pecora di razza Frabosana, conosciuta anche come "Roascia", "Roaschina" o "Rastela",
"Rastella", originariamente a triplice attitudine (lana, latte, carne), era allevata in passato nelle
province di Cuneo, Torino e Alessandria raggiungendo intorno agli anni ’70 una consistenza di
circa 17000 capi (Battaglini e coll., 1995, 1996). La consistenza subì un drastico calo passando a
13000 capi nel 1970 (censimento Associazione Nazionale della Pastorizia) e a 5671 nel 1983
(censimento C.N.R.), di cui 116 arieti e 5555 pecore. La FAO (1993) classificò la Frabosana come
razza ”minacciata” nel 1991, poiché costituita solo da circa 1000 capi e con un trend numerico
sconosciuto. In seguito alla istituzione del Registro Anagrafico e grazie ai contributi erogati nel
quadro del Regolamento 2078/92, l’attuale consistenza è stimata in circa 7500 capi (Battaglini e
coll., 2003b). Le odierne aree di allevamento, benché ridottesi, comprendono ancora le province di
Cuneo, Torino, Alessandria, Asti ed Imperia in areali appartenenti a diverse Comunità Montane
(Alto Tanaro, Valle Maira, Valle Varaita, Valle Stura, Valli Monregalesi, Valle Grana, Valle Gesso,
Val Pellice e Val Chisone). Sono peraltro presenti numerosi, meticci Biellese × Frabosana, frutto di
un progetto di miglioramento delle performance accrescitive degli agnelli, con conseguenze
deleterie sulla produttività lattea.
Il sistema di allevamento più tradizionale prevede la pratica della transumanza con passaggi
graduali da aree montane di fondovalle, nella stagione fredda, ad alpeggi nel periodo estivo. Tale
tecnica di allevamento non si dimostra particolarmente impegnativa per la razza, che è dotata di
notevole rusticità; la tendenza attuale è però orientata verso un sistema di allevamento di tipo
stanziale giustificabile da un’interessante attitudine alla produzione di latte. L’alimentazione è
basata essenzialmente dal pascolo aziendale con modeste integrazioni di fieno in inverno. Il latte dà
una resa in formaggio del 25% e i prodotti caseari vanno dal Raschera al Pecorino, dalla Toma alla
ricotta; quest’ultima, avvolta in fieni di graminacee, è localmente denominata “seirass del fen”.
Uno studio denominato “L'allevamento della razza ovina Frabosana in Piemonte: caratteristiche e
valorizzazione delle produzioni” realizzato nel 2002 (progetto di ricerca finanziato dall’Istituto
Nazionale per la Ricerca scientifica e tecnologica sulla Montagna) ha indicato buone prospettive di
evoluzione sia per la sufficiente consistenza numerica di partenza sia perché nell’area di
allevamento la pastorizia è una delle poche attività praticabili con utili ripercussioni sul turismo e
sulle produzioni tipiche. In collaborazione con le Comunità Montane Valli Monregalesi, Valli
Gesso Vermenagna Pesio e Valle Pellice è stato ipotizzato un programma di selezione volto ad
individuare i soggetti più rispondenti alle caratteristiche di razza: i rilievi da effettuare sulla
produttività dovranno evidenziare con maggior precisione linee selettive da privilegiare per
migliorare la produttività la ttea, la prolificità e le performance accrescitive degli agnelli.
Se l’allevamento ovino in queste aree montane sta attraversando una fase di evoluzione
relativamente positiva condizionata da modifiche nelle tecniche di allevamento, dalla necessità di
sfruttare al meglio le risorse foraggere locali e, non ultimo, dal favore del mercato e dei consumatori
per le sue produzioni, anche l’allevamento dei caprini è interessato da tale tendenza. Un esempio in
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tal senso è dato dalla razza-popolazione Alpina, che rappresenta la realtà più diffusa dell’omonima
catena: essa è allevata per la produzione del capretto e del latte, quest’ultimo trasformato in alcune
produzioni casearie tipiche. Capre più selezionate e ampiamente diffuse nell’areale montano nordoccidentale sono la Camosciata e la Saanen, anch’esse allevate per la produzione di latte e di
capretti. Da queste razze derivano produzioni locali tipiche quali ad esempio: il “capretto della Val
Vigezzo”, il “violino”, prosciutto di capra del monregalese e dell’Ossola, i salami di capra delle
Valli di Lanzo e ancora, dell’Ossola, realizzati con animali che sono a fine carriera produttiva
(Bianchi e Ighina, 2003).
Altre razze caprine sono invece considerate in via di estinzione quali ad esempio la Vallesana che è
oggi rappresentata da poche centinaia di capi nella zona dell’Alto Novarese e la Sempione
considerata allo stato di “reliquia” contandosene appena 35 capi. Un loro recupero, oltre alla
fondamentale tutela della biodiversità, potrebbe risultare vantaggioso per un’ulteriore tipicizzazione
delle produzioni e come richiamo turistico per le peculiarità di questi animali. Tra le iniziative
messe in atto per rallentare la perdita di questo patrimonio animale autoctono, si possono ricordare
ad esempio quelle dell’ Associazione Italiana Razze Autoctone a Rischio di Estinzione (RARE,
www.save- foundation.net/RARE/, 2003) che, attraverso progetti specifici, si impegna nella
creazione di una ”rete” di allevatori custodi, singoli o riuniti in Associazioni, per lo scambio di
informazioni su queste razze e sui sistemi di allevamento tradizionali.
Infine, un progetto attualmente in corso di realizzazione dal titolo “Sistemi produttivi,
rintracciabilità e salubrità delle produzioni lattiero-casearie ovi-caprine nelle valli Pellice, GessoVermenagna-Pesio e Monregalesi”, finanziato dalla Regione Piemonte, si è posto l’obiettivo di
realizzare modelli descrittivi delle fasi più caratteristiche del processo di produzione, con
particolare riferimento agli aspetti quali-quantitativi della produzione lattiero-casearia ottenibile da
ovini e caprini, proponendo e verificando le modifiche del sistema produttivo per il miglioramento
qualitativo delle produzioni lattiero-casearie e delle condizioni igienico-sanitarie degli allevamenti.
E’ anche prevista la predisposizione di schede e manualistica destinate agli allevatori-caseificatori
per favorire la rintracciabilità e salubrità delle produzioni.
RUOLI AMBIENTALI E TURISTICI DELL’ALLEVAMENTO OVI-CAPRINO
E’ noto come, nel tempo, la politica agricola a sostegno delle produzioni ha svolto un ruolo
determinante portando i livelli produttivi in condizioni di eccedenza; successivamente si è ritenuto
opportuno variare la politica comunitaria favorendo le attività incentrate sull’ottenimento di prodotti
di qualità. Così facendo, con il passare del tempo si è affermato il concetto di multifunzionalità
agricola con una valorizzazione dei benefici che questa è in grado di produrre. La funzione
polivalente dell’attività agricola nei confronti delle componenti ambientali esterne all’azienda, è
tanto più efficace quanto più è continuativa nello spazio e nel tempo. Essa rappresenta, inoltre, un
fattore di identità di una comunità e quindi di un territorio, accrescendone le sue qualità ambientali
e la sua attrattiva. Questa funzione si correla positivamente alla qualità delle risorse ambientali, del
paesaggio agrario e delle sue produzioni rappresentate dai prodotti tradizionali e tipici, dalle
iniziative agr ituristiche e dalle attività sportive che si possono svolgere in ambito rurale.
Da ciò appare chiaro come la multifunzionalità comporti l’adozione di metodi produttivi sostenibili,
che soddisfino i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità di fruizione per
le generazioni future. L’agricoltura sostenibile è infatti, ambientalmente compatibile, ma deve
essere anche conveniente da un punto di vista economico, ed in grado di mantenere e creare
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occupazione per le attività produttive più o meno legate al settore primario, producendo al
contempo benefici ambientali.
A tale proposito, negli ultimi anni si sta affermando la coscienza che l’allevamento di piccoli
ruminanti nelle zone montane non deve più essere solamente considerato per la funzione economica
che può svolgere, ma anche per il suo fondamentale ruolo nella gestione e conservazione del
territorio attraverso la razionale utilizzazione delle risorse prative e pascolive. L’animale,
utilizzando le risorse disponibili in loco, provvede a limitare il rischio di incendi boschivi, oggi
largamente diffusi nella fascia montana e pedemontana. Esso inoltre ha un ruolo di difesa indiretta
contro i rischi di erosione e attraverso l’utilizzazione di particolari essenze foraggere ostacola lo
scorrimento di masse nevose che, se non utilizzate creerebbero, con il fenomeno dell’aduggiamento,
una superficie molto scivolosa e dunque favorevole a tale fenomeno. L’allevatore, oltre a
provvedere alla cura degli animali, svolge un ruolo di “manutenzione” del territorio mediante lo
sfalcio dei prati e la pulizia di fossi e canali, determinando in questo modo una regolare
regimazione delle acque superficiali e mantenendo vitale l’ambiente nel suo complesso.
Una recente esperienza di allevamento con pecore e agnelle di razza Delle Langhe, effettuata in
pascoli abbandonati della Val Germanasca, in provincia di Torino, ha consentito di giungere ad
alcune interessanti considerazioni sull’impatto ambientale e paesaggistico dell’attività pastorale.
Dopo due sole stagioni di pascolo estivo, si è osservato un notevole contenimento delle erbe
infestanti e delle essenze arbustive, una miglior composizione pabulare e, nel complesso, si è
conseguito un più gradevole impatto visivo dell'areale (Fioretto, 1999). I risultati conseguiti in
questo e altri ambienti confermano il ruolo positivo svolto da un pascolamento razionale e
dovrebbero indurre a promuovere interventi di politica agricola destinati al recupero delle aree
montane abbandonate.
Una interessante ricerca nelle Valli del Bitto in Lombardia ha cercato di coniugare le opportunità
turistiche e zootecniche offerte da una razza caprina, l’Orobica di Valgerola: infatti, la passione
degli allevatori e l’interesse per un prodotto caseario peculiare, il Bitto, garantiscono attualmente la
sopravvivenza di un sistema di produzione incentrato sugli alpeggi; inoltre, la sensibilità dimostrata
dai turisti per i valori delle tradizioni consentirebbero una adeguata valorizzazione di queste risorse
territoriali (Corti e Curtoni, 2000).
Dal punto di vista “ecologico”, è noto inoltre come le capre, durante il pascolamento libero,
adottino una modalità di assunzione alimentare molto selettiva (“brucatura”) mediante boccate che,
anche in presenza di formazioni vegetali complesse, difficilmente sono composte da più specie
(Corti e coll., 1997). Il diverso modo della capra di utilizzare le risorse foraggere rispetto agli altri
ruminanti domestici dovrebbe consentire di limitare la vegetazione indesiderata quali essenze
spinose e arbustive, particolarmente appetite dalla specie, di migliorare i cedui abbandonati
attraverso un’adeguata gestione e di rispettare le risorse boschive, anche se tale ruolo è spesso
ostacolato o messo in dubbio da “storiche” leggi forestali (R.D.L 3267/1923 e R.D. 1126/1926). In
tale senso, ovvero impiegando la capra come mezzo di lotta ecologica, sono interessanti alcune
esperienze effettuate con l’allevamento della razza Bionda dell’Adamello che hanno messo in
evidenza questa attitudine (Corti e Maggioni, 2002).
In definitiva, progetti inerenti l’utilizzo delle specie ovina e caprina per il miglioramento delle
caratteristiche ambientali e paesaggistiche dovrebbero integrarsi con proposte e iniziative
riguardanti l’esecuzione di opere di ristrutturazione e di ripristino di locali di allevamento e di
trasformazione dei prodotti, indispensabili per migliorare la competitività degli allevamenti montani
e per stimolarne la nascita e la ripresa.
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Tutto ciò potrà avere ricadute positive anche sul turismo, che può essere rilanciato attraverso
proposte dell’UE con finalità alternative alla produzione quali appunto l’agriturismo e l’ecoturismo.
L’evento olimpico del 2006 può rappresentare un’opportunità utile per far conoscere questi
caratteristici ambienti alpini piemontesi, no n particolarmente distanti dai grossi centri urbani, come
valido richiamo per un turismo “naturalistico” e/o “eno- gastronomico”, favorendone un rilancio
economico.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Dall’analisi delle realtà produttive di alcune razze-popolazioni ovine e caprine dell’arco alpino
occidentale derivano le evidenti ragioni che spingono al mantenimento dell’attività di pastorizia e ai
relativi interventi di salvaguardia nei confronti di questi allevamenti. Le finalità possono essere di
tipo zootecnico tradizionale, quali la produzione di latte, formaggi ed altri derivati caseari e la
produzione di carne; ci sono tuttavia spazi per il recupero di antiche produzioni come la lana e per
l’impiego degli ovini e dei caprini con finalità di servizio a favore del territorio. Gli effetti
dell’abbandono della pastorizia hanno difatti ampiamente dimostrato l’importanza del ruolo svolto
da questo tipo di allevamento dal punto di vista non solo economico, ma anche ecologico e
paesaggistico.
A fianco delle tradizionali produzioni zootecniche, le nuove prospettive dell’ovicaprinicoltura sono
sempre più rappresentate dalla pratica del pascolamento per la conservazione di ambienti naturali o
seminaturali e del paesaggio nel complesso, oltre al prezioso contributo per la riduzione di rischi di
incendio e di erosione del suolo.
Inoltre, quale conseguenza dell’abbandono della pastorizia, la recente ricomparsa del lupo ed il
crescente rischio di predazione legato alla presenza di cani inselvatichiti ha costretto, in sempre più
ristretti ambiti territoriali, i pochi allevatori rimasti ad adottare più razionali tecniche gestionali delle
greggi.
Iniziative turistiche, anche finalizzate alla valorizzazione della cultura del pastore, e la vendita
diretta dei prodotti dell’allevamento potrebbero certamente favorire quell’essenziale
riavvicinamento a culture che nell’ultimo mezzo secolo si sono allontanate più di quanto non era
mai accaduto in passato. Ma se il riconoscimento di questi nuovi ruoli dell’attività del pastore
rappresenta un progresso, occorre considerare i numerosi problemi che ostacolano questa attività
quali, ad esempio, la frammentazione del territorio e la conurbazione. Inoltre, uno dei principali
problemi resta l’elevato livello di invecchiamento delle popolazioni che ancora oggi abitano queste
ristrette aree pastorali; tale fenomeno sta portando ad un rapido e progressivo abbandono di areali
più alpini a favore di territori più idonei ad una zootecnica di tipo stanziale. Sempre in relazione
all’età, è anche da ricordare la scarsa considerazione che presso i giovani riveste attualmente la
figura del “pastore”: questa componente sociale rappresenta certamente una delle concause più
importanti della riduzione drastica dell’attività pastorale e con essa di alcune razze di piccoli
ruminanti
Si ribadisce tuttavia, l’utilità nell’impiego degli ovi-caprini, ed in particolare quelli appartenenti a
razze autoctone, non solo per ragioni zootecniche ma anche per il loro ruolo positivo nella cura e
manutenzione del territorio, oltre all’interessante valenza turistica.
E’ evidente l’importanza della diversità genetica di specie zootecniche che, nel territorio alpino
occidentale, oltre a rappresentare un patrimonio legato alle conoscenze dei sistemi di allevamento
tradizionali, meriterebbe oggi di essere salvaguardata: questo non solo per il crescente valore
economico, ma per il ruolo territoriale, ecologico, sociale e culturale che tale biodiversità possiede.
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VALORIZZAZIONE DELLE RISORSE BOSCHIVE CON
L'ALLEVAMENTO SUINO
Gustavo Campodoni1 , Gianfranco Fabbio 2 , Oreste Franci1
RIASSUNTO: La larga disponibilità di terreni a ridotto reddito, la grande richiesta dei consumatori
di prodotti tipici, la nuova sensibilità dell’opinione pubblica verso il benessere animale in
particolare nei sistemi intensivi, la necessità di recuperare antiche razze autoctone a rischio di
estinzione, hanno portato a riproporre, anche per il suino, un tipo di allevamento brado o semibrado,
una volta diffuso e oggi relegato a piccole realtà dell’Italia centro-meridionale o insulare.
L’allevamento all’aperto di suini, in particolare in bosco, deve però essere gestito in maniera
razionale affinché venga evitato il degrado dell’ambiente naturale, delle fitocenosi e del suolo Pur
facendo tesoro delle esperienze del passato, il loro trasferimento ad oggi deve essere reinterpretato
alla luce delle acquisite conoscenze fisiologiche, alimentari ed comportamentali degli animali e
delle mutate condizioni socio-economiche delle realtà allevatoriali. I prodotti freschi e trasformati
ottenuti con tali allevamenti hanno caratteristiche organolettiche e dietetiche ben distinguibili ed
apprezzate dai cons umatori nonostante gli elevati prezzi. Il sistema, se oculatamente gestito, potrà
valorizzare territori marginalizzati di cui è ricca la Penisola non solo dal punto di vista economico
ma anche culturale con il recupero di tradizioni, anche gastronomiche che rischiano di essere
perdute per sempre.
PAROLE CHIAVE: pascolo in bosco, razze rustiche, qualità della carne.
EXPLOITATION OF WOODY RESOURCES BY PIG REARING
SUMMARY: In recent years outdoor system for pig production, pasture in wood particularly, has
been proposed again in consequence of several reasons: availability of land characterized by low
profitability, increasing of consumer’s requirements of typical products, safeguard of
autochthonous endangered breeds. Pasture in wood for pig production must be done with rational
criteria to avoid deterioration of environment and soil. The ancient experience of rearing in wood
could be applied nowadays but they must take the modern knowledge on animal behavior and
physiology into account; at the same time the new social and economic conditions of rural system
should be considered.
The raw and cured products that come from pigs reared outdoor are characterized by typical dietetic
and organoleptic traits which are, although the high prices, much appreciate by consumers. If
managed in rational way, outdoor system increases the economic and cultural value of marginalized
areas trough the recover of traditions which otherwise could be loss for ever.
KEY WORDS: raising in woodland, local breeds, meat quality
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Professore straordinario. Dipartimento di Scienze Zootecniche. Università di Firenze.
Direttore di sezione. Istituto Sperimentale per la Selvicoltura. Arezzo.
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PREMESSA
L’allevamento all’aperto non prevede l’abbandono del territorio e degli animali agli eventi naturali,
ma una loro gestione oculata, al fine di svolgere un’attività economica nel rispetto dell’ambiente
che deve continuare a fornire risorse senza degradarsi. I sistemi di produzione estensivi, nei quali i
suini pascolano all’aperto per molto tempo della loro vita, hanno una lunga tradizione in molti paesi
europei. Tuttavia, la necessità dettata da motivi economici di incrementare l’efficienza biologica
della produzione della carne e di contenere i costi di gestione degli animali, ha determinato il
declino di questi sistemi di allevamento e la loro evoluzione e trasformazione verso il sistema
intensivo al chiuso.
La tecnica dell'allevamento razionale di suini all'aperto ha radici antiche in Europa. Già nel 1934
Bonadonna e coll. scrivevano "L'allevamento dei suini all'aperto: criteria e tecnica." e
successivamente anche Stanga (1946) e Vezzani (1948) hanno pubblicato articoli su questo
argomento. Negli anni 50 tale tecnica si cominciò a diffondere in Inghilterra; in Toscana se ne
ebbero alcuni esempi in provincia di Arezzo (Savaglio). Ma la vera diffusione si ebbe negli anni 80,
sia nell'Europa del Nord con razze migliorate (Nilzén e coll., 2001; Hogberg e coll., 2001) che in
quella del Sud con razze rustiche (Diaz e coll., 1996; Lopez-Bote, 1998).
La recente rinascita di allevamenti all’aperto è stata guidata da una combinazione di fattori come il
basso valore del capitale fondiario di alcune zone marginalizzate; gli aumentati costi delle strutture,
della gestione e delle attrezzature; l'attuazione di rigide normative circa lo stoccaggio e la
distribuzione dei liquami zootecnici; le pressioni delle organizzazioni animaliste per un allevamento
più consono al benessere animale ed eco-compatibile; il bisogno di diversificare la produzione
rendendola più attenta all’impatto sull’ambiente e soprattutto la crescente richiesta di prodotti
“genuini” da parte dei consumatori.
I principali vantaggi dell'allevamento all'aperto stanno nella possibilità di contenere le spese di
investimento iniziali, che ammontano a circa il 20-25% di quello convenzionale (Barbari e coll.,
1997); nel risparmio alimentare, qualora l'allevamento all'aperto sia condotto con l'utilizzazione del
pascolo; nell’ottenimento di prodotti ad elevata caratterizzazione organolettica.
Tuttavia l'impatto ambientale, specie se l’allevamento si svolge in terreni boschivi, resta uno degli
aspetti critici dell'allevamento all'aperto e va valutato opportunamente in quanto è molto variabile in
funzione del rapporto capi/superficie e della possibilità di turnare le superfici utilizzate.
SISTEMI DI ALLEVAMENTI ALL’APERTO
Il sistema di allevamento all’aperto è seguito, in modo diverso, in Spagna, Portogallo, Franc ia,
Italia, Inghilterra, Olanda e Paesi Scandinavi. Si possono, infatti, distinguere due tipologie di
allevamento all’aperto: una diffusa nel bacino del Mediterraneo che attua l’intero ciclo produttivo
all’aperto, e l’altra dei Paesi del Nord Europa che prevede l’allevamento all’aria aperta delle scrofe
durante le fasi di fecondazione, gestazione ed allattamento, fino allo svezzamento dei suinetti.
Tali tipologie possono così essere schematizzate:
• allevamento en plein air,
• allevamento brado e semibrado.
Allevamento en plein air
In totale mancanza di aree da destinare al pascolo si può utilizzare questo tipo di allevamento che è
molto simile al semibrado con la differenza che i soggetti sono sempre alimentati con miscele.
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L’allevamento viene organizzato per settori: scrofe in gestazione, scrofe in lattazione, suinetti
svezzati, magroni, ingrasso.
Generalmente i terreni che vengono utilizzati per questo tipo di allevamento non hanno
caratteristiche adatte alla coltivazione perché scarsamente produttivi e perciò non potrebbero essere
in grado di fornire agli animali la razione alimentare necessaria per la vita e per la crescita. Per
questo il cibo viene somministrato attraverso preparati o miscele commerciali e la sua distribuzione
avviene in modo simile alle procedure seguite negli allevamenti intensivi.
Le aree all’aperto sono delimitate da recinzioni e presentano al loro interno particolari strutture
mobili per il ricovero degli animali e le attrezzature necessarie per l’alimentazione. Le scrofe,
allevate all’interno di queste aree, sono distinte in gruppi diversificati in base alla fase del ciclo
produttivo in cui si trovano: ad esempio durante la fecondazione e la gestazione sono sistemate con
altri soggetti, mentre durante il parto o l’allattamento sono collocate singolarmente in capannine
(archette).
Un problema rilevante connesso a questo tipo di allevamento è il carico eccessivo che grava sul
terreno poiché la densità degli animali è spesso molto alta. Per risolvere questo problema le aree
sono sottoposte a rotazioni.
Il sistema di allevamento all’aperto che è seguito in Nord Europa non si può chiamare in molti casi
estensivo. Questi sistemi impiegano genotipi altamente selezionati, alimenti con insilati e
concentrati e generalmente concludono l’accrescimento e l’ingrasso dei suini in stalla. Ad esempio
in Inghilterra, ancora nel 1997, l’ente di certificazione della qualità non indicava alcun indirizzo di
gestione dell’allevamento estensivo e di distribuzione delle miscele alimentari.
In Francia è predominante il sistema di allevamento intensivo all’aperto anche se negli ultimi anni è
incrementato notevolmente lo schema produttivo porc fermier che prevede l’accesso degli animali
ad aree piuttosto estese per almeno quattro mesi. Si distinguono poi i porcs fermier Normand, con
dimensioni della carcassa stabilite da un disciplinare, e i porcs label de la Sartre, distinti in due
linee di produzione individuate dall’età dei suini al momento dell’ingresso al pascolo.
L’Olanda e i paesi scandinavi seguono invece il sistema scharrelvarken il quale prevede che i suini
abbiano accesso ad una area esterna separata dalla zona di riposo. In ogni caso i maiali sono allevati
en plein air e concludono il ciclo produttivo all’esterno o in edifici aperti, con un limite massimo di
25 maiali per recinto (Edwards e coll., 1996).
Allevamento brado e semibrado
I tradizionali sistemi di allevamento del bacino del Mediterraneo, che portano alla realizzazione di
prodotti lavorati di alto valore economico, racchiudono un insieme di pratiche agricole estensive in
cui l’interazione genotipo-ambiente influenza la qualità della produzione.
In genere, gli animali allevati allo stato brado o semibrado appartengono a razze rustiche per lo più
derivanti dal suino selvatico mediterraneo (Sus scrofa mediterraneus) che ben si è adattato alle
caratteristiche di questi ambienti. Questi maiali sono robusti, resistenti alle malattie e riescono a
procurarsi l’alimentazione necessaria per il loro sviluppo attraverso il pascolo.
Il sistema brado necessita di grandi superfici possibilmente boscate con essenze in grado di produrre
abbondante alimento come querce e castagni, ma anche corbezzolo, lentisco, olivastro, mirto ed
altri fruttiferi tipici della macchia mediterranea, i cui prodotti sono ben appetiti ai suini. La densità
di allevamento è deve essere bassa per evitare che la competizione alimentare fra i soggetti allevati
arrechi danni alle piante ed al terreno, danni che si manifestano in scortecciature, escavazione delle
radici, sentieramento, scavi. Dato che la produzione alimentare spontanea è stagionale, e soprattutto
risente molto dell’andamento meteorico, sono sempre necessarie integrazioni alimentari nei periodi
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di scarsa fruttificazione. Ove possibile la produzione spontanea viene integrata con la semina di
erbai adatti al pascolo dei suini applicando opportune tecniche di rotazione. In primavera il pascolo
può essere attuato sui prati, sui cereali in erba, sugli erbai di veccia e trifoglio incarnato, mentre in
autunno sui campi di rape e sugli erbai di orzo e segale. Oltre all’erba i suini divorano radici e tuberi
che ricercano da soli, ma soprattutto le ghiande e le castagne. Infatti, il pascolo autunno-vernino
viene effettuato in particolare nei boschi di querce, roveri, lecci, castagni e anche su maggesi e
medicai.
Gli svantaggi di questo tipo di allevamento sono causati dagli stress climatici cui gli animali sono
sottoposti. E’ possibile ridurre l’intensità di questi stress fornendo zone d’ombra e sufficienti
quantità di acqua in cui gli animali possano immergersi durante l’estate e assicurando loro un buon
riparo e lettiere confortevoli durante l’inverno. L’obiettivo è quello di aumentare le potenzialità di
adattamento dei suini (Webster, 1999).
Il sistema semibrado si può utlizzare ove non si disponga di grandi superfici per il pascolo. Gli
animali sono allevati per gruppi distinti (riproduttori, suini all’ingrasso) in recinti di opportune
dimensioni ed alimentati con miscele adatte ai diversi stadi fisiologici.
Le scrofe alla fine della gestazione vengono rinchiuse in piccoli recinti forniti di semplici ricoveri
(archette) dove durante il parto e la successiva lattazione i suinetti troveranno migliori condizioni
ambientali. I recinti per i parti sono forniti di mangiatoie cui possono avere accesso esclusivo o i
suinetti o la scrofa. Il pascolo macchiatico viene utilizzato dai soggetti all’ingrasso e solo nel
periodo più favorevole, e cioè alla caduta della ghianda e della castagna, in modo da non
sovrapascolare e quindi danneggiare il bosco. E’ possibile anche in questo caso l’utilizzazione di
pascolo su erbai, da destinare soprattutto alle scrofe in gestazione. In passato erano utilizzati in
particolare gli erbai di medica alla fine del loro ciclo produttivo triennale o quinquennale o per
utilizzare gli ultimi ricacci a fine estate.
PASCOLO E BOSCO
Da millenni gli uomini hanno introdotto il bestiame nei boschi, tanto da rendere le voci “pascolo” e
“bosco” sinonimi. Nell’alto medioevo per “pascolo” si intendeva un “ceduo” con diritto di pascolo,
distinto dalla “selva”, nome generico di luogo boschivo e della “foresta” fustaia riservata e chiusa.
In latino “saltus” significava insieme pascolo e bosco.
L’analisi di compatibilità tra il bosco e l’allevamento animale deve tenere conto di quanto riportato
in tutti i testi di ecologia e cioè che un pabulum ridotto per i macromammiferi rappresenta nei
sistemi forestali un controllo omeostatico fondamentale per allontanare organismi limitanti la
rinnovazione naturale e quindi assicurare la perpetuazione del bosco. La capacità portante per le
foreste è stimata mediamente in circa 110 kg di peso vivo per ettaro di foresta (Susmel e coll.,
1981). Sono quindi la struttura e l’organizzazione funzionale propri dell’ecosistema forestale a
limitare naturalmente l’uso da parte di popolazioni diverse dai micromammiferi, uccelli e insetti.
Ciò non significa evidentemente che in un ambiente di antichissima antropizzazione quale il nostro,
bosco e pascolo siano stati soggetti distinti, ma piuttosto che proprio il pascolamento nel bosco è
stato storicamente uno dei fattori condizionanti lo sviluppo e la modificazione delle foreste
originarie insieme con l’utilizzo per legna e legname ed il disboscamento necessario ad
incrementare la superficie coltivabile.
Se questo era il contesto fino ai primi decenni del secolo scorso, i rapidi mutamenti economici e
sociali successivi alla prima rivoluzione industriale hanno ridotto in modo drastico la pressione sul
bosco e consentito una migliore organizzazione della società rurale ancora collegata alle attività di
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produzione primaria, ivi compresa quella di allevamento. Nell’ultimo periodo si collocano gli
esempi più recenti di pratica dell’allevamento brado e semibrado nella fascia collinare e
submontana, soprattutto nell’ambito di aziende complesse che gestivano in modo integrato coltivi,
pascoli e bosco. Espressione di questa economia rurale era la grande proprietà (fattoria) suddivisa in
poderi condotti a mezzadria, quale quella che esisteva in ampie aree geografiche dell’Italia centrale
fino alla metà del secolo scorso.
Oggi, in un contesto generale molto diverso teso a sviluppare e valorizzare le risorse dell’ambiente
rurale per bilanciare gli effetti negativi del massiccio inurbamento e proporre qualificate alternative
capaci di mantenere popolazioni rurali attive e produttive, si propone una serie di attività
economiche basate sul concetto di gestione sostenibile delle risorse naturali del territorio. E’ in
questa situazione che si inserisce e trova rinnovato interesse l’allevamento delle razze rustiche suine
come produzioni di nicchia ad alto valore aggiunto, riproposte in ambienti che storicamente le
hanno viste nascere e svilupparsi.
L’analisi delle possibilità di sviluppo di questa produzione in rapporto all’uso delle risorse naturali
coinvolte deve tenere conto sia dei criteri di sostenibilità delle scelte proposte, ovvero del
compromesso tra esigenze di carattere bio-ecologico, economico e sociale (concetto corrente di
sostenibilità), che del mutato contesto della produzione stessa e del relativo ambiente.
Dato l’assunto dell’interesse economico dell’imprenditore e quindi di un beneficio in termini sociali
per l’effetto di filiera prodotto, è necessario individuare il compromesso ottimale per mantenere
vitali e quindi capaci di conservarsi le risorse naturali utilizzate per la produzione stessa.
L’elemento più sensibile in termini di tolleranza al disturbo provocato dal pascolamento è, per le
ragioni esposte in premessa, il bosco.
Le condizioni strutturali e produttive dei boschi sono quanto mai variabili per la fertilità stazionale
(profondità del suolo, umidità, esposizione, giacitura), il trattamento passato (ceduo od altofusto) e
l’intensità dei disturbi (frequenza ed intensità dei tagli, pascolo eccessivo e protratto per lunghi
periodi, incendi). Si passa quindi, anche in aree ristrette, da boschi a densità colma e struttura di
altofusto con piante mature a chioma ampia e sottobosco ridotto, a cedui più o meno degradati a
copertura discontinua, fino a boscaglie (quercio laie) dove l’elemento arboreo è minoritario ma
prevale uno strato arbustivo composto da specie pioniere con la tessitura originale del bosco ormai
interrotta. Aree di ex castagneti da frutto non più coltivati sono spesso presenti nella fascia di
vegetazione del querceto insieme a pinete di impianto artificiale (rimboschimenti) create fino agli
anni ’50 per ricostituire una copertura forestale nelle zone più degradate e a rischio idrogeologico.
Tale quadro si presenta in diverse zone collinari delle regioni dell’Italia centrale che in passato sono
state interessate dallo stesso tipo di organizzazione della produzione e dall’allevamento brado suino.
Il passato
Elementi tipici della campagna dell’Italia centrale, del Chianti senese e aretino in particolare, e
componenti qualificanti del valore estetico associato al paesaggio locale, erano sia le grosse querce
diffuse nei campi isolatamente o in piccoli gruppi che i cosiddetti querceti da pascolo o da ghianda
di roverella. Questi boschi erano mantenuti radi e formati da piante di medie e grosse dimensioni e
di età scalare (matricine), il cui numero variava da 80 a 150 per ettaro in funzione della fertilità
(Bernetti, 1987). Le chiome cresciute isolate e ampie davano luogo ad abbondanti fioriture ed
altrettanto abbondanti produzioni di ghianda per la forte illuminazione superiore e laterale. La
produzione di legna per gli usi domestici del podere era riservata al ceduo sottostante le matricine,
ma del tutto accessorio era l’interesse per quest’ultimo prodotto rispetto alla ghianda. La ridotta
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copertura superiore consentiva la vegetazione di uno strato erbaceo, utile ad integrare la produzione
per il pascolo ovino associato a quello del suino.
In letteratura, i riferimenti all’ultimo periodo di diffusa e consolidata gestione dell’allevamento
brado e semibrado terminano con la fine della conduzione a mezzadria intorno alla metà del secolo
scorso. Appare utile richiamare qui i lavori molto dettagliati e ricchi di informazioni di alcuni autori
che descrivono l’ambiente socio-economico, l’organizzazione della produzione, l’utilizzo del bosco.
In genere nel territorio toscano, per esempio, le fattorie avevano un’estensione media di 300-500
ettari suddivisa in 15-20 poderi di superficie unitaria variabile da 10 a 30 ettari. La parte di terreno
sodivo o di bosco poteva essere anche due o tre volte quella coltivata. I terreni sodivi venivano
utilizzati come pascolo per le pecore ed i maiali. Il tipo prevalente di bosco era il ceduo semplice
diviso in sezioni con turno di 8-10-12 anni. La lavorazione del bosco (legna, carbone, scorza, pali
ecc.) spettava al proprietario il quale la effettuava in economia oppure in cointeressenza con
boscaioli o carbonai; qualche volta il bosco era venduto in piedi. Lo sfruttamento del sottobosco
invece (ghiande, frasche, pascolo, ecc.) era compiuto dal colono mediante branchi di pecore e di
suini il cui reddito veniva diviso a metà con il proprietario. In alcune zone la superficie coltivata del
podere era relativamente piccola (8-10 ettari) in confronto al bosco (20-40 ettari in media). Il carico
per ettaro era assai vario e veniva messo in relazione alla quantità di ghianda prodotta, che è
variabilissima. Si può stabilire in larga approssimazione che su 30 ettari a bosco insisteva un branco
di 40-45 capi delle varie età. L’integrazione alla dieta di ghianda era fatta con beveroni di farina di
castagne, orzo, granturco, crusca, ecc. Anche l’ingrassamento del maiale veniva compiuto al bosco
ed iniziava con la raccolta della ghianda non prolungandosi mai oltre i 3-4 mesi durante i quali i
magroni acquistavano 60-80 kg di peso con un consumo medio di ghianda valutabile in circa 500 kg
(Dondi, 1924).
Il pascolo era costituito anche dalle stoppie, dai cigli dei fossi e dalle strade, dagli argini e dai
“disfatticci” (prati di leguminose a fine ciclo produttivo). Nel bosco invece si utilizzava
principalmente la ghianda. Quali alimenti concentrati di solito venivano impiegati orzo e granturco
in granella e farina, ghiande, fave, ecc. (Tornar, 1950).
Intorno al 1950, il carico medio di maiali nella tipologia del querceto da ghianda di roverella era di
1 scrofa e 2 magroni per ettaro per un mese (Bellucci, 1953). Ancora, riferisce Marinelli (1979), il
bosco non era soltanto direttamente pascolato ma la raccolta della ghianda era anche pratica comune
e complementare. E’ ipotizzabile che la raccolta e la conservazione riguardassero anche il frutto
proveniente dalle grosse querce cresciute isolate ed intercalate ai campi. Il carico era di circa 86
pecore e 30 magroni per 100 ettari di bosco ceduo. Questi ultimi venivano portati al pascolo nel
bosco agli inizi di novembre e vi rimanevano fino a tutto il mese di maggio (Marinelli, 1979).
In una rassegna recente della bibliografia forestale italiana sul tema della matric inatura dei boschi
cedui comprendente 128 titoli (Fiorucci, 2002) sono stati rilevati soltanto 5 riferimenti a stime o
misure di produzione di ghianda. Tra questi Ricci (1830 in Fiorucci, 2002), riporta come 300 suini
al pascolo brado potessero essere allevati da 4000 querce. Ipotizzando una densità media di 115
querce ad ettaro, si ricava una superficie di bosco di circa 35 ettari. Secondo Pavari (1930), in anni
di elevata produzione di frutto (pasciona) un ceduo di leccio tagliato a sterzo può allevare 1 unità
ogni 1-2 ettari per circa 2/3 dell’anno. Misure dirette di produzione di frutto in un ceduo di cerro e
rovere di 24 anni (Corona e coll., 1986) danno i seguenti valori unitari: 0,13 kg per i polloni (età 24
anni), 3 kg per matricine di 2 turni (età circa 50 anni), 16 kg per matricine di 3 turni (età circa 75
anni). I valori crescono quindi in modo esponenziale per le successive classi di età delle piante in
funzione del ritmo di sviluppo della chioma.
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Il presente
La situazione attuale è evidentemente molto diversa in tutti gli elementi coinvolti. Ieri,
un’organizzazione consolidata della produzione diffusa sul territorio (fattorie e conduzioni
mezzadrili) esercitava l’allevamento ed il pascolo in modo integrato alle altre attività, utilizzando in
modo mirato tutte le componenti del podere e sovrapponendo spesso usi diversi e complementari
sulle medesime superfici. Oggi, un proprietario imprenditore intende avviare un’attività economica
valorizzando una disponibilità di terreno (bosco, ex seminativi, incolti produttivi, pascoli) originata
dai cambiamenti nella struttura e destinazione produttiva precedente.
Se esaminiamo la componente bosco, anello fondamentale del tipo di allevamento proposto,
troviamo oggi tipologie in genere più chiuse dove la minore pressione del taglio e del pascolo e
l’acquisizione di età medie superiori hanno consentito un’evoluzione della densità. Rilevante, è
anche la riduzione dei boschi da pascolo – i più produttivi per la ghianda – o la loro trasformazione
per invecchiamento delle matricine ed il contemporaneo sviluppo del bosco ceduo sottostante non
più tagliato. Laddove la fase regressiva precedente non ha consentito recuperi di copertura arborea
sono ancora diffusi i boschi degradati spesso associati ad una presenza arbustiva più sviluppata.
Complessivamente quindi è presente un ambiente forestale con caratteristiche meno adatte all’uso
con il pascolo, particolarmente per quanto riguarda la produzione di ghianda, elemento qualificante
l’allevamento brado nel bosco.
Contemporaneamente a questo cambiamento, l’attenzione verso le funzioni non produttive
riconosciute al bosco – tutela ambientale, ricreazione, paesaggio – ha assunto un peso maggiore sia
per l’aumentata sensibilità dell’opinione pubblica che per la molto diminuita necessità di un uso
produttivo tradizionale di questa risorsa.
Compatibilità e prospettive di sviluppo del pascolo in bosco
Alcuni elementi importanti del protocollo di conduzione del pascolo sono ritraibili dalla pratica del
passato, dove ad un utilizzo delle risorse naturali sicuramente intensivo, si associava la percezione
chiara che la conduzione del bene non dovesse eccedere i limiti della compatibilità biologica, pena
la perdita del bene stesso e la conseguente riduzione del reddito per molti anni. Un principio
empirico di responsabilità governava quindi l’intensità del carico animale ed i periodi di
pascolamento, collegati alla disponibilità stagionale di ghianda ed alla conoscenza dell’alta
variabilità annuale di produzione. L’uso dei terreni agrari a fine coltura o a riposo e dei pascoli
forniva, insieme alla sempre presente integrazione alimentare, la necessaria complementarietà
spaziale e temporale al pascolamento nel bosco.
Su questi criteri, che altro non sono se non regole di buon governo, si devo no basare le linee
propositive per il successo e lo sviluppo attuale dell’allevamento. La sufficiente disponibilità di
superficie a bosco, la conoscenza della sua produttività media, la presenza di terreno non boscato
limitrofo pascolabile con l’accesso a risorse alimentari complementari, la disponibilità a fornire le
necessarie integrazioni sono gli elementi base su cui impostare la produzione. La dimensione
dell’allevamento non deve eccedere comunque la capacità portante dei sistemi naturali investiti
nell’attività. La consistente variabilità della produzione annuale di ghianda (tabella 1) e la sua
disponibilità diretta limitata al periodo autunno- invernale, impongono poi di rendere temporalmente
flessibili le dimensioni dell’allevamento, a meno di non poter procurare risorse addizionali esterne
alla necessità. La verifica preliminare di questi parametri indicherà se esistono le condizioni minime
per impostare un’attività economicamente valida.
Date la produttività e le diverse condizioni compositive e strutturali degli ambienti di bosco
interessati al pascolamento, non è possibile indicare a priori carichi unitari sostenibili. I dati in
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letteratura evidenziano mediamente un carico medio complessivo di 1 capo per 1-2 ettari e per anno
a carico del bosco. Sarebbe inoltre opportuno applicare anche al bosco, pur con qualche difficoltà,
tecniche di razionalizzazione del pascolamento ordinariamente applicate nei pascoli erbacei
(turnazione con recinzioni, realizzazione di alti carichi istantanei per periodi limitati, ecc.).
Tabella 1: Media annuale di produzione di ghianda (kg/ha)
Table 1: Production per year of acorn (kg/ha)
Anno
Cerro
Year
Quercus cerris
2000
61,67
2001
28,70
2002
916,16
2003
965,31
Leccio
Quercus ilex
426,30
365,25
1740,66
3252,85
D’altra parte è possibile affidarsi a degli indicatori che permettano la valutazione di sostenibilità
corrente anno dopo anno. Questi possono essere individuati dal monitoraggio dell’entità,
distribuzione e tipo di danni prodotti dagli animali al suolo ed alla ve getazione, facilmente
rilevabili, in raffronto allo stato iniziale, con osservazioni periodiche sul territorio di pascolamento
da parte dell’allevatore stesso, prima che essi diventino sanzionabili dall’autorità di controllo. A tale
proposito, esperienze precedenti di pascolamento in bosco condotte con altri tipi di bestiame (bovini
ed ovini) (Amorini e coll., 1980; 1981; 1990; Fabbio e coll., 1990; Fabbio e coll., 1998) e con suini
rustici (Fabbio e coll., 2001 e Grifoni e coll., 2001) indicano che se l’occorrenza del danno diffuso è
funzione diretta del carico, quella del danno localizzato può realizzarsi anche con carichi minimi,
dipendendo da molti fattori, tra cui fondamentale è l’etologia dell’animale. Nel caso del
pascolamento suino, all’azione di costipamento del suolo, particolarmente marcata nel periodo
piovoso autunno- invernale, e di rottura dello strato di lettiera (sentieramento), si somma quella di
sommovimento degli orizzonti superficiali (con conseguente erosione del suolo e danno alla
vegetazione) per l’azione di scavo e ricerca di bulbi, rizomi, funghi, radici. Tale tipologia di danno
può essere anche, entro ampi limiti, indipendente dalla disponibilità di ghianda (Grifoni, 2003). Per
tutti questi motivi, il monitoraggio dell’area pascolata diventa l’elemento essenziale per la
conduzione sostenibile del pascolo in bosco. In ultima analisi questo significa mantenere il disturbo,
ossia l’erosione della qualità, entro i limiti della capacità di ripristino e di mantenimento del
sistema.
Ogni fattore capace quindi di ridurre l’impatto sul bosco, vale a dire l’utilizzo nel periodo di
effettiva disponibilità di alimento, il dimensionamento del carico in funzione della produzione
corrente, l’uso di superfici agrarie o pascolative complementari, diventa un fattore di stabilità e
perpetuazione dell’allevamento. Ciò consentirà di accompagnare alla certificazione del prodotto,
principale e giustificata preoccupazione del produttore, una ecocertificazione della produzione
intesa come risultato globale dell’uso sostenibile dell’ambiente e delle risorse investite.
Non si può escludere l’applicazione di tecniche colturali alle tipologie di bosco attuali per
incrementare la produzione di ghianda e rendere l’ambiente stesso più accessibile agli animali. Le
fustaie da ghianda ancora esistenti potrebbero essere ripristinate gradualmente con il taglio del
ceduo maturo sottostante le chiome delle matricine e con l’eliminazione delle piante stramature in
fase di decadimento funzionale e non più produttive. Queste verrebbero sostituite progressivamente
con il rilascio di nuove piante scelte tra i migliori polloni del ceduo, oltre che naturalmente con il
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rilascio delle matricine più giovani già presenti dal precedente ciclo colturale. E’ questa
un’operazione delicata da affidarsi a maestranze specializzate, che produce risultati nel medio e
lungo periodo e richiede investimenti al di là del reddito immediato ricavato periodicamente dalla
vendita della legna. Ha però il pregio di rinnovare l’attenzione colturale del proprie tario verso tipi di
bosco attualmente poco o per nulla utilizzati e di ricostituire nel tempo tratti di bosco tipici del
paesaggio rurale ad elevato valore estetico.
Per quanto riguarda invece le aree di bosco ceduo in invecchiamento naturale per sospensione
dell’utilizzazione tradizionale, l’avviamento all’altofusto può essere la via ottimale se le condizioni
strutturali, compositive e di fertilità stazionale rendono percorribile questa soluzione colturale. La
minore densità ed il conseguente maggiore sviluppo delle chiome con l’età, sono elementi positivi
per un uso accessorio con il pascolo. Nell’area largamente più consistente del ceduo tuttora
utilizzato, una maggiore attenzione alla qualità dei rilasci, che possono essere drasticamente ridotti
nel numero fino a 40-50 soggetti per ettaro scelti tra le piante migliori, può portare a sensibili
aumenti della produzione in termini di disponibilità di ghianda per il pascolo. In questo caso, la
sospensione del pascolamento per alcuni anni successivi alla ceduazione per consentire uno
sviluppo indisturbato ai nuovi polloni, è norma canonica già prevista dalle leggi forestali. Nelle
situazioni in cui la coltivazione interrotta del bosco ha prodotto l’insediamento di una densa
vegetazione arbustiva, il pascolamento può utilmente contribuire a ridurre la biomassa combustibile
al suolo ed il conseguente rischio di incendio. L’uso accessorio per un’attività di pascolo potrebbe
infine stimolare una maggiore attenzione colturale verso le formazioni più rade e degradate
(querciolaie) colonizzate spesso da vegetazione arbustiva facilmente infiammabile, che
rappresentano oggi situazioni in abbandono difficilmente recuperabili per via naturale.
LE RAZZE SUINE RUSTICHE
I suini rustici appartengono al gruppo delle razze a profilo rettilineo e sono caratterizzati da una
testa lunga, conica, affusolata, quasi sempre con orecchie portate orizzontali e rivolte in avanti;
corpo allungato, con dorso dritto; arti abbastanza lunghi e sottili; pelle totalmente o parzialmente
pigmentata in nero, ricoperta da setole scarse (Bonadonna, 1951); hanno generalmente
accrescimento lento, non raggiungono pesi di macellazione elevati, presentano bassa prolificità, ma
forniscono carne di ottima qualità con caratteristiche organolettiche di indiscussa superiorità
(Morlacchini e coll., 2000). Se non affetti da elevata consanguineità, questi soggetti sono resistenti
alle malattie e possono adattarsi ai più svariati ambienti in quanto la loro rusticità li rende adatti ai
climi ed ai territori difficili.
Le trasformazioni subite dalla zootecnia dal dopoguerra ad oggi hanno profondamente modificato la
suinicoltura nazionale. L’enorme progresso ottenuto dall’attività selettiva su alcune razze straniere
ha innescato un processo di sostituzione delle razze locali e la loro rapida ed inesorabile
diminuzione fino all’estinzione per molte di esse.
Il problema della scomparsa del dei suini autoctoni non si può definire del tutto nuovo. All’inizio
del ‘900 erano presenti in Italia 21 razze e 8 sottorazze o varietà e già nel 1927, come scriveva
Mascheroni (1927) nel suo trattato di Zootecnica, ne rimanevano solo 11 e cioè la Romagnola, la
Cinta Senese, la Cappuccia, la Maremmana, la Perugina, l'Abruzzese, la Casertana, la Pugliese, la
Calabrese, la Siciliana, e la Sarda. Ma già allora era sentita l'esigenza di non lasciar scomparire il
materiale genetico indigeno, anche se scarsamente produttivo, tanto che Stanga (citato da
Mascheroni, 1927) scriveva che sarebbe stato opportuno "uno fare e l'altro non omettere" cioè
introdurre nuove e più produttive razze ma comunque migliorare con la selezione e non
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abbandonare le razze autoctone. Delle 11 razze italiane ricordate dal Mascheroni oggi se ne possono
contare solo cinque e precisamente: la Cinta Senese e la Nera Siciliana, con un numero di 600-800
scrofe, e la Romagnola, la Casertana, la Calabrese, che annoverano complessivamente circa 100
scrofe (Franci e coll., 2001).
Attualmente è in aumento l'interesse per le razze rustiche non per puro conservazionismo, ma
perché questo patrimonio genetico non deve essere disperso e potrebbe rappresentare un’utile
risorsa in futuro in quanto frutto di una risposta secolare all'ambiente di allevamento (Feroci, 1979).
Oggi bisogna comunque competere con un mercato globale per cui lo spazio per le razze rustiche e
meno produttive si è sempre più ridotto, ma un filo di speranza per la salvezza si prospetta, non
tanto nei premi per l'allevamento distribuiti dai più diversi organismi, ma dalla possibilità di
produrre alimenti "tipicizzati" (Matassino e coll., 1996) e di pregio che sono sempre più richiesti da
nicchie di consumatori d'elite. La valorizzazione delle razze locali passa quindi attraverso la
promozione de prodotti tipici in generale legati ad ambienti di allevamento e tecnologie di
lavorazione particolari (Feroci, 1979).
PERFORMANCE PRODUTTIVE E QUALITÀ DELLA CARNE FRESCA E STAGIONATA
NELL’ALLEVAMENTO ALL’APERTO
Indubbiamente il sistema di allevamento più adatto alle razze suine rustiche è quello estensivo che
permette la valorizzazione di territori ormai marginalizzati e di prodotti tipici. Naturalmente un
sistema di produzione di questo tipo richiede cicli di allevamento con tempi più lunghi e ciò appare
evidente confrontando le performance di accrescimento (figura 1) di soggetti Cinta Senese allevati
all’aperto e al chiuso.
Figura 1. Andamento del peso di suini di razza Cinta Senese allevati con sistema brado e intensivo
Figure 1. Evolution of live weight of Cinta Senese pigs in the two rearing systems
Brado - Outdoor
Intensivo - Indoor
140
120
100
80
60
40
20
Età - Age (d)
36
510
480
450
420
390
360
330
300
270
240
210
180
150
120
0
90
Peso Vivo - Live weight (kg)
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I soggetti allevati estensivamente risentono in maniera evidente delle difficoltà di reperire alimenti,
in particolare durante la stagione estiva, mentre mostrano un accrescimento compensativo in
autunno particolarmente favorito dalla disponibilità di ghiande e castagne (Franci e coll., 2001).
L’andamento dell’accrescimento di questa razza toscana risulta simile a quello del Cerdo Iberico
allevato estensivamente (Mayoral e coll., 1999).
Come si può osservare in tabella 2 gli animali allevati al pascolo raggiungono il peso di
macellazione (140 kg) ad una età superiore di circa 200 giorni rispetto a quelli stabulati. Presentano
inoltre carcasse con maggiore incidenza di tagli grassi e minore di tagli magri, quale conseguenza
della grande disponibilità di castagne e ghiande nella fase finale, che ha favorito l’ingrassamento.
Tabella 2: Performance di macellazione in suini di razza Cinta Senese allevati con sistema brado e
intensivo
Table 2: Slaughter traits of Cinta Senese pigs in the two rearing systems
Intensivo
Brado
d.s.r.
Indoor
Indoor
r.s.d.
Età
d
312 a
509 b
16,2
Age
Peso di macellazione
Kg
135,30 a
127,30 b
8,96
Slaughter weight
Resa
%
81,22
81,64
1,62
Dressing
Tagli magri
%
57,76 a
54,05 b
1,87
Lean cuts
Tagli grassi
%
36,69 a
40,97 b
2,10
Fat cuts
Tagli ossei
%
5,14
4,94
0,43
Bone cuts
In tabella 3 sono riportate le caratteristiche chimiche e fisiche della carne fresca (muscolo
Longissumus lomborum) ottenuta da suini Cinta Senese allevati al brado o al chiuso (Franci e coll.,
2001).
Non si notano differenze a carico del pH sia a 45 minuti che a 24 ore contrariamente a quanto
indicato da alcuni autori che hanno riscontrato valori più bassi nei soggetti allevati estensivamente
(Van del Wall e coll., 1993; Enfalt e coll., 1997).
I soggetti al brado hanno prodotto carni meno riflettenti e più intensamente colorate dei soggetti
allevati in stalletti, probabilmente a causa dell’età più avanzata e della maggiore concentrazione di
mioglobina nel muscolo imputabile al movimento all’aperto (Mayoral e coll., 1999).
L’allevamento estensivo ha inoltre determinato carni meno umide e più ricche di grasso, con
maggiori cali di cottura e meno tenere dopo cottura, risultati che starebbero a confermare quanto
rilevato anche sulle razze migliorate (Sather e coll., 1997; Enfalt e coll., 1997).
Le differenze si manifestano anche sul prosciutto stagionato (tabella 4). I soggetti allevati al brado
mostrano una maggiore percentuale di grasso sottocutaneo a spese del magro e, all’analisi chimica,
presentano carne (muscolo Biceps femoris) più grassa e meno acquosa.
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Tabella 3: Caratteristiche chimiche e fisiche della carne di suini di razza Cinta Senese allevati con
sistema brado e intensivo
Table 3: Meat traits in Cinta Senese pigs in the two rearing systems
Intensivo
Brado
d.s.r.
Indoor
Outdoor
r.s.d.
pH 45
6,22
6,24
0,24
pH 45
pH 24
5,78
5,83
0,18
pH 24
L*
49,70 a
46,46 b
3,64
L*
Croma
12,38 a
15,57 b
2,05
Chroma
Tinta
0,38
0,37
0,07
Hue
Umidità
%
73,25 a
71,75 b
1,21
Moisture
Proteine
%
22,78
23,02
1,00
Protein
Estratto etereo
%
3,19 a
4,17 b
0,84
Ether extract
Calo di cottura
%
26,04 a
28,12 b
4,24
Water loss after cooking
Acqua libera
cm2
9,94
9,55
1,73
Water loss by pressure
Sforzo di taglio a crudo
kg
9,74
9,83
2,55
Shear force on raw meat
Sforzo di taglio a cotto
kg
10,53 a
15,02 b
2,75
Shear force on cooked meat
Calo di salagione
%
2,01 a
4,29 b
0,89
Salting loss in ham
E’ comunque sulla componente adiposa che si manifesta più marcatamente l’influenza del sistema
di allevamento. In tabella 5 e 6 sono riportate le ana lisi chimiche del tessuto adiposo fresco e
stagionato del prosciutto di suini Cinta Senese allevati intensivamente ed estensivamente (Pugliese
e coll., 2002).
Anche l’indice di proteolisi, che entro certi limiti è fondamentale per lo sviluppo dell’aroma del
prosciutto, è stato influenzato dal sistema di allevamento ed i soggetti allevati all’aperto mostrano
un indice di proteolisi più elevato, comunque sempre al di sotto del 29-30% indicato come limite
oltre il quale si possono manifestare anomalie organolettiche (Toldrà, 1988). Tale indice,
contrariamente a quanto riscontrato da Rivaldi e coll. (1998), non ha provocato la mollezza del
magro, come risulta dai valori dello sforzo di taglio.
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Tabella 4: Composizione tissutale della fetta campione di prosciutto stagionato e caratteristiche
fisico-chimiche del muscolo Bicipite femorale (Bf)
Table 4: Sample join composition of cured ham and physical–chemical characteristics of Biceps
femoris (Bf) muscle
Intensivo
Brado
Indoor
Outdoor
Su fetta campione
On sample slice
- Grasso sottocutaneo
%
37,75 a
40,74 b
Subcutaneous fat
- Grasso intermuscolare
%
3,72
3,93
Intermuscular fat
- Magro
%
58,34 a
54,99 b
Lean
Su muscolo Bf
On Bf muscle
- Sforzo di taglio
Kg
20,88
19,47
Shear force
- Umidità
%
47,04 a
44,86 b
Moisture
- Proteina
%
35,13
33,73
Protein
- Estratto etereo
%
5,70 a
7,73 b
Ether extract
- Indice di proteolisi
%
18,27 a
19,96 b
Proteolysis index
I soggetti allevati al brado presentano più bassi valori di umidità del tessuto adiposo fresco ma le
dopo stagionatura anche la differenza scompare. Sia sul tessuto adiposo fresco che sullo stagionato
il sistema di allevamento ha influito fortemente sulla composizione acidica. In particolare C14:0 e
C16:0, notoriamente considerati pericolosi alla salute, sono risultati del 25% e del 15%
rispettivamente più bassi nei soggetti al brado, mentre sono stati più elevati i tenori di C18:2 n-6,
C18:3 n-3 e C20:2 n-6. Per quanto riguarda il C18:0 e il C18:1 le differenze si riscontrano solo sul
tessuto fresco mentre dopo la stagionatura scompaiono. Conseguentemente i PUFA n-3 e PUFA n-6
sono più elevati nei soggetti outdoor a conferma del più alto grado di insaturazione del tessuto
adiposo in questi animali che presentano valori sensibilmente più bassi per i due indici di
aterogenicità e trombogenicità che sintetizzano il grado di salubrità del grasso. In ultima analisi, sia
la carne fresca che il prosciutto derivato da animali allevati estensivamente avrebbero proprietà
dietetiche adatte all’alimentazione umana, perlomeno sulla base del profilo acidico.
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Tabella 5: Composizione chimica del grasso di prosciutto fresco
Table 5: Chemical composition of raw fat
Intensivo
Indoor
Umidità
%
6,53 a
Moisture
Lipidi totali
%
81,41
Lipid
Acidi grassi
Fatty acid
- 14:0
1,28 a
- 16:0
24,04 a
- 16:1
1,99 a
- 18:0
7,88 a
- 18:1
50,27 a
- 18:2 n-6
9,51 a
- 18:3 n-3
0,32 a
- 20:1
0,69 a
- 20:2 n-6
0,42 a
- SAFA
36,16 a
- MUFA
53,23 a
- PUFA
10,60 a
- PUFA n-3
0,39 a
- PUFA n-6
10,02 a
Indice aterogenico
0,46 a
Atherogenicity index
Indice trombogenico
1,09 a
Thombogeniticy index
Bado
Outdoor
5,44 b
82,21
0,97 b
20,90 b
1,44 b
9,21 b
52,59 b
11,84 b
0,90 b
0,89 b
0,46 b
31,42 b
54,92 b
13,65 b
1,06 b
12,40 b
0,36 b
0,84 b
CONCLUSIONI
Da quanto esposto è difficile trarre delle conclusioni univoche. Appare chiaro che il pascolo non
può essere esteso a qualunque tipo di bosco e da parte degli interessati è necessaria una conoscenza
tecnica per individuare le aree pascolabili e le loro potenzialità produttive. E’ indispensabile
applicare quelle regole di “buon governo” (turnazioni, tempi di pascolamento diversi in funzione
della produzione annua, ecc.) che permettono di perpetuare il bene e quindi il beneficio e non è
escluso che si possa giungere ad etichettare i prodotti finiti anche con una ecocertificazione come
risultato dell’uso sostenibile dell’ambiente.
Le carni, sia fresche che stagionate, derivate da suini di razze rustiche allevati in pascoli boschivi,
sono fortemente tipicizzate e generalmente possiedono caratteristiche organolettiche e dietetiche
pregevoli che il consumatore sembra apprezzare nonostante i prezzi elevati. Se è vero che in
passato, quando ancora il macchiatico rappresentava un’attività produttiva, più del 50% del reddito
dei boschi cedui derivava dagli animali che vi pascolavano (Marinelli, 1979), oggi, a maggior
ragione, in conseguenza dell’abbandono del taglio, l’unico reddito di molti boschi può essere
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fornito dalla loro utilizzazione come pascoli per il finissaggio di suini di razze rustiche i cui prodotti
ricevono valore aggiunto dall’allevamento estensivo.
Tabella 6: Composizione chimica del grasso di prosciutto stagionato
Table 6: Chemical composition of fat of cured ham
Intensivo
Indoor
Umidità
%
1,70
Moisture
Lipidi totali
%
77,30
Lipid
Acidi grassi
%
Fatty acid
- 14:0
1,49 a
- 16:0
23,23 a
- 16:1
2,81 a
- 18:0
9,69
- 18:1
52,45
- 18:2 n-6
7,79 a
- 18:3 n-3
0,28 a
- 20:1
1,22
- 20:2 n-6
0,38 a
- SAFA
34,74 a
- MUFA
56,48 a
- PUFA
8,78 a
- PUFA n-3
0,34 a
- PUFAn-6
8,22 a
Indice aterogenico
0,45 a
Atherogenicity index
Indice trombogenico
1,031 a
Thombogeniticy index
Brado
Outdoor
1,43
77,95
1,19 b
20,52 b
2,03 b
9,14
52,20
11,22 b
1,11 b
1,19
0,53 b
31,22 b
55,41 b
13,36 b
1,25 b
11,82 b
0,37 b
0,823 b
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L’ALLEVAMENTO DELLA FAUNA DI INTERESSE VENATORIO
Attilio Bosticco 1
RIASSUNTO: Con riferimento alle zone collinari e pianeggianti della Regione Piemonte vengono
affrontati i problemi connessi all’attività venatoria ed alla necessità di ripopolare i territori
interessati soprattutto per la fauna di maggiore interesse, rappresentata dal Fagiano e dalla Lepre. Si
propone di interessare all’allevamento di queste specie le aziende agrozootecniche dislocate nel
territorio, per le quali questa attività marginale potrebbe rappresentare una fonte di guadagno,
mentre si avrebbe una ricaduta di notevole portata ai fini del ripopolamento e dell’esercizio
dell’attività venatoria, grazie ad una più razionale tecnologia della gestione della fauna, più
rispettosa dell’ambiente e dell’agricoltura. Vengono esaminati gli aspetti scientifici e tecnici degli
interventi programmati.
PAROLE CHIAVE: ripopolamento, allevamento selvaggina, fagiano, lepre
BREEDING OF THE GAME
SUMMARY: With reference to the plains and hills of the Region Piemonte are handled the
problems relating to the hunting and to the necessity of restocking with game the concerned zones
especially with regard to the more interesting fauna, namely the pheasant and the hare. The
A.suggests to interest the farms, which are dislocated in the zones for the breeding; this marginal
activity could cause a profit, and the restocking with game and the hunting could have advantageous
gains thanks to a more rational management of the fauna with the utmost respect of ambient and
agriculture. The scientific and technical problems concerning the discussed programme are
examined too.
KEY WORDS: restocking with game, breeding game, pheasant, hare
PREMESSA
La gestione dell’attività venatoria in Italia presenta caratteristiche assai diverse da regione a regione
e nell’ambito della stessa regione da zona a zona e ciò appare giustificato se si tiene conto della
estrema variabilità delle circostanze ambientali e delle norme che regolano la caccia, anch’esse
varianti in maniera non sempre logica in quanto legate a delimitazioni di natura amministrativa,
talora in contrasto con le realtà territoriali. Vi è tuttavia un problema che non conosce confini e che
riguarda il ripopolamento, e non si tratta di problema sorto recentemente a causa delle profonde
mutazioni intervenute, in misura più o meno sensibile, in tutti gli ecosistemi, e di cui l’uomo è
certamente il maggiore responsabile; se, infatti, si consultano le pubblicazioni ed i trattati di
Alessandro Ghigi (1875-1970), zoologo ed ornitologo di fama mondiale, fondatore nel 1933 del
Laboratorio di Zoologia applicata alla caccia di Bologna, si rileva che già alla fine del XVIII secolo
1
Professore Emerito. Dipartimento di Scienze Zootecniche, Università degli Studi di Torino.
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ed all’inizio del XIX le questioni relative a questo tema venivano affrontate in maniera approfondita
dai cultori dell’arte venatoria.
Oggi il ripopolamento è praticamente imposto non soltanto dalle effettive necessità di indole
venatoria, ma dalla vigente legislazione sulla caccia; a questo riguardo ricordiamo la legge 157/92,
il D.M. 30/1/93, e le leggi ed i regolamenti regionali, i quali sostanzialmente introducono la
gestione programmata della caccia per oltre il 50% del territorio agro-silvo-pastorale e autorizzano
le Regioni a creare gli “Ambiti Territoriali Caccia” (A.T.C.), organismi che devono formulare i
piani pluriennali di utilizzazione del territorio per stagione di caccia, tenendo presenti l’immissione
ed i prelievi di fauna selvatica e la riqualificazione ambientale, nonché l’allevamento a scopo di
ripopolamento, attuato anche da titolari di aziende agricole.
Certamente il problema riguarda pure le cosiddette Aziende Faunistico-Venatorie ed Agri- TuristicoVenatorie che interessano circa il 15% del territorio, dalle quali in teoria dovrebbe irradiarsi
selvaggina nelle zone a caccia programmata, né si devono dimenticare le Zone di Ripopolamento e
Cattura (Z.R.C.), create in tutte le Province, la cui gestione è affidata agli A.T.C. ed alle stesse
Province.
Da quanto è stato succintamente riferito emerge chiaramente l’importanza dell’allevamento della
fauna di interesse venatorio a scopo di ripopolamento, ovunque questo possa venire realizzato.
Ciò premesso, prendiamo ora in considerazione, a titolo di esempio, la realtà che caratterizza alcuni
comprensori piemontesi con particolare riferimento ad alcuni A.T.C. che hanno sollecitamente e
cortesemente risposto alle nostre richieste di informazioni e di dati statistici (tabelle 1 e 2).
LE SPECIE DI MAGGIOR INTERESSE VENATORIO
Chi ha seguito le vicende della caccia negli ultimi decenni certamente ricorda che in un passato
relativamente recente, mentre da un lato alcune specie stanziali tendevano a scomparire, come ad
esempio la pernice rossa (Alectoris rufa) o la pernice grigia o starna (Perdix perdix), dall’altro si
tentava di introdurre specie se non proprio esotiche, quanto meno abbastanza estranee al nostro
ambiente. In proposito vogliamo ricordare l’Alectoris chukar o Coturnice orientale, il Colinus
virginianum o Colino e per quanto riguarda i mammiferi il Sylvilagus floridanus o minilepre. Del
resto il Ghigi medesimo nei suoi libri rammenta tentativi personali di introduzione di varie specie
ornitologiche e riporta scrupolosamente anche gli esiti dell’operazione, per lo più infausti. Tra le
specie menzionate, soltanto una , il Sylvilagus floridanus, importata dalla California ed introdotta in
Val Pellice nel 1966, si è diffusa ben al di là dei confini regionali; tra l’altro ha determinato e
determina tuttora qualche problema di carattere sanitario, per non parlare dei danni all’agricoltura.
Una specie che almeno per quanto concerne le zone collinari è di recente introduzione è il Fagiano,
nelle due versioni Phasianus colchicus mongolicus e Phasianus colchicus tenebrosus.
Quanto sopra naturalmente si riferisce alla pianura ed alla collina del Piemonte, mentre non
riteniamo di accennare alle cosiddette Zone Alpi, per le quali il discorso relativo alla conservazione
dell’attuale fauna e dell’eventuale ripopolamento esula dalle finalità di questa relazione.
Per la parte del territorio che ci interessa nella quale agiscono gli A.T.C. e le Z.R.C., e la cui
attività è coordinata dai Piani faunistici venatori quinquennali predisposti dalle rispettive Province,
la fauna di interesse venatorio è rappresentata sostanzialmente da due specie : la Lepre ed il Fagiano
e talora anche dalla Starna e dalla Pernice rossa, di cui per altro viene quasi ovunque vietata o molto
limitata la caccia allo scopo di conservare i pochi esemplari esistenti.
Il territorio regionale destinato alla caccia controllata comprende 21 A.T.C.(Alessandria: 4; Asti: 2;
Biella: 1; Cuneo: 5; Novara: 2;Torino: 5;Vercelli: 2) e 19 Comprensori Alpini (C.A.). Ogni A.T.C.
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è autonomo, ovviamente nel rispetto della normativa regionale e provinciale e provvede anche in
parte alla gestione delle Zone di Ripopolamento e Cattura (Z.R.C.). Ricordiamo che in Piemonte i
cacciatori sono poco più di 11.000 (3 ogni mille abitanti; la più bassa quota tra tutte le Regioni
italiane; la più alta è quella dell’Umbria con 47).
Uno dei problemi principali da risolvere riguarda certamente il ripopolamento del territorio per il
quale gli A.T.C. hanno competenza ed a questo fine vengono destinate ogni anno somme cospicue;
abbiamo tentato di effettuare una indagine in proposito, coinvolgendo anche e soprattutto gli uffici
provinciali e regionali, ed abbiamo ottenuto informazioni che, a causa della estrema eterogeneità dei
dati statistici rilevati, non ci permettono una rappresentazione in forma schematica e tabellare. Del
resto era forse logico attendersi una simile risposta , in quanto come si diceva ogni A.T.C. affronta e
risolve i propri problemi in base a criteri maturati localmente e condizionati da fattori di natura
ambientale, non esclusi quelli politici o corporativi.
Una caratteristica comune a tutti gli A.T.C. si può comunque individuare nel tipo di ripopolamento
effettuato soprattutto in riferimento alle specie coinvolte: si tratta sempre della Lepre e del Fagiano
e subordinatamente della Starna e della Pernice rossa, la cui caccia è da anni vietata quasi ovunque.
La tecnica di lancio varia alquanto, dal momento che , ad esempio per quanto riguarda il Fagiano si
punta talora su riproduttori e/o su soggetti giovani da immettere previo periodo di adattamento in
apposite voliere oppure direttamente sul territorio; per la Lepre non sempre è previsto il periodo di
adattamento , per il quale sono necessarie idonee strutture. Un ruolo, talora molto importante
specialmente per la Lepre, rivestono le Z.R.C., in cui si effettuano immissioni e catture.
Un dato di grande significato riguarda la provenienza dei capi da utilizzare ai fini del ripopolamento
e qui la situazione cambia da specie a specie e da zona a zona: i Fagiani, sia adulti che giovani
vengono forniti da allevamenti intensivi nazionali, così come le Starne e le Pernici rosse; un buon
numero di Lepri viene dato da catture che specialmente in provincia di Alessandria rendono bene,
ma un numero complessivamente non esiguo proviene da Paesi dell’Europa orientale. A questo
riguardo si deve rilevare che l’esborso di denaro per le importazioni è notevole, soprattutto se
valutato alla luce dei risultati che conseguono ai lanci. Infatti l’infelice rapporto maschi- femmine, in
genere 1:1, e la tecnica di immissione sul territorio portano a carnieri molto modesti, mentre
costituiscono una importante fonte di sostentamento per gli animali cosiddetti nocivi o predatori; a
tale proposito, in verità, anche il Fagia no offre un contributo tutt’altro che disprezzabile. La tabella
1 riporta alcuni dati statistici riguardanti i due A.T.C. della Provincia di Asti ed un A.T.C. della
Provincia di Torino; la tabella 2 si riferisce, invece, alle immissioni di selvaggina relativi al periodo
1999-2003 nelle Z.R.C. gestite direttamente o indirettamente dalla Provincia di Torino.
Tabella 1: Immissione di selvaggina a scopo di ripopolamento, annata venatoria 2003
Table 1: Putting of game in order to restocking with game, hunting’s year 2003
A.T.C. Asti Nord (Sede: Asti) A.T.C. Asti Sud (Sede: Nizza M.to) A.T.C. Torino 2 (Sede: Ciriè)
11.000 Fagiani
600 Fagiani riproduttori
5000 Fagiani
(rapporto sessi 1:4)
750 Lepri
600 Fagianotti
450 Lepri
(350 da cattura in Z.R.C.)
100 Starne
(provenienza mista)
100 Pernici rosse
357 Lepri
(205 da cattura in Z.R.C.)
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Tabella 2: Immissioni di selvaggina nelle Z.R.C. della Provincia di Torino a gestione diretta
(periodo 1999-2003)
Table 2: Putting of game in Restocking’s and Capture’s Zone, Province of Turin (1999-2003)
Z.R.C.
Leprotti
Lepri cattura
Fagiani cattura
Fagiani
Starne
Pernici rosse
Y. Hares Captur. Hares Captur. Pheasants Pheasants Gray partr.
Red partr.
Leinì
Poirino
Banna
Poirino
Pralormo
Brusasco
15
21
25
19
52
25
37
19
16
40
145
27
21
130
50
210
273
50
110
A.T.C.
Anno Lepri riproduttori
Leprotti
Fagiani riproduttori
Fagianotti
Starne
Year
Hares parents
Young Hares Pheasants parents Y. Pheasants Gray partr.
TO1
2000
35
46
203
500
2001
38
57
40
500
2002
40
44
40
500
TO2
1999
13
2001
30
2002
40
50
TO3
2001
37*
30
80**
2002
24
2003
40
TO4
2001
150
1000
2002
170***
1200
TO5
2000
83
160
600
2001
40
120
280
2002
60
20
200
*
da cattura (captured Hares)
** 110 giorni di età (110 d. old)
*** 20 da cattura (captured Hares: 20)
L’ALLEVAMENTO DEL FAGIANO
Crediamo sia sufficiente quanto in precedenza riportato per comprendere che le considerazioni ora
proposte non riguardano il cosiddetto allevamento intensivo, bensì un sistema che possa permettere
l’immissione sul territorio, in cui viene praticata l’attività venatoria, di un numero di soggetti
sufficiente ad assicurare i prelievi consentiti dai piani faunistici e dai calendari venatori, senza
andare incontro agli insuccessi dovuti al carente adattamento all’ambiente dei soggetti lanciati.
La trattazione di un siffatto sistema non può prescindere da quanto ha scritto il Ghigi, frutto non
solo della preparazione scientifica di un grande ornitologo quale appunto è stato l’Autore, ma anche
e soprattutto della sua esperienza, maturata in tanti anni di attività pratica espletata per lo più nel
Bolognese.
Il discorso che ci accingiamo a fare parte da un concetto, certamente discutibile, ma in ogni caso
degno di essere, quanto meno, oggetto di meditazione: gli A.T.C., pur seguendo criteri diversi da
caso a caso ai fini del ripopolamento, trovano un comune denominatore nella necessità di acquistare
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un numero talora anche cospicuo di soggetti che poi vengono lanciati sul territorio non sempre
adeguatamente preparati ad affrontare le difficoltà di adattamento all’ambiente, ben diverso da
quello delle voliere di provenienza. Tale operazione richiede, oltre tutto, un esborso non indifferente
di capitali. Pensiamo che se le stesse somme fossero destinate ad un certo numero di aziende agrarie
dislocate sul territorio, che accettassero di realizzare un allevamento di selvaggina, ovviamente del
tutto marginale rispetto alla loro normale attività agrozootecnica, gli esiti del ripopolamento
risulterebbero sicuramente migliori, specialmente nel caso in cui il titolare dell’azienda fosse anche
un cacciatore. La conduzione di un simile allevamento non offrirebbe difficoltà particolari,
presentando caratteristiche sostanzialmente molto vicine a quelle dell’allevamento tradizionale del
pollo.
In base alla nostra esperienza pensiamo che un gruppo formato da 1 maschio e 4-5 femmine
potrebbe costituire il nucleo base in grado di dare una produzione minima di un centinaio di uova,
dalle quali ottenere una settantina di Fagiani pronti per l’immissione sul territorio; l’attrezzatura
necessaria dovrebbe comprendere:
- una voliera o parchetto familiare a terra, su suolo permeabile per un adeguato drenaggio
dell’acqua, per i riproduttori (dimensioni minime: larghezza 2 m; lunghezza 4 m; altezza 2 m)
con recinzione laterale in rete metallica e superiore in materiale plastico, ovviamente dotata di
un riparo contro la pioggia , posatoio, mangiatoia, abbeveratoio;
- impianto di illuminazione con timer per attuare un programma luce in grado di assicurare un
fotoperiodo di 16 ore e quindi l’anticipo della ovodeposizione (è sufficiente una lampada da 25
W);
- locale per la conservazione in buone condizioni di temperatura e di umidità delle uova raccolte
ed in attesa di incubazione;
- locale per l’incubazione delle uova che può anche essere il precedente;
- attrezzatura per l’incubazione, diversificata in funzione del metodo scelto e di cui si parlerà in
seguito;
- box per l’allevamento a terra dei Fagianotti, dotato eventualmente di un piccolo impianto per il
riscaldamento;
- voliera, per l’allevamento, in parte a cielo aperto in grado di assicurare almeno 4-5 mq di
superficie per capo con tutta l’attrezzatura necessaria per permettere ai soggetti condizioni di
vita simili a quelle del territorio, nel quale verranno successivamente e gradualmente immessi e
pertanto una parte della superficie dovrà essere destinata a colture erbacee e ad una vegetazione
arbustiva e, avendone la possibilità, anche arborea; ovviamente si dovrà porre la massima cura
alla recinzione , alla copertura ed ai ripari per vento ed intemperie, nonché agli abbeveratoi, ed
alla mangiatoie, senza dimenticare che il regime alimentare dovrà essere fondato sugli alimenti
che il Fagiano potrà reperire sul terreno esterno allorquando verrà lasciato libero per la
campagna.
Nel complesso di queste operazioni è facile constatare che il periodo più delicato ed impegnativo è
quello in cui si deve provvedere all’incubazione ed a questo riguardo, a nostro parere, può essere
necessaria una scelta tra due metodi ugualmente validi, il primo dei quali riguarda il ricorso alle
galline nane, mentre il secondo si riferisce all’incubazione artificiale. Diciamo subito che questo
secondo metodo non è certamente alla portata dell’azienda agrozootecnica normalmente operante
sul territorio, ma in questo caso, qualora l’A.T.C. scegliesse ai fini del ripopolamento il sistema da
noi proposto e potesse contare su un certo numero di aziende disponibili, non sarebbe difficile
dotare una di queste dell’attrezzatura necessaria per l‘incubazione delle uova prodotte e raccolte nel
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comprensorio e per l’allevamento dei Fagianotti per il primo mese di vita; successivamente questi
verrebbero poi affidati alle aziende interessate per l’immissione nelle voliere di allevamento.
Il primo metodo si basa invece su procedure di antica tradizione e ben note agli operatori agricoli.
Si tratta di utilizzare per la cova delle uova le galline nane, come del resto suggerisce il Ghigi per
gli allevamenti piccoli, come quelli che verrebbero realizzati nel nostro caso. Non è certo un
problema l’allevamento di qualche gallinella Bantam, mentre sono da scartare le galline delle razze
di polli normalmente allevate, perché la loro attitudine alla cova ed all’allevamento dei pulcini è
decisamente meno valida. Anche la tacchina di razze leggere è ritenuta idonea, ma in pratica è meno
facilmente reperibile. Le gallinelle si rivelano poi provvidenziali come allevatrici e questo è molto
importante per il primo mese di vita dei Fagianotti; alle gallinelle, sempre secondo il Ghigi, si
possono affidare anche i Fagianotti nati dalla incubazione artificiale.
E’ opportuno ricordare che inizialmente è azzardato prevedere il numero di uova che potrebbero
essere deposte dalle Fagiane; soprattutto se la deposizione è anticipata a causa dell’illuminazione
delle voliere; il numero potrebbe essere modesto e tale da consentire un solo turno di incubazione,
ma potrebbe anche essere elevato, per cui si porrebbe il problema di un secondo turno; di fronte a
questa evenienza, che dopo tutto, tornerebbe utile ai nostri fini è bene tenersi preparati.
Ricordiamo che occorre prestare la massima attenzione ai problemi sanitari, anche e soprattutto
quando si ricorre all’incubazione naturale; sarà opportuno contare sull’assistenza veterinaria,
soprattutto ai fini della prevenzione di eventuali malattie.
Altro momento molto importante riguarda la permanenza dei Fagianotti nella voliera di
allevamento, anche perché è in questa che si realizzano e si raccolgono i frutti dell’intera
operazione. Poiché di qui i soggetti sono destinati ad irraggiarsi per il territorio circostante e cioè ad
attuare il ripopolamento, meta ultima dell’iniziativa, è necessario prestare attenzione ad alcuni
accorgimenti che si riveleranno poi essenziali: occorre predisporre la voliera in modo che il
Fagianotto possa uscirne in volo e rientrare per pedinamento, ma nello stesso tempo non
dimenticare che la voliera e gli immediati dintorni saranno l’oggetto dei desideri di tutti i nemici
naturali ed occasionali; citiamo, oltre al più classico che è la volpe, la faina, la donnola, la puzzola, i
corvi, i gatti ed i cani randagi. Per evitare danni, che a questo punto sarebbero veramente gravi, sarà
necessario predisporre la voliera in modo che i cosiddetti nocivi non vi possano entrare e prevedere
eventualmente trappole per la cattura all’esterno nelle immediate vicinanze. Fortunatamente il
giovane Fagiano abituato a vivere in una voliera che presenta, sia pure in piccolo, l’ambiente
naturale acquisisce gradualmente vivacità e scaltrezza che gli permettono, entro certi limiti, di
difendersi, soprattutto se si ha avuto e si ha l’accortezza di evitargli al massimo la familiarità con
l’uomo e quindi l'imprinting, che gli conferisce un modesto, ma pericoloso livello di dimestichezza.
L’ALLEVAMENTO DELLA LEPRE
Generalmente quando si parla di questo argomento, si viene indotti a pensare alle non poche e non
semplici difficoltà che a prima vista questo tipo di allevamento sembra presentare; in realtà le cose
si rivelano abbastanza semplici ed alla portata di ogni allevatore.
Prima di affrontare l’argomento riteniamo utile riportare alcune considerazioni, rifacendoci
naturalmente al Ghigi, che anche in questo caso si rivela maestro. La Lepre è atta alla riproduzione
nella primavera successiva alla sua nascita; i parti sono di solito quattro; scaglionati tra marzo,
maggio, giugno, e agosto; la gestazione ha la durata di 40-42 giorni; l’allattamento dura una ventina
di giorni. Il numero dei nati per parto può variare da tre a cinque in funzione del genotipo, ma anche
di fattori ambientali, come l’alimentazione e la temperatura: la dovizia di buoni alimenti e la
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mitezza dei climi condizionano favorevolmente la prolificità. A puro titolo di informazione,
riportiamo l’esempio riferito dal Ghigi in una delle sue pubblicazioni: se fosse possibile lanciare
una coppia di Lepri in territorio caratterizzato da buone circostanze ambientali, in altre parole da
ricche fonti alimentari e dall’assenza di nemici, al termine di un decennio ci troveremmo di fronte a
19.638 femmine ed altrettanti maschi, in grado di popolare 800 ettari di terreno con 5 Lepri per
ettaro. Si tratta ovviamente di risultati teorici, i quali dimostrano tuttavia che in pratica - e lo stesso
Ghigi lo ammette - anche concedendo tutte le tare che vogliamo il conteggio non si allontana troppo
dalla verosimiglianza. Riportiamo anche le osservazioni che lo stesso Autore avanza a proposito
delle precauzioni che si devono adottare allorquando si intraprende un’operazione di ripopolamento,
soprattutto perché esse sono preziose per chi si accinge all’allevamento. Il Ghigi si dichiara
innanzitutto contrario all’importazione di Lepri dall’Ungheria ed in generale dai Paesi d’oltralpe,
perché queste grosse Lepri appartengono al Lepus europeus L., mentre le Lepri nostrane
appartengono al Lepus mediterraneus Wagner: a questo riguardo si deve tuttavia rammentare che
gli appunti dell’Autore si riferiscono agli anni sessanta; poiché negli ultimi decenni le importazioni
sono avvenute con una certa intensità, talvolta con l’erronea finalità di evitare la consanguineità,
oggi ci troviamo probabilmente di fronte ad una popolazione meticcia, per la quale è difficile
ipotizzare la frazione di sangue attribuibile alle due specie. Comunque il consiglio alla prudenza è
tuttora valido, a prescindere dal pericolo di inquinamento genetico: ben altri pericoli, infatti, si
devono paventare, soprattutto in riferimento ai problemi sanitari ed alla possibilità di diffondere
malattie infettive e parassitarie. Secondo l’opinione del Ghigi, che ci trova pienamente d’accordo, si
devono acquistare Lepri di origine nazionale, in perfetto stato di salute, da sottoporre comunque ad
accurato esame sanitario subito dopo l’arrivo. Naturalmente nel periodo storico, cui si riferisce
l’Autore, non si parlava ancora di allevamento in ambiente ristretto o tanto meno in gabbia, tema
del quale ci accingiamo a trattare.
L’allevamento della Lepre può essere attuato scegliendo sostanzialmente tra due metodi:
l’allevamento a terra e l’allevamento in gabbia o batteria.
Riteniamo che ai fini del presente lavoro il primo sia assolutamente da preferire, pur non
escludendo il secondo. L’allevamento di un gruppo familiare composto da un maschio e quattro
femmine richiede un recinto, la cui superficie può variare da 600-700 mq a 1800-2000 mq ( nella
seconda soluzione si tratta di circa mezza giornata piemontese) su terreno ben drenato,
possibilmente esposto a sud-est, ma la preoccupazione principale è data dalla recinzione che deve
essere realizzata in modo da garantire:
- la difesa dai predatori (volpe, gatti,cani randagi, mustelidi, corvi, ecc.);
- l’interramento per almeno mezzo metro della rete in modo che sia impossibile ad eventuali
nemici esterni l’ingresso tramite lo scavo di cunicoli; viene anche suggerito l’impiego di una
rete appoggiata orizzontalmente sul terreno, in modo che esista una fascia di protezione larga
almeno 50-60 cm;
- l’impossibilità per i Leprotti di uscire dal recinto; a questo scopo è sufficiente dotare la rete di
recinzione di una rete supplementare, alta una cinquantina di centimetri, a partire dal terreno;
- una vigorosa vegetazione all’interno del recinto; riteniamo utili cotiche erbose praticamente
simili a quelle dei prati circostanti e cespugli a gruppi, tra i quali la Lepre possa rifugiarsi in
qualsiasi momento, oltre che per partorire; ricordiamo a questo proposito il Leporarium dei
Romani, costituito da file di cespugli ordinate a labirinto in modo che le Lepri potessero vivere
e riprodursi sufficientemente protette senza l’aiuto di recinzioni, anche se talora queste
esistevano e si trattava di muri, destinate però a protezione di superfici molto ampie, nel cui
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ambito sorgeva il Leporarium; sarebbe cosa saggia cercare di rendere l’interno del recinto il più
possibile simile all’ambiente esterno normalmente frequentato dalla Lepre; ad esempio destinare
parcelle anche minuscole alla coltivazione di specie particolarmente gradite (cavolo, cece, ecc.),
formare piccole cataste di fascine o rami, lasciare parcelle semplicemente arate a porche ben
evidenti, ecc. Non dimenticare la classica pozzanghera per l’abbeverata.
La gestione dell’allevamento non dovrebbe essere particolarmente impegnativa, mentre si renderà
necessario procedere con oculatezza allorquando si tratterà di immettere sul territorio i soggetti nati
dai riproduttori; questi ultimi potranno permanere nel recinto anche per 5-6 anni, dal momento che
la vita della lepre può raggiungere i 6-7anni. Potrebbe essere necessario un secondo recinto, di
modeste dimensioni, destinato a raccogliere gli animali, in attesa di lancio, in maniera tale per cui il
recinto principale non venga disturbato.
Abbiamo detto che l’allevamento potrebbe anche avvenire in gabbia o batteria, alla stessa stregua di
quello del coniglio; si tratta di metodologia moderna, di cui Studiosi come il Ghigi non parlano e di
cui non parleremmo neppure noi, se non vi scorgessimo un mezzo potenzialmente molto valido per
ottenere il risultato al quale tendiamo, cioè il ripopolamento.
Non sussistono al riguardo particolari difficoltà: sono disponibili attrezzature realizzate dopo attento
studio delle esigenze fisiologiche ed etologiche dell’animale; programmi dell’attività riproduttiva
formulati con la massima oculatezza, schemi di alimentazione altamente efficienti; esiste un
mercato cui rivolgersi e tecnici in grado di orientare efficacemente gli eventuali novizi
dell’allevamento; anche i problemi sanitari vengono affrontati dai servizi veterinari con prontezza e
competenza. Esistono, pertanto, le necessarie premesse perché si possa procedere, anche presso una
normale azienda agrozootecnica, con questo metodo.
Si tratta di allevare in gabbia la coppia fissa, pur non escludendo la gabbia cosiddetta “harem” che
ospita un maschio e 4-5 femmine; al riguardo pensiamo che l’allevamento della coppia sia
preferibile, perché permette un controllo perfetto degli individui dal punto di vista igienico-sanitario
e la loro valutazione attitudinale.
I veri problemi sorgono, a nostro avviso, dopo lo svezzamento dei Leprotti con la loro preparazione
all’immissione nel territorio da ripopolare. E’ assolutamente necessario poter disporre di un recinto
praticamente simile a quello già descritto in precedenza, nel quale i giovani soggetti devono trovare
condizioni ambientali uguali a quelle del territorio circostante, in cui poter raggiungere non soltanto
una certa maturità fisiologica, ma anche una certa formazione etologica, propria di un animale
selvatico; non dimentichiamo che questi soggetti hanno ricevuto un imprintig, non molto dissimile
da quello dei coniglietti nati in batteria con tutte le conseguenze del caso.
Tra la gabbia materna ed il recinto potrebbe essere necessaria la permanenza per un paio di mesi in
gabbie da allevamento, nelle quali gli animali vengono seguiti con particolare attenzione non
trascurando la profilassi e la cura di eventuali malattie, cosa estremamente più difficile a farsi nel
recinto.
Si giunge così al momento finale delle nostre operazioni, siano esse basate sul tipo di allevamento
che potremmo definire naturale oppure su quello appena sommariamente descritto. Gli animali sono
ormai pronti per essere immessi nel territorio da ripopolare; a nostro avviso, si deve evitare di
racchiuderli in cassette da aprire successivamente sul posto scelto per il lancio; non dimentichiamo
che tutto ciò che finora è stato fatto rischia di essere vanificato da questa operazione e che
l’allevamento è stato effettuato proprio perché gli animali potessero passare gradualmente dalla fase
di assistenza a quella della piena autonomia in un territorio già praticamente noto per i mezzi di
sussistenza presenti ed anche per le opportunità di difesa a fronte di eventuali pericoli.
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L'ALLEVAMENTO DI ALTRE SPECIE
Avviandoci alla conclusione del nostro intervento potrebbe sembrare utile un accenno
all’allevamento per ripopolamento di altre specie, tra le quali la Starna e la Pernice rossa:
Naturalmente escludiamo i problemi legati all’introduzione di specie non stanziali, né oggi, né in
passato per le nostre campagne, come ad esempio il Colino, la Coturnice, ecc. Per la Starna e la
Pernice rossa il discorso è diverso: si tratta di due specie che in un passato non troppo recente
popolavano le colline e, in certi casi, anche le pianure degli attuali A.T.C.; la seconda era
abbastanza rappresentata nelle Langhe. Oggi la situazione è ben diversa, tanto che in molti A.T.C.
ne è vietata la caccia, allo scopo di preservare i pochi capi ancora esistenti, e laddove la caccia è
permessa il carniere non può superare i due capi all’anno. Le cause della rarefazione, per non
parlare di scomparsa, delle due specie sono molte: il loro esame richiederebbe spazio e tempo che
non ci sono concessi, e comunque esula dagli scopi di questo intervento. Vogliamo soltanto
rammentare che, anche se non definito nei suoi precisi termini ed aspetti, un certo equilibrio tra le
specie che popolano un territorio esiste e talora viene posto in crisi dalla massiccia diffusione di una
determinata specie; oggi non se ne parla, ma ricordia mo che parecchi anni or sono si diceva
frequentemente negli ambienti della caccia che il Fagiano avrebbe fatto scomparire la Starna; non
abbiamo elementi per ammettere o confutare questa tesi, mentre possiamo dire che altri fattori
hanno sicuramente influito negativamente su questa specie. La Starna aveva il suo habitat preferito
nei vigneti, trovandovi fonti alimentari in erbe infestanti, quali il panico, oppure nelle colture
interfilari allora imprescindibili; questo ambiente è oggi completamente diverso: le erbe infestanti
sono un ricordo dal momento che si fa largo uso di diserbanti chimici, cosi come le colture
interfilari. Siamo dell’opinione che questi siano i fattori maggiormente condizionanti, senza
escluderne altri, come i pesticidi e ciò spiegherebbe anche l’insuccesso dei tentativi di
ripopolamento che in alcuni A.T.C. si compiono con il lancio di un buon numero di Starne di
allevamento. Considerazioni analoghe si potrebbero avanzare anche per la Pernice rossa,
naturalmente tenendo nel giusto conto le differenze strutturali tra i rispettivi habitat.
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
Nelle pagine precedenti abbiamo esposto il nostro punto di vista sui problemi del ripopolamento per
le specie di maggior interesse venatorio, che si riducono sostanzialmente a due: il Fagiano e la
Lepre, essendo attualmente improponibile l’allargamento della discussione ad altre specie. Si tratta
di vedere, ora, il livello di fattibilità di quanto proposto. A questo riguardo non possiamo essere
pessimisti; non dimentichiamo, infatti, che l’odierna organizzazione dell’attività venatoria si basa
sugli A.T.C. ai quali è concessa ampia autonomia di gestione, pur nel quadro dei piani venatori
provinciali. E’ bene allora ricordare che il Comitato di gestione comprende per legge un adeguato
numero di rappresentanti delle Organizzazioni professionali agricole, nonché delle Organizzazioni
protezionistiche evidentemente allo scopo di creare condizioni ottimali perché l’attività venatoria
possa esplicarsi con il consenso e l’apporto dell’agricoltura, e non contro l’agricoltura, né contro
l’ambiente. In questo quadro ci sembra che il coinvolgimento di un certo numero di aziende
agrozootecniche nell’espletamento di una attività di allevamento, marginale rispetto alle attività
principali e non molto impegnativa e, tuttavia, in grado di procurare un reddito non disprezzabile,
sia proponibile ed attuabile. I vantaggi conseguenti ad una simile operazione sono , a nostro avviso,
di grande rilevanza per tutti gli interessati: per gli allevatori, ai quali vanno praticamente le somme
annualmente spese dagli A.T.C. per acquisti in Italia ed all’estero, per gli stessi A.T.C. che
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realizzano il ripopolamento in modo più razionale ed a costi più bassi, per gli operatori ecologici
che vedrebbero aumentare il rispetto per l’ambiente grazie ad una operazione più vicina alle
esigenze della natura, ed infine per coloro che praticano l’attività venatoria in un clima di pacifica e
costruttiva convivenza.
BIBLIOGRAFIA
Ghigi A. (1958). “Fagiani, Pernici e altri galliformi da caccia e voliera”, Edagricole, Bologna
Ghigi A. (1963). “La Caccia”, UTET, Torino
Benatti G. et al. (1985). Possibilità di miglioramento della produzione delle uova nel Phasianus
Colchicus Mongolicus. “Avicoltura”, LIV, 2,33-39
Arduin M. (2003). Recinti per l’allevamento a terra della lepre, http://www.selvagginaonline.it
Bagliacca M. (2003). http://www.vet.unipi.it/Dpa/mbagliac.
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INDAGINE SULLA STRUTTURA DEGLI ALLEVAMENTI NEL SETTORE
UMBRO DEL PARCO DEI MONTI SIBILLINI
Morbidini L. 1 , Pauselli M. 1 , Donnini D. 2 , Torricelli R
2
RIASSUNTO: E’ stata effettuata un’indagine campionaria sulla struttura di 60 allevamenti di bovini
ed ovini del territorio umbro del parco interregionale dei monti Sibillini (Umbria- Italia). Si trattava
di aziende montane (870 m s.l.m. in media, range: 350-1500 m slm), con una superficie aziendale
(SAT) da 0 a 560 ha (media=105 ha). La Superficie Agricola Utilizzabile (SAU) in proprietà era il
33%, la superficie in affitto (67%) riguardava territori ad uso collettivo. L’età media degli
imprenditori era intorno ai 47 anni. Il 61% delle aziende praticava la monticazione in pascoli di
comunanze, con circa 50 capi bovini/azienda e con circa 260 capi ovini/azienda. Il periodo di
pascolamento nelle comunanze era di circa 6 me si. Il 31% delle aziende erano in qualche misura
biologiche. Il 13% delle aziende avevano anche un agriturismo, indice di multifattorialità. Il 41%
delle aziende campione allevava bovini (media 63 capi), di cui il 60% mungeva (produzione latte kg
4866), me ntre erano venduti circa 21 vitelli/anno. Circa l’84% delle aziende allevava ovini
(naturalmente anche in promiscuità con le altre specie) con circa 229 ovini/azienda, il 53% delle
aziende mungeva le pecore con una produzione di 62 kg/capo/lattazione. Il 16% delle aziende
possedeva anche capre (195 kg di latte/capo x lattazione). Presenti, anche i suini (5%), avicoli e
cunicoli (3%) per l’autoconsumo. Si è evidenziata, per i bovini, presenza di polimeticci (base: razze
da latte), Chianina, e francesi da carne; per gli ovini, presenza di polimeticci (a base Sopravissana,
Comisana, Massese), Appenninica. Gli aspetti di mercato indicavano la prevalente trasformazione
e/o vendita locale sia per il latte che per la carne prodotta. Sulla base dei risultati è stata evidenziata
la pressante necessità di qualificare le produzioni e di legarle al territorio del parco, attraverso l’uso
di marchi o azioni di tracciabilità in maniera da valorizzare il sistema di prodotti zootecnici
connessi con il parco dei Sibillini.
PAROLE CHIAVE: Sistemi di allevamento, parco dei monti Sibillini, bovini, ovini.
INVESTIGATION ABOUT LIVESTOCK
NATIONAL PARK AREA (ITALY)
FARMING
SYSTEMS
IN
THE
SIBILLINI
SUMMARY: An investigation about structure of 60 cattle and sheep farms in the Sibillini National
Park (Umbria - Italy) were performed. The mountain farms (range: 350-1500 m a.s.l.), had a Useful
Agricultural Surface from 0 to 390 ha, 33% of which in ownership and 67% in rental (collective
pastures). The average age of shepherds was of about 47 years. Sixty-one % of farms practised 6
months of transhumance in the collective spaces, with 50 cattle/farm or 260 sheep/farm. Organic
farming systems involved 31% of farms; 13% practised agri-tourism. Forty-one % of farms raised
cattle (average 63 heads/farms), 60% of them were dairy herds (kg 4866 of milk/head). About 84%
of farms raised (alone or with other species) sheep (229 sheep/farm); 53% of the herds milked (62
1
Professore Associato. Dip. di Scienze Zootecniche, Università di Perugia.
2
Tecnico. Dip. Biologia Vegetale e Biotecnologie Agro-ambientali, Università di Perugia.
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kg of milk/head). Sixteen % of farms raised goats and 5% swine, for self-consumption. Dairy cattle
were primarily Holstein, beef one were crossbreds or Chianina or Marchigiana. Most of sheep were
crossbreeds (on Sopravissana and Comisana basis) or Apennine or Suffolk. Market aspects pointed
out the local sale either for the milk/cheese or for the calves/lambs. The results showed the need of
qualification by tying local productions to the Sibillini park image, through the use of labels or
traceability.
KEY WORDS: Livestock farming systems, Sibillini Mountain park, cattle, sheep.
PREMESSA
Il parco dei monti Sibillini, istituito nel 1993, è caratterizzato da circa 70.000 ha di territorio
montano a cavallo tra le regioni Marche e l’Umbria, interessando le province di Ascoli Piceno,
Macerata e Perugia, con 18 comuni, di cui solo 2 del perugino: Norcia e Preci. Nel territorio
gravitano circa 13.200 abitanti.
Le attività tipiche degli abitanti del luogo sono state, per millenni, la pastorizia, la selvicoltura, la
coltivazione e la trasformazione dei prodotti di origine (norcineria e caseificazione). Attualmente,
dopo decenni di spopolamento, gli abitanti della zona vivono, oltre che di agricoltura, zootecnia e
di trasformazione dei prodotti, soprattutto di turismo e di commercio dei prodotti derivanti dalle
attività suddette.
E’ sembrato importante fare il punto della situazione dell’allevamento nella parte umbra del parco
prima di impostare, in quest’area, attività di sviluppo e di qualificazione dei prodotti, peraltro già
iniziate ma non organicamente collegate al territorio di produzione.
MATERIALE E METODI
L’indagine demografica ha preso inizio da un progetto che ha coinvolto l’ARUSIA, le
organizzazioni professionali agricole ed i Dipartimenti di Scienze Zootecniche e di Biologia
Vegetale e Miglioramento Geneticodell’Università di Perugia.
Una volta localizzato il territorio oggetto d’indagine, rappresentato dai comuni umbri del parco più
alcune aziende di territori limitrofi (Cascia e Spoleto), interessate da problematiche simili e fuori
dal parco soprattutto per considerazioni politiche, è stato predisposto un questionario con lo scopo
di indagare le caratteristiche strutturali e produttive degli allevamenti ricadenti nel territorio
considerato. A partire dal 15 luglio 2002 i tecnici delle organizzazioni professionali agricole
operanti sul territorio hanno svolto, dietro collaborazione del personale universitario convenzionato,
un rilevamento molto approfondito in 60 realtà zootecniche del territorio.
I dati dei questionari sono stati opportunamente codificati ed elaborati utilizzando le procedure
MEANS, FREQ del package statistico SAS (SAS, 1989).
RISULTATI E DISCUSSIONE
Per quanto riguarda le caratteristiche dimensionali, strutturali e della mano d’opera delle aziende
zootecniche oggetto di studio, si tratta di aziende montane (870 m s.l.m., in media, passando da 350
a 1500 m), con una superficie agricola totale (SAT) che andava da 0 (aziende senza terra, che
gravano per intero sulle comunanze) a 560 ha (media=105 ha), di cui utilizzabile (SAU) da 0 a 390
ha, con notevole presenza di tare e boschi. Di questi la SAU in proprietà è rappresentata solo dal
33%, mentre preponderante è la superficie in affitto (67%), composta da appezzamenti situati in
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aziende limitrofe o, più spesso, dai territori comunali o da comunanze presenti nel territorio dei
comuni di Norcia e Preci.
L’età media dell’imprenditore era di circa 47 anni (range: 24 - 69 anni), evidenziando un certo
invecchiamento degli addetti alla zootecnia, anche se non mancavano imprenditori giovani.
L’azienda media si giovava di circa 2 addetti fissi (da 0 a 10, escluso l’imprenditore, in relazione al
numero di capi ed alla specie allevata) e di 0,33 addetti part-time (da 0 a 3 addetti, come sopra). La
dotazione di trattrici evidenziava un range di CV disponibili da 0 (assenza di trattrici) a 895
(dotazione elevata), in funzione delle varie attività aziendali.
Gran parte degli appezzamenti coltivati erano pascolati, dopo la raccolta, rappresentando un volano
alimentare importante in certi momenti dell’anno.
Per quanto riguarda le colture foraggere (includendo tra queste il silomais), nelle aziende oggetto di
studio si praticavano le seguenti colture: silomais (55% delle aziende), lupinella (33% delle
aziende), medica (28% delle aziende), prato-pascolo polifita (26% delle aziende), pascolo naturale
(20% delle aziende), erbaio di avena (8% delle aziende), trifoglio più graminacee varie (1,6% delle
aziende).
Il 61% delle aziende effettuava la monticazione nei pascoli di proprietà della comunanza, con circa
50 capi bovini/azienda (da 2 a 260 capi, al prezzo d’uso di 2-10 euro/capo bovino), e di circa 260
capi ovini/azienda (da 2 a 800 ovini, al prezzo d’uso di 1,7 euro/capo ovino).
Il periodo di pascolamento nelle comunanze era di circa 6 mesi (con una grande variabilità
aziendale). Per quanto riguarda altre caratteristiche generali delle aziende, solo il 5% praticava la
transumanza orizzontale, ovvero uno spostamento significativo periodico del gregge anche fuori
regione (da e verso Teramo, ad esempio). Il 22% delle aziende possedeva la delimitazione esterna
dell’azienda con recinzioni, mentre il 31% suddivideva ulteriormente l’azienda con recinzioni
interne a formare delle parcelle, indice di strutture di pascolamento più sofisticate e razionali. Il
71% delle parcelle aziendali aveva l’acqua all’interno di esse, segno di un’attenzione accresciuta
per questa importante attività delle mandrie. Il 31% delle aziende erano, in qualche misura,
biologiche, perseguendo la valorizzazione delle produzioni aziendali attraverso questa
certificazione. Il 23% dichiarava di attuare una qualche forma di salvaguardia della biodiversità,
indice di accresciuta sensibilità ambientale, che, nella zona parco, potrebbe allentare i conflitti
esistenti tra gli interessi della conservazione e quelli della produzione. Il 13% delle aziende si è
strutturata con un agriturismo, evidenziando una sensibilità imprenditoriale rivolta alla
multifattorialità delle attività aziendali. L’84%, infine, delle aziende praticava qualche attività di
miglioramento pascoli, da circostanziare ed indagare più a fondo perché i rischi ambientali legati a
queste pratiche sono, in un’area-parco, elevati, in quanto ambienti molto sensibili. Delle aziende
indagate il 41% allevava bovini (media 63 capi/azienda), di cui il 60% mungeva (produzione media
di latte: kg 4866/lattazione), mentre risultavano venduti in media circa 21 vitelli (o vitelloni)/anno x
azienda. Circa l’84% delle aziende allevava ovini (naturalmente anche in promiscuità con le altre
specie) con circa 229 ovini/azienda, il 54% delle aziende mungeva le pecore, con una produzione di
62 kg/capo/lattazione. Il 16% delle aziende possedeva anche capre (n.80/azienda, ma con variabilità
da 2 a 400 capi, cioè da pochi soggetti in azienda, in allevamento promiscuo, fino ad alcune aziende
specializzate), che producevano circa 195 kg di latte/capo x lattazione (con grande variabilità).
Erano presenti, nel 5% degli allevamenti, anche i suini, ma si trattava di pochi capi per
l’autoconsumo, e nel 3% di queste avicoli e cunicoli, che, dalla consistenza, risultavano allevamenti
familiari, per la vendita diretta a privati.
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Relativamente agli allevamenti bovini, l’indagine ha evidenziato come nel 38,5% di questi,
l’indirizzo produttivo prevalente era la carne e nel 61,5%, il latte o duplice attitudine. Stratificando
il campione sulla base della specie allevata e dell’attitudine produttiva è possibile approfondire
meglio alcune considerazioni.
Gli allevamenti bovini da carne erano collocati ad un'altitudine media di 813,3 m s.l.m., erano
caratterizzati da una SAT di circa 145 ha (min=7,5 ha; max =400 ha) e da una SAU media di 134 ha
(min=7,5 ha; max=390 ha). Forte era il ricorso all'affitto: infatti la superficie di proprietà risultava
essere solamente il 27%, (anche un'azienda con soli terreni in affitto), me ntre quella in affitto
(min=0 ha; max=250 ha) occupavas mediamente il 73% della superficie aziendale. L'età media
dell'imprenditore era di 47 anni, con il 30% di allevatori al di sotto dei 40 anni ed un 20% sopra i
60. Il numero medio dei familiari impiegati totalmente nell'azienda era di 2,3, con la quasi assenza
di addetti part-time o lavoratori extra- familiari (presenti in unica realtà). La superficie aziendale era
occupata per il 43,1% da colture da granella, di cui il 58,7% costituito da colture le cui produzioni
contribuivano direttamente alla PLV aziendale, quali farro, lenticchia, frumento duro e tenero e
cicerchia. La superficie aziendale destinata a cereali, da reimpiegare in allevamento, costituiva
invece il 17,8% della superficie totale, con una prevalenza di orzo (8,3%) seguito dalla segale
(4,7%) e dall'avena (3,6%). Le foraggere caratterizzavano il 56,9% della SAU, con la prevalenza
del prato pascolo naturale (21,6% della SAU) e prato-pascolo polifita artificiale (16,4% della SAU).
Fra le leguminose era la medica quella ad avere il ruolo più importante, con l'11, 6% della
superficie investita, mentre minore sembrava essere il ruolo della lupinella (2,2% della SAU). Il
60% degli allevamenti bovini da carne utilizzava i terreni delle comunanze agrarie per il
pascolamento dei loro animali, ma soltanto il40% provvedeva alla monticazione con i bovini, per un
numero medio di soggetti monticati pari a 74 capi (min=2 capi; max=240 capi). Il carico, espresso
come UBA/ha di superficie aziendale pascolata, era mediamente pari a 0,52 UBA/ha (min=0,32;
max=0,94 UBA/ha). L'allevamento di soli bovini si svolgeva nel 40% delle aziende, mentre nel
30% essi erano in promiscuità con gli ovini, nel 20% sia con ovini che con caprini e, in una realtà
aziendale, erano contemporaneamente presenti anche gli equini. Dal punto di vista etnografico si
evidenziava una forte eterogeneità, con polimeticci su base genetica costituita o da razze da latte o
da ceppo podolico (10% allevamenti). Forte era la presenza delle razze francesi Limousine e
Charolaise, presenti in purezza, rispettivamente, nel 10 e 30% delle aziende, ma anche come
costituenti di mandrie miste. Le razze italiane da carne erano rappresentate dalla Marchigiana (10%)
e dalla Chianina (20%) insieme con la Pezzata Rossa Italiana ed alla Frisona. La distribuzione dei
parti nel corso dell'anno palesava una certa loro stagionalità, con un picco alla fine dell'inverno,
dovuta all'effetto degli allevamenti con linea vacca- vitello, mentre quelli che praticavano il ciclo
chiuso tendevano a destagionalizzare i parti. Tutte le aziende monitorate adottavano il pascolo; di
esse, il 60% utilizzava terreni delle comunanze per un periodo medio di 5,8 mesi (min=1 mese max 6 mesi). Delle aziende considerate, soltanto il 27% ha fornito dati soddisfacenti sulle
produzioni, dai quali si desumeva che il 57,1% forniva vitelli da ristallo, con pesi alla vendita
oscillanti fra i 150 e 330 kg e le restanti effettuavano il ciclo chiuso, con la vendita dei soggetti ad
un peso medio di 600 kg. Mentre nel primo caso i destinatari risultavano essere o commercianti o
altri allevatori, nel caso di chi completava il finissaggio, gli acquirenti principali erano i macellatori.
Il 50% degli imprenditori aderiva o era in procinto di aderire al metodo biologico, il 30% era
interessato alla salvaguardia delle razze in via di estinzione, mentre sentita (50% degli allevatori)
era l'esigenza di tutelare, attraverso consorzi, le produzioni. Il 40% era favorevole allo sviluppo
delle aree protette.
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Gli allevamenti bovini da latte erano praticati ad un’altitudine media di 849 m s.l.m. (min=600 m max=1478 m). Le aziende erano caratterizzate da una SAT media di 109,47 ha di cui il 49,17% di
proprietà, confermando come i terreni in affitto giochino un ruolo fondamentale anche in questo
comparto. Il 93% di queste aziende erano a conduzione familiare, mentre le restanti a conduzione
diretta, in forma cooperativa. Il numero di addetti nelle aziende familiari risultava essere,
mediamente, pari a 2,7 con la partecipazione di 0,8 unità part-time. L’età media dell’imprenditore
era pari a 41±3 anni, evidenziando un certo ricambio generazionale, con la presenza del 67% degli
imprenditori con un’età inferiore ai 40 anni e soltanto il 13% con un età superiore ai 60. La SAU era
investita prevalentemente a foraggere (63% della SAU), di esse le leguminose (medica e lupinella)
rappresentavano il 32%, pari al 19% della SAU totale. Le colture da granella, che costituivano il
37% della SAU, erano rappresentate per circa il 46%, da frumento tenero, lenticchia e farro e per il
restante 54% da orzo, segale ed avena, queste ultime reimpiegate nell’alimentazione del bestiame.
Le foraggere, pascolate per il 45,7% della loro superficie, erano utilizzate con tale pratica dal 53%
delle aziende, di cui molte possedevano anche ovini, è risultato, perciò, difficile attribuire la
superficie utilizzata da una specie piuttosto che da un'altra. Molto importante è risultato il
pascolamento su terreni di proprietà collettiva: infatti il 20% degli alleva menti utilizzava tali
pascoli, per un periodo di circa 6 mesi, esclusivamente con i bovini. La consistenza media degli
allevamenti era di 56,2 capi (min= 7 capi –max=350). La razza prevalente era la Frisona Italiana,
mentre la Pezzata Rossa Italiana era presente in un’unica realtà aziendale. I parti, come nelle
caratteristiche di tale tipo di allevamento, erano destagionalizzati. Tenendo conto del fatto che,
comunque, si trattava di allevamenti a carattere prevalentemente intensivo e l'impiego del pascolo
limitato al 20% delle aziende, il periodo di integrazione alimentare aveva una durata di 12 mesi. Dei
concentrati utilizzati, quelli di origine industriale venivano impiegati nel 33,3% degli allevamenti,
in ragione del 63% della razione giornaliera. Fra i concentrati semplici la farina di estrazione di soia
era utilizzata nel 13,4% degli allevamenti, in ragione del 29%. Fra i concentrati energetici un ruolo
fondamentale era svolto dall'orzo e dal mais, impiegati, rispettivamente, in ragione del 35% e del
47,3%, nel 60% e nel 73% delle aziende, rispettivamente. Minore era l'incidenza di altri prodotti
quali segale o avena. Anche se impiegati in un solo allevamento gli scarti della lavorazione di
lenticchia e farro erano da considerare come componenti alternative della razione, soprattutto
laddove si operava in regime di biologico. La produzione media di latte era pari a 4866
kg/capo/lattazione, consegnato o ai caseifici locali o alla Cooperativa Produttori Latte di Perugia,
rientrando perfettamente nella media produttiva dell'intero comprensorio della Valnerina. La quasi
totalità degli allevatori vendeva i vitelli maschi baliotti ad un peso di 50 kg circa e soltanto in un
caso si aveva anche l'ingrasso degli stessi. In definitiva questi allevatori, avendo sviluppato un
mercato molto vivace, risultavano meno sensibili alle problematiche ambientali e commerciali.
Infatti soltanto il 30% operava in biologico, non c’era interesse a salvaguardare le razze in via di
estinzione, allevando tutti o quasi Frisona Italiana, mentre il 30% era interessato a promuovere i
prodotti del parco, gli stessi che vedevano nel parco un mezzo di sviluppo del territorio. Variegata
risulta, infine, la risposta circa le azioni da intraprendere, su tutte prevaleva l'esigenza di potenziare
l'assistenza tecnica e commerciale (53% degli intervistati).
Per quanto riguarda gli allevamenti ovini, l’84% delle aziende, costituenti il campione, allevava
ovini o in maniera specializzata (60%), oppure insieme ad altre specie di ruminanti domestici quali i
bovini (26%) ed i caprini (8%) o in combinazione con entrambe (6%), confermando la versatilità di
tale tipo di allevamento. Dei 50 allevamenti monitorati, il 46% era specializzato nella produzione di
carne, il 38% nella produzione di latte ed il 16% era da considerare a duplice attitudine.
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Gli allevamenti ovini da latte (o a duplice attitudine), avevano aziende situate ad un’altitudine
media di 680 m s.l.m., indice di una relativa marginalità territoriale, con una SAU di circa 191 ha,
di cui solo il 25% di proprietà. L'età media dell'imprenditore era pari a 39,5±2,6 anni, evidenziando
un buon ricambio generazionale. Il numero di addetti fissi/azienda risultava essere pari a 2,5, quello
degli addetti part-time di 0,83. Interessante era la dotazione in macchine agricole, espressa come
potenza in CV, pari a 278 ± 111.
La ripartizione della SAU evidenziava come il 22,1% di essa era occupata da colture da granella
quali farro, frumento tenero e duro e da lenticchia, mentre limitata sembrava essere la coltivazione
di prodotti destinati all'alimentazione del bestiame quali avena, segale ed orzo. Era assente, invece,
la coltivazione del mais da granella e limitata ad una sola azienda quella dell'insilato di mais. Fra le
foraggere prative un ruolo importante era giocato dai prati-pascoli naturali (il 52% della SAU),
seguiti dai prati pascoli polifiti di tipo artificiale (il 10,5%); le leguminose foraggere (medica e
lupinella: rispettivamente l'8,1 ed il 3,2% della SAU). Tale quadro mette in evidenza, in questa
tipologia, il ruolo preminente delle foraggere, occupando il 73,8% della SAU. Il 43% della
superficie destinata a produzioni da granella era pascolata nei mesi successivi alla trebbiatura, per
periodi variabili da 2 a 3 mesi. Una stima del carico, espresso in Unità Bestiame Adulto/ha di
superficie aziendale pascolata, indicava valori pari a 0,76 UBA/ha (min=0,12 UBA/ha – max=3
UBA/ha). Relativamente agli ovini monticati, il loro numero medio risultava essere di 388
(min.=150 – max. = 800 capi). La consistenza media era di 408 capi (min=100 –max=800), con una
produzione media di 62 kg di latte per lattazione (min=19 – max=140 kg). Relativamente ai tipi
genetici presenti si evidenziava una presenza massiccia di soggetti polimeticci, fenotipicamente più
vicini, in alcuni allevamenti, alle razze Sarda o Comisana o Massese, mentre in altri erano
assimilabili a derivati Appenninici e Sopravissani. In soli due allevamenti venivano allevati soggetti
in purezza delle razze Massese e Sarda. I parti erano concentrati, prevalentemente, nei mesi
autunno-invernali, con picchi in febbraio- marzo ed in ottobre, secondo schemi riproduttivi ormai
consolidati nell’area oggetto di studio, che prevedono, in molte realtà, o un parto all’anno, o tre
parti ogni due anni, similmente a quanto avviene negli allevamenti ad indirizzo carne. Prendendo in
considerazione il solo periodo di integrazione alimentare (durata media di circa 7 mesi), occorre
mettere in evidenza come soltanto il 16% delle aziende ricorrevano all’impiego di concentrati
industriali, con una concentrazione media, sul concentrato totale somministrato, del 55%. Un’unica
azienda utilizzava favino, che incideva per il 50% sulla quota di concentrato somministrata
giornalmente. Interessante sembrava essere il ruolo del mais, che, quando utilizzato, costituiva il
48% del concentrato totale (forte dipendenza dal mercato esterno). La quasi totale assenza di fonti
proteiche al di fuori dei foraggi, evidenziava, inoltre, un basso input in termini di conoscenze legate
all’alimentazione delle pecore da latte e, conseguentemente, un elevato livello di arretratezza
tecnica da parte degli allevatori stessi.
Il latte prodotto era trasformato direttamente nel 57% delle aziende ed il formaggio venduto per il
36% direttamente in azienda, per il 36% soltanto a commercianti e per il restante 28% sia a privati
che commercianti; le rimanenti aziende (43%) conferivano il latte ai caseifici locali. Il numero di
agnelli venduti/pecora/anno era pari ad 1,08 (min=0,71 –max=1,5) ed un peso medio alla vendita di
13,5 kg (min=10 kg; max=17 kg). Gli agnelli erano conferiti, per l'84%, a macellai e per la restante
parte a privati, oppure ad altre figure quali commercianti. Il 31% delle aziende aveva o era in
procinto di avere certificazione biologica, in eguale misura (31%) gli intervistati erano favorevoli
alla difesa di razze in via di estinzione. Il 68% erano a favore della valorizzazione delle produzioni
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del Parco attraverso l'istituzione di Consorzi di tutela, mentre soltanto al 26% chiedeva uno
sviluppo delle aree protette.
Le aziende di ovini da carne erano localizzate ad un’altitudine media 852,53 m s.l.m., (min=600 m
e max=1478) e quindi in condizioni di maggiore marginalità rispetto alle aziende ad indirizzo
produttivo latte. Tutte a conduzione familiare, avevano un imprenditore con età media di 50 anni
(min=32 anni - max=68) manifestando uno scarso ricambio generazionale, evidenziato ulteriormente
dal fatto che soltanto il 17% 4 di essi aveva un’età inferiore ai 40 anni (comunque superiore ai 30).
Il numero di persone impegnate costantemente in azienda risultava essere pari a 1,6, quello degli
addetti part-time di 0,21, mentre in nessun allevamento erano presenti addetti extra- familiari. La
dotazione in macchine agricole, espressa come potenza in CV, era pari a 160 CV (più basso livello
di meccanizzazione rispetto alle aziende con ovini da latte). La superficie media aziendale risultava
essere di 59 ha (min=3 – max=400 ha) con una SAU media di 53 ha (min=3 – max=390 ha), mentre
la superficie in affitto era 47% della SAT. La ripartizione della SAU evidenziava come il 45,3% di
essa era occupata da colture da granella quali farro, frumento tenero e duro e, soprattutto, lenticchia
(11,5%), ma anche da altri legumi quali ad esempio la cicerchia, a differenza di quanto avveniva per
le aziende a preminente produzione latte. I prodotti destinati all'alimentazione del bestiame quali
avena, segale, orzo e mais occupavano il 22,7% della SAU (buona integrazione fra comparto
agronomico e quello zootecnico aziendale). Fra le foraggere prative un ruolo importante era giocato
dalla lupinella (il 49% ), seguita dai prati-pascoli polifiti e da quelli naturali, mentre la medica non
raggiungeva l'1% della SAU. Il carico per ha di superficie pascolata è risultato pari a 0,71 UBA
(min=0,07 UBA –max=1,72 UBA/ha), valori bassi se riferiti all'intero anno, ma da verificare come
carico istantaneo. Inoltre vi era il fatto che il 47% delle aziende occupava, per un periodo medio di
6,3 mesi (min=4, max=12 mesi) terreni delle comunanze agrarie, con un numero di ovini monticati
da 2 a 420 capi (media di 125 capi). La consistenza media dell'allevamento era di 96 capi (min=18 –
max=500). Anche in questa tipologia aziendale si evidenziava la prevalenza di polimeticci, con
soggetti più vicini fenotipicamente alle razze Suffolk e Bergamasca, ma anche a razze da latte quale
la Comisana. Le uniche razze allevate in purezza risultavano essere la Sopravissana, l'Appenninica
e la Suffolk, presenti, ciascuna, soltanto in un allevamento. I parti erano distribuiti prevalentemente
nei mesi autunno- invernali (picchi in febbraio-marzo e settembre-ottobre), secondo schemi
riproduttivi tipici degli allevamenti da carne (3 parti ogni 2 anni), mentre una parte di allevatori
manteneva gli arieti sempre all'interno del gregge (parziale destagionalizzazione dei parti).
Prendendo in considerazione l’integrazione alimentare (circa 7 mesi), i concentrati di origine
industriale, la segale, il frumento ed il favino e lo scarto della lavorazione della lenticchia erano
utilizzati, ciascuno, in una sola azienda. Orzo, avena e mais rappresentavano mediamente il 47,5%,
il 49,8 ed il 39,8% del concentrato utilizzato nelle aziende in cui erano impiegati. Analogamente a
quanto rilevato negli allevamenti da latte si riscontrava uno scarso contributo dei concentrati
proteici alla razione invernale, anche se era interessante l’uso dello scarto della lavorazione della
lenticchia ed del favino quali fonti proteiche. Il numero di agnelli venduti per capo per anno era di
0,88 (min = 0,4 – max=1,5), ad un peso medio di 16,2 kg (range: 10 -20 kg). La carne prodotta era
destinata prevalentemente a macellai (39,1%), a privati (13%) ed infine a commercianti (8,8%); il
39,1% delle aziende non si seguiva una politica commerciale definita (vendita indifferentemente a
tutte e tre le categorie indicate). La categoria di imprenditori consultata sembrava essere
scarsamente interessata allo sviluppo del metodo biologico, infatti soltanto il 17,4% degli allevatori
aderiva o era in procinto di aderire al metodo biologico; scarso era lo sviluppo di aziende
agrituristiche (4,3%). Poco sentita era la salvaguardia di razze in via di estinzione, probabilmente a
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causa della scarsa informazione in merito. Analogamente non sembrava interessare più di tanto la
valorizzazione commerciale dei prodotti del parco, come pure la valorizzazione e lo sviluppo dello
stesso: infatti in ambedue i casi soltanto il 26,1% degli allevatori si era dichiarato favorevole.
CONCLUSIONI
Sulla base dei risultati di questo studio preliminare occorrerebbe approfondire i comportamenti e le
modalità di utilizzazione del pascolo da parte degli animali. In altri termini andrebbero verificati:
- i periodi di utilizzazione dei pascoli e le modalità di utilizzazione in funzione delle varie specie
(pascolo promiscuo, o in serie, di più specie nello stesso territorio)
- i turni ed i carichi degli animali nelle varie località di monticazione, avendo visto come il giusto
carico sia decisivo per l’attività di conservazione del territorio nelle aree parco.
Altro importante obiettivo è rappresentato dalla necessità di omogeneizzare geneticamente le specie
(o, meglio, le razze) allevate, inteso come ritorno all’utilizzo di razze autoctone o, comunque, di tipi
genetici più adattate al territorio, evitando l’impiego di polimeticci che rappresenta la piaga in
questo come in molti altri territori montani dell’Italia centro-meridionale. Si tratta di studiare ed
applicare la (re)introduzione di razze bovine, ma soprattutto di quelle ovine e caprine che, per
tradizione ed adattamento, si caratterizzano come animali di particolare interesse produttivo e anche
culturale, per mezzo di azioni di salvaguardia della biodiversità, attività essenziali all’interno di un
parco e collegabili anche alla qualità dei loro prodotti.
Un obiettivo importante potrebbe, infatti, essere rappresentato dallo studio del collegamento tra
qualità delle produzioni animali e quella delle cotiche erbose che, con la peculiarità dello spettro
floristico, potrebbero fornire ai prodotti animali (carni o latte) aromi, odori, gusti talmente
riconoscibili e standardizzabili, da poter essere usati come indicatori di tipicità dei prodotti di
origine animale del parco dei Sibillini.
BIBLIOGRAFIA
SAS Institute Inc. (1989). SAS/STAT User’s guide. Version 6. Fourth Edition, Volume 1, 2. SAS
Inst., Cary, NC.
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DIGERIBILITÀ IN VIVO DELLA GHIANDA DI CERRO IN SUINI
MIGLIORATI E RUSTICI*
Anna Acciaioli 1 , Lara Pianaccioli 2 , Giancarlo Ania2 , Oreste Franci3 , Gustavo Campodoni3
RIASSUNTO: Il presente lavoro si propone di studiare la digeribilità della ghianda di cerro a
confronto con l'orzo. Entrambi gli alimenti sono stati testati su 6 suini Cinta Senese e 6 Large
White. Il confronto tra razze non evidenzia alcuna differenza significativa per quanto riguarda la
digeribilità della sostanza secca e delle sue componenti. La ghianda è risultata meno digeribile
dell'orzo per tutte le componenti e in particolare per la fibra e la proteina. Per quanto riguarda la
proteina si è proceduto alla stima della digeribilità reale impiegando una regressione sulla
digeribilità apparente di diete a livello variabile di proteina. La proteina endogena è risultata pari a
15,70 g per 100 g di S.S. di feci. Di conseguenza la digeribilità reale della proteina della ghianda è
risultata pari al 69,37%. Anche l'utilizzazione dell'energia a livello digestivo risulta minore nella
ghianda rispetto all'orzo (54% vs 84%). Il valore di E.D. della ghianda intera è pari a circa 10
Mj/kg/SS. In conclusione la ghianda di cerro risulta avere uno scarso valore proteico, probabilmente
anche a causa dell'alto contenuto in tannino, e quindi necessita di opportuna integrazione qualora
costituisca la base alimentare di suini, in particolare nelle prime fasi della crescita.
PAROLE CHIAVE: digeribilità, suini, ghianda
IN VIVO DIGESTIBILITY OF ACORN (QUERCUS CERRIS) IN LOCAL AND IMPROVED
PIG
SUMMARY: The aim of this work was to study the digestibility of acorn (Quercus cerris) in
comparison with barley, employing barrows (6 Cinta Senese and 6 Large White) submitted to four
trials in metabolic cage. Cinta Senese and Large White pigs did not differ for the digestive ability of
all the nutritive fractions. Acorns showed lower digestibility coefficients than barley for all the
fractions especially for fibre and protein. The real digestibility of protein has been evaluated
through a regression on the apparent digestibility of 4 diets with variable levels of protein. The
endogen protein resulted 15,70 g in 100 g of faecal D.M. In consequence the real digestibility of
acorn protein was estimated 69,37 %.The digestive utilization of acorn’s energy is lower than that
of barley (54% vs. 84%). The D. E. of acorn is about 10 Mj/kg/SS. In conclusion the acorn
(Quercus cerris) has a low protein value, probabily because of its high content of tannins. Therefore
the use of acorn in pig nutrition, particularly in the first phase of growth, needs of suitable
supplementation.
KEY WORDS: digestibility, pig, acorn
*
Lavoro eseguito con fondi ARSIA.
1
Professore associato. Dipartimento di Scienze Zootecniche. Università di Firenze.
2
Dottorando di ricerca. Ibidem.
3
Professore ordinario. Ibidem.
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PREMESSA
L'allevamento delle razze suine rustiche è legato al pascolo. Per quanto riguarda la razza Cinta
Senese, la formazione boschiva tradizionalmente utilizzata è la macchia mediterranea che fornisce
principalmente ghiande e castagne. L'utilizzazione del bosco, oltre a costituire una possibilità di
recupero di risorse marginali, rappresenta il mezzo principale per la qualificazione del prodotto
finale. La corretta valutazione nutrizionale di queste risorse appare quindi necessaria sia per evitare
i danni da sovraccarico sul bosco, che per attuare un sistema di allevamento ne l rispetto della salute
e del benessere degli animali, mantenendo valida la finalità economica e produttiva dell'impresa.
Scopo di questo lavoro è stato quello di stimare il valore nutritivo della ghianda di cerro quando
utilizzata da suini Cinta Senese, razza rustica toscana in forte espansione.
MATERIALE E METODI
E' stata effettuata una prova di digeribilità in vivo utilizzando la ghianda di cerro confrontata con
orzo; entrambi gli alimenti sono stati impiegati su 12 suini maschi castrati, 6 Cinta Senese e 6 Large
White, che all’inizio della sperimentazione presentavano mediamente lo stesso peso (tab. 1).
Tabella 1: Peso vivo degli animali
Table 1: Body weight of the animals
Razza
Breed
Cinta Senese Large White
Peso medio
Medium weight
Peso minimo
Minimum weight
Peso massimo
Maximum weight
kg
84,366
82,766
Alimento
Food
Orzo
Ghianda
Barley
Acorn
84,166
82,049
kg
69,800
70,200
69,800
70,200
kg
98,600
99,200
99,200
96,200
Gli alimenti sono stati macinati e pellettati per evitare che gli animali operassero scarti, in
particolare a carico delle ghiande, che solitamente vengono parzialmente sgusciate dal suino al
pascolo. Gli alimenti sono stati forniti nella dose di 90 g/kg p.m., calcolata sul peso degli animali
all’ingresso in gabbia. Tutti gli animali sono stati sottoposti a quattro prove successive, condotte
con l’ausilio di gabbie metaboliche che hanno permesso il prelievo delle feci per la determinazione
della digeribilità.
Ogni prova ha avuto una durata di sette giorni ed è stata preceduta da un periodo a terra di
adattamento alla dieta, anch’esso di una settimana. Lo schema della sperimentazione è riportato
nella tabella 2. I consumi alimentari sono stati controllati giornalmente sia durante il periodo di
adattamento che durante quello sperimentale in gabbia. Il periodo sperimentale è stato a sua volta
suddiviso in due fasi: la prima (3 giorni) di adattamento in gabbia e la seconda (4 giorni) di
campionamento delle feci, secondo lo schema proposto da Schiavon e coll. (1996).
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Tabella 2: Schema della sperimentazione
Table 2: Scheme of the experiment.
Cinta Senese
Prova
Gruppo 1
Gruppo 2
Trial
Group 1
Group 2
1
Orzo
Barley
2
Ghianda
Acorn
3
Ghianda
Acorn
4
Orzo
Barley
Large White
Gruppo 1
Gruppo 2
Group 1
Group 2
Orzo
Barley
Ghianda
Acorn
Ghianda
Acorn
Orzo
Barley
Sugli alimenti (tab. 3) e sulle feci è stata effettua l'analisi tipo e la determinazione delle ceneri AIA,
necessarie per il calcolo della digeribilità apparente secondo il metodo suggerito da Van Keulen e
Yong (1977). I metodi analitici applicati agli alimenti e alle feci sono quelli indicati da Martillotti e
coll. (1987). Sugli alimenti è stata determinata anche la quantità di tannini.
Tabella 3: Composizione chimica delle diete (% sulla S.S.).
Table 3: Chemical composition of diets (% on D.M.)
Orzo
Barley
Proteina Grezza
11,07
Crude Protein
Estratto Etereo
2,07
Ether Extract
Fibra Grezza
4,29
Crude Fiber
Ceneri
3,61
Ash
Tannino
Tannin
Ghianda
Acorn
4,59
4,53
11,40
3,30
10,28
I risultati sperimentali di una prova di digeribilità condotta in precedenza sugli stessi animali e
basata sull'impiego di 4 diete a differente contenuto proteico (Filippelli, 2003) hanno permesso di
stimare la quantità di proteina endogena fecale, individuata dal valore dell’intercetta dell’equazione
di regressione, che è risultata pari a 15,70 g per 100 g di S.S. di feci emesse. Tale valore, detratto
dalla P.G. delle feci, ha consentito il calcolo della quantità di P.G. fecale di esclusiva origine
alimentare.
I dati di digeribilità sono stati analizzati con analisi della varianza (SAS, 1988) considerando come
fattori fissi la razza e la dieta e come effetto random il soggetto entro razza, secondo il seguente
modello:
Y ijkl = µ + A i + B ij + C k + E ijkl
E' stata testata anche l'interazione alimento per razza che non è risultata mai significativa.
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RISULTATI E DISCUSSIONE
I consumi alimentari (tab. 4) sono risultati analoghi tra le razze a causa della omogeneità dei pesi
degli animali. Grazie al disegno sperimentale adottato, entrambi gli alimenti sono stati testati su tutti
i soggetti e di conseguenza i consumi delle due tesi alimentari appaiono perfettamente bilanciati.
Per quanto riguarda gli incrementi ponderali degli animali durante i periodi in gabbia (tab. 4), come
era da attendersi, si osserva un comportamento significativamente differente tra le diete, a sfavore
della ghianda. La necessità di confrontare gli alimenti somministrandoli nella stessa quantità, infatti,
ha avuto come conseguenza che la ghianda non ha coperto i fabbisogni di mantenimento. Si ricorda
che in condizioni di campo (al pascolo in bosco) è stato stimato un consumo medio di circa 8 kg di
ghianda (Hernández e coll., 1997) per suini all’ingrasso, quantità ben superiore a quella
somministrata nella presente sperimentazione. Con questa dieta, inoltre, gli animali hanno lasciato
residui alimentari a causa della scarsa appetibilità del prodotto integrale che contiene un’alta
percentuale di tannini (tab. 3).
Tra le razze non sono emerse differenze statisticamente significative a causa dell’ampia variabilità
individuale riscontrata. Tuttavia, la Cinta Senese ha ottenuto, mediamente, accrescimenti superiori
della Large White. Questo risultato non può avere valenza zootecnica in quanto è noto che la LW ha
potenzialità di accrescimento notevolmente superiori (Acciaioli e coll., 2002) ma può essere
indicativo di una minore suscettibilità della CS allo stress da gabbia, a conferma di quanto già
osservato in altre prove sperimentali di digeribilità effettuate con le medesime razze (Acciaioli e
coll., 2003, Filippelli, 2003).
Tabella 4: Consumi e accrescimenti.
Table 4: Feed intakes and Daily gains.
Razza
Alimento
Breed
Food
Cinta
Large
Ghianda
Orzo
Senese
White
Acorn
Barley
Consumo (t.q.) g/d
2211
2187
2217 a
2181 b
Intake
IMG
g/d
166,66
4,76
-314,28 a
485,71 b
Daily gain
a, b: entro criterio medie con lettere differenti sono differenti (P<0,01)
a,b: within criterion means with different letters differ (P<.01)
DSE
167,2
213,0
Per quanto riguarda la digeribilità della sostanza secca e delle sue componenti (tab. 5), il confronto
tra le razze non evidenzia alcuna differenza significativa. In una prova di digeribilità effettuata in
precedenza (Acciaioli e coll., 2003) con suini Cinta Senese e Large White coetanei, la razza rustica
aveva mostrato minori capacità digestive per tutti i parametri. I risultati ottenuti nella presente prova
potrebbero in parte essere dovuti al fatto che i soggetti delle due razze erano omogenei per peso e
quindi i suini Cinti avevano età più elevata.
Il confronto tra gli alimenti mostra molte differenze significative: la digeribilità della sostanza secca
e della sostanza organica sono state più elevate nell’orzo (di circa il 30%) con valori che si attestano
oltre l’80%. Questi valori sono di poco inferiori a quelli ottenuti in altre sperimentazioni con diete
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bilanciate di analogo tenore proteico (Filippelli, 2003), e con diete a base di orzo integrate con soia
(Morales e coll., 2002).
Tabella 5: Digeribilità reale ed apparente delle diete.
Table 5: Real and apparent digestibility of diets.
Razza
Alimento
Breed
Food
Cinta
Large
Ghianda
Orzo
Senese
White
Acorn
Barley
Sostanza Secca
%
69,85
65,17
52,58 b
82,44 a
Dry Matter
Sostanza Organica
%
71,76
67,17
54,56 b
84,37 a
Organic Matter
Proteina G. (apparente) %
5,49
-16,57
-85,91 b
74,83 a
C. Protein (apparent)
Proteina G. (reale)
%
87,62
80,37
69,37 b
98,62 a
C. Protein (real)
Fibra grezza
%
10,25
-2,09
-7,44 b
15,60 a
Crude Fiber
Estratto Etereo
%
79,82
75,85
86,90 b
68,77 a
Ether Extract
Estrattivi Inazotati
%
81,31
78,93
70,40 b
89,84 a
Nitrogen-free Extract
Ceneri
%
16,18
9,08
-5,83 b
31,11 a
Ash
a, b: entro criterio medie con lettere differenti sono differenti (P<0,01)
a,b: within criterion means with different letters differ (P<.01)
DSE
773
751
2998
1034
2027
569
503
1479
La digeribilità apparente della proteina è risultata negativa poiché la quantità di questa componente
nelle feci è maggiore di quella dell’alimento. La digeribilità reale, calcolata detraendo dalla proteina
delle feci la proteina endogena come descritto in materiali e metodi, è risultata prossima al 100%
per quanto riguarda l’orzo, mentre è rimasta molto più bassa per la ghianda (69,37%), risultato
plausibile considerando l’alta percentuale di tannini presenti nelle ghiande che notoriamente
deprimono la digeribilità della proteina (Bellitti e coll., 1977). Anche Morales e coll. (2002)
impiegando a confronto con una dieta a base di orzo una con sorgo e ghianda hanno ottenuto minor
digeribilità della proteina nella dieta con gli alimenti contenenti tannino.
La digeribilità della fibra è risulta mediamente molto bassa per entrambi gli alimenti testati, e in
particolare per la ghianda a conferma dell’effetto negativo del tannino sulla fermentescibilità
microbica intestinale, come riscontrato in una prova precedente effettuata confrontando favino e
soia (Acciaioli e coll., 2003).
Il contenuto in tannino particolarmente elevato nelle ghiande utilizzate nella presente
sperimentazione dipende dalla specie quercina utilizzata (cerro) ed anche dal fatto che il prodotto
impiegato non aveva subito alcun dilavamento, contrariamente a quanto avviene normalmente in
natura dopo la caduta con l'effetto di abbassare il contenuto in tannino rendendo il frutto più
appetibile e sicuramente più digeribile.
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Le differenze fra i valori di digeribilità rilevati per l’estratto etereo confrontando le diete fanno
invece rilevare un vantaggio a favore della ghianda (86,90 vs. 68,77 %). Questo può essere dovuto
al fatto che l’estratto etereo dell’orzo è in parte costituito da cere, del tutto indigeribili, mentre
quello della ghianda è rappresentato da oli.
Per quanto riguarda gli estrattivi inazotati, costituiti essenzialmente da amido per entrambi gli
alimenti, si registra ancora una volta una minor digeribilità nella ghianda, probabilmente ascrivibile
alla elevata quantità di fibra presente in questo alimento, che è notoriamente causa di un
abbassamento della digeribilità di tutti i componenti della sostanza secca (Mordenti e coll., 1992).
Risulta praticamente impossibile quantificare separatamente l’effetto negativo della fibra e del
tannino ma si può ritenere che entrambi complessivamente concorrano ai risultati ottenuti.
Tabella 6: Valore energetico delle diete.
Table 6: Energy valuation of diets.
Razza
Breed
Cinta
Senese
18,19
Large
White
18,19
Alimento
Food
Ghianda
Orzo
Acorn
Barley
18,27
18,11
DSE
15,14 a
1,38
83,61 a
7,54
E. Lorda
Mj/kg SS
Gross E.
E. Digeribile
Mj/kg SS
12,94
12,07
9,87 b
Digestible E.
Digeribilità dell'E
%
71,21
66,42
54,03 b
E. Digestibility
a, b: entro criterio medie con lettere differenti sono differenti (P<0,01)
a,b: within criterion means with different letters differ (P<.01)
-
Nella tabella 6 si hanno i risultati della valutazione nutrizionale delle diete. Per quanto riguarda il
confronto fra le razze non si osservano differenze significative. Nelle due diete i valori di energia
lorda sono stati praticamente identici (18,27 e 18,11 Mj/kg s.s.), mentre l’energia digeribile è
risultata significativamente influenzata dalla differente digeribilità delle frazioni della S.S. e quindi
l’orzo ha un valore sensibilmente più elevato della ghianda (15,14 vs. 9,87 Mj/kg s.s.). La
digeribilità complessiva dell’energia è risultata per l’orzo del 83,61% e per la ghianda solo del
54,03%.
CONCLUSIONI
Il presente lavoro fornisce un contributo alla valutazione nutrizionale delle risorse boschive per i
suini, considerata la scarsità di informazioni specifiche su questo argomento. I risultati ottenuti, e in
particolare la limitata disponibilità della proteina della ghianda, quando questa costituisce la totalità
degli apporti alimentari, suggerisce l'opportunità di una integrazione con altre fonti proteiche,
particolarmente importante nelle fasi iniziali della crescita degli animali quando i relativi
fabbisogni, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, sono più elevati. Un apporto
alimentare adeguato alle necessità rappresenta infine il supporto indispensabile per garantire
l'efficienza produttiva, la qualità dei prodotti, e il benessere degli animali.
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BIBLIOGRAFIA
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Growth and somatic development. "Ital. J. Anim. Sci.", 1, 175-178.
Bellitti E., Bonsembiante M., Bosticco A., Lucifero M., Mordenti A., Piva G. (1977). Una strategia
interassociativa per l’incremento delle produzioni zootecniche. "Riv. Di Agronomia", XI, (4).
Filippelli F. (2003). La caratterizzazione digestiva della razza Cinta Senese tramite prove «in vivo».
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Desarollo Tecnológico. Consejería de Agricoltura y Comercio
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VALUTAZIONE DELLE PERFORMANCE ZOOTECNICHE DI POLLI
IBRIDI ALLEVATI CON SISTEMA ALTERNATIVO
Clara Castrovilli 1 , Valentina Ferrante 2 , Ivan Toschi 3
RIASSUNTO: Nel settore avicolo, la selezione del pollo da carne ha portato alla produzione di
ibridi destinati all’allevamento di tipo intensivo caratterizzato dalla standardizzazione delle
condizioni ambientali, dall’impiego di diete specifiche e da una scrupolosa gestione degli aspetti
igienico-sanitari. Negli ultimi anni, però, accanto alle consolidate richieste di qualità e di salubrità,
il consumatore si è orientato verso prodotti ottenuti prestando attenzione all’ambiente e al benessere
degli animali in sistemi di allevamento meno intensivi. In tali situazioni, in virtù di caratteristiche
genetiche selezionate nel tempo, l’utilizzo di animali appartenenti a razze rurali, ben adattate a
condizioni ambientali più difficili, sembrerebbe più indicato.
Nella presente ricerca sono state studiate le prestazioni produttive di ibridi Ross e Cobb in
situazione di allevamento semi- intensivo caratterizzato da una densità ridotta, da una età di
macellazione ben superiore a quella in uso nell’avicoltura industriale e da condizioni ambientali non
controllate, per valutare la capacità di adattamento di questi animali a sistemi di allevamento
alternativi. La prova è stata condotta su quattro cicli produttivi, corrispondenti alle quattro stagioni
dell’anno, allevando per ogni ciclo 25 maschi e 25 femmine di entrambi i tipi genetici.
Dall’analisi statistica effettuata sui dati rilevati, si è osservato che il peso a 21, a 42 giorni e alla
macellazione degli ibridi Cobb è risultato statisticamente più elevato, mentre non si sono rilevate
differenze significative tra i due tipi genetici relativamente agli indici di conversione e alle rese alla
macellazione. Tutti i parametri rilevati, inoltre, non sono risultati molto discordi dai valori riportati
dalle ditte selezionatrici per questi ibridi allevati in condizioni intensive.
In conclusione, quindi, è stata riscontrata una buona capacità di adattamento di questi soggetti al
sistema di allevamento semi- intensivo; ciò consente di affermare che nell’allevamento alternativo
del pollo da carne, qualora non siano disponibili soggetti di razze appositamente selezionate,
l’utilizzo di ibridi commerciali può rappresentare un’opportunità, poiché non sembrano verificarsi
sensibili riduzioni delle prestazioni produttive di questi animali.
PAROLE CHIAVE: Allevamento avicolo alternativo, ibridi commerciali, prestazioni produttive.
PRODUCTIVE PERFORMANCES EVALUATION
ALTERNATIVE REARING SYSTEMS.
OF
BROILERS
ACCORDING
TO
SUMMARY: In bird-rearing, selection of broilers for meat production had lead to production of
hybrids of good performances, addressed to an intensive rearing, that is characterized by
standard environmental conditions, by specific diets utilization and by right management of
hygienic state.
1
Professore Straordinario. Istituto di Zootecnia Generale, Facoltà di Agraria, Università degli Studi di Milano.
2
Ricercatore. Istituto di Zootecnica, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano.
3
Ricercatore. Istituto di Zootecnia Generale, Facoltà di Agraria, Università degli Studi di Milano.
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Since now are raised animals of rural breeds and also commercial hydrids, in different environment
and territorial conditions, the aim of this research was to asssess productive performances of Ross
and Cobb broilers in alternative rearing situation, with a lower animals number, higher slaughter
age, environment conditions not established, in order to evaluate the possibility to take advantage of
particular territorial zones.
The trial was made, in different seasons, rearing during every period 25 males and 25 females of
Ross and Cobb broilers.
On the ground of carried out controls and of statistical analysis, it is pointed out that body weight at
21, 42 days of age and at slaughtering were significantly higher for Cobb, while feed utilization and
slaughter yield were not statistical different between the two breeds.
In conclusion a good ability to adaptation to semintensive rearing system was found, with
productive parameters very much alike to those pointed out for intensive rearing by commercial
hauses that had selected these hybrids; so it is possible to use to advantage some zones for an
alternative rearing system, using particular territorial areas.
KEY WORDS: Alternative rearing systems, commercial hybrids, productive performances.
PREMESSA
L’avicoltura moderna si basa sull’allevamento dei cosiddetti polibridi commerciali. Fra questi, in
Italia i ceppi di broiler più diffusi sono i Cobb e i Ross e, in misura minore, gli Hubbard e i
Lohmann.
Tali ibridi sono destinati all’allevamento di tipo intensivo condotto in strutture appositamente
costruite caratterizzate da condizioni ambientali standardizzate, dall’impiego di piani alimentari e di
mangimi specifici e da una scrupolosa gestione degli aspetti igienico-sanitari.
Il consumatore, però, sempre più sensibile alle problematiche relative al benessere animale e
all’inquinamento ambientale, domanda oggi prodotti derivanti da una zootecnia meno intensiva che
sappia coniugare queste caratteristiche con le necessarie garanzie di qualità e di salubrità.
Nella presente ricerca sono state valutate le performance produttive dei due tipi di ibridi attualmente
più diffusi, i Ross e i Cobb, allevati per la produzione di carne.
I parametri dei broilers sono stati controllati e valutati in una situazione di allevamento semiintensivo.
In particolare il metodo di allevamento su cui sono stati effettuati i rilievi era caratterizzato da una
densità ridotta, da una età di macellazione superiore a quella in uso nell’avicoltura industriale e da
condizioni ambientali non determinate da sistemi di condizionamento, per valutare la capacità di
adattamento di questi animali a tipologie di allevamento alternative, cosiddette semi- intensive.
MATERIALE E METODI
La prova è stata condotta su quattro cicli di allevamento su 50 pulcini di ceppo Ross 508 e su
altrettanti animali di ceppo Cobb 500, equamente ripartiti fra i due sessi.
I cicli di allevamento, corrispondenti alle quattro stagioni dell’anno, verranno indicati di seguito
come ciclo 1, 2, 3 e 4 (primavera, estate, autunno ed inverno).
Il sistema di allevamento adottato era di tipo semi- intensivo caratterizzato da una ridotta densità
(4,9 soggetti/mq) e da un’età di macellazione piuttosto elevata, sempre superiore ai 60 giorni di vita.
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Gli animali sono stati allevati a terra, su lettiera di truciolo, in un ricovero privo di sistemi di
ventilazione forzata dotato, nelle prime due settimane di ogni ciclo, di cappe calde. Alla fine di ogni
ciclo, la lettiera è stata completamente rimossa.
I broiler dei due gruppi sono stati alimentati con gli stessi mangimi completi per polli da carne; in
ogni ciclo di allevamento sono stati utilizzati tre differenti mangimi: una dieta starter, una per la
crescita e una per il periodo di finissaggio.
Nel corso della prova sono stati rilevati i seguenti parametri:
- temperatura e umidità relativa del ricovero;
- peso di tutti gli animali, identificati singolarmente con marche alari, a 21 e a 42 giorni di età e
alla macellazione;
- consumo di alimento e indice di conversione nei differenti periodi di allevamento;
- mortalità.
Alla macellazione (effettuata al 61° giorno nei cicli 1 e 3, al 65° giorno nel ciclo 2 e al 68° giorno
nel ciclo 4) sono stati effettuati i seguenti rilievi:
- peso dell’animale subito dopo la macellazione (peso morto);
- peso della carcassa dopo evisceramento, dissanguamento e spiumatura;
- peso della carcassa (parte edibile).
Tutti i dati raccolti sono stati sottoposti ad elaborazione statistica al fine di valutare la significatività
delle differenze osservate.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Andamento della temperatura e dell’umidit à relativa.
Come si può evincere dalla tabella 1, nella quale sono riportati i valori massimi e minimi dei
parametri climatici rilevati nei quattro cicli di allevamento, la temperatura e l’umidità relativa del
ricovero hanno presentato una notevole variabilità, fortemente dipendente dalle condizioni
climatiche stagionali. L’umidità relativa del ricovero, inoltre, probabilmente per un insufficiente
ricambio dell’aria, è risultata sempre molto elevata, con valori estremi nei cicli 3 e 4.
Tabella 1: Valori medi di temperatura e umidità relativa rilevati nei quattro cicli di prova.
Table 1: Mean temperature and relative umidity values during four trials cycles.
T massima
T minima
UR massima
UR minima
Ciclo
T maximun
T lowest
RH maximum
RH lowest
Cycle
(°C)
(°C)
(%)
(%)
1
24,0
20,0
83,3
63,0
2
28,6
22,1
88,9
65,6
3
19,1
16,6
86,4
76,4
4
13,8
12,2
82,9
80,0
Parametri produttivi
In base ai rilievi effettuati, i pesi a 21 e a 42 giorni di età (tabella 2) sono risultati statisticamente
superiori per i sogge tti del ceppo Cobb.
Si sono inoltre riscontrate differenze significative nei diversi cicli attribuibili, oltre che alla diversa
stagione, alla variabilità del peso degli animali accasati all’età di un giorno. In particolare, i pesi a
21 e a 42 giorni sono risultati mediamente più elevati nel primo ciclo.
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Tabella 2: Rilevi ponderali dei soggetti dei due tipi genetici espressi per ciclo.
Table 2: Weights of broilers for genetic types and cycles.
Peso a 21 giorni
Peso a 42 giorni
Weight at 21 days
Weight at 42 days
(g)
(g)
Cobb
Ciclo 1
Cycle 1
Ciclo 2
Cycle 2
Ciclo 3
Cycle 3
Ciclo 4
Cycle 4
Ross
Ciclo 1
Cycle 1
Ciclo 2
Cycle 2
Ciclo 3
Cycle 3
Ciclo 4
Cycle 4
Effetto tipo genetico
Genetic type effect
Effetto ciclo
Cycle effect
Effetto tipo genetico*ciclo
Genetic type*cycle effect
***: P<0,001.
643 ± 5,18
2366 ± 16,0
745 ± 10,9
2581 ± 33,7
570 ± 10,3
2221 ± 31,3
573 ± 10,3
2304 ± 31,9
685 ± 10,1
2359 ± 31,3
615 ± 5,42
2185 ± 16,9
687 ± 11,8
2406 ± 36,7
569 ± 11,0
2082 ± 34,8
605 ± 10,1
2296 ± 31,0
601 ± 10,4
1957 ± 31,9
***
***
***
***
***
***
Anche i pesi alla macellazione (tabella 3) sono risultati decisamente superiori per i Cobb, con
differenze altamente significative per il tipo genetico (P<0,001) e significative (P<0,01) per l’età di
macellazione.
Dal confronto di questi dati con quelli riportati dalle aziende selezionatrici, si può osservare che
fino al 61° giorno non vi sono sensibili differenze fra il sistema di allevamento semi- intensivo e
quello intensivo; tali differenze, però, si fanno più marcate all’aumentare dell’età di macellazione.
L’analisi della varianza, inoltre, non ha evidenziato differenze significative fra i tipi genetici allevati
relativamente agli indici di conversione, alla resa alla macellazione e alla resa in parti edibili.
Per quanto riguarda la mortalità, i valori inferiori si sono registrati nei cicli invernale e autunnale,
mentre in quelli primaverile ed estivo si è registrata una mortalità più elevata.
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Tabella 3: Rilievi ponderali alla macellazione.
Table 3: Slaughtering weights.
Peso alla macellazione
Slaughtering weight
(g)
3767 ± 36,7
Cobb
Età di macellazione (giorni):
laughterin age (days)
61
65
68
Ross
Età di macellazione (giorni):
Slaughtering days (age)
61
65
68
Effetto tipo genetico
Genetic type effect
Effetto dell’età di macellazione
Slaughtering age effect
Effetto tipo genetico*età di macellazione
Genetic type*slaughtering age effect
***: P<0,001; **: P<0,01.
3555 ± 72,1
3879 ± 97,9
4233 ± 96,2
3321 ± 41,4
3524 ± 73,3
3428 ± 96,6
4083 ± 98,7
***
**
***
CONCLUSIONI
I dati raccolti e il loro confronto con le performance zootecniche di animali allevati con sistemi
intensivi dimostrano che i polli da carne appartenenti a ceppi ibridi presentano discrete capacità di
adattamento al sistema di allevamento semi- intensivo.
Nell’allevamento alternativo del pollo da carne finalizzato alla valorizzazione di particolari aree
territoriali, quindi, qualora non siano disponibili soggetti di razze appositamente selezionate,
l’utilizzo di questi animali può consentire di raggiungere buoni livelli produttivi, anche in presenza
di condizioni ambientali non ottimali.
La completa dipendenza dalle condizioni ambientali esterne, però, impone un’attenta valutazione
della capacità di adattamento degli animali e degli effetti della temperatura sulle loro performance
produttive. Per un ulteriore approfondimento in materia, si rimanda alle pubblicazioni di altri autori,
riportati in bibliografia, che hanno lavorato su tali aspetti.
BIBLIOGRAFIA
Arad Z., Marder J., Soller M. (1981). Effect of gradual acclimatization to temperaure up to 44° on
productive performances of desert bedouin fowl, the commercial White Leghorn and the two
crossbreds. “British Poultry Science”, 22, 511-520.
Elson H.A. (1987): Il futuro dei sistemi di allevamento avicoli. “Rivista di Avicoltura”, 5, 11-16.
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Furlattini B., Tocchini M., Degl’Innocenti D. (1991). Controllo totale della qualità e managements
negli allevamenti avicoli industriali. Atti del Seminario “Igiene e qualità delle carni avicole”.
Universtià degli Studi di Pisa. 9-17.
Imaeda N. (2000). Influence of the stocking density and rearing reason on incidence of sudden
death syndrome in broiler chickens. “Poultry Science”, 79, 201-204.
Mantovani C., Cerolini S., Romboli I., Guidobono Cavalchini L. (1993). Fattori climatici e sanità
negli allevamenti. “Rivista di Avicoltura”, 5, 33-42.
May J.D., Lott B.D. (2001). Relating weight gain and feed: gain of male and female broilers to
rearing temperature. “Poultry Science”, 80, 581-584.
Poltowicz K., Cywa-Benko K., Wezyk S. (2002). Effect of housing system on meat quality of
native breed cockerels. “Annals of Animal Science”, 2, 75-78.
Thaxton P., Siegel H.S. (1970). Immunodepression in young chickens by high environmental
temperature. “Poultry Science”, 49, 202-205.
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INDAGINE PRELIMINARE SULLE PRESTAZIONI PRODUTTIVE DI UNA
RAZZA AVICOLA AUTOCTONA: LA RAZZA LIVORNO
Margherita Marzoni1 , Annelisse Castillo 2 , Riccardo Chiarini 3 , Isabella Romboli 4
RIASSUNTO: Scopo della presente indagine è stato quello di definire le performances di
accrescimento di individui di razza Livorno, recuperati nel territorio costiero delle province di Pisa
e Livorno, a partire dalla schiusa fino a circa 110 giorni di vita. Lo studio ha interessato 324
soggetti appartenenti a tre diverse varietà di piumaggio: bianca, nera e dorata. Sono state stimate le
curve di crescita per varietà e sesso, impiegando le equazioni logistica e di Gompertz.. Come
prevedibile si sono evidenziati accrescimenti più marcati nei maschi rispetto alle femmine. Tale
differenza si è presentata già a partire dal 14° giorno di vita. Per quel che concerne le varietà, si
sono avute prestazioni superiori nelle Livorno bianca e dorata rispetto alla nera.
PAROLE CHIAVE: polli, razza Livorno, curva di crescita
PRELIMINARY INVESTIGATION ON THE PRODUCTIVE PERFORMANCES OF AN
ITALIAN POULTRY BREED: THE LIVORNO BREED
SUMMARY: The aim of this work was to investigate the growth performances, from hatch to about
110 days of life, of chickens belonging to Livorno breed, taken from the coastal territory of Pisa and
Livorno. The study involved 324 chickens of three different varieties of plumage: white, black and
brown. Growth curves were estimated for each variety and sex, using logistic and Gompertz
equations. Predictably, it was marked a greater growth for males than for females from 14th day of
life. Moreover, growth performances were better for the white and brown varieties than for black
one.
KEY WORDS: chickens, Livorno breed, growth curve
PREMESSA
Il recepimento dei provvedimenti legislativi riguardanti l’allevamento degli animali con metodo
biologico ha come obiettivo il miglioramento della qualità degli alimenti come pure il maggior
rispetto del benessere animale per l’imposizione di condizioni di mantenimento meno restrittive.
L’allevamento con metodo biologico, prevedendo la stabulazione libera ed un’alimentazione che
non faccia uso di mangimi medicati o integrazione di sintesi, necessita però di razze adeguate. In
particolare è previsto l’impiego di animali a lento accrescimento e, quindi, con esigenze nutrizionali
meno pronunciate rispetto agli ibridi commerciali selezionati, adatti alla produzione di tipo
1
Ricercatore confermato. Dipartimento di Produzioni Animali, Università di Pisa.
2
Assegnista di ricerca. Ibidem.
3
Dottorando di ricerca. Ibidem.
4
Professore ordinario. Ibidem.
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intensivo in ambiente controllato. A tale riguardo, particolarmente indicate risultano le razze
autoctone, dotate di ritmi di accrescimento modesti, rusticità, resistenza alle principali patologie,
vivacità e inclinazione alla perlustrazione dell’ambiente, utile per sfruttare gli spazi all’aperto messi
a disposizione con tale sistema di allevamento.
La scarsa considerazione in cui sono state tenute le razze avicole locali nei decenni scorsi, a
vantaggio invece della diffusione degli ibridi selezionati, ha determinato una progressiva e grave
diminuzione della consistenza delle popolazioni di queste razze, come pure un progressivo
inquinamento genetico delle stesse a causa dei frequenti incroci tra i riproduttori. Attualmente, al
fine di impostare un eventuale recupero delle razze autoctone, si deve ricorrere a piani di ricerca atti
a verificare la purezza genetica di queste razze e a ridefinirne le caratteristiche produttive. A tale
scopo si è voluto procedere ad una valutazione preliminare delle caratteristiche di crescita nei primi
quattro mesi di vita di soggetti appartenenti ad alcune varietà della razza Livorno.
MATERIALI E METODI
Sono state reperite uova prodotte da soggetti di razza Livorno appartenenti a tre diverse varietà di
colore del piumaggio, che provenivano da alcuni piccoli allevamenti situati nelle Province di Pisa e
Livorno. Le varietà da noi considerate sono state la varietà bianca, la nera e la dorata. I riproduttori
sono stati valutati per le caratteristiche morfologiche e produttive, come indicato dallo standard di
razza (Giavarini, 1983). In particolare sono stati presi in considerazione il peso ad inizio
riproduzione, la conformazione della testa, del tronco e della coda, la forma della cresta e dei
bargigli, il colore del piumaggio, degli occhi, del becco, degli orecchioni, del tarso e della pelle e le
caratteristiche delle uova (colore del guscio e peso dell’uovo). Le uova (il cui peso medio è stato di
62 grammi per le varietà bianca e nera e di 56 grammi per quella dorata) sono state poi incubate
presso il Centro Avicolo Sperimentale del Dipartimento di Produzioni Animali dell’Università di
Pisa. Delle 456 uova fertili risultanti, il 71% si è schiuso. Dei 324 pulcini, pesati alla schiusa, 240
sono stati selezionati in base al colore del piumaggio ed inanellati con marchette all’ala per
consentire il monitoraggio individuale del peso corporeo fino alla sedicesima settimana circa,
effettuato con cadenza settimanale fino alla settima settimana e, successivamente, con minore
frequenza. A partire dal 28° giorno i soggetti inanellati sono stati allevati all’aperto in voliera con
tappeto erboso e provvista di ricoveri con tettoia, su una superficie di circa 250 mq. I soggetti sono
stati alimentati ad libitum con diete commerciali standard (un mangime primo periodo fino al 35°
giorno e successivamente un mangime secondo periodo) atte a soddisfare le esigenze nutrizionali in
funzione dello stadio di sviluppo. I dati di peso e di incremento giornaliero sono stati sottoposti
all’analisi della varianza con il metodo dei minimi quadrati, considerando come fattori di variabilità
il sesso, la varietà e la relativa interazione (JMP, 2002).
Sono state poi stimate le curva di crescita soggetto per soggetto per iterazione all’ordinatore (LAB
Fit - Curve Fitting Software, 2002) sulla base di due modelli di regressione non lineari a tre
parametri: il modello logistico, descritto dall’equazione W(t)= W∞/(1+e-k· (t-t°) ), ed il modello di
-k· (t-t°)
Gompertz, descritto dall’equazione W(t)= W∞· e-e
. Per entrambi i modelli t rappresenta il tempo
espresso in giorni, W(t) rappresenta il peso in grammi al giorno t, W∞ è l’asintoto per t→∞ e cioè il
peso massimo teorico, k è la costante che esprime la velocità di avvicinamento a W∞, t° è il punto di
flesso della curva di crescita.
L’incremento ponderale giornaliero per ciascuna varietà e per sesso è stato stimato mediante
-k· (t-t°) -k· (t-t°)
l’equazione differenziale di 1° grado derivata dal modello di Gompertz: W’(t)=k· W∞· e-e
,
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dove i valori delle costanti W∞, k e t° sono gli stessi stimati per la curva di crescita, mentre W’(t)
rappresenta l’incremento ponderale al tempo t (DERIVE - The Mathematical Assistant, 2000).
RISULTATI E DISCUSSIONE
Al momento della schiusa i pesi dei pulcini appartenenti alle tre varietà sono risultati
significativamente diversi. I pulcini Livorno della varietà bianca sono risultati i più pesant i ad un
giorno di età, mentre i pulcini dorati sono risultati i più leggeri (P<0,01). Ciò è riconducibile
ovviamente al diverso peso delle uova delle tre varietà. Già da 8 giorni di età tuttavia, la varietà nera
è risultata la più leggera (P<0,01) mentre quelle bianca e dorata le più pesanti (Tabella 1).
Tabella 1: Pesi delle tre diverse varietà di Livorno prese in considerazione, alle diverse età.
Età
Varietà
(giorni)
bianca
nera
dorata
1
(49)
42±2,8 A
(180)
41±6,4 A
(95)
37±4,0 B
14
(47)
135±20,1 A
(115)
107±15,17 B
(78)
132±23,0 A
28
302±41,8 A
193±31,1 B
278±64,8 A
42
474±63,9 A
308±65,9 B
453±121,1 A
68
924±154,8 A
748±105,7 B
907±133,4 A
102
1356±181,7 A
1088±196,3 B
1209±156,7 AB
110
ND
1298±269,0 B
1454±297,0 A
Media stimata ± deviazione standard. Tra parentesi è indicato il numero di osservazioni.
ND: non disponibile.
A, B: P<0,01.
Indipendentemente dalla varietà considerata, la diversificazione tra i due sessi (P<0,01) è rilevabile
a partire dal 14° giorno di vita (Tabella 2). Nella stessa tabella sono riportate le medie stimate dei
pesi relativi ai due sessi per ognuna delle tre varietà di piumaggio della razza Livorno. Già dal 14°
giorno e per tutta la durata del monitoraggio gli individui della varietà nera (maschi e femmine)
sono risultati i più leggeri: in particolare, i maschi di Livorno nera sono addirittura più leggeri delle
femmine delle altre due varietà di colore, a parità di età. Tuttavia la differenza tra le medie non
raggiunge la significatività.
I parametri relativi ai due modelli esponenziali utilizzati per la stima della curva di crescita degli
animali sono riportati nella Tabella 3. I valori delle costanti W∞, k e t° influenzano la forma della
curva risultante e quindi l’andamento della crescita. Per tutte le varietà di colore prese in
considerazione il modello logistico fornisce un valore minore del peso finale W∞ rispetto al modello
di Gompertz. Parallelamente, la stima della costante di crescita k fornita è maggiore.
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Tabella 2: Pesi della razza Livorno e di tre sue varietà, divisi per sesso e alle diverse età.
Varietà
Età
(giorni)
1
14
28
Livorno
femmine
maschi
femmine
maschi
dorata
femmine
maschi
(154)
(29)
(20)
(92)
(88)
(49)
(46)
39±3,9
39±4,2
42±2,4
42±3,4
39±2,6
39±3,1
36±4,3
36±4,0
(134)
(106)
(27)
(20)
(67)
(48)
(40)
(38)
129±24,2
A
129±19,2
142±19,4
104±14,3
110±16,0
129±21,8
136±24,0
273±60,6
A
293±29,0
311±49,0
172±20,7
215±26,3
263±73,3
293±55,7
450±92,2
A
448±38,0
499±71,8
121±21,7
B
243±64,2
B
B
373±111,3
68
764±114,7 B
110 *
nera
(170)
42
102
bianca
femmine
maschi
955±127,6 A
1073±155,3 B 1363±154,4 A
1161±190,0
B
1591±189,4
A
255±40,8
362±38,1
416±139,9
490±93,7
823±127,1 1025±176,8
684±92,9
812±77,3
785±44,4
1028±49,2
1188±62,9
1525±35,4
921±126,3 1255±132,0
ND
ND
1110±58,3 1309±148,7
1063±139,4 1533±104,3 1259±196,8 1649±251,4
Media stimata ± deviazione standard. Tra parentesi è indicato il numero di osservazioni.
L’età contrassegnata da un * non comprende soggetti della varietà bianca.
ND: non disponibile.
A, B: P<0,01.
In dettaglio, la costante di crescita relativa alla varietà bianca risulta più elevata di quella relativa
alla dorata ed ancora più elevata se confrontata con quella della varietà nera, indipendentemente dal
modello utilizzato e dal sesso.
Tra i due sessi la costante di crescita è quasi identica, indipendentemente dal modello utilizzato e
dalla varietà. Ciò che distingue i maschi dalle femmine è il tempo al quale si osserva il punto di
flesso (t°), cioè il momento di massimo accrescimento, che determina il peso finale stimato W∞.
Come prevedibile, questo momento viene raggiunto prima dalle femmine che dai maschi.
Tabella 3: Parametri delle due curve di crescita (logistica e Gompertz) applicate agli individui di
razza Livorno
Logistica
Gompertz
2
W∞
k
t°
R
W∞
k
t°
R2
femmine
maschi
1230,61
1678,82
0,0490
0,0485
61,651 0,928
64,553 0,959
1710,34 0,0203
2332,87 0,0204
64,184 0,924
66,835 0,962
bianca
femmine
maschi
1242,99
1659,85
0,0535
0,0524
53,057 0,974
58,122 0,971
1537,48 0,0259
2283,98 0,0225
48,908 0,978
59,739 0,973
nera
femmine
maschi
1133,57
1719,39
0,0465
0,0466
65,003 0,946
70,292 0,981
1768,15 0,0175
2686,44 0,0178
74,999 0,942
79,445 0,983
dorata
femmine
maschi
1291,83
1671,21
0,0498
0,0489
57,851 0,952
62,113 0,958
1598,98 0,0237
2211,75 0,0216
53,485 0,956
61,480 0,963
Livorno
Varietà:
Nella stessa tabella è anche riportato il coefficiente di determinazione R2 tra i dati stimati e quelli
reali, relativamente a ciascun modello, varietà e sesso. Il modello di Gompertz utilizzato per
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descrivere la crescita degli animali sembra int erpretare in maniera più soddisfacente il fenomeno
rispetto al modello logistico, come si può facilmente dedurre dai valori dei relativi coefficienti di
determinazione. Nella figure 1, 2 e 3 vengono riportate graficamente la distribuzione dei rilievi
ponderali effettuati e la relativa curva di crescita stimata con il modello di Gompertz (linea
continua), relativamente alle tre varietà considerate.
Figura 1: Curve di crescita della varietà Livorno bianca.
2000
16
1600
Peso vivo (g)
Body weight (g)
2200
18
14
1400
12
1200
10
1000
8
800
6
600
40
50
60
70
Età (giorni)
Age (days)
80
90
100
12
1200
10
1000
8
800
6
600
4
2
0
0
0
30
14
1400
200
200
20
16
1600
2
4
10
18
1800
400
400
0
20
Femmine
Females
0
0
110
Incremento ponderale (g/giorno)
Weight gain (g/day)
1800
20
Peso vivo (g)
Body weight (g)
Maschi
Males
2000
Incremento ponderale (g/giorno)
Weight gain (g/day)
2200
10
20
30
40
50
60
70
Età (giorni)
Age (days)
80
90
100
110
L’equazione differenziale di primo grado derivata da questo modello, che offre la stima degli
accrescimenti giornalieri, viene anch’essa riportata nelle medesime figure (linea tratteggiata). Il
massimo incremento ponderale stimato è stato riscontrato per la varietà bianca (Figura 1) e risulta
pari a 14,6 grammi per le femmine, raggiunti al 49° giorno di età, ed a 18,9 grammi per i maschi,
raggiunti al 60° giorno.
Figura 2: Curve di crescita della varietà Livorno nera.
2000
16
1600
Peso vivo (g)
Body weight (g)
2200
18
14
1400
12
1200
10
1000
8
800
6
600
400
4
200
0
0
10
20
30
40
50 60
70
Età (giorni)
Age (days)
80
90
20
Femmine
Females
18
1800
16
1600
14
1400
12
1200
10
1000
8
800
6
600
400
4
2
200
2
0
0
100 110
Incremento ponderale (g/giorno)
Weight gain (g/day)
1800
20
Peso vivo (g)
Body weight (g)
Maschi
Males
2000
Incremento ponderale (g/giorno)
Weight gain (g/day)
2200
0
0
10
20
30
40
50
60 70
Età (giorni)
Age (days)
80
90
100
110
Nonostante la varietà nera abbia mostrato un accrescimento giornaliero inferiore alle altre due
varietà fino all’80° giorno, da questo momento e fino al termine del periodo da noi considerato,
l’incremento stimato per essa è apparso nettamente superiore: al 110° giorno i maschi neri
presentano ancora un accrescimento di 16 grammi giornalieri contro i 12 delle varietà bianca e
dorata, mentre le femmine 10 grammi invece di 7 e 8 grammi, rispettivamente. Il più lento e tardivo
accrescimento della varietà nera rispetto alle altre due indica la capacità di una crescita
compensativa che potrebbe anche condurre a un peso vivo finale superiore.
Nella figura 4 sono illustrati gli stessi parametri ora descritti, relativamente alla razza Livorno,
complessivamente considerata: l’incremento massimo risulta pari a 12,8 grammi al 64° giorno ed a
17,5 grammi al 67° giorno, rispettivamente per le femmine per i maschi. Questi valori possono
81
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essere individuati esaminando il parametro t°, età teorica alla quale si riscontra il massimo
incremento in peso, corrispondente al punto di flesso della curva di crescita esponenziale.
Figura 3: Curve di crescita della varietà Livorno dorata.
2000
16
1600
Peso vivo (g)
Body weight (g)
2200
18
14
1400
12
1200
10
1000
8
800
6
600
400
4
200
0
0
10
20
30
40
50
60
70
Età (giorni)
Age (days)
80
90
100
20
Femmine
Females
18
1800
16
1600
14
1400
12
1200
10
1000
8
800
6
600
400
4
2
200
2
0
0
110
Incremento ponderale (g/giorno)
Weight gain (g/day)
1800
20
Peso vivo (g)
Body weight (g)
Maschi
Males
2000
Incremento ponderale (g/giorno)
Weight gain (g/day)
2200
0
0
10
20
30
40
50
60
70
Età (giorni)
Age (days)
80
90
100
110
Figura 4: Curve di crescita della razza Livorno, complessivamente considerata.
2000
16
1600
Peso vivo (g)
Body weight (g)
2200
18
14
1400
12
1200
10
1000
8
800
6
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400
4
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0
0
10
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30
40
50
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Età (giorni)
Age (days)
70
80
90
100
20
Femmine
Females
18
1800
16
1600
14
1400
12
1200
10
1000
8
800
6
600
400
4
2
200
2
0
0
110
Incremento ponderale (g/giorno)
Weight gain (g/day)
1800
20
Peso vivo (g)
Body weight (g)
Maschi
Males
2000
Incremento ponderale (g/giorno)
Weight gain (g/day)
2200
0
0
10
20
30
40
50
60
Età (giorni)
Age (days)
70
80
90
100
110
Nella tabella 4 sono riportati gli accrescimenti medi giornalieri della razza Livorno e delle sue
varietà di colore. La varietà bianca entra nella fase di rapido accrescimento nella terza settimana di
vita, cioè una settimana circa prima delle altre due varietà (p<0,05). Successivamente non esistono
differenze significative negli accrescimenti tra gli animali, pertanto il peso vivo più elevato
misurato nella varietà bianca a 102 giorni è da ricondursi al suo più precoce avvio dello sviluppo
corporeo. È da notare che anche la varietà dorata mostra un andamento di poco inferiore a quella
bianca. Considerando la razza nel suo complesso, si osservano differenze significative negli
accrescimenti dei due sessi a partire dalla terza settimana di vita. Questa età rappresenta un
momento importante per l’impostazione del ritmo metabolico e del successivo sviluppo degli
animali.
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Tabella 4: Accrescimenti medi giornalieri della razza Livorno e di tre sue varietà, divisi per sesso e
alle diverse età.
Varietà
Età
(giorni)
Livorno
bianca
nera
dorata
femmine
maschi
femmine
Maschi
femmine
maschi
femmine
maschi
(134)
(106)
(27)
(20)
(67)
(48)
(40)
(38)
1-7
3,8±1,92
3,7±2,02
3,4±2,22
4,0±1,98
2,8±1,45
3,0±1,62
5,0±1,56
4,5±2,20
8-14
8,9±5,36
9,5±6,05
10,6±6,30
12,3±7,14
7,6±4,18
7,1±4,54
8,7±6,13
9,1±6,40
ab
a
15-21 7,9±4,69
22-28
b
7,9±3,54
29-33 7,1±4,63
b
9,3±4,33
a
9,0±4,65
9,4±4,30
7,8±5,59
a
34-42 8,2±4,28 b 11,6±6,21 a
43-49 9,3±5,31
B
15,9±6,02
9,2±4,82
A
10,9±3,94
12,0±3,17
8,0±4,82
6,6±5,78
a
8,8±4,64
b
7,2±2,32
ab
4,5±3,47
b
7,0±4,48
b
9,4±3,66
8,6±3,28
a
6,6±4,18
b
8,6±4,78
6,1±5,27
ab
9,0±3,61 ab
11,1±4,12
10,7±5,76 a
8,3±5,30
12,4±7,70
6,6±3,14
8,5±4,52
9,9±5,84
13,9±5,97
10,0±6,62
15,5±8,13
9,1±4,62
14,5±5,65
8,8±6,69
17,7±3,03
Media stimata ± deviazione standard. Tra parentesi è indicato il numero di osservazioni.
A, B: P<0,01; a, b: P<0,05
CONCLUSIONI
Da questa indagine preliminare si può affermare che la razza Livorno non ha manifestato un elevato
ritmo di accrescimento, com’era prevedibile vista la sua attitudine alla produzione di uova. In ogni
modo, considerando la tecnica di allevamento all’aperto adottata in questa indagine, il ceppo da noi
utilizzato, reperibile in una ristretta area del territorio toscano che corrisponde alle province di Pisa
e Livorno, ha raggiunto prestazioni produttive interessanti. Tali caratteristiche possono essere
sfruttate egregiamente per allevamenti di tipo estensivo ed in particolare per allevamenti di tipo
biologico. Relativamente alle tre varietà di colore da noi studiate, quella bianca ha dimostrato una
velocità di accrescimento maggiore e apparentemente una più spiccata attitudine alla produzione di
carne. I maschi del ceppo di razza Livorno da noi considerato appaiono nel complesso ben adatti ad
essere sfruttati per una produzione di nicchia di alta qualità e di indubbio valore, sia pur con lievi
differenze nelle caratteristiche produttive che sembrano legate al colore del piumaggio.
BIBLIOGRAFIA
DERIVET M - The Mathematical Assistant (2000) versione 5.00, Soft Warehouse Inc., www.deriveeurope.com
LAB Fit - Curve Fitting Software (2002) versione 7.2.11, scritto da Wilton e Cleide Pereira da
Silva, Universidade Federal de Campina Grande, DF/CCT, www.angelfire.com/rnb/labfit.
JMP (2002) JMP, Statistics and Graphics Guide, versione 5 (SAS Institute Inc.), ISBN 1-59047070-2.
Giavarini I. (1983). Le razze dei polli. Ed agricole, Bologna.
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VALDARNESE BIANCA: RICONOSCIMENTO E VALORIZZAZIONE
Manuela Gualtieri1 , Paolo Pignattelli2 , Rossella Michelotti3 , Stefano Rapaccini1
RIASSUNTO: Vengono riportati i risultati del lavoro fino ad oggi effettuato nell’ambito del progetto
“Riconoscimento, salvaguardia e valorizzazione del pollo del Valdarno” finanziato da ARSIA
Toscana per il triennio 2001-2003. Il progetto è stato articolato in 2 fasi: la prima era rappresentata
dall’indagine sul territorio (Valdarno superiore) e dall’analisi delle consistenze della Valdarnese
bianca; la seconda ha riguardato le seguenti attività: a) la definizione dello standard di razza; b) la
costituzione di nuclei di selezione attraverso la scelta dei riproduttori; c) l’inanellamento dei soggetti
selezionati e la registrazione dei dati per l’istituzione del Registro Anagrafico. I risultati del
censimento, che ha interessato solo aziende di una certa consistenza, si riassumono in 28 allevamenti
per un totale di 92 galli e 706 galline, riconducibili in varia misura alle caratteristiche morfologiche e
produttive della Valdarnese bianca. Ridefinito lo standard della razza si è proceduto alla selezione
morfologica ed all’inanellamento dei riproduttori presenti in 11 dei citati 28 allevamenti. La selezione
ha portato all’iscrizione al Registro Anagrafico di 51 maschi e 323 femmine. Parte dei soggetti
inanellati sono andati a formare 7 nuclei di selezione i cui parametri produttivi sono costantemente
monitorati al fine di creare i riproduttori della linea maschile e femminile della razza. E’ stata inoltre
ottenuta l’iscrizione della Valdarnese bianca nel Repertorio regionale delle risorse genetiche autoctone
della Toscana (L. R. 50/97). Contemporaneamente sono stati registrati i disciplinari di produzione
(presidio Slow Food; marchi volontari dell’Associazione Agricoltori Custodi), i cui punti qualificanti
si riassumono nei termini seguenti: a) certificazione dell’origine degli animali; b) tecniche di
allevamento rispettose della tradizione locale; c) prevenzione e controllo delle malattie privilegiando il
ricorso alla medicina alternativa.
PAROLE CHIAVE: Razze avicole autoctone; recupero; valorizzazione.
WHITE VALDARNO: IDENTIFICATION AND EXPLOITATION
SUMMARY: The preliminary results of a project aimed at identifying, safeguarding and exploiting
“Valdarno chickens”, which was supported by a grant from ARSIA (Regione Toscana) are
presented. The project involved several phases. The first of which was a survey of the Valdarno
valley together with a census of the farms involved in rearing of this breed of chickens.
Subsequently, the following steps were taken: 1) the definition of the standards for the breed; 2) the
setting up of several breeding nucleuses by means of a breeder’s selection; 3) the ringing of the
chickens of selected greeders for the purpose of setting up of the official breed register. Twentyeight farms were counted during the census, in wich a totl of 92 cocks and 706 hens were present.
These birds did not always show the typical morphology and performance of the white Valdarno
1
Professore associato. Dipartimento di Scienze zootecniche, Università di Firenze;
2
Professore a contratto. Università di Milano;
3
Dottore agronomo. Vice-presidente dell’Associazione Agricoltori Custodi (Loro Ciuffenna – AR).
Lavoro finanziato e coordinato da ARSIA Toscana.
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breed. After having defined the breed’s standards, morphological selection and ringing were carried
out on 11 farms. The results was that 51 cocks and 323 hens were entered in the register. Seven
breeding nucleuses were constituted in order to evaluate the suitability of creating different lines of
breeders. The breed was entered in the inventory of endangered autochthonous breeds in Tuscany.
Moreover, the Slow Food presidium was created and the production scheme for voluntary product
certification was developed and registered by the Association “Agricoltori Custodi”. The main rules
of this scheme are the following: 1) certification of the animal’s origin; 2) rearing techniques
according to local traditions; 3) prevention and control of diseases, in which the use of homeopathic
and phytotherapeutic drugs is favoured.
KEY WORD: Autochthonous poultry breeds; safeguard; exploitation.
PREMESSA
Anche se da tempo immemorabile la razza Valdarnese bianca è allevata nel Valdarno superiore, la
sua presentazione ufficiale risale al 1953 (mostra di Cremona). Negli anni ’50 la Valdarnese bianca
raggiunse in effetti il massimo della sua produttività e notorietà, grazie in particolare alla
costituzione e attività del “Gruppo avicolo del Valdarno”, caratterizzato da un Centro di selezione, 2
grandi incubatoi e numerosi pollai di moltiplicazione. Nel 1954 si tenne a Montevarchi (AR), il
“Convegno per la valorizzazione ed il miglioramento della pollicoltura nel Valdarno Superiore”,
che ebbe rilevanza nazionale e segnò anche l’inizio di un piano di selezione della Valdarnese bianca
sotto il controllo dell’Ispettorato provinciale dell’Agricoltura di Arezzo e con il successivo
contributo delle ricerche del prof. Quilici condotte presso la Stazione Sperimentale di Pollicoltura di
Rovigo. Gli allevatori ricordano che in quegli anni nei mercati più importanti del Vald arno si
commercializzavano mediamente ogni settimana, con la denominazione “pollo novello”, 20-30.000
capi, con minimi nei mesi di gennaio- marzo e massimi da settembre a dicembre, per i mercati di
Milano, Roma, Genova e Firenze, a prezzi che potevano variare da un minimo di 500 L/kg nei mesi
di settembre-ottobre ad un massimo di 1200 L/kg nei mesi da marzo a maggio (Aleandri e Zavagli,
1965).
A partire dal 1963, in concomitanza con la drastica riduzione dei contratti di mezzadria e con il
progressivo espandersi dell’avicoltura intensiva, inizia il declino dell’allevamento della Valdarnese
bianca, aggravato dalla ripresa dell’allevamento rurale della Livorno bianca favorito dal più facile
reperimento dei pulcini prodotti da incubatoi specializzati del Nord Italia. L’anno successivo, dopo
nove anni di vita, il Gruppo Avicolo del Valdarno cessa la propria attività (Pignattelli, 2001).
Ciononostante, una parte dei pollicoltori della zona ha continuato, anche se spesso su piccola scala,
ad allevare questo tipo di polli, col preciso scopo di mantenere una tradizione ben radicata e con la
preoccupazione di garantire la sopravvivenza della razza. Una decina di anni fa, la struttura che
aveva ereditato l’attività della Stazione sperimentale di Rovigo, cioè il “Conservatorio delle razze
avicole in pericolo di estinzione” della Regione Veneto, ha nuovamente preso in considerazione il
rischio di perdita della razza ed ha intrapreso un lavoro di moltiplicazione a partire da un centinaio
di uova da cova, lì trasferite e sottoposte a controllo (Arduin, 2001). In realtà nell’ultimo anno di
attività del Conservatorio (2001), gli ultimi riproduttori rimasti presso qualche allevatore a cui erano
stati affidati sono andati dispersi, ma un certo numero di soggetti derivati da questi risulta tuttora
presente in alcune aziende del Valdarno (Gualtieri, 2002).
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Nel 2000, grazie all’iniziativa di alcuni Enti locali e regionali, ma soprattutto dell’Associazione
Agricoltori Custodi di Loro Ciuffenna (AR), è stato elaborato il progetto “Riconoscimento,
salvaguardia e valorizzazione del Pollo del Valdarno”, finalizzato a valutare la possibilità di rilancio
di questa pregiata produzione locale, perfettamente inserita nel territorio di origine, e di
conservazione di germoplasma autoctono.
Scopo della presente relazione è di comunicare i risultati del lavoro fino ad oggi svolto e di
verificare le finalità e validità del progetto stesso nel contesto degli allevamenti alternativi e
valorizzazione del territorio.
MATERIALI E METODI
Il progetto è stato articolato in 2 fasi: la prima, consistente nell’indagine sul territorio (in 7 comuni
del Valdarno superiore, province di Arezzo e Firenze), con l’individuazione ed il censimento di
aziende coinvolte nell’allevamento del “pollo del Valdarno”, si è svolta principalmente nei primi 2
anni, con aggiornamento periodico dei dati fino all’anno in corso; la seconda è in avanzato grado di
realizzazione ed ha riguardato le seguenti attività:
a) definizione dello standard di razza;
b) scelta dei riproduttori sulla base delle caratteristiche morfologiche e delle seguenti misure
somatiche: lunghezza del dorso (dall’ultima cervicale all’ultima sacrale); ampiezza del petto (da
metà lunghezza del dorso alla massima convessità dello sterno); lunghezza del muscolo
pettorale profo ndo (dal rostro all’estremità posteriore della carena); lunghezza della coscia;
lunghezza del tarso (dall’articolazione tibio-tarsica allo sperone nel gallo e alla base del quarto
dito nella gallina); lunghezza della cresta e dei bargigli nel gallo;
c) inanellamento (apposizione di anelli inamovibili ai tarsi) dei riproduttori e costituzione del
registro anagrafico;
d) costituzione di nuclei di selezione;
Sono state inoltre intraprese iniziative di valorizzazione del prodotto, quali la registrazione di
marchi volontari e dei relativi disciplinari di produzione.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Censimento delle aziende . Sono state esaminate 28 aziende, la cui struttura è riportata
sinteticamente nella tabella 1.
La superficie dell’azienda viene resa disponibile per il pascolo dei polli per oltre il 60%: più in
particolare viene lasciato libero accesso agli oliveti e –stagionalmente- ai vigneti; per quanto
riguarda il bosco, presente in quasi tutte le aziende, nella maggior parte dei casi l’accesso viene
limitato o impedito per la mancanza di recinzioni.
Tutte le aziende sono dotate di almeno un ricovero per la notte, quasi sempre collocato all’interno di
un recinto realizzato in rete metallica, ed in alcuni casi anche potenziato da una protezione
elettrificata come ulteriore difesa dai predatori (rappresentati sia da animali selvatici sia da cani
incustoditi), che ogni hanno determinano perdite importanti.
Le schede delle aziende censite mostrano una consistenza totale di riproduttori pari a 92 galli e 706
galline, con un rapporto medio maschi/femmine più alto di quello considerato normale (1/10) a
causa della presenza di consistenze minime (1 M e 3-4 F) in aziende che sono state comunque
considerate in quanto fortemente motivate all’incremento dell’attività. Al momento della
rilevazione, il gruppo di riproduttori più numeroso risultava costituito da 35 M e 150 F.
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Tabella 1: Caratteristiche delle aziende coinvolte nell’allevamento del pollo del Valdarno
Table 1: Characteristics of farms involved in rearing of Valdarno chicken
Valore medio
Valore minimo
Valore massimo
Average
Minimum
Maximum
Superficie totale (ha)
9
1
53
Total area (ha)
Riproduttori (n.): M
3
1
35
F
25
3
150
Breeders (no): M-F
Uova/gallina /anno (n.)
93
23
250
Eggs per hen per year (no)
Uova incubate (%)
42
8(1)
100
Incubated eggs (%)
Schiusa (%)
73
60
95(1)
Hatched eggs (%)
Pulcini venduti (%)
43
0
80
Sold chicks (%)
Pulcini ingrassati:
-per la vendita (%)
46
7
100
-per autoconsumo (%)
11
2
94
Grown chicks for sale or for
family consumption (%)
(1)
Cova naturale - Brooding
La maggior parte degli allevatori ha espresso l’intenzione non solo di continuare, ma anche di
aumentare la produzione, incoraggiati da iniziative di valorizzazione che cominciavano a
realizzarsi. La quasi totalità degli allevatori censiti nel 2002 ha dichiarato di considerare i propri
riproduttori – soprattutto i maschi - corrispondenti completamente alle caratteristiche tradizionali
della razza; invece nel gruppo censito nel 2003, che comprendeva alcuni allevatori che avevano
frequentato il corso di aggiornamento da noi tenuto nei primi mesi dello stesso anno su “Il pollo del
Valdarno: tecniche di allevamento e gestione”, sono emerse spontaneamente valutazioni più
critiche. Complessivamente abbiamo potuto rilevare, già per quanto riguarda la morfologia
(proporzione tra le regioni somatiche) e la livrea (colore e forma delle penne, in particolare della
mantellina e della coda), un grado di variabilità piuttosto elevato, arrivando a valutare una
corrispondenza allo standard di razza inferiore anche al 50% in una delle aziende censite.
Anche la produzione annua dichiarata di uova per gallina è risultata estremamente variabile, da una
ventina a 250 unità, con una media di 93 e valori uguali o superiori a 100 in 15 aziende. In media, il
42% delle uova viene incubato, in genere senza particolari controlli preliminari, il 18% venduto anche da cova - e la quota restante, al netto di perdite o scarti, destinata all’autoconsumo.
L’incubazione naturale è praticata nel 40% dei casi come unica forma, facendo ricorso anche a
galline mugellesi e a tacchine, e nel 35% dei casi in alternativa a quella artificiale. Ciò sta a indicare
da un lato che l’istinto della cova è ancora presente nelle galline Valdarnesi e dall’altro che
l’allevatore preferisce fare ancora ricorso a sistemi naturali, sia a causa del limitato numero di uova
prodotto che dell’opinione diffusa di ottenere migliori risultati in termini di schiusa (Tabella 1) e di
avviamento dei pulcini quando sono accompagnati al pascolo dalla chioccia.
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I dati relativi alla destinazione dei pulcini sono più incerti: l’azienda di maggiore consistenza è
anche quella che ha dichiarato nel 2002, in maniera sufficientemente attendibile, di vendere alcune
migliaia di pulcini (8000) ad altri allevatori, e di portarne al peso commerciale altri 2000. Invece in
vari altri casi non è stato possibile quantificare meglio, fermo restando il fatto che le aziende più
piccole dichiarano di destinare il prodotto esclusivamente all’autoconsumo. In media, comunque,
sembra che circa il 90% degli animali venga venduto o come pollastrini da allevare (15-45 giorni di
età) o pronti per il consumo (5–6 mesi di età) in pari misura.
Per quanto riguarda la conduzione, meno del 30% degli allevatori pratica una sola vaccinazione
(Malattia di Marek) e nessun’altra vaccinazione viene praticata in modo sistematico;
l’alimentazione si basa fondamentalmente sul pascolo, con ricorso a mangimi completi, esclusivo
solo nel primo mese di vita, combinato con granaglie in misura variabile nei 2 mesi successivi per
diventare poi sporadico: questo comportamento è motivato dalla convinzione dell’utilità di
rispettare la tradizione e con ciò assecondare il comportamento dei polli di questa razza,
sicuramente amante degli spazi aperti e ottima pascolatrice, ma ha anche rivelato spesso una scarsa
preoccupazione del possibile bilanciamento della razione.
Complessivamente, quindi, dalle osservazioni scaturite dall’esame delle interviste sono emerse
diverse opportunità di intervento, dalla selezione dei riproduttori all’assistenza tecnica per ciò che
concerne gli aspetti nutrizionali e sanitari alle iniziative per la qualificazione e valorizzazione del
prodotto.
Selezione dei riproduttori. Come già accennato, ad una prima osservazione dei riproduttori
presenti nelle diverse aziende, era emersa l’opportunità di procedere ad una severa scelta per
eliminare progressivamente i difetti morfologici presumibilmente derivanti da incroci con altre
razze di cui si aveva notizia, oltre che da eccessiva consanguineità e incrementare il numero di
soggetti riconducibili alla razza tradizionale, che i numeri del censimento inducono a considerare a
rischio di estinzione. E’ stato utilizzato come riferimento per la selezione lo standard di razza,
opportunamente definito nei termini seguenti sulla base delle notizie storiche confrontate con le
caratteristiche morfologiche e produttive dei soggetti derivati da quelli mantenuti presso il
Conservatorio delle razze avicole in pericolo di estinzione della Regione Veneto (Sacchi, 1960;
Aleandri e Zavagli, 1965; Pignattelli, 2001, Gualtieri, 2002):
• Piumaggio: bianco ma non candido e, limitatamente al dorso e alla mantellina nei galli adulti,
tendente al giallo paglierino lucente; coda a ciuffo, con falciformi brevi nel gallo; nei pulcini,
impennamento tardivo: all’età di 45 giorni presenta la regione omerale ancora nuda,
parzialmente impiumate quelle del collo, pettorale e ventrale, ed è quasi privo della coda.
• Pelle: di colore giallo; tarsi di colore giallo-arancio.
• Testa: ben proporzionata, occhio grande e vivace, becco leggermente ricurvo di colore giallo
oro antico. Cresta e bargigli molto sviluppati, specie nei galli, e di colore rosso sangue; la cresta
è semplice e carnosa, eretta e con 5-6 denti nel gallo e piegata nella ga llina. Orecchioni di colore
giallo crema con qualche venatura rossa.
• Collo: robusto, con folta mantellina.
• Dorso: lungo, piatto e largo in corrispondenza delle spalle.
• Ali: ben sviluppate e aderenti al corpo.
• Petto: ampio e prominente.
• Addome: ben sviluppato e pieno.
• Zampe: gambe forti, carnose; tarsi non troppo lunghi, forti, senza piume.
• Peso: all’età di circa 1 anno il gallo pesa da 2,900 a 3,500 kg e la gallina da 2,200 a 2,900 kg.
89
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E’ stata quindi considerata l’opportunità di procedere alla creazione del registro anagrafico (della
cui tenuta è stata incaricata l’Associazione Allevatori della provincia di Arezzo): ad oggi sono stati
inanellati, nelle 11 aziende che si sono rese disponibili, 51 galli e 323 galline, comprendendo in
questi numeri anche soggetti nati dalle prime famiglie selezionate nel corso del 2002. Durante la
prima fase di selezione è stata ottenuta una percentuale di scarto sui riproduttori censiti variabile da
poco meno del 60% nelle galline e prossima al 50% nei galli, mentre nella generazione successiva e
negli allevamenti di nuova creazione è stata osservata la tendenza sempre più marcata alla
diminuzione degli scarti al di sotto del 50%, a dimostrazione di una maggiore attenzione da parte
degli allevatori stessi. Gli scarti sono stati decisi sulla base della rilevazione di pesi inferiori allo
standard, di insufficiente proporzione tra le misure somatiche registrate (i cui valori di riferimento
compaiono nella Tabella 2), di carenze nella manifestazione dei caratteri sessuali secondari e
nell’attitudine alla produzione di uova (salvaguardando peraltro le galline con manifesta attitudine
alla cova), oltre a difetti quali la presenza di colorazioni improprie del piumaggio, anomalie dello
sterno o delle dita o della cresta, ecc.
Tabella 2: Misure somatiche, valori di riferimento per la selezione morfologica (cm)
Table 2: Body measures, reference values for morphologic selection (cm)
Maschi
Femmine
Dorso, lunghezza
16,5-18,0
15,0-17,0
Back, length
Petto, ampiezza
17,0-19,0
14,0-17,0
Breast, width
M. pettorale profondo, lunghezza
14,5-17,0
13,5-15,5
Pectoralis profundus, length
Coscia, lunghezza
17,5-18,5
14,0-16,0
Drumstick, length
Tarso, lunghezza
8,0-9,0
8,0-9,0
Shunk, length
Cresta, lunghezza
12,0-14,0
--Comb, length
Bargiglio, lunghezza
7,5-9,0
--Wattle, length
A supporto della selezione morfologica è stato avviato lo studio dei marcatori molecolari
microsatelliti, allo scopo di individuare i soggetti geneticamente vicini a quelli derivati direttamente
dal citato nucleo del Conservatorio delle razze avicole di Rovigo. Un primo studio, effettuato nel
2001 su 5 degli allevamenti più significativi, per un totale di 41 campioni di sangue, ha permesso di
individuare le prime famiglie geneticamente vicine al gruppo del Conservatorio, a conferma della
sopravvivenza di soggetti portatori delle caratteristiche genetiche della razza. Se la seconda e più
numerosa serie di analisi, tuttora in corso, confermerà i primi risultati sarà possibile stabilire con
maggiore certezza la validità della scelta eseguita su criteri prevalentemente morfologici.
Nell’ambito dei riproduttori selezionati nel 2002 sono state isolate in altrettanti recinti 7 famiglie
(costituite ciascuna da 1 gallo e 10 galline), che tuttora sono sotto controllo per valutare le attitudini
produttive ed eventualmente individuare la possibilità di creare linee diverse da incrociare tra loro.
90
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Iniziative per la salvaguardia e valorizzazione della razza. I dati ricavati dal censimento delle
aziende e dalla prima selezione sono stati utilizzati per ottenere l’iscrizione della Valdarnese bianca
nel “Repertorio regionale delle risorse genetiche autoctone della Toscana” (L.R. 50/97) come razza
a rischio di estinzione. Ciò ha permesso di inserire la razza nell’insieme di tutte quelle definite
come “reliquia” e previste nel piano triennale (2003-2006) della Regione Toscana per la difesa delle
specie a rischio, che prevede contributi agli allevatori.
In aggiunta all’inserimento nell’elenco dei prodotti tipici toscani con la denominazione “pollo del
Valdarno”, si è ritenuto per una più efficace salvaguardia della sua tipicità spingersi oltre per
arrivare gradualmente ad un possibile riconoscimento a livello dell’Unione Europea (marchio DOP
e/o IGP). I primi passi sono stati individuati nella creazione del “presidio Slow Food” e nella
registrazione di un marchio volontario dell’Associazione Agricoltori Custodi (Loro Ciuffenna,
Arezzo), a sua volta comprendente tre diverse denominazioni (Pollo del Valdarno, Valdarno bianca
di Agricoltori Custodi, Valdarnese bianca di Agricoltori Custodi). Il relativo disciplinare di
produzione riporta tra le norme più importanti le seguenti:
• origine certificata dei riproduttori (iscrizione nel registro anagrafico);
• area di produzione costituita esclusivamente dai territori compresi nei comuni del Valdarno
superiore;
• tecniche di allevamento nel rispetto della tradizione locale;
• preferenza del ricorso alla medicina alternativa per la prevenzione e controllo delle malattie;
• età minima di macellazione;
• procedure di controllo del rispetto del disciplinare.
Sono in particolare le norme relative al sistema di allevamento e di alimentazione quelle ispirate al
desiderio dei promotori dell’iniziativa di salvaguardare la peculiarità della produzione, nel rispetto
delle caratteristiche biologiche e comportamentali di un pollo definito tipicamente come “ribelle
alla clausura e soggetto a impennamento tardivo, da allevare libero per evitare episodi di
cannibalismo”, con la definizione di superfici minime per capo (10 m2 ). D’altronde l’allevamento
all’aperto, con importante utilizzazione del pascolo naturale, favorisce la pigmentazione della cute
che ha reso famosi questo tipo di polli e la colorazione della cresta e dei bargigli. Inoltre si inserisce
perfettamente, grazie anche all’utilizzazione di piccoli ricoveri rustici e quasi sempre costruiti con
materiali naturali, se non addirittura nascosti da coperture di erica e perciò mimetizzati con la
macchia circostante, nell’ambiente naturale. Con analogo spirito, nell’alimentazione, non solo è
bandito il ricorso a mangimi derivati da prodotti OGM (la cui coltivazione peraltro è vietata nella
regione), ma soprattutto è considerato estremamente importante per l’integrazione del pascolo
l’impiego di granelle derivate da produzioni locali, proprio per mantenere la tradizione, sebbene
riconsiderata in un’ottica di miglioramento ed incremento delle produzioni che assicurino la
necessaria validità economica.
CONCLUSIONI
A conclusione di tre anni di lavoro possiamo innanzitutto affermare che la Valdarnese bianca, pur
attraverso numerose difficoltà, è ancora presente nel Valdarno superiore, anche se le consistenze
sono piuttosto modeste, ma sufficienti, attraverso un adeguato piano di recupero, a formare un
valido punto di partenza per il suo rilancio e la sua valorizzazione.
I soggetti iscritti al Registro Anagrafico sono sufficienti a formare più di 40 famiglie e 7 nuclei di
selezione per il monitoraggio completo delle loro performance. Pertanto è possibile ipotizzare che
91
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nel prossimo anno la selezione potrà essere effettuata riducendo la pressione selettiva che, vale la
pena ricordare, finora in qualche caso ha raggiunto punte del 70%.
Desideriamo sottolineare la positiva risposta degli allevatori e la loro disponibilità a sottoporsi ai
severi schemi di selezione, come pure ad uniformarsi a comuni regole di allevamento, quali ad
esempio la sottoscrizione del disciplinare dell’Associazione Agricoltori Custodi e la partecipazione
a corsi di formazione.
Restano tuttavia alcune ombre relative alla capacità imprenditoriale della maggior parte degli
allevatori per una migliore valorizzazione a monte del prodotto in grado di renderlo più “appetibile”
non solo attraverso i canali ufficiali (presidio Slow Food, marchio volontario, DOP, ecc.), ma anche
attraverso un salto di qualità gestionale, sia nella politica dei prezzi, sia nella scelta della clientela e
dei canali distributivi.
In conclusione riteniamo che il lavoro svolto possa apportare un notevole contributo non solo al
recupero di un’antica razza, ma anche alla sua valorizzazione come avvenuto per altre produzioni
locali (fagiolo zolfino, ecc.), alla salvaguardia delle risorse genetiche autoctone e della biodiversità
nonché al mantenimento delle tradizioni e delle culture locali relative alla cucina e alla gastronomia,
senza trascurare il recupero e la valorizzazione delle aree marginali.
BIBLIOGRAFIA
Aleandri M., Zavagli V. (1965). Caratteristiche tradizionali ed elementi di sviluppo della
pollicoltura nel Valdarno. Atti del “Convegno per la valorizzazione dei prodotti tipici
dell’agricoltura toscana”, Accademia dei Georgofili, Firenze, 14-15 giugno 1965.
Arduin M., (2001). Il recupero delle razze autoctone. “L’Allevatore”, 3.3.2001, 7.
Gualtieri M. (2002). Relazione finale sul progetto ARSIA “Riconoscimento, salvaguardia e
valorizzazione del pollo del Valdarno”.
Pignattelli P. (2001). Il consumatore ha scelto la Valdarno bianca. “Avicoltura”, 1, 12- 18.
Sacchi R. (1960). Il pollo Valdarno ha un avvenire. “Avicoltura”, 11, 41-45.
92
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PARAMETRI RIPRODUTTIVI DELLA POPOLAZIONE LOCALE
“CONIGLIO D’ISCHIA” E DELLA RAZZA BNZ ALLEVATE IN GABBIE
ALL’APERTO
Sylvie Taranto 1 , Carmelo Di Meo 2 , Sara Florio1 , Antonino Nizza
3
RIASSUNTO: Scopo della ricerca è stato quello di far conoscere le caratteristiche produttive e
riproduttive di una popolazione locale di conigli a mantello grigio presente sull’isola d’Ischia fino a
qualche decennio fa, ma adesso praticamente scomparsa in purezza. Complessivamente, sono state
seguite 55 femmine grigie e come controllo 68 coniglie di razza BNZ, allevate in gabbie tenute
all’aperto sotto tettoia. Per ogni femmina è stato registrato il numero di nati totale, nati vivi e
svezzati. Sui coniglietti si è rilevato il peso alla nascita, a 7, 14, 21, 28 e 35 giorni d’età. Dopo lo
svezzamento (35 giorni d’età), oltre al peso, sui conigli in accrescimento è stato rilevato anche il
consumo di alimento. Le performance riproduttive delle coniglie grigie sono risultate interessanti e
del tutto sovrapponibili a quelle delle coniglie BNZ. Rispetto a queste ultime, le coniglie grigie
hanno fatto evidenziare un numero maggiore di conigli svezzati per parto (6,62 vs 6,10). Il peso dei
coniglietti alla nascita (62,0 vs 50,3 g), allo svezzamento (801,0 vs 703,6 g) e a 90 giorni d’età
(2557,3 vs 2158,0 g), invece, è stato sempre più elevato nella razza BNZ. I soggetti di quest’ultima
razza hanno fatto registrare anche un più favorevole indice di conversione alimentare (3,34 vs 3,63
e 4,77 vs 5,82, rispettivamente nei periodi 35-70 e 70-90 giorni d’età).
Dai risultati ottenuti in questa prova emerge che la popolazione grigia presente sull’isola d’Ischia
possiede caratteristiche riproduttive del tutto sovrapponibili a quelle di una razza selezionata come
la BNZ e soddisfacenti attitudini produttive.
PAROLE CHIAVE: Coniglio d’Ischia, performance produttive e riproduttive
REPRODUCTIVE PARAMETERS OF THE “ISCHIA RABBIT” POPULATION AND THE BNZ
BREED RAISED IN OUTDOOR CAGES
SUMMARY: The aim of our research was to reveal the productive and reproductive characteristics
of a local grey-coated rabbit population found on the island of Ischia until a few decades ago, but
now virtually extinct as a pure breed. In all, 55 grey females were monitored alongside a control
group of 68 BNZ rabbits, raised in outdoor cages under roofing. For each female the total number
of births, live births and weaned animals was recorded. As regards the rabbit pups, weight at birth
and at 7, 14, 21, 28 and 35 days was recorded. After weaning (35 days of age), not only the weight
but also the feed consumption of the growing rabbits was measured. The reproductive performance
of the grey rabbits was interesting and matched that of BNZ rabbits. Compared with the latter, the
grey rabbits had a larger number of rabbits weaned per birth (6.62 vs 6.10). By contrast, weight of
1
Laureato frequentatore. Dipartimento di Scienze Zootecniche e Ispezione degli Alimenti, Università di Napoli
“Federico II”.
2
Ricercatore confermato. Ibidem.
3
Professore Ordinario. Ibidem.
93
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the pups at birth (62.0 vs 50.3 g), at weaning (801.0 vs 703.6 g) and at 90 days (2557.3 vs 2158.0 g)
was always higher in BNZ. The latter breed also recorded a higher feed conversion index (3.34 vs
3.63 and 4.77 vs 5.82, respectively in the periods from 35-70 and 70-90 days of age).
From the results obtained in this trial, it emerges that the grey population found on Ischia has
reproductive characteristics which match those of a selected breed like BNZ, as well as satisfying
productive aptitudes.
KEY WORDS: Ischia rabbit, productive and reproductive performance
PREMESSA
L’intensa pressione selettiva operata dagli allevatori sugli animali di interesse zootecnico non ha
risparmiato il coniglio. Alla fine degli anni ’50, infatti, con il progressivo abbandono della
coniglicoltura rurale a favore dell’allevamento intensivo si è assistito al miglioramento genetico e
alla diffusione di poche razze quali la Bianca di Nuova Zelanda (BNZ), la Californiana, la Fulva di
Borgogna, ecc., a scapito di altre razze e popolazioni che sono state relegate a un ruolo marginale
tanto da rischiare, in alcuni casi, la scomparsa. Tale destino ha interessato anche la popolazione di
conigli grigi dell’isola d’Ischia denominata “coniglio d’Ischia” presente in quasi tutte le aziende
agro- zootecniche dell’isola fino a circa 40 anni fa, ma oggi praticamente scomparsa in purezza a
causa di incroci disordinati con soggetti delle razze selezionate. Il coniglio d’Ischia era
caratterizzato da mole ridotta e da buona rusticità, si allevava sia a terra che in gabbia senza grossi
problemi. Caratteristico e molto diffuso era l’allevamento in fossi profondi circa 2 metri e con
superficie di 3-4 metri. Su una parete del fosso, i contadini abbozzavano dei cunicoli allo scopo di
stimolare i conigli a scavare delle gallerie più o meno lunghe che diventavano un ambiente
perfettamente rispondente alle esigenze tipiche della specie (Nizza e Barbato, 2003). La mole
ridotta e l’alimentazione scarsa, basata essenzialmente su essenze vegetali presenti sull’isola e su
scarti di cucina, difficilmente consentivano di ottenere alla macellazione soggetti di oltre 2 kg di
peso vivo. Per tale ragione, tuttora, ad Ischia viene consumato un coniglio di peso inferiore ai 2 kg
che, proveniente da razze selezionate o da ibridi commerciali caratterizzati da ottimi accrescimenti,
quasi sempre non supera i due mesi di vita.
Con la presente ricerca si è voluto indagare sull’attività riproduttiva della popolazione locale
dell’isola d’Ischia, conoscenza indispensabile ai fini di un suo recupero zootecnico. Per una
migliore e diretta valutazione sono state seguite anche delle femmine di razza Bianca di Nuova
Zelanda tenute nelle medesime condizioni di allevamento.
MATERIALE E METODI
Le indagini sono state condotte presso aziende dell’isola d’Ischia dove erano presenti sia soggetti
della popolazione locale, sia soggetti BNZ. Complessivamente sono state seguite 55 femmine grigie
e 68 femmine BNZ. Le fattrici sono state alloggiate all’aperto sotto tettoia in gabbie con fondo
listellato di 0,5 m2 di superficie e 50 cm di altezza, dotate di mangiatoia antispreco e abbeveratoio a
goccia. Le coniglie sono state alimentate ad libitum con un mangime composto integrato pellettato
ottenuto da materie prime derivate da coltivazione biologica. In tabella 1 viene riportata la
composizione chimica eseguita secondo la procedura AOAC (1984). Le femmine della popolazione
locale sono state accoppiate per la prima volta quando raggiungevano un peso vivo di 2,7-2,8 kg,
mentre le fattrici BNZ venivano presentate al maschio per la prima volta ad un peso di circa 3,3-3,5
94
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kg. Successivamente è stato adottato un ritmo riproduttivo semi- intensivo con accoppiamenti dopo
3 settimane dal parto. Le femmine che per 3 volte consecutive restavano vuote o fornivano una
nidiata con meno di 3 soggetti venivano eliminate dalla prova. I rilievi effettuati su ciascun gruppo
hanno interessato la fertilità (rapporto tra coniglie partorite e coniglie accoppiate), il numero di nati
totale e nati vivi, numero di soggetti svezzati, peso dei coniglietti alla nascita e ad ogni settimana di
vita fino allo svezzamento, mortalità dei coniglietti durante l’allattamento.
I conigli svezzati a 35 giorni di età sono stati sistemati alla densità di 8 soggetti/m2 (4 conigli per
gabbia) in gabbie all’ingrasso, poste sempre all’aperto sotto tettoia, provviste di fondo in pannelli di
plastica a listelli estraibili. Tutti i conigli sono stati alimentati ad libitum con un mangime costituito
da materie prime derivate da coltivazione biologica, la cui composizione chimica determinata in
accordo con la procedura AOAC (1984) è riportata in tabella 1.
Sui soggetti in accrescimento si è provveduto a rilevare l’incremento ponderale individuale a
cadenza settimanale nonc hé il consumo alimentare di gabbia. Di conseguenza è stato possibile
calcolare anche l’indice di conversione alimentare di gabbia.
L’analisi statistica dei risultati ottenuti ha previsto l’utilizzazione del “t” di Student per i dati
quantitativi e del chi quadrato per quelli qualitativi.
Tabella 1: Composizione chimica delle diete (g/kg)
Table 1: Chemical composition of diets (g/kg)
Mangime fattrici
Does diet
Sostanza secca
902
Dry matter
Protidi grezzi
177
Crude protein
Estratto etereo
34
Ether extract
Ceneri
88
Ash
NDF
315
Neutral detergent fibre
ADF
176
Acid detergent fibre
ADL
43
Acid detergent lignin
Energia lorda (MJ/kg)
16,6
Gross energy (MJ/kg)
Mangime conigli
Growing diet
905
158
30
90
348
188
47
16,1
RISULTATI E DISCUSSIONE
In tabella 2 vengono riportati i rilievi effettuati sulle fattrici e sui coniglietti fino allo svezzamento.
Per quanto riguarda la fertilità, i valori osservati, pur non facendo emergere differenze significative
tra i due gruppi, risultano leggermente più favorevoli nella popolazione grigia. Anche per i nati
totale e i nati vivi non si sono osservate differenze di rilievo tra la popolazione locale e la razza
BNZ. I suddetti valori testimoniano una buona prolificità e risultano sovrapponibili a quelli
osservati da Zoccarato e coll. (1990) per la popolazione grigia presente nel torinese. Statisticamente
95
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diverso, invece, è risultato il numero di soggetti svezzati per parto. Le coniglie della popolazione
locale hanno svezzato mediamente 6,62 soggetti contro i 6,10 delle coniglie BNZ. Considerato che
entrambi i gruppi erano sottoposti alle stesse condizioni di allevamento, la minore mortalità
osservata nei soggetti grigi potrebbe essere attribuita ad una loro maggiore rusticità e adattamento
all’ambiente.
Tabella 2: Performance riproduttive
Table 2: Reproductive performance
Fattrici
Does
Accoppiamenti/parti
Mating/delivery
Fertilità
Fertility
Nati totale/parto
Total born/delivery
Nati vivi/parto
Born living/delivery
Conigli svezzati/parto
Weaning rabbit/delivery
Mortalità
Mortality
A, B: P < 0,01
n
Coniglie d’Ischia
Ischia does
55
Coniglie BNZ
NZW does
68
n
183/152
237/186
%
83,1
78,5
n
8,15 ± 2,86
7,97 ± 2,77
n
7,37 ± 3,01
7,16 ± 2,92
n
6,62 ± 2,45A
6,10 ± 2,33 B
%
10,18B
14,86 A
Tabella 3: Pesi dei coniglietti dalla nascita allo svezzamento
Table 3: Weight rabbits from birth to weaning
Conigli d’Ischia
Ischia rabbits
Peso vivo alla nascita
g
50,3 ± 9,5 B
Birth weight
Peso vivo a 7 d
“
109,8 ± 20,9 B
Live weight at 7 days
Peso vivo a 14 d
“
200,3 ± 50,8 B
Live weight at 14 days
Peso vivo a 21 d
“
295,6 ± 69,3 B
Live weight at 21 days
Peso vivo a 28 d
“
499,7 ± 80,0 B
Live weight at 28 days
Peso vivo a 35 d
“
703,6 ± 105,7 B
Live weight at 35 days
A, B: P < 0,01
96
Conigli BNZ
NZW rabbits
62,0 ± 11,2 A
128,8 ± 22,0 A
228,7 ± 45,3 A
332,5 ± 72,4 A
552,4 ± 76,7 A
801,0 ± 108,4 A
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Tabella 4: Performance produttive dei conigli dopo lo svezzamento
Table 4: Post-weaning performance of rabbits
Conigli d’Ischia
Ischia rabbits
Peso vivo a 35 giorni
g
702,7 ± 101,4 B
Live weight at 35 days
Peso vivo a 70 giorni
“
1722,2 ± 180,5 B
Live weight at 70 days
Peso vivo a 90 giorni
“
2158,0 ± 210,6 B
Live weight at 90 days
Incremento giornaliero (35-70 d)
“
28,5 ± 3,6 B
Daily weight gain (35-70 d)
Incremento giornaliero (70-90 d)
“
21,8 ± 3,3 B
Daily weight gain (70-90 d)
Consumo alimento (35-70 d)
g/d
105,4 ± 10,6 B
Feed intake (35-70 d)
Consumo alimento (70-90 d)
“
126,8 ± 13,2 B
Feed intake (70-90 d)
ICA (35-70 d)
3,63 ± 0,38 a
Feed conversion index (35-70 d)
ICA (70-90 d)
5,82 ± 0,44 A
Feed conversion index (70-90 d)
A, B: P < 0,01; a, b: P < 0.05
Conigli BNZ
NZW rabbits
800,5 ± 106,9 A
1986,8 ± 195,5 A
2557,3 ± 258,8 A
33,9 ± 4,8 A
28,5 ± 4,1 A
113,2 ± 11,5 A
136,2 ± 13,8 A
3,34 ± 0,29 b
4,77 ± 0,40 B
Per quanto riguarda l’accrescimento dei coniglietti, nella tabella 3 sono riportati, per i due gruppi a
confronto, i pesi alla nascita e quelli registrati a cadenza settimanale fino allo svezzamento. Dalla
suddetta tabella si può osservare che i soggetti BNZ, rispetto ai grigi, risultano significativamente
(P<0,01) più pesanti sia alla nascita che successivamente. Allo svezzamento, la differenza di peso
tra i due gruppi si aggira intorno ai 100 grammi. I coniglietti BNZ hanno raggiunto un peso medio
(circa 800 grammi) soddisfacente e in accordo con i dati presenti in letteratura per soggetti svezzati
alla stessa età (Nizza e Moniello, 2000). Tenuto conto della ridotta mole del coniglio d’Ischia, il
peso allo svezzamento dei coniglietti può ritenersi abbastanza elevato e probabilmente superiore a
quello fatto registrare dai soggetti allevati in condizioni meno controllate e dove l’alimentazione
spesso risulta inadeguata alle esigenze nutritive delle fattrici.
In tabella 4 si riportano le performance ottenute dai coniglietti dopo lo svezzamento. A 70 giorni,
età di macellazione molto seguita in Campania proprio per alimentare il mercato d’Ischia, i conigli
grigi hanno fatto registrare, rispetto a quelli BNZ, un peso inferiore di circa 250 grammi (1722 vs
1987 g; P < 0,01). La differenza è aumentata a 90 giorni, raggiungendo i 400 grammi ( 2158 vs
2557 g; P < 0,01). In questo secondo periodo, infatti, l’accrescimento medio giornaliero, inferiore in
entrambi i gruppi rispetto a quello del primo periodo, ha subito una maggiore flessione nei soggetti
della popolazione grigia. Per i conigli BNZ, i pesi raggiunti alle due età più caratteristiche rientrano
nella media di quelli osservati anche in condizioni diverse da altri autori (Fernandez-Carmona e
coll., 1998). Per quanto riguarda il coniglio d’Ischia non è possibile avere un confronto con altri
dati, tuttavia, tenuto conto che sull’isola negli anni si è affermata la consuetudine di consumare un
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coniglio leggero di peso inferiore ai 2 kg, siamo dell’avviso che i pesi da noi osservati possano
rientrare nei valori medi della popolazione.
Il consumo alimentare è stato sempre statisticamente più elevato nei soggetti BNZ. La più elevata
ingestione di alimento dei conigli BNZ può essere attribuita sia alla maggiore taglia dell’animale
che alle maggiori esigenze nutritive. In effetti, se l’ingestione viene riferita in funzione del peso
vivo medio dell’animale, sono i conigli BNZ a presentare i valori più bassi (8,1 vs 8,7% nel primo
periodo e 6,0 vs 6,5 % nel secondo periodo).
L’indice di conversione alimentare è risultato sempre più elevato nei conigli della popolazione
d’Ischia. Fino a 70 giorni la differenza anche se significativa (P < 0,01) è stata contenuta (3,63 vs
3,34), mentre nel periodo 70-90 giorni, l’ICA nei soggetti grigi è peggiorato notevolmente (5,82 vs
4,77).
CONCLUSIONI
Dai risultati conseguiti emerge che la popolazione grigia dell’isola d’Ischia possiede buone
caratteristiche riproduttive da giustificarne un recupero ai fini zootecnici. I valori di fertilità e di nati
vivi, infatti, sono sovrapponibili a quelli della razza BNZ e, addirittura, più elevato il numero di
svezzati per parto. Quest’ultimo parametro, probabilmente conseguito grazie ad una maggiore
rusticità della popolazione, assume particolare importanza specialmente in condizioni di
allevamento meno controllato come quello dell’allevamento nei fossi che proprio ad Ischia si vuole
ripristinare. La minore velocità di accrescimento del coniglio d’Ischia rispetto ad una razza
selezionata può non essere considerata penalizzante se l’indirizzo produttivo sarà quello di un
allevamento non intensivo (biologico o comunque alternativo) dove vengono valorizzate le
caratteristiche qualitative delle carni.
RINGRAZIAMENTI: Ricerca finanziata con fondi PRIN 2002, respons abile Prof. A. Nizza.
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NUOVO SVILUPPO DELL'ACQUACOLTURA IN POLICOLTURA E CON
SISTEMI INTEGRATI, ESEMPIO DI PRODUZIONI ALTERNATIVE PER
UN MODERNO USO DEL TERRITORIO
Paolo Berni1 , Roland Billard 2 , Silvia Bitossi3 , Marianna Salvato3 , Matteo Orlandi 3
RIASSUNTO: I nuovi sistemi acquacolturali coinvolgono sempre più un attento uso del territorio
con particolare attenzione all'impatto ambientale. Il nostro lavoro offre un panorama delle nuove
tendenze per l'uso della policoltura, ovvero dei sistemi di acquacoltura integrata, che rappresentano
soluzioni economiche per l'allevamento di nuove specie, un migliore uso dell'energia e
contenimento delle emissioni inquinanti. 1) Nuove specie associate alle tradizionali; esempio le
policolture di ciprinidi in Asia con l'aggiunta di Tilapia. 2) Nuove specie introdotte in allevamenti
intensivi al fine di utilizzare una nicchia trofica; esempio il (Polyodon spatula) con i pesci gatto. 3)
Introduzione di nuove specie per proteggere la specie allevata da patologie (cleaner- fish con il
salmone atlantico) ovvero per contenerne l'impatto (molluschi e alghe intorno alle gabbie di
salmoni). 4) Modificazione dell'habitat dei bacini al fine favorire lo sviluppo del perifiton. 5)
Introduzione di co-colture di Tilapia e milkfish in gambericoltura al fine di filtrare e ridurre il
materiale in sospensione; migliore qualità dell'acqua e minori patologie; le co-colture migliorano
anche l'economia dell'allevamento oltre a rendere disponibile prodotti alternativi. 6) Nelle nuove
forme di acquacoltura integrata si usano reflui di allevamenti zootecnici (maiali) trattati
preliminarmente e distribuiti nei bacini per la produzione di zooplancton (daphnie - copepodi ecc.)
da usare come prede vive per allevamenti ittici. 7) Realizzazione di sistemi di allevamento
innovativi di Sinanodonta woodiana Lea 1834, bivalve di acqua dolce, in policoltura finalizzati ad
ottenere produzione di perle e prodotti nacrei.
Molti nuovi sistemi di policolture sono in fase sperimentale o prossimi al loro impiego negli
allevament i acquacolturali.
PAROLE CHIAVE: pesci policolture, acquacoltura integrata, uso territorio.
NEW DEVELOPMENT IN POLYCULTURE AND INTEGRATED FISH FARMING,
EXAMPLE OF ALTERNATIVE PRODUCTIONS FOR MODERN TERRITORY
EXPLOITATION
SUMMARY: New aquaculture systems in polyculture involving several species can be recognised.
1) News species are added to traditional Asian polyculture based on cyprinids (example tilapia). 2)
News species are introduced into intensive monoculture to use an unoccupied niche (example
paddlefish in channel catfish ponds). 3) Introduction of new species in monoculture systems to
protect the main species (cleaner- fish with Atlantic salmon) or to reduce farm effluents (molluscs or
seaweed around salmon cages in the sea). 4) Attempts are also made to diversify the habitat in
1
Ricercatore. Dipartimento di Agronomia e Gestione dell'Agroecosistema, Università di Pisa.
2
Professore. Muséum National d'Histoire Naturelle, Paris.
3
Laureato. Collaboratore esterno alla ricerca.
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ponds such as substrates for the development of periphyton. 5) Introduction of tilapia and milkfish
as detritivorous species in shrimp pond to filter and partly consume the suspended detritus ; this
improve the water quality and reduce the risk of diseases; those co-cultured species have less
commercial value than the shrimps and are available for local poor people. 6) In new form of
integrated fish farming, livestock wastes or pig manure are processed and distributed in successive
ponds for the culture of live preys for fish (such as daphnia or maggots). 7) Achievement of a new
rearing system of Sinanodonta woodiana Lea 1834, freshwater bivalve, in polyculture finalised to
obtain a high quality production of pearls and nacre products Most of the new polyculture systems
are at an experimental stage and need more on- farm evaluation.
KEY WORDS: fish polyculture, integrated aquaculture, territory exploitation.
PREMESSA
L'acquacoltura integrata è di solito abbinata alla policoltura ed associa organismi acquatici con
animali di interesse zootecnico, utilizzando reflui e sostanze organiche di origine agricola, immesse
nei bacini, sia come alimenti diretti che come fertilizzanti (Pullin e Shehadeh, 1980). I pesci
coinvolti sono principalmente ciprinidi che si alimentano, a diversi livelli della catena trofica del
bacino. Questi sistemi riguardano una policoltura tradizionale, ben sviluppata in Asia, in grado di
produrre circa 5 t di pesce/ha/anno senza distribuzione di alimenti artificiali. La produzione totale di
ciprinidi in policoltura è ottenuta principalmente in Cina con circa 10 milioni di t ed India con 1
milione di t.
Attualmente in Cina, la policoltura registra una regressione (Billard, 2002). Una ragione è che i
ciprinidi hanno perso molto della loro attrattiva alimentare, dovuta alla presenza di ossa
intramuscolari e cattivi aromi e sapori che contribuiscono a ridurre sensibilmente il valore
commerciale. Gli allevatori, pertanto, si orientano verso la monocoltura di specie più richieste.
Inoltre negli allevamenti integrati cinesi, i pesci sono esposti direttamente ai liquami degli animali e
qualche volta, anche alle deiezioni umane (fig.1). Questo costituisce un fattore di rischio
estremamente importante e pone seri problemi sanitari per i consumatori. Si stanno quindi
sviluppando nuovi sistemi di policoltura acquacoltuarle integrata.
L'obiettivo di questo lavoro è quello di passare in rivista i nuovi sistemi policolturali integrati e
delle nuove tecniche attuate nell'ambito dell'acquacoltura integrata, al fine di valutare il rispettivo
potenziale produttivo.
Paglie
Cereali
Allev.
Animali
FOGNE Urbane
Bacino allevamento
pesci
MERCATO
Figura 1: Esempio di allevamento integrato in Cina
Figure 1: Exemple of fish culture integrated in China
L'ALLEVAMENTO DI NUOVE SPECIE NELL'AMBITO DEI SISTEMI TRADIZIONALI DI
POLICOLTURA
Nei sistemi di policoltura tradizionali sono state introdotte nuove specie di elevato valore
commerciale, in sostituzione delle carpe cinesi come: Polyodon spathula in Russia e Moldavia
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(Lobchenko e coll., 2002) e Acipenser stellatus in Romania (Patriche e coll., 2002). L'efficienza
della policoltura di allevamenti di carpa indiana e di carpa comune, è migliorata con specie di
piccola taglia come il Puntius sophore. Il pesce grande è destinato al mercato più ricco mentre il
"punti" costituisce l'alimento per un mercato più povero (Wahab e coll., 2001).
Un'altra via per migliorare i sistemi di policoltura tradizionale consiste nell'introdurre una fonte
supplementare di alimento. Nel caso della policoltura di carpe con gli anatidi in Bangladesh ed a
seguito dell'introduzione della Lemna sp. (Azim e Wahab, 2003).
Analogamente con la diversificazione dell' habitat, introducendo diversi substrati, si favorisce lo
sviluppo del perifiton (Keshavanaath e coll., 2002; Van Dam e coll., 2003). I substrati dapprima
sono colonizzati con deposizione di sostanza organica, cui segue la proliferazione di batteri, alghe e
invertebrati. La composizione del perifiton è varia e comprende alghe (50 generi), zooplancton (13
generi), alcuni invertebrati e batteri (Azim e coll., 2002a). Questo tipo di intervento si basa sulle
conoscenze che una parte dell'alimento dei pesci in policoltura deriva da compartimenti microbici
eterotrofici (oltre il 50% dei bacini altamente fertilizzati).
La produzione di perifiton è stata realizzata in policoltura in Costa d'Avorio da Hem e Avit (1994)
ed è stata ulteriormente raffinata in Bangladesh. Nei sistemi di policoltura con la carpa indiana, la
produzione è stata di 2.097 kg/ha in 137 gg, usando come substrato canne di bamboo infisse sul
fondo del bacino. In comparazione il controllo senza i substrati, ha registrato una produzione di
1.229 kg (Azim e coll., 2002b). Nei bacini, il perifiton con integrazione di altre fonti di alimento, è
in grado di sostenere 5t di pesce/ ha -1 anno -1 (Van Dam e coll., 2002). Di solito si usano substrati a
bassa degradabilità come tronchi, rami e paglia, in quanto aumentano la superficie di sviluppo del
biofilm di perifiton (Shankar e coll., 1998).
L'uso del perifiton su substrati di gabbie non è economicamente valido (Huchette e Beveridge,
2003). Inoltre alcuni studi rivelano che il perifiton accresce la resistenza del pesce alle patologie
probabilmente dovuto all'azione dei probiotici (Azad e coll., 1999).
INTRODUZIONE DI NUOVE SPECIE NEI SISTEMI MONOCOLTURALI
Migliorare la produttività delle operazioni in acquacoltura.
Questo obiettivo è stato ottenuto associando altre specie nelle gabbie di salmoni. Si utilizza meglio
le strutture aziendali e si aumenta la resa complessiva dell'allevamento. Parsons e coll. (2002)
studiarono le co-colture di (Placopecten magellanicus) con salmone atlantico nelle gabbie del
Maine USA. L'introduzione di nuove specie é usata anche per sfruttare nicchie trofiche presenti
nell'allevamento; ad es il Polyodon s., è stato usato con il pesce gatto in USA.
Il Polyodon spatula introdotto nell'allevamento convenzionale di pece gatto, ha prodotto un
incremento di US$ 220/ha con una produzione di 126 kg/ha (Schardein e coll., 2002). Sono state
esaminate da Avault (1990) anche associazioni più complesse con produzioni di buffalofish
(Ictiobus spp), muggine Mugil spp. e Plyodon con pesce gatto. L'associazione del pesce gatto con il
Pimephales promelas è stato invece proposto da Ludwig (1996).
L'associazione di una pianta acquatica come il loto con la tilapia, contribuisce a rimuovere i
nutrienti accumulati nel fango dei bacini (Yi e coll., 2002). MacLarney (1984) riporta che gli
acquacoltori immettono assieme al Ictalurus punctatus il 10% di pesce gatto blu Ictalurus furcatus
che accetta molto volentieri il pellets galleggiante. Quest'ultimo, esercita un'azione di
apprendimento, stimolando l'ingestione nel pesce gatto (ruolo del pesce maestro).
La crescita di tilapia e gamberi associati negli allevamenti intensivi migliora l'uso di alimenti, il
pesce si ciba di giorno mentre il gambero si nutre durante la notte (Barki e coll., 2001).
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Allevamenti alternativi sono ottenuti con l'introduzione di molluschi bivalvi di acqua dolce
(Unionidi) in acque reflue per la produzione di perle e prodotti nacrei (Berni e coll., 2003).
Esperimenti di policoltura sono realizzati in Cina con tecniche di maricoltura, con l'associazione di
pettini, ostriche e laminaria e l'uso di modelli biologici, stimano che questo tipo di utilizzazione del
territorio ha una grande capacità produttiva e una grande potenzialità, in grado di estendersi a
semine di altre specie e ad altri scenari, con impatto contenuto e in grado di rispondere a strategie
differenti.
Migliorare la qualità dell'acqua.
E' dimostrato in acquacoltura che i reflui di allevamenti intensivi sono rimossi mediante co-colture
con altre specie, specialmente piante e molluschi. In Cile è stata coltivata sperimentalmente la
Gracilaria chilensis, su corde vicino alle gabbie dei salmoni e hanno rimosso il 5 e 27%
rispettivamente, di N e P disciolti (Troell e coll., 1997).
In un esperimento di un sistema a riciclo, Neori e coll. (1996) prevedono una co-coltura di Ulva
lactuca in comparti separati (biofiltri), per trattare gli effluenti di un allevamento di (Sparus
aurata); la qualità dell'acqua è risultata migliore nel 1° anno, il prototipo (200 m2 ) ha prodotto
1.150 kg-1 ha-1 di pesce e 2.500 kg-1 ha-1 di biomassa fresca di alghe. Gli effluenti della
troticoltura sono trattati in sistemi di lagunaggio con piante emergenti, rimuovendo rispettivamente
il 49/68% e 21/42% del fosforo totale e dell'azoto totale (Schulz e coll., 2003). In Italia, reflui da
allevamenti di orate sono sottoposti a fitodepurazione (Porrello e coll., 2003).
In uno studio di Jones e Iwama (1991), la Crassostea gigas è allevata vicino alle gabbie di salmoni
Chinook Oncorhynchus tshawytscha. In 137 gg, dal 1 giugno al 15 Ottobre, l'incremento di taglia
delle conchiglie è risultato 3 volte superiore a quello di due siti di controllo. Ciò è in relazione alla
concentrazione del particolato organico nell'ambito dell'allevamento e alla sola presenza di
microalghe nei controlli. Similmente la crescita dei Mytilus edulis, introdotti nelle gabbie di
salmone atlantico, aumenta in comparazione a quanto osservato nella mitilicoltura classica (Stirling
e Okumus, 1995).
Molti AA indicando potenzialmente interessante l'integrazione dei bivalvi negli allevamenti;
tuttavia si pongono problemi di accumulo di agenti terapeutici, dati pesci o batteri patogeni che
debbono essere ancora attentamente studiati.
Un'associazione di bivalvi con colture intensive di gamberi è in grado di rimuovere quantità di
materiale solido in sospensione significative (Purder, 2001). Esperimenti di acquacoltura integrata
in Tailandia, hanno dimostrato che la Tilapia è capace di ridurre significativamente i nutrienti (N e
P), negli effluenti di allevamenti intensivi di pesce gatto (Yi e coll., 2002).
Proteggere la specie principale
Il pesce pulitore usa il labbro-pulitore Centrolabrus exoletus e Ctenolabrus exoletus per controllare
le infestioni dei pidocchi di mare Caligus elongatus, nelle gabbie di smolt di Salmo salar in Irlanda.
Una prima prova rivela che i pidocchi di mare sugli smolt diminuiscono, concludendo che il loro
controllo è possibile (Deady e coll., 1995).
Si segnala, tuttavia, che alcune specie di pulitori hanno fallito nel contrastare il rapido incremento
delle infestioni nelle gabbie commerciali nel 1992 e 1993 (Tully e coll., 1996).
Uso dei "Pesci poliziotto" selezionatori di taglie piccole nei bacini di tilapia
L'introduzione dei piscivori nei bacini di allevamento è una pratica comune al fine di eliminare le
taglie troppo piccole e le introduzioni accidentali, ovvero eliminare i risultati di riproduzioni
precoci, come il caso di alcune specie: tilapia e tinca. Il Clarias gariepinus, ha un buon valore
commerciale, ed è usato in Africa. Tuttavia nel caso di elevata biomassa introdotta, sorgono
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problemi di competizione con la tilapia stessa (Oreochromis). Sempre in Africa Lazard e Oswald
(1995), usano un piccolo ciclide Hemichromis fasciatus (di circa 30 g) per eliminare soggetti piccoli
di circa 3g. Un pesce selezionatore utilizzato é il Parachanna obscura, introdotto con successo
negli allevamenti. Particolare attenzione si pone quando si usa come predatore un pesce gatto
Heterobranchus longifilis, in quanto per la sua rapida crescita può raggiungere rapidamente una
taglia tale da cibarsi anche della tilapia e di altre specie allevate.
UN NUOVO SISTEMA DI POLICOLTURA
Recenti lavori dimostrano che tilapie e molluschi, introdotti in gambericoltura filtrano la
sospensione della colonna d'acqua, migliorano la sua qualità, riducono anche l'incidenza di malattie
e aumentano la produttività dell'allevamento (Wang e coll., 1998; Tian e coll., 2001).
Nelle Filippine, in acque salmastre, esistono policolture di più specie: Tilapia, milkfish e 2 specie di
granchi con gamberi Penaeus monodon. Il P. monodon è allevato in intensivo con un forte
accumulo di detriti che vengono "filtrati" da specie associate. La qualità dell'acqua è migliore e
assicura lo sviluppo di fitoplancton di qualità (tecnologia delle acque verdi) e contemporaneamente
le malattie legate ai batteri patogeni diminuiscono. Questa policoltura, ne lle acque salmastre, è
molto flessibile e può essere intensificata (con fertilizzanti e alimenti). La produzione può anche
diminuire (bassa densità) ovvero favorire alcune specie a breve ciclo produttivo, rispondendo a
variazioni di mercato, agli input, ai costi di produzione ovvero per considerazioni sociali (produrre
proteine per la popolazione locale). E' implicito inoltre che questo sistema policolturale può
prevenire il collasso del ciclo produttivo dei sistemi di allevamento intensivi; come si è visto nel
recente passato per il milkfish. Infatti, con un prezzo di mercato basso, lo sviluppo di sistemi rigidi
come gabbie e recinzioni, sono costosi e sensibili a fluttuazioni minime del prezzo di alimenti e
costo lavoro, con una maggiore esposizione finanziaria dell'impresa. La diffusione dei sistemi
intensivi può produrre sovrapproduzione, spesso associata a problemi sanitari ed inquinamento.
Al contrario il sistema policoltura, come sostenuto Williams (1997), contribuirebbe a garantire la
disponibilità di cibo nel Sud del nostro pianeta a costi contenuti. Inoltre l'uso di più specie riduce i
rischi, come ad es. dopo l'eruzione del vulcano Pinatubo nel 1991, in gambericoltura si ebbero
molte vibriosi ed una riduzione della produzione di gamberi, ma non delle altre specie associate che
viceversa produssero reddito alle imprese.
Negli ultimi anni nelle lagune, le policolture semintensive hanno permesso una riduzione dei costi
di produzione della tilapia (65 pesos/kg), permettendo un maggior consumo sul mercato locale dei
"campesinos", mentre i gamberi (380 pesos/kg) erano destinati all'esportazione (Diener, 2000.)
La policoltura apre nuove prospettive di sviluppo nelle Filippine dove il P. monodon è stato
introdotto nel 1982 e l' O. niloticus 1972. Attualmente la produzione è 155.000 t di milkfish, 35.000
t di gamberi e 12.000 t di tilapia. Tuttavia il sistema necessita di miglioramenti, per la bassa
sopravvivenza dei gamberi (6%), inoltre la raccolta necessità di molto lavoro
Si svolgono prove per migliorare l'efficienza del sistema policoltura con i probiotici (Corre e coll.,
1999). Soprattutto con l'introdurre batteri selezionati per insediarsi nel tratto gastro- intestinale e
possano migliorare le capacità di difesa contro le malattie (Gatesoupe, 1999).
LE NUOVE FORME DI ACQUACOLTURA INTEGRATA
Trattamento di reflui in bacini separati
Nei nuovi sistemi in via di sviluppo, tutti gli organismi, non sono allevati in policoltura nello stesso
bacino, ma in comparti separati. In Italia, per riciclare i liquami degli allevamenti suini si usano
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piccoli bacini come bioreattori. É stato dimostrato che è possibile ottenere una elevata produzione
di alghe nei reattori per alimentare la daphnia, allevata in altri bacini, per essere a sua volta usata
come preda alle larve dei pesci.
Il trattamento discontinuo in coltura esterna (fig.2) permette il riciclaggio da 3 a 10 l/giorno di
liquami fermentati anaerobicamente per ha di coltura algale, circa 20.000 m3 di liquami-1per ha-1
di coltura algale per anno. Questo quantitativo di liquami equivale ad un allevamento di 2.000 suini,
pari a 140 t di sostanza secca trattata (Billard e coll., 1990; Salomoni e coll., 1993). Un analogo
sistema francese, per il lagunaggio dei liquami con produzione di alghe, daphnia e pesci, è proposto
da Sevrin Reyssac e coll. (1995). Il modello include un compartimento di produzione di alghe (45%
della superficie totale), profondità di 0,5/0,6 m in inverno e 0,3/0,4 in estate, un piccolo bacino di
raccolta per le alghe (5% della superficie) ed un compartimento per la produzione di Daphnia (25%
della superficie), con profondità di 1-1,5 m. (fig. 2).
Allev.
Suini
DAPHNIA
tratt.
anaerobi
Confezionament
ALGHE
MERCATO
DAPHNIA
Allevamento
Figura 2: Produzione di alghe, daphnia, pesci e vegetali in comparti separati usando liquami di
suini. Il liquame fermentato é distrib uito in compartimenti dove si producono alghe. Le alghe
unicellulari sono distribuite alle Daphnie che sono immesse successivamente sul mercato ovvero
distribuite al pesce in un 3° stadio di bacini (da Sevrin- Reyssac e coll., 1995).
Figure 2: Production of algae, daphnia and fish/plant in separate compartments using pig manure.
The fermented manure is distributed in an algal compartment. The monocellular algae are
distributed to the daphnia ponds. Daphnia can be harvested and sent to the market or given to the
fish in the 3rd pond (after Sevrin-Reyssac et al., 1995).
Produzione integrata di bestiame-pesci in Asia
Strategie alternative per la produzione integrata in Asia. Il liquame non è rilasciato direttamente nei
bacini dei pesci (fig. 1), ma è processato in compartimenti separati per produrre prede vive
distribuite a larve di pesce gatto africano Clarias gariepinus, allevato in gabbie in un altro bacino.
Gli effluenti dell'allevamento di pesci gatto sono rilasciati nel bacino, dove stimolano la catena
alimentare, utilizzata a sua volta da specie di detritivori/onnivori come le tilapia. Una fonte
addizionale di alimento può essere costituita anche dalle acque reflue dei macelli.
Un allevamento ittico tailandese, usando questo sistema di compartimeti, produce per anno circa 6 t
di pesce gatto africano e 2,6 t di tilapia del Nilo, partendo da un allevamento di suini di 1.000 capi,
in una superficie totale minima di acqua di 1 ha (fig. 3).
Il riciclo diretto di animali, attraverso i rispettivi prodotti ed il loro diretto consumo attraverso i
pesci, attualmente è proibito in molti paesi, ma la loro conversione in prede vive è tuttavia accettata
e potrebbe dare un contributo rilevante in acquacoltura.
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Produz cereali
Microalghe
All. Zootec.
Daphnie
Tratt. anaerob liquami
Macelli
Pesci
Allev. estensivo
MERCATO
Pesci allev. intensivo
Figura 3: Compartimentazione in un'aquacoltura integrata convenzionale, invece di immettere
direttamente i liquami nei bacini di allevamento (fig. 1) il liquame è processato con (digestione
anaerobica) e distribuito in piccoli bacini per la produzione di prede vive (daphnia, planc ton, larve
di insetti) destinate ai pesci allevati in gabbia (con sistema intensivo) che ricevono anche i liquami
provenineti dai macelli. Gli effluenti prodotti dalle gabbie sono riciclati nello stesso bacino usando
animali fitofagi o pesci detritivori (da Salomoni e coll., 1993; Sevrin-Reyssac e coll., 1995).
Figure 3: Compartmentation of the conventional integrated fish farming, instead of going directly
to fish pond (see Fig. 1) manure is processed (anaerobic digestion) and distributed in small ponds
for the production of live feeds (daphnia, plankton, fly larvae) given to fish in cages (intensive
system). Caged fish may also receive slaughter house wastes. Effluents released from the cage are
recycled in the pond using phytophagous or detritivorous fish (after Salomoni et al., 1993; SevrinReyssac et al., 1995).
Produzione di perle di acqua dolce e depurazione naturale delle acque di superficie.
Attraverso un sistema di policoltura, applicabile alla depurazione delle acque dolci ad uso
industriale, si ottiene un abbattimento della sostanza organica presente nei corpi idrici. Per questa
specifica soluzione i molluschi del genere Unio e Anodonta sono molto importanti grazie alla loro
etologia e alla loro diretta filtrazione del seston presente nell'acqua..
La riduzione del livello di sostanza organica, inoltre, riduce l'eventualità di problemi anossici e
incrementa la possibilità di vita dei pesci. Un sistema di policoltura aperto viene attualmente
sperimentato da Berni et al. (2003), a seguito dell'attiva zione di uno spin-off di ateneo a Pisa, per la
produzione di perle coltivate di acqua dolce.
ASPETTI SOCIO-ECONOMICI DELLA POLICOLTURA
Con l'eccezione delle Filippine, attraverso il sistema della policoltura di cui abbiamo parlato, è stato
raggiunto un significativo stadio produttivo sia commerciale che di campo, altri invece sono ancora
in fase sperimentale
Questi ultimi debbono essere considerati su piccola scala e non dal punto di vista commerciale, in
quanto i risultati economici non sono ancora stati valutati.
L'adozione di questi nuovi sistemi richiede ancora di ulteriore lavoro di ricerca, per adattare la
tecnica e la fattibilità economica, prima di essere ottimizzati e accettati pienamente, soprattutto nei
piani di sviluppo dei vari Paesi.
É infatti noto come il processo di volgarizzazione delle tecnologie deve essere adattato al contesto
socio-economico locale, al livello di capacità lavorativa e conoscenza tecnica, oltre al grado di
domesticazione delle diverse specie allevate.
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Un approccio che coinvolga lo sviluppo di tecnologie in modo sporadico, in alcuni allevamenti
isolati, non è appropriato per garantire un corretto sviluppo dei Paesi e delle zone rurali; invece è
opportuno svolgere un'azione di stimolo presso gli allevatori esistenti, per coinvolgerli nel processo
di sviluppo tecnologico e per integrare le nuove acquisizioni tecnologiche nei sistemi aziendali
(Harrison, 1994).
CONCLUSIONI
Un significativo sforzo di ricerca è svolto a livello mondiale, per stabilire nuovi sistemi di
policoltura. In molti casi l'innovazione consiste nell'introdurre, in allevamenti monospecifici, specie
addizionali, vegetali o animali. In altri casi l'obiettivo è quello di proteggere la specie principale
ovvero di rimuovere i reflui e ridurre l'impatto negativo dell'allevamento intensivo sull'ambiente. In
questi casi solamente il limiti di biomassa sostenibile sono rispettati, in altri casi invece (storioni e
caviale o bivalvi e perle), si ottengono anche prodotti con un valore addizionale importante, tale da
integrare il reddito d'impresa attraverso il trattamento dei reflui. Alcune policolture, invece, sono
molto promettenti in termini biomassa prodotta dal sistema. Questo è il caso dello sviluppo del
perifiton con l'introduzione dei substrati nei bacini e la co-coltura di gamberi associati ai pesci, per
rimuovere il detrito in sospensione
Queste nuove vie di riciclaggio dei reflui in compartimenti separati per produrre prede vive per
alimentare il pesce, apre nuove prospettive nel campo dell'acquacoltura integrata. Le performances
di alcuni sistemi acquacolturali sono incrementati dall'introduzione di specie addizionali. Alcuni
sistemi infine, sono ancora nella fase sperimentale e necessitano di ottimizzazioni e di valutazioni di
campo.
Ulteriori ricerche sono necessarie al fine di studiare sia gli aspetti biologici che quelli socio
economici.
RINGRAZIAMENTI. Drs J. Lazard, P. Morissens e L. Dabbadie che hanno raccolto i dati
nell'acquacoltura nelle Filippine.
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ALLEVAMENTO DI OMBRINA IN VALLICOLTURA INTEGRATA
Adolfo Corato 1 , Luca Fasolato 2 , Carla Elia 3 , Severino Segato 4
RIASSUNTO: L’ombrina (Umbrina cirrrosa L.) quale specie di nuova introduzione per
l’acquacoltura potrebbe consent ire la diversificazione dell’allevamento in vallicoltura integrata.
Allo scopo in due impianti di vallicoltura integrata sono state condotte due sperimentazioni per
valutare le performance e le caratteristiche qualitative in relazione alla sostituzione alimentare dei
lipidi con carboidrati e all’effetto della ploidia. Nella prova alimentare non si sono registrate
differenze produttive e qualitative tra le due tesi a confronto, evidenziando livelli di ritenzione
energetica e proteica tendenzialmente superiori a quelli di altre specie marine. Nella prova di
ploidia, i soggetti triploidi si sono caratterizzati per una significativa diversa morfologia e per una
più spiccata adipogenesi rispetto ai diploidi di controllo. Dalle due prove emerge che l’ombrina è
una specie inseribile nel ciclo produttivo della vallicoltura integrata, vista la sua capacità di
utilizzare ele vati tenori di carboidrati alimentari. In conclusione, si sono rilevate per l’ombrina
performance zootecniche simili alle altre specie marine e un prodotto finale caratterizzato da un
modesto tenore lipidico.
PAROLE CHIAVE: ombrina, vallicoltura integrata, lipidi alimentari, ploidia, qualità
SHI DRUM REARING IN INTEGRATED LAGOON AQUACULTURE
SUMMARY: Shi drum (Umbrina cirrrosa L.) as new species may allow a diversification of the
integrated lagoon aquaculture. In order to evaluate animal performance and quality traits two trials
were carried out in two integrated ponds in relation to the substitution of dietary lipids with
carbohydrates and ploidy effects. Regarding feeding trial it was detected any productive and
qualitative differences have been found between to two thesis in comparison. It was observed
energetic and proteic retention rather higher than others marine species. In the ploidy trial triploids
had a significant different morphology and a stronger adipogenesis in comparison with control
diploids. The two trials showed that shi drum is a species which is well adapted to integrated lagoon
aquaculture because it is able to use high dietary carbohydrates contents. Summarizing shi drum
evidenced animal performance similar to the ones of other marine species and a final product
characterized by a low lipids content.
KEY WORDS: Shi drum, integrated lagoons aquaculture, dietary lipids, ploidy, quality
1
Dottorando. Dipartimento di Scienze Zootecniche, Università degli Studi di Padova
2
Specializzando. Scuola di Spec. in “Allevamento, Igiene, Patologia delle Specie Acquatiche e Controllo dei Prodotti
Derivati”, Università degli Studi di Padova
3
Borsista, Dipartimento di Scienze Zootecniche, Università degli Studi di Padova
4
Ricercatore non confermato, Ibidem
109
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PREMESSA
Le valli venete sono un ambiente antropico tipico delle aree costiere dell’Alto Adriatico; esse
costituiscono tradizionalmente un’area di transizione e nel contempo d’unione tra le zone umide
naturali e le fertili pianure agricole. A prescindere delle potenzialità produttive, le valli
rappresentano un indubbio patrimonio sociale, paesaggistico, ricreativo e faunistico- venatorio che
deve essere tutelato, anche rilanciando le attività concernenti l’acquacoltura. In questi ambienti è
praticata da tempo immemorabile la vallicoltura, che consiste in una forma di allevamento estensivo
di varie specie acquatiche, caratterizzata da un ridotto impatto ambientale dato il limitato rilascio di
nutrienti e il contenimento del deficit energetico alimentare (Andrighetto e coll., 2001). La
vallicoltura con le sue ordinarie operazioni di manutenzione, quali la costituzione di fasce tampone
arborate, la pulizia dei canali e lo sfalcio degli argini, comporta un indiretto miglioramento
ambientale e la salvaguardia delle aree costiere.
Attualmente la vallicoltura tradizionale risente di una marcata crisi economica che ha comportato il
verificarsi di due fenomeni opposti: l’abbandono delle aree marginali e la conversione di quelle più
redditizie in sistemi di allevamento intensivo. Al fine di conciliare le esigenze di mercato e rendere
la valle competitiva rispetto ad altri sistemi del settore primario, da alcuni anni si sta sperimentando
la vallicoltura integrata, sistema che unisce tratti dei processi produttivi intensivo ed estensivo. In
genere si attua una suddivisione della valle in ambienti confinati intensivi e in ampie aree (bacini
vallivi) estensive, realizzando un riciclo dei reflui organici dal comparto intensivo a quello
estensivo (fertilizzazione organica) che permette di ottimizzare il flusso di energia e materia. Al
contrario la sostanza organica residua rimarrebbe inutilizzata, o nella peggiore delle situazioni,
renderebbe il sito esausto causa l’eutrofizzazione. Si deve inoltre operare una corretta gestione del
regime idrico e del patrimonio alieutico, confinando nelle aree intensive le specie ad elevate
esigenze trofiche o di difficile recupero a fine ciclo di ingrasso.
Anche la vallicoltura integrata è comunque afflitta dalla sfavorevole congiuntura di mercato
dell’acquacoltura di specie ittiche eurialine. Negli ultimi anni si è verificato un drastico calo delle
quotazioni dei pesci marini allevati quali spigola e orata, a causa della progressiva saturazione del
mercato. Per tentare di recuperare margini di redditività è stato proposto l’allevamento di nuove
specie (Papageorgiou, 2000) e la valorizzazione del prodotto finale mediante procedure di
certificazione basate sulla stesura di disciplinari di produzione (Andrighetto e coll., 2002). Tra le
specie di nuova introduzione, l’ombrina (Umbrina cirrosa, Sciaenidae) ha evidenziato ottimali
capacità adattative ad ambienti confinati e regimi alimentari artificiali sia allo stadio larvale che
giovanile (Furlan, 1992). In regime intensivo ha dato risultati paragonabili a quelli delle specie
principalmente allevate (Mylonas e coll., 2000), mentre l’ingrasso in va lle non sembra
economicamente praticabile in quanto non risponde alla chiamata autunnale nel lavoriero (Borgoni,
2001).
Studi recenti in ombrina hanno anche testato l'effetto di differenti fonti alimentari, per stabilire il
rapporto dei costituenti da somministrare a questa specie. In particolare, sono state condotte delle
sperimentazioni con diete a vari livelli alimentari di lipidi e carboidrati (Segato e coll., 2003a), dalle
quali emerge che l’ombrina si caratterizza per ottime performance con tassi di accrescimento
specifico (TAS) e indici di conversione alimentare (ICA) comparabili alle prestazioni realizzate
dalle specie marine comunemente allevate (Company e coll., 1999). Dagli studi condotti è emerso
che in ombrina i migliori risultati zootecnici si ottengono con diete a basso rapporto
lipidi/carboidrati (EE/EI), regime alimentare che favorisce un duplice vantaggio ecnomicoambientale. Il primo deriva dal minor costo della dieta, poiché si sostituisce il costoso olio di pesce
110
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con amidi di origine vegetale, e il secondo è dato da una maggiore efficienza di utilizzazione
energetica, con conseguente miglioramento della sostenibilità del sistema produttivo. Il
comportamento alimentare dell’ombrina riduce lo spreco di alimento in quanto tende ad assumerlo
sul fondo. Se la quantità di dieta somministrata è adeguata ai fabbisogni nutrizionali del pesce,
l’alimento viene assunto quasi completamente, con minori perdite rispetto alle specie che tendono
ad ingerire il pellet interessando un ampio volume della colonna d’acqua (ad es.: spigola).
Al fine di contenere l’impatto ambientale dell’allevamento, l’acquacoltura deve valutare anche la
possibilità d’inquinamento genetico delle popolazioni selvatiche dovuto ad accidentali fughe di
esemplari d’allevamento. L’impiego di pesci triploidi, cromosomicamente sterili, è in grado di
scongiurare questo rischio. Per quanto riguarda l’ombrina già da tempo sono disponibili metodiche
applicative per la produzione massiva di esemplari polipoidi (Barbaro e coll., 1998).
Lo studio ha inteso valutare le potenzialità produttive e qualitative dell’allevamento di ombrina
(Umbrina cirrosa, L.) in vallicoltura integrata sulla base di due sperimentazioni relative a una prova
alimentare (tenore lipidi alimentari) e una genetica (ploidia).
MATERIALE E METODI
PROVA ALIMENTARE - La prova si è svolta nell’estate del 2002 presso un impianto di vallicoltura
integrata, il centro ittico sperimentale Bonello (RO) di Veneto Agricoltura. A partire da una
popolazione di circa 2000 soggetti, le ombrine sono state divise in 4 gruppi (225 pesci, peso medio
iniziale = 60.1±6.7 g) e allevate per quattro mesi (3 giugno-7 ottobre) in 4 vasche emisferiche di 4.5
m3 poste in serra e alimentate con un flusso di 1.1 l/s di acqua di valle (in media: pH=8.0 e
salinità=25 ppt) arricchita di O2 liquido (valori medi superiori a 6 mg/l). L’acqua reflua defluiva in
un bacino nel quale veniva allevato del novellame di cefali (Mugil spp.). La prova ha posto a
confronto due diete (tab. 1) isoproteiche e a diverso livello di sostituzione dei lipidi (EE, estratto
etereo) con carboidrati (EI, estrattivi inazotati) definite basso (EE/EI = 0.7) e controllo (EE/EI =
1.0). Le ombrine sono state alimentate manualmente quattro volte al giorno a sazietà, evitando
somministrazioni superiori al 2.2% del peso vivo. Campioni di diete e di pesci interi (n=12) a inizio
e fine prova sono stati analizzati per determinarne la composizione centesimale secondo AOAC
(1995): umidità, PG (N-Kjeldhal· 6.25), EE (Soxhlet, etere dietilico) e ceneri. La fibra grezza è stata
determinata mediante metodologia ANKOM, gli estrattivi inazotati sono stati calcolati per
differenza e il valore energetico è stato desunto dall’applicazione di coefficienti energetici. La
registrazione dei consumi e la valutazione chimica di diete e animali ha permesso di valutare le
performance zootecniche relative all’accrescimento e all’utilizzazione energetica della dieta. A
inizio e fine prova sono stati prelevati e sacrificati dei pesci (n=30) sui quali sono state eseguite
biometrie lineari e ponderali per calcolare fattore di condizione, resa al macello, indice
epatosomatico, indice viscerosomatico e indice del grasso celomatico (Segato e coll., 2003a);
inoltre è stato prelevato il filetto (muscolo epiassiale laterale bianco) per sottoporlo ad analisi della
composizione centesimale. L’effetto del rapporto EE/EI è stato valutato mediante ANOVA,
adottando un disegno sperimentale monofattoriale (effetto dieta, due ripetizioni per tesi),
utilizzando la PROC GLM di SAS (1999).
PROVA PLOIDIA - Ombrine di due anni di età e del peso medio di un kg, provenienti da un
impianto di vallicoltura integrata (laguna di Orbetello), sono state oggetto di una valutazione
qualitativa in relazione al livello di ploidia (triploidi, 966±65 g vs diplo idi, 1034±57 g). I pesci sono
stati mantenuti nelle medesime condizioni ambientali (acqua geotermica alla temperatura costante
111
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di 19° C) e alimentari; in particolare, nella fase finale di grasso è stata somministrata una dieta
completa estrusa (PG=45.7, EE=17.4%). Sulle ombrine (n=24) sono state registrate le biometrie ed
eseguite analisi chimiche secondo le modalità già riportate. L’effetto ploidia è stato valutato
mediante ANOVA (PROC GLM di SAS), considerando il peso dei pesci come variabile covariata e
l’interazione ploidia per peso solo se significativa.
Tabella 1: Formulazione (g/kg dieta) e composizione centesimale (% s.s.) delle diete
Table 1: Formulation (g/kg diet) and proximate composition of the diets (% d.m.)
Lipidi alimentari
Basso
Controllo
Dietray lipids
Low
Control
EE/EI
0,7
1,0
CF/NFE
Farina di pesce
415
475
Fish meal
Olio di pesce
145
165
Fish oil
Farina di soia
220
160
Soybean meal
Derivati frumento
200
180
Wheat products
Int, vit.-minerale
20
20
Vit.-mineral premix
Proteina grezza
48,8
48,9
Crude protein
Estratto etereo
17,2
20,8
Ether extract
Estrattivi inazotati
24,7
18,8
NFE
Ceneri
8,9
11,2
Ash
Fibra grezza
0,4
0,3
Crude fibre
RISULTATI E DISCUSSIONE
PROVA ALIMENTARE – L’impiego di diete a diverso apporto lipidico non ha influenzato
l’accrescimento delle ombrine sia in termini relativi (TAS) che assoluti (tab. 2). La dieta offerta
durante la sperimentazione è risultata invece significativamente superiore per la tesi "basso" (440 vs
429 g/pesce; P<0,1). Tale fenome no potrebbe essere imputato alla diversa mortalità riscontrata tra
le due tesi (6,2 vs 8,7 %; P<0,1), nonché al maggior livello lipidico della dieta controllo che
probabilmente ha comportato il raggiungimento della sazietà a dosi inferiori. La diversa quantità di
dieta offerta ha influenzato l’efficienza alimentare in termini di indice di conversione alimentare
(ICA), che risulta tendenzialmente superiore nei pesci alimentati con la dieta a maggior inclusione
di carboidrati (1,42 vs 1,36; P<0,1), ma non per quanto riguarda la ritenzione energetica (RE) e
proteica (RP). I risultati zootecnici sono in definitiva sostanzialmente invariati tra le tesi a
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confronto, suffragando l’ipotesi che l’ombrina sia un pesce capace di utilizzare meglio di altre
specie eurialine elevate inclusioni di carboidrati nella dieta (Segato e coll., 2003a).
Tabella 2: Effetto del tenore lipidico su performance ed efficienza di utilizzazione alimentare
Table 2: Effect of fat content on performance and feed efficiency utilization
Lipidi alimentari
Basso
Controllo
P
SEM
Dietary lipids
Low
Control
EE/EI
0,7
1,0
CF/NFE
Peso iniziale (g)
60,0
60,0
ns
0,8
Initial body weight (g)
Peso finale (g)
371
376
ns
5
Final body weight (g)
Accrescimento (g/pesce)
311
316
ns
5
Weight gain (g/fish)
Tasso accrescimento specifico (%/d)
1,46
1,48
ns
0,01
Specific growth rate (%/d)
Alimento offerto (g/pesce)
440
429
†
3
Offered feed (g/fish)
Indice di conversione alimentare
1,42
1,36
†
0,01
Food conversion ratio
Ritenzione energetica lorda (%)
30,9
33,1
ns
0,9
Gross energy retention (%)
Ritenzione proteina grezza (%)
28,9
30,2
ns
0,4
Crude protein retention (%)
Mortalità (%)
8,7
6,2
†
0,7
Mortality (%)
† P<0,1
Sul significato degli indici si veda Segato e coll., 2003a
Le biometrie lineari e pond erali e gli indici morfometrici derivati sono risultati simili tra le due tesi
a confronto (tab. 3). Resa al macello e indice del grasso celomatico presentano il normale
andamento in funzione dell’età degli animali. La composizione centesimale dei pesci interi e del
filetto non è stata influenzata dal tenore lipidico alimentare, ad eccezione dell’estratto etereo che è
risultato significativamente superiore nei pesci alimentati con la dieta controllo (1.5 vs 1.9%;
P<0.1). Anche in ombrina, come in altre specie marine, all'aumentare del tenore in lipidi della dieta,
si osserva un tendenziale parallelo incremento della deposizione di grasso corporeo. Questa
tendenza all'adipogenesi si è rilevata inferiore a quella registrata in branzino (Lanari e coll., 1999;
Segato e coll., 2002a) e orata (Vergara e coll.,1999) a parità di taglia (350-400 g) e di tenore
lipidico alimentare (18-22%).
Da varie sperimentazioni (Andrighetto e coll., 2003) emerge che in ombrina la ritenzione energetica
e proteica si attesta su valori medi del 30%, in linea o addirittura superiori a quanto rilevato su altre
specie eurialine (Lanari e coll., 1999; Segato e coll., 2002a). Il conseguimento di simili livelli di
efficienza di utilizzazione dei nutrienti, seppur ottenuto in ambito sperimentale, indica che
l’allevamento dell’ombrina può limitare l’impatto ambientale in valle.questo perché a parità di
accrescimento si ha una riduzione del rilascio di cataboliti azotati e conseguente minor
113
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eutrofizzazione. Quindi, l’ombrina si rivela una specie in grado di utilizzare i carboidrati come fonte
energetica alternativa ai lipidi nei processi anabolici di crescita (Segato e coll., 2003a). Sembra
infatti non tollerare rilevanti inclusioni lipidiche alimentari, riscontro sperimentale confermato da
Craig e coll. (1999) che in Sciaenopus ocellatus (un altro Sciaenidae) hanno registrato un
decremento nella crescita in soggetti alimentati con diete contnenti livelli di EE superiori al 14%
(s.s.).
Tabella 3: Rilievi morfometrici e composizione centesimale del pesce intero e del filetto
Table 3: Morphometric traits and whole body and fillet proximate composition
Periodo
3 giugno
7 ottobre
Period
June, 3
October, 7
EE/EI
0,7
1,0
P
CF/NFE
Lunghezza standard (cm)
14,3±0,3
25,9
26,0
ns
Standard length (cm)
Fattore condizione (102 g⋅cm-3 )
1,41±0,16
2,15
2,16
ns
Condiction factor (102 g⋅cm -3 )
Resa in eviscerato (%)
95,6±0,4
92,5
92,4
ns
Dressing percentage (%)
Indice grasso celomatico (%)
3,97
4,01
ns
Celomatic fat index (%)
Indice epatosomatico (%)
Hepatosomatic index (%)
2,14±0,29
2,21
2,14
ns
PG del pesce intero (% t.q.)
Whole body CP (% w.w.)
19,0±0,2
18,5
18,6
ns
EE del pesce intero (%)
Whole body EE (% w.w.)
5,0±0,3
10,5
11,2
ns
PG del filetto(% t.q.)
20,9
20,3
ns
Fillet CP (%)
EE del filetto (% t.q.)
1,5
1,9
†
Fillet EE (% w.w.)
† P<0,1
ESM
0,2
0,03
0,1
0,11
0,05
0,1
0,4
0,3
0,1
PROVA PLOIDIA – Le ombrine hanno evidenziato un tendenziale diverso grado di accrescimento,
pertanto si è reso necessario introdurre nel modello sperimentale la variabile covariata peso, al fine
di valutare l’effetto ploidia (tab. 4) sulle caratteristiche qualitative (assenza di interazione
significativa tra ploida e peso).
Nei pesci triploidi si è registrato un fattore di condizione significativamente inferiore, confermando
l’ipotesi che tali soggetti si presentino morfologicamente meno corpulenti. Il tenore in lipidi
corporei (11,8 vs 8,8%; P<0,01) e del filetto (1,5 vs 1,0%; P<0,01) è risultato significativamente
maggior nei triploidi soprattutto in riferimento a una maggior incidenza di grasso celomatico. Come
ampiamente riportato in letteratura (Benfey, 1999), i triploidi utilizzano maggiori quote di energia
netta nei processi di lipogenesi, anche in termini di grasso intramuscolare (Segato e coll., 2003b),
annullando di fatto il vantaggio di una limitata ripartizione energetica a fini riproduttivi. Sul filetto
(muscolo laterale dorsale) tuttavia sono stati registrati tenori lipidici decisamente inferiori ad altre
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specie (2n) marine allevate e simili a quelli rilevati in ombrine di taglia inferiore (Segato e coll.,
2002b), evidenziando come l’età spesso non influisca su tale parametro di qualità.
Tabella 4: Rilievi morfometrici e composizione centesimale del corpo intero e del filetto
Table 4: Morphometric traits and whole body and fillet proximate composition
Ploidia
Triploidi
Diploidi
P
ESM
Ploidy
Triploids
Diploids
Lunghezza Standard (cm)
38,6
37,5
ns
0,6
Standard Length (cm)
Fattore condizione (102 g⋅cm-3 )
1,74
1,91
*
0,1
Condiction factor (102 g⋅cm -3 )
Resa in eviscerato (%)
95,0
95,4
ns
0,4
Dressing percentage (%)
Indice grasso celomatico (%)
2,28
1,83
*
0,09
Celomatic fat index (%)
Proteina grezza corpo intero (%)
18,7
19,7
*
0,1
Whole body crude protein (%)
Estratto etereo corpo intero (%)
11,8
8,8
*
0,3
Whole body ether extract (%)
Proteina grezza filetto (%)
21,2
21,6
ns
0,2
Fillet crude protein (%)
Estratto etereo filetto (%)
1,5
1,0
*
0,1
Fillet ether extract (%)
*: P<0,05
CONCLUSIONI
Alla luce di quanto riportato, si può affermare che l’ombrina è una specie eurialina adatta alla
vallicoltura integrata. Varie prove sperimentali indicano che tale specie è in grado di utilizzare in
modo efficiente diete contenenti elevate inclusioni di concentrati amilacei o di ingredienti di origine
vegetale senza pregiudicare le performance produttive e qualitative. Tale strategia alimentare
consente di ridurre i costi e di contenere le perdite di cataboliti azotati con evidenti vantaggi
economici e ambientali. Bisogna inoltre evidenziare come tale scienide possa raggiungere taglie
rilevanti manifestando una modesta adipognesi, il che costituisce una ulteriore prerogativa per il suo
utilizzo in vallicoltura. L’ottenimento di pesci di peso superiore al kg non comprometterebbe
l’efficienza di conversione alimentare e il prodotto finale potrebbe presentare carni a modesto
apporto lipidico-calorico incontrando le attuali preferenze del consumatore. Pesci di questa mole
possono spuntare prezzi di mercato superiori ed essere più facilmente trasformabili in filetti di
elevato valore aggiunto. Un simile processo produttivo potrebbe essere valorizzato mediante la
codifica di opportuni disciplinari di produzione. In definitiva, l’allevamento dell’ombrina può
essere uno strumento di rilancio della vallicoltura integrata, purché si affrontino le difficoltà legate
al reperimento degli avannotti e alla scarsa conoscenza che il consumatore ha di tale specie.
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EFFETTO DELLA DENSITA’ SU TINCHE ALLEVATE IN IMPIANTO A
RICIRCOLO
Massimo Mecatti1 , Manuela Gualtieri2
RIASSUNTO: Sono state allevate in impianto a ricircolo parziale 1400 tinche di circa 4 mesi di età.
I soggetti (peso medio 1,07±0,09 g) sono stati distribuiti in vasche da 200 litri secondo 3 diverse
numerosità: 100 (0,55 kg/m3 ), 200 (1,1 kg/m3 ), 400 (2,2 kg/m3 ). La temperatura dell’acqua è stata
mantenuta a 18-20°C. Gli animali sono stati alimentati con mangime sbriciolato del commercio per
ciprinidi. Per ogni vasca è stata periodicamente rilevata la biomassa totale e corretto il volume
dell’acqua per mantenere inalterata la densità. Per verificare eventuali effetti sulla forma, su un
campione iniziale di 110 animali e successivamente a 6 e 8 mesi di età sul 10% delle tinche presenti
in ogni vasca, sono state effettuate misurazioni corporee per il calcolo di 5 indici somatici. I risultati
hanno mostrato, accanto ad una mortalità pressoché nulla, la possibilità di allevare la tinca nel
periodo invernale permettendo un ulteriore incremento corporeo prima della semina primaverile. La
densità non ha influito né sul peso finale né sul tasso di accrescimento specifico. Simile
comportamento ha riguardato le modificazioni somatiche, infatti solo un indice somatico è risultato
diverso, ad 8 mesi di età, per la densità più elevata.
PAROLE CHIAVE: tinca, densità, morfologia
DENSITY EFFECT ON TENCH REARED IN WATER RECIRCULATION PLANT
SUMMARY: 1400 tench, aged approximately four months, were reared in a partial water
recirculation plant. Subjects (1.07±0.09 g b.w.) were stocked in tanks (200 l) at three densities: 0.55
kg/m3 (no.100), 1.1 kg/m3 (no. 200), 2.2 kg/m3 (no. 400). The temperature of the water remained
constant at 18-20°C. Fish were fed with a complete feed for cyprinids. From the beginning
(October) to the end (April) of the trial the total weight per tank was determined and water volume
was corrected to keep the stocking density unchanged. A sample of 110 fish at the start of
experiment and subsequently the 10% of the tench per tank were subjected to body measurements
in order to compute 5 body indices. Together with a negligible mortality, results showed the
possibility of raising tench in winter, with the obtaining of further body weight increments before
spring. Specific growth rate at the greatest density was not found to be different from the other two.
Morphological modifications gave similar results and density has changed only one index in eightmonth-old tench.
KEY WORDS: tench, stocking density, morphology
1
Dottore di Ricerca. Dipartimento di Scienze zootecniche dell’Università degli Studi di Firenze.
2
Professore associato. Ibidem.
Lavoro eseguito con contributo Ateneo (ex MURST 60%) e Comitato Regionale Toscano F.I.P.S.A.S.
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PREMESSA
La tinca, tra le principali specie ittiche delle acque interne della Toscana, è considerata in
rarefazione in gran parte della regione (Loro, 2000; Nocita, 2002; Gualtieri e Mecatti, 2003). La
tradizionale attività di pesca per il consumo alimentare, in passato tipica dei laghi e delle aree
palustri della regione, risulta attualmente di scarso rilievo. La principale richiesta di tinca sul
mercato proviene dal settore della pesca dilettantistica che l’apprezza da sempre per le difficoltà
nella cattura, un tempo anche per la gastronomia, e che per primo ha avvertito il declino degli stock.
Gli interventi di reintroduzione o di ripopolamento presuppongono l’acquisizione di riproduttori
idonei. Tenuto conto delle tradizionali pratiche d’immissione di soggetti per la pesca dilettantistica
in acque pubbliche, sono in atto monitoraggi sulla distribuzione della specie nelle acque toscane,
anche alla ricerca di popolazioni locali. Potrebbe perciò risultare necessaria la stabulazione di
quantitativi limitati di soggetti riproduttori o di novellame da essi prodotto, ritenuti di particolare
valore genetico o morfologico. In particolare il novellame dell’anno è soggetto di norma ad una
mortalità di entità variabile quando viene allevato all’aperto nel periodo invernale, per effetto delle
basse temperature.
Wolnicki e coll. (1998) su tinche di 30 giorni allevate fino a 5 mesi di età con mangimi starter per
salmonidi e ciprinidi hanno osservato uno scarso accrescimento (peso finale 0,55-0,65 g) ed una
riduzione della mortalità con alcune diete. Risultano carenti le indagini sull’allevamento di questa
specie in sistemi diversi dalla stagnicoltura (Rennert e coll., 2003), mentre l’allevamento in gabbie
non ha prodotto risultati soddisfacenti (Rizzoli e coll., 1988).
Nella prova sperimentale si è cercato di verificare in primo luogo l’adattabilità delle tinche
all’allevamento in un sistema a ricircolo parziale dell’acqua, dopo una prima fase ad alimentazione
naturale in vasca in terra, in un periodo dell’anno normalmente sfavorevole alla specie. Notato che
la richiesta maggiore riguarda il settore della pesca dilettantistica, è stato inoltre avviato lo studio
degli effetti della dens ità di allevamento sulla forma, per verificare eventualmente se il risultato
produttivo si avvicina o meno alle attese degli utenti finali.
MATERIALI E METODI
Il novellame di tinca è stato acquisito presso il Centro Ittiogenico del Trasimeno (S. Arcangelo PG), prelevando da una vasca in terra di 2600 m2 un campione di 1600 individui di circa 4 mesi di
età. Nelle settimane precedenti il campionamento sono state distribuite piccole quantità dello stesso
mangime utilizzato nella prova in modo da favorire l’adattamento all’alimentazione artificiale. I
soggetti sono stati trasferiti presso gli allevamenti sperimentali del Dipartimento di Scienze
zootecniche dell’Università di Firenze dove sono stati mantenuti in 3 vasche da 400 l. Dopo 2
settimane di adattamento, su 110 tinche sono stati determinati i seguenti rilievi: peso (g), lunghezza
totale (cm), lunghezza del corpo muscolare (cm), altezza massima (cm), distanza naso-piano di
massima altezza (cm). Dei rimanenti soggetti, 1400 sono stati pesati (peso medio 1,07±0,09 g) e
distribuiti casualmente in 6 vasche di 2 impianti a ricircolo parziale dell’acqua, ognuno a servizio di
3 vasche, secondo 3 diverse numerosità (in doppio): 100 (0,55 kg/m3 ), 200 (1,1 kg/m3 ), 400 (2,2
kg/m3 ). Il sistema a ricircolo è stato allestito in due unità uguali ognuna dotata di: filtro biologico di
0,4 m3 (superficie biofiltrante di 96 m2 ), filtro meccanico a monte (materassino in poliuretano
espanso) ed a valle (filtri a cartuccia) del biofiltro, debatterizzatore a raggi U.V., 3 vasche da 0,5 m3
a fondo quadrato e scarico centrale. La temperatura dell’acqua è stata mantenuta a 18-20°C.
L’acqua è stata periodicamente monitorata per i seguenti parametri: pH, ammoniaca totale, nitrati e
nitrati. Gli animali sono stati alimentati con mangime sbriciolato del commercio per ciprinidi
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(proteina grezza 25%, lipidi 2,5%, fibra grezza 2,6%, ceneri 9%). L’alimento è stato distribuito in
quantità pari al 2,5 % del peso vivo presente per vasca, distribuito in due somministrazioni, al
mattino (ore 07.00) ed alla sera (ore 17.00): ciò in ragione del fatto che le tinche, nella fase di
adattamento, avevano praticamente mostrato di non alimentarsi durante il giorno o in presenza di
eccessiva luminosità.
Dall’inizio della prova (1/10/01) sono state eseguite, ad intervalli di circa 3 settimane, 10
determinazioni del peso totale della biomassa presente in ogni vasca e corretto il volume dell’acqua
iniziale (circa 200 litri) in modo da mantenere inalterata la densità. E’ stato inoltre calcolato il Tasso
di accrescimento specifico (TAS= 100 x [(Ln Peso finale- Ln Peso iniziale)/giorni di prova]).
Per verificare effetti sulla forma, sul 10% delle tinche presenti in ogni vasca, a 6 ed 8 mesi di età
sono state rilevate, previo trattamento anestetico (2- fenossietano lo), le stesse misurazioni corporee
del campione iniziale. Sono stati calcolati i seguenti indici somatici: fattore di condizione (peso x
100/lunghezza totale3 ), fattore B secondo Jones e coll. (1999) [pesox1000/(lunghezza totale 2 x
altezza massima)], 1° profilo relativo (altezza massima/lunghezza totale), 2° profilo relativo
(distanza naso-piano di massima altezza/lunghezza totale), indice di agilità (distanza piano caudalepiano di massima altezza/altezza massima). I dati grezzi sono stati analizzati mediante ANOVA
(densità, prelievo). Sono state inoltre studiate le regressioni del peso sulla lunghezza totale.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Le caratteristiche morfometriche medie (±d.s.) delle tinche (n=110) all’inizio della prova sono
risultate le seguenti: peso 1,17±0,31 g, lunghezza totale 4,52±0,40 cm, lunghezza corpo muscolare
4,42±0,38 cm, altezza massima 0,90±0,10 cm, lunghezza naso-piano di massima altezza 1,54±0,14
cm, fattore di condizione 1,25±0,15, fattore B 62,96±5,99, 1° profilo relativo 0,20±0,01, 2° profilo
relativo 0,34±0,02, indice di agilità 3,32±0,24. I pesi iniziali delle tinche (circa 4 mesi di età) sono
risultati superiori a quelli osservati da Wolnicki e coll. (1998) a 5 mesi di età, a conferma dei
miglioramenti da realizzare nella tecnica di allevamento.
La mortalità osservata nel corso dell’intera prova sperimentale è risultata complessivamente
inferiore all’1%. L’uso dell’anestetico è risultato vantaggioso, consentendo la rilevazione corretta
delle misure corporee dei soggetti senza danne ggiarli, evitandone così il sacrificio.
Tabella 1: Valori medi (±d.s.) del peso totale e del tasso di accrescimento specifico delle tinche
allevate a 3 diverse densità
Table 1: Means (±S.D.) of body weight and specific growth rate of tench stocked at 3 different
densities
Densità
0,55 kg/m3
1,1 kg/m3
2,2 kg/m3
Dsr
Stocking density
RSD
Peso iniziale
(g)
1,13 (0,02)
1,04 (0,05)
1,07 (0,02)
0,03
Initial weight
(g)
Peso finale
(g)
2,19 (0,23)
2,00 (0,05)
1,85 (0,01)
0,13
Final weight
(g)
TAS
0,345 (0,06)
0,345 (0,04)
0,285 (0,01)
0,04
SGR
Il peso medio delle tinche indica un moderato accrescimento, in grado di consentire quasi il
raddoppio del peso in 6 mesi (Tabella 1) senza evidenziare differenze nel peso finale tra le densità.
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Dall’inizio di marzo l’accrescimento ha mostrato un aumento più evidente, probabilmente in
parallelo all’aumento del fotoperiodo. Tali andamenti, descritti per prelievo nella figura 1, non sono
tuttavia risultati statisticamente diversi tra le 3 densità.
La regressione del peso sulla lunghezza totale (n=390) ha seguito un andamento quadratico
crescente con l’equazione: Peso = 2,235 – 1,056*Lunghezza totale + 0,178*Lunghezza totale2
(R2 =0,85; dsr= 0,12; P<0,0001).
Figura 1: Andamento dei pesi medi rilevati alle tre densità nel periodo sperimentale
Figure 1: Mean weight trend at the three stocking densities
Peso (g) Weight
2,5
2,0
1,5
1,0
0,55 kg/m3
1,1 kg/m3
1-apr
1-mar
1-feb
1-gen
1-dic
1-nov
1-ott
0,5
2,2 kg/m3
Dal confronto degli indici morfometrici (Tabella 2) delle tinche ad inizio prova rispetto a quelle
campionate in dicembre e febbraio, indipendentemente dalla densità, sono emerse sempre
differenze significative escluso per il 1° profilo relativo, invariato. La densità non ha avuto effetti
significativi nel campionamento di dicembre, mentre in quello di febbraio solo il fattore B è
risultato diverso, con valori minori alla densità di 2,2 kg/m3 (P<0,01; dsr=3,45).
Al contrario, i pesci dei due prelievi a 6 ed 8 mesi di età hanno presentato un comportamento
diverso nello sviluppo della forma con il variare della densità. I soggetti allevati alla densità
maggiore sono risultati diversi per il fattore di condizione (1,15 vs 1,10; P<0,01; dsr=0,12) e per il
fattore B (57,03 vs 54,32; P<0,001; dsr=4,78) a vantaggio di un allungamento corporeo mentre
quelli a 0,55 e 1,1 kg/m3 hanno mantenuto nel tempo gli stessi rapporti dimensionali. I rapporti tra
altezza massima e lunghezza totale nell’intervallo di taglia studiato non sembrano risentire di
variazioni dovute all’accrescimento ed alla densità, non essendo mai risultate differenze
significative nel 1° profilo relativo. Il 2° profilo relativo, diverso tra i prelievi a 6 ed 8 mesi di età
sia alle due densità maggiori (P<0,001) sia a quella minore (P<0,01; dsr=0,03), ha indicato con
valori decrescenti un aumento nello sviluppo nel senso longitudinale, come già osservato nel fattore
di condizione ed nel fattore B. L’indice di agilità ha segnalato uno spostamento dello sviluppo in
altezza del pesce leggermente in direzione caudo-craniale, non evidenziabile dal 2° profilo relativo,
solo per la densità di 2,2 kg/m3 (P<0,001; dsr= 0,20). Tale spostamento è sembrato attenuarsi con la
riduzione della densità, con perdita delle relative differenze (1,1kg/m3 : P=0,054; 0,55 kg/m3 :
P=0,118).
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Tabella 2: Valori medi (±d.s.) delle misure corporee degli indici morfometrici
Table 2: Means (±S.D.) of body measurements and morphometrical indices
Densità
0,55 kg/m3
1,1 kg/m3
Stocking density
Data Date
1/10
10/12 4/02
10/12 4/02
Peso (g)
1,17
1,49
1,45
1,36
1,44
Weight
(0,31) (0,33) (0,36) (0,31) (0,28)
Lunghezza totale (cm)
4,52
5,04
5,07
4,87
5,01
Total length
(0,40) (0,45) (0,40) (0,41) (0,35)
Lunghezza corpo muscolare (cm) 4,42
4,95
4,93
4,75
4,87
Standard length
(0,38) (0,44) (0,38) (0,41) (0,36)
Altezza massima (cm)
0,90
1,00
1,00
0,98
1,01
Maximum height
(0,10) (0,11) (0,10) (0,09) (0,08)
Dist. naso- massima altezza (cm)
1,54
1,92
1,82
1,84
1,75
Nose-max. height distance
(0,10) (0,18) (0,21) (0,17) (0,13)
Fattore di condizione
1,25
1,16
1,09
1,17
1,14
Condition factor
(0,15) (0,13) (0,13) (0,14) (0,12)
Fattore B
62,96 58,26 55,38 58,39 56,44
B factor
(5,99) (5,05) (3,14) (5,11) (3,70)
1° profilo relativo
0,199 0,198 0,197 0,201 0,202
1° relative profile
(0,01) (0,01) (0,01) (0,01) (0,01)
2° profilo relativo
0,341 0,383 0,358 0,377 0,350
2° relative profile
(0,02) (0,03) (0,02) (0,02) (0,02)
Indice di agilità
3,32
3,13
3,26
3,12
3,23
Agility index
(0,24) (0,33) (0,17) (0,26) (0,26)
2,2 kg/m3
10/12
1,37
(0,31)
4,91
(0,39)
4,77
(0,39)
0,99
(0,09)
1,82
(0,15)
1,15
(0,14)
57,03
(5,85)
0,201
(0,01)
0,372
(0,02)
3,13
(0,20)
4/02
1,39
(0,27)
5,01
(0,34)
4,86
(0,32)
1,01
(0,08)
1,74
(0,14)
1,10
(0,10)
54,32
(3,40)
0,202
(0,01)
0,347
(0,02)
3,24
(0,20)
CONCLUSIONI
Nella presente prova sperimentale è stato seguito l’allevamento di tinche in vasche collegate ad un
sistema a ricircolo dell’acqua. I soggetti allevati a 3 densità diverse, hanno tutti presentato un
comportamento simile nell’accrescimento, raggiungendo pesi finali sovrapponibili. Le
modificazioni nella forma non sono risultate evidenti tra le densità in questa fase, ma potrebbero
esplicarsi su un periodo di allevamento più prolungato. In effetti alcuni indici hanno presentato
differenze nello sviluppo somatico nel senso di una minore corpulenza ed un maggiore
allungamento col progredire del tempo e, limitatamente al fattore B, per densità crescenti.
L’allevamento a temperature non così elevate per questa specie termofila e l’uso di mangime per
ciprinidi non sembra aver depresso l’accrescimento, garantendo altresì una bassa mortalità. Il
sistema è apparso inoltre adeguato al mantenimento di soggetti ritenuti di pregio per il
ripopolamento. La densità maggiore adottata nella prova, pur non elevata, sembra rappresentare
nell’intervallo di tempo osservato un carico limite oltre il quale possono emergere con maggiore
risalto differenze morfologiche. Resta infine da verificare se tali effetti possono influire sul
successivo sviluppo degli animali e la loro sopravvivenza, una volta posti in primavera in ambiente
naturale.
RINGRAZIAMENTO: Gli autori ringraziano per la collaborazione il Dott. Mauro Natali,
responsabile del Centro Ittiogenico del Trasimeno (S. Arcangelo – PG).
123
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QUALITA’ NUTRIZIONALI DI DUE SPECIE DI ACQUA DOLCE: TINCA E
COREGONE
Laura Gasco 1 , Francesco Gai2 , Carola Lussiana 3 , Franco Daprà 4 , Kajun Guo 5 , Giovanni Battista
Palmegiano 6 , Ivo Zoccarato 7
RIASSUNTO: L’allevamento ittico costituisce un “settore” importante in quanto il pesce è per sua
natura un prodotto di grande valore dietetico: è poco calorico, poco grasso e costituisce una buona
fonte di proteine aventi un elevato valore biologico. L'alto contenuto in acidi grassi monoinsaturi
(AGMI) e poliinsaturi (AGPI), colloca il pesce in una posizione primaria tra gli alimenti di alto
valore biologico che hanno un ruolo molto importante per la salute umana in relazione ai principali
fattori di rischio legati all'alimentazione. Due specie di acqua dolce, la tinca (Tinca tinca) e il
coregone (Coregonus lavaretus), oggetto di un nuovo interesse legato alla rivalorizzazione di alcuni
territori, sono state esaminate dal punto di vista della qualità nutrizionale. Questo lavoro, si è
focalizzato in particolar modo sull’analisi del profilo lipidico della parte edibile, per l’effetto
positivo sulla riduzione dell’incidenza di alcune malattie cardiovascolari.
PAROLE CHIAVE: tinca, coregone, acidi grassi.
NUTRITIONAL QUALITIES OF TWO FRESH WATER SPECIES: TENCH AND POWAN
SUMMARY: Fish farming is a very important sector because fish is a health- food with good
nutritional values: it is low energetic, with low fat content and it represents a good source of protein
having a high biological value. The high content in monounsaturated fatty acids (MUFA) and in
polyunsaturated fatty acids (PUFA) gives to fish a major part in human health. Two fresh water
species, tench (Tinca tinca) and powan (Coregonus lavaretus), were examined from the point of
view of their nutritional qualities. This research focused on the fillet fatty acid profile, particularly
important in human diet for the reduction of cardiovascular diseases.
KEY WORDS: tench, powan, fatty acids
PREMESSA
I pesci di acqua dolce sono un’importante risorsa biologica negli ecosistemi delle acque interne e
possono costituire anche un notevole supporto economico alle popolazioni locali. In passato vi era
1
Ricercatore. Dipartimento di Scienze Zootecniche. Università di Torino
2
Dottorando di ricerca. CNR/ISPA, Grugliasco.
3
Tecnico laureato. Dipartimento di Scienze Zootecniche. Università di Torino
4
Dottorando di ricerca. Dipartimento di Produzioni Animali. Università di Torino
5
Dottorando di ricerca. Dipartimento di Scienze Zootecniche. Università di Torino
6
Primo Ricercatore. CNR/ISPA, Grugliasco.
7
Professore straordinario. Dipartimento di Scienze Zootecniche. Università di Torino
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stato, a causa dell’intensivizzazione delle produzioni zootecniche, un abbandono dello sfruttamento
delle acque interne, fatta eccezione per la troticoltura. Attualmente, invece, si sta assistendo ad un
aumento della domanda di prodotti tipici ottenuti secondo sistemi tradizionali in grado di
valorizzare il territorio (Gasco e coll., 2001; Orban e coll., 2002).
Un ulteriore aspetto di grande importanza è quello legato alla nutrizione umana. Nel corso del
ventesimo secolo, parallelamente al miglioramento del tenore di vita nei paesi industrializzati,
l’incidenza delle maggiori cause di morte è cambiata. L’inizio secolo vedeva le infezioni al primo
posto, seguite dal cancro e dalle malattie cardiovascolari. La graduatoria attuale vede, invece, le
malattie cardiovascolari al primo posto, seguite dai tumori e quindi dalle infezioni. I progressi
compiuti dalle ricerche scientifiche hanno dimostrato gli stretti rapporti esistenti tra le malattie
ischemiche e le cattive abitudini alimentari. Il profilo lipidico della dieta, al fine di prevenire le
malattie cardiovascolari e altre patologie croniche e degenerative, può essere così riassunto: basso
contenuto in acidi grassi saturi, elevato contenuto in acidi monoinsaturi e poliinsaturi (Strata, 2000;
US Department, l988).
Gli acidi linoleico (C18:2) e linolenico (C18:3) non possono essere sintetizzati dall’uomo. La loro
presenza nell’alimentazione è quindi indispensabile. Questi due acidi grassi costituiscono gli acidi
grassi essenziali per l’uomo. E’ importante evitare degli eccessi di uno o l’altro acido poiché
entrano in competizione, nelle cascate metaboliche, a livello degli enzimi comuni che intervengono
nella trasformazione di tali acidi in acidi grassi a catena più lunga. Due altri AGPI della famiglia n3 presentano un carattere potenzialmente indispensabile: si tratta dell’EPA e del DHA. Questi due
AG a catena lunga ed insatura possono essere prodotti dall’organismo per sintesi endogena a partire
dal loro precursore, l’acido linolenico. Tuttavia, a volte, questa sintesi può essere insufficiente a
coprire quelli che sono i fabbisogni in tali acidi. L’acido arachidonico, AA, fa parte della famiglia
degli n-6 e può essere sintetizzato dall’acido linoleico (C18:2). Queste sintesi avvengono sotto
l’azione di due sistemi enzimatici noti come desaturasi ed elongasi. Il compito del primo è di
sostituire un legame saturo con uno doppio in particolari punti della catena dell’acido grasso. Il
ruolo del secondo è di addizionare uno o più atomi di carbonio in modo da allungare la catena.
Questi due interventi metabolici sono in grado di modificare profondamente la struttura dell’acido
sul quale agiscono ed anche di conferirgli nuove proprietà funzionali e strutturali.
Ad esempio, sotto l’azione della desaturasi ∆6, l’acido grasso stearidonico (C 18:4 n-3) è ottenuto
dall’acido linolenico. Il ruolo dell’acido stearidonico non è ancora molto chiaro, tuttavia, è molto
importante poiché la sua formazione favorisce i processi metabolici. Infatti sia le desaturasi che le
elongasi agiscono su di esso producendo un acido con 20 atomi di carbonio, addizionando inoltre
alla catena un altro doppio legame. L’acido che risulta da questo processo è l’EPA (C20:5 n-3), che
ha una complessa ed insostituibile azione metabolica e strutturale nell’organismo umano. Ulteriori
azioni delle desaturasi e delle elongasi danno origine al DHA (C 22:6 n-3) il cui ruolo è altrettanto
importante (Cocchi, 1999).
E’ importante sottolineare che questo potenziale enzimatico diminuisce con l’età, la malattia e le
cattive abitudini alimentari. Se la sintesi endogena degli acidi AA, EPA e DHA è insufficiente,
questi AG possono diventare indispensabili e devono quindi essere apportati con l’alimentazione.
L’acido oleico non è indispensabile nel senso in cui l’organismo umano è in grado di realizzarne la
sintesi. Tuttavia, poiché non aumenta, anzi tende a ridurre, la colesterolemia ed il colesterolo LDL
(“colesterolo cattivo”) senza diminuire il colesterolo HDL (“colesterolo buono”), e poiché è poco
soggetto alla perossidazione lipidica, tale acido present a un interesse nutrizionale di primo ordine.
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MATERIALI E METODI
Cento tinche, di peso corporeo compreso tra i 60 e i 100 g, provenienti da un allevamento semiintensivo di Ceresole d’Alba (CN) dove, ad integrazione del naturale alimento presente nello
stagno, viene distribuito un alimento commerciale, sono state sfilettate e la parte edibile è stata
sottoposta alle analisi relative alla composizione chimica (AOAC, 1990) così come all’estrazione
dei lipidi totali (Folch e coll., 1957). Gli esteri metilici degli acidi grassi sono stati preparati con la
procedura di metilazione e l’utilizzo di BF 3 (AOAC, 1990) e analizzati con gascromatografia
(Perkin-Elmer, P-E 8700). Analogamente 50 coregoni, di peso corporeo compreso tra i 450 ed i 580
g, pescati nel lago di Viverone (BI), sono stati sfilettati e sottoposti ad analisi analogamente alle
tinche.
Per ciascuna specie sono stati calcolati gli indici di aterogenicità e di trombogenicità (Ulbricht e
Sauthgate, 1991): tali indici consentono di rapportare fra loro gli acidi grassi saturi, fattori di rischio
per varie patologie, con gli acidi grassi mono e poliinsaturi aventi invece effetti protettivi sul
sistema cardiocircolatorio.
RISULTATI E DISCUSSIONE
La composizione chimica dei filetti delle due specie oggetto della ricerca è riportata in tabella 1. Si
osserva come il contenuto in acqua (U), proteina grezza (PG) e ceneri (C) sia simile nella tinca e nel
coregone mentre si osserva una differenza significativa per quanto attiene il contenuto lipidico (EE).
Tabella 1: Composizione chimica dei filetti (% t.q.) (media ± d.s.)
Table 1: Fillet chemical composition (% w.w.) (mean ± s.d.)
Tinca (Tench)
Coregone
U (W)
74,97 ± 1,15
76,2 ±
PG (CP)
20,10 ± 0,68
19,58 ±
EE (EE)
4,75 ± 0,64 a
3,20 ±
C (Ash)
1,27 ± 0,08
1,25 ±
a, b: P≤0,05
(Powan)
1,45
0,93
0,51 b
0,08
I risultati relativi ai principali acidi grassi dei filetti della tinca e del coregone, così come i correlati
indici di aterogenicità e di trombogenicità sono riportati nella tabella 2. Dall’analisi di questa tabella
si osserva come gli acidi grassi saturi (AGS), che incidono negativamente sulle malattie
cardiovascolari, siano significativamente più elevati nella tinca rispetto al coregone (30,84 vs
25,67). Se i valori di tali AGS vengono paragonati con valori desunti dalla bibliografia (tabella 3)
(Gai e Palmegiano, 2002) relativi ad altre specie di acqua dolce si nota come la tinca sia il pesce con
il contenuto più elevato in tali acidi, eccezion fatta per quanto riguarda la trota iridea, mentre il
coregone, presenta valori simili o intermedi rispetto ad anguilla, pescegatto e salmerino.
Relativamente gli AGMI si osserva che i valori del palmitoleico (C16:1) sono statisticamente più
elevati nella tinca rispetto al coregone (13,89 vs 10,93); se confrontati alle altre specie di acqua
dolce si nota come le due specie da noi analizzate si collochino in posizione intermedia. In
particolare, per quanto attiene il C16:1 la tinca presenta un valore simile all’anguilla (12,74), quasi
doppio rispetto a pescegatto (7,28) e trota iridea (6,25) e di molto inferiore se confrontato con il
salmerino (17,87). Nel coregone il valore di tale acido (10,93) risulta superiore a quello del pesce
gatto ed trota ma inferiore ai valori presentati da anguilla e salmerino.
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Tabella 2: Principali acidi grassi (% del totale) di tinca e coregone e indici IA, IT
Table 2: Fatty acid composition (% of total) of tench and powan and IA IT indexes
Tinca (Tench)
Coregone (Powan)
media (mean)
d.s. (s.d.)
media (mean)
d.s. (s.d.)
C14:0
4,31 ± 0,46
3,93 ± 0,19
C16:0
22,28 ± 1,06 a
16,77 ± 0,81 b
C16:1
13,89 ± 0,55 a
10,93 ± 0,95 b
C18:0
3,09 ± 0,33 b
3,97 ± 0,58 a
C18:1n-9
25,25 ± 0,97
24,49 ± 1,40
C18:2n-6
5,72 ± 0,50
5,60 ± 0,66
C18:3n-3
1,94 ± 0,42 b
5,96 ± 0,60 a
C20:4n-6
0,07 ± 0,02 b
0,75 ± 0,19 a
C20:5n-3
0,63 ± 0,13 b
1,47 ± 0,29 a
C22:6n-3
8,08 ± 0,43 a
5,24 ± 0,77 b
n-3/n-6
2,16 ± 0,18 b
3,05 ± 0,33 a
AGS
30,84 ± 0,91 a
25,67 ± 0,91 b
AGMI
47,55 ± 0,80 a
44,08 ± 1,96 b
AGPI
21,46 ± 1,21 b
30,24 ± 1,60 a
IA
0,58 ± 0,03 a
0,45 ± 0,02 b
IT
0,42 ± 0,03 a
0,26 ± 0,01 b
a, b: P≤0,05
Per l’acido oleico (C18:1), i valori di tinca e coregone non evidenziano differenze statistiche e sono
sovrapponibili a quelli del salmerino mentre sono inferiori rispetto al tenore presentato dall’anguilla
(32,62) e superiori rispetto a quelli del pescegatto (19,01) e della trota iridea (22,36).
Nei riguardi della prevenzione delle malattie cardiovascolari rivestono una grande importanza gli
AGPI e tra questi in particolar modo quelli della serie n-3 quali l’acido linolenico (C18:3), l’acido
eicosapentaenoico (EPA) (C20:5) ed il docosaesaenoico (DHA) (C22:6). A questi acidi sono stati
riconosciuti notevoli effetti antinfiammatori ed antiaterogenici e giocano quindi un ruolo essenziale
nella salute umana.
Si osserva come l’acido linolenico sia più elevato nel coregone (5,96) rispetto alla tinca (1,94) ed
anche nei confronti delle altre specie considerate in bibliografia.
Il tenore in EPA delle due specie da noi analizzate è invece basso rispetto ad altre anche se il
coregone ne è più ricco se confrontato alla tinca (1,47 vs 0,63).
Per il tenore in DHA la tinca risulta statisticamente superiore al coregone, tenore che è anche
superiore ai valori di anguilla e salmerino ma non di trota iridea (14,00).
Un acido della serie n-6 molto importante, in quanto precursore dell’arachidonico (C 20:4, AA), è
l’acido linoleico (C18:2). Tale acido sembra avere degli effetti protettivi nei confronti di alcune
patologie; è inoltre necessario all’impermeabilità della barriera epidermica. Tuttavia un eccesso di
linoleico provoca una surproduzione di acido arachidonico che a sua volta dà origine a sostanze
ormonosimili, gli eicosanoidi, che sono responsabili della comparsa di numerose patologie
cardiovascolari (Lands, 1986). Le nostre analisi hanno riportato valori simili di tale acido sia per la
tinca che per il coregone che risultano superiori all’anguilla (1,38), ma inferiori rispetto a pescegatto
(8,02), salmerino (8,25) e trota iridea (6,60).
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Tabella 3: Composizione media in acidi grassi (% del totale) e indici IA, IT di alcune specie di
acqua dolce
Table 3: Fatty acid composition (% of total) and IA IT indexes of some fresh water species
Anguilla
Pescegatto
Salmerino
Trota iridea
Eel
Catfish
Char
Rainbow trout
C14:0
4,18
1,27
2,19
4,22
C16:0
19,56
16,98
15,19
24,00
C16:1
12,74
7,28
17,87
6,25
C18:0
3,02
6,66
3,91
5,73
C18:1n-9
32,62
19,05
26,04
22,36
C18:2n-6
1,38
8,02
8,25
6,60
C18:3n-3
0,32
0,43
0,13
0,75
C20:4n-6
7,13
C20:5n-3
4,25
7,02
8,02
4,08
C22:6n-3
5,96
8,13
4,88
14,00
n-3/n-6
4,31
1,50
1,88
2,43
AGS
29,51
27,45
22,89
34,50
AGMI
49,43
31,84
47,97
34,93
AGPI
19,94
39,43
27,91
27,58
IA
0,36
0,25
0,24
0,66
IT
0,28
0,24
0,22
0,35
Per quanto attiene il rapporto n-3/n-6 si osserva come questo sia più favorevole nel coregone
rispetto alla tinca anche se rimane comunque un rapporto poco favorevole secondo quelle che sono
le indicazioni per una alimentazione “salutistica” (rapporto n-3/n-6 consigliato tra 4 e 10).
Considerando gli indici relativi al rischio di malattie cardiovascolari (IA e IT) si nota come
entrambi siano più favorevoli nel coregone rispetto alla tinca. Se paragonati alle altre specie ittiche
riprese in bibliografia si osserva che, per quanto attiene l’indice di aterogenicità, solo la trota iridea
presenta un valore più elevato e quindi più sfavorevole. L’indice di trombogenicità della tinca
risulta invece il più sfavorevole di tutti probabilmente a causa del più elevato tenore in C16:0.
Va comunque ricordato che, anche se gli indici di aterogenicità e trombogenicità mostrano una
considerevole variabilità tra una specie ittica e l’altra, questi sono sempre abbondantemente
inferiori a quelli di altri tipi di alimenti di origine animale. In particolare, Ulbricht e Sauthgate
(1991) riportano degli indici di aterogenicità pari a 1 per l’agnello, a 0,72 per la carne bovina e a 0.6
per la carne suina magra e degli indici di trombogenicità pari rispettivamente a 1,58, 1,08 e 1,37.
Il pesce, così come altri animali di terra ferma, non è in grado di produrre autonomamente acidi
grassi poliinsaturi della serie n-3 e n-6, ma deve assumerli con la dieta.
Gli acidi grassi poliinsaturi della serie n-3, che possiedono un più elevato valore dietetico, sono
presenti nelle alghe e nei primi anelli della catena alimentare soprattutto marina e d’acqua dolce.
Per questo motivo sono presenti in rilevante quantità nel pesce e sono, contemporaneamente, molto
scarsi negli animali terrestri, la cui catena alimentare vede ai primi anelli i vegetali con riserve
abbondanti in acidi poliinsaturi della serie n-6. Grandi quantitativi di acido linoleico (C18:2 n-6)
sono presenti negli oli di semi di molte piante di terraferma. Al contrario, le piante marine,
fitoplancton e alghe, contengono grandi quantità di acidi grassi poliinsaturi n-3. Così negli
ecosistemi acquatici il carbonio e l’energia fissati con la fotosintesi, sono meno utilizzati per la
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formazione dei due precursori acidi (linoleico 18:2n-6 e linolenico 18:3n-3) che per gli acidi grassi
maggiormente insaturi della serie n-3 (EPA e DHA). In questo modo, le piante acquatiche
costituiscono un substrato abbondante di AGPI n-3 a catena lunga per gli animali facenti parte della
loro catena trofica. Le due differenti catene alimentari, continentale e marina, offrono alimenti
molto diversi alla dieta umana e possono sortire effetti molteplici sulla salute.
Di fronte a queste constatazioni, si capisce come il profilo acidico del filetto di pesce possa variare,
sia tra specie e specie, sia all’interno di una stessa specie, in funzione di condizioni ambientali e
soprattutto alimentari.
Pur essendo, il profilo lipidico sotto controllo genetico per la sintesi de novo degli acidi grassi, la
composizione quanti-qualitativa della frazione lipidica è influenzabile, diversamente dalla
componente proteica, dalla dieta e da altri parametri di allevamento quali la temperatura dell’acqua
o l’origine delle materie prime utilizzate (Boggio e coll., 1985; Neiddleman, 1987; Saroglia e coll.,
1998).
CONCLUSIONI
Fermo restando che la composizione quanti-qualitativa della frazione lipidica nel pesce è fortemente
influenzata dal regime alimentare e dai fattori ambientali di allevamento, i campioni di tinche da noi
esaminati hanno evidenziato un profilo lipidico interessante soprattutto se confrontato con i valori
medi noti per la trota, pesce di allevamento per eccellenza. In particolare tra gli acidi insaturi a
catena corta si osserva un tenore pari a circa il 25% per l’acido oleico che nella trota non va oltre il
22%.
Per quanto attiene il linoleico il valore di 5,72% è prossimo a quello della trota, mentre quello
osservato per l’acido linolenico (1,94) risulta circa il doppio di quanto riscontrato per la trota. Per
quanto attiene gli acidi insaturi a catena lunga (EPA e DHA), i livelli risultano più modesti rispetto
a quanto noto per la trota. Le differenze con la trota sono evidentemente imputabili a differenti
meccanismi metabolici e fisiologici delle due specie, ma appare evidente che la tinca, anche se i
campioni da noi esaminati mostrano un tenore lipidico quasi doppio rispetto alla trota, in virtù
dell’interessante profilo lipidico in acidi grassi insaturi a catena corta può essere annoverata tra
quegli alimenti funzionali in grado di giocare un ruolo importante nei confronti della prevenzione di
alcune patologie degenerative dell’uomo.
Analogamente a quanto già indicato per la tinca, e cioè che i parametri ambientali giocano un ruolo
fondamentale nei riguardi della composizione acidica del prodotto, occorre sottolineare che il
coregone mostra un tenore in acido oleico intorno al 25%; il livello di acido linoleico è risultato pari
al 5,6% mentre quello in acido linoleico è prossimo al 6%. Quest’ultima indicazione è molto
interessante poiché la presenza di tale acido in pesci di allevame nto è sempre piuttosto contenuta,
mentre in relazione all’alimentazione naturale, tende ad aumentare nei pesci di cattura. Il coregone
potrebbe quindi acquisire un notevole valore dal punto di vista funzionale-dietetico poiché tale
peculiarità potrebbe essere conservata anche in condizioni di allevamento semi- intensivo con
ricorso all’alimentazione naturale. I tenori in acidi grassi a catena lunga sono modesti, se paragonati
al pesce di mare, ma questa è una caratteristica comune a tutti i pesci di acqua dolce.
In conclusione si può affermare che le due specie esaminate presentano buone caratteristiche
nutrizionali. Queste pertanto costituiscono un ulteriore valore aggiunto di tali specie ittiche e, come
altri prodotti agroalimentari di recente riscoperta, rappresentano un mezzo per la valorizzazione di
specifici territori.
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Reccomandation. In: U.S. Department of Health and Human Services (ed.) The Surgeon
General’s report on Nutrition and Health, pp. 11.
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POTENZIALITÀ PRODUTTIVE DELL’AGNELLO NELLE AREE
PROTETTE DELLA BASILICATA
Giordano D. 1 , Brancieri D. 2 , Mauro M.2 , Napolitano F.3 , Riviezzi A.M. 4 ,Girolami A. 5
RIASSUNTO
L’obiettivo della presente indagine è stato quello di verificare se il Tipo Genetico (TG), la Stagione
di Nascita (SN) e l’Età alla Mattazione (EM) possano influenzare alcune caratteristiche “infra
vitam”, “post mortem” ed organolettiche di carne di agnelli allevati in aree protette. I risultati
dimostrano che esiste un effetto significativo del TG sull’incremento in peso, sulla resa alla
macellazione, sull’incidenza dei tagli di I qualità e sulla tenerezza. Significativi sono risultati altresì
gli effetti della SN (incremento in peso, resa alla macellazione, flavour e tenerezza) e della EM
(incremento in peso, incidenza dei tagli di I qualità e tenerezza).
PAROLE CHIAVE: agnelli, aree protette, prestazioni produttive, caratteristiche organolettiche
della carne.
POTENTIAL PRODUCTIVITY OF LAMBS IN THE PROTECTED AREAS OF BASILICATA
SUMMARY
The aim of this study was to evaluate whether Genetic Type (TG), Season of Birth (SN) and Age at
Slaughter (EM) could influence some ‘infra vitam’, ‘post mortem ’ and sensory meat characteristics
of lambs reared in protected areas. Our results show a significant effect of TG on weight gain,
carcass yield, I quality cuts and tenderness. Significant are also the effects of SN (weight gain,
yield, flavour and tenderness) and EM (weight gain, I quality cuts and tenderness).
KEY WORDS: lamb, protected areas, weight gain, carcass trait, sensory properties of meat.
PREMESSA
L’interesse sul modo in cui le risorse ambientali vengono sfruttate è cresciuto notevolmente negli
ultimi tempi. Nelle aree marginali, l’esigenza di preservare l’ambiente può essere perseguita, tra
l’altro, attraverso il presidio del territorio, la salvaguardia dei beni ambientali e la conservazione
degli elementi paesaggistici con le tradizionali pratiche agricole e zootecniche. In molte aree
protette della Basilicata, in particolare, l’allevamento ovino è strettamente connaturato alla natura
orografica e pedologica del territorio, oltre che alle tradizioni popolari. Il persistere di questa realtà,
senz’altro alternativa a quella proposta dal mercato globale, è seriamente minacciata dalla scarsa
1
Dottorando di Ricerca. Dipartimento Scienze Produzioni Animali. Università Basilicata Potenza.
2
Dottorando di Ricerca. Ibidem.
3
Ricercatore confermato. Ibidem.
4
Collaboratore tecnico. Ibidem.
5
Professore ordinario. Ibidem.
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competitività dei prodotti, che risentono fortemente di fattori quali la variabile disponibilità
foraggiera dei pascoli appenninici. È opinione diffusa che la sopravvivenza di queste aree passi
proprio per la valorizzazione degli elementi più “sfavorevoli”: così, più che apportare innaturali
modifiche, sarebbe opportuno adoperarsi per scoprire se la qualità di questi prodotti possa in
qualche modo soddisfare le esigenze del consumatore. Nella nostra indagine, abbiamo voluto
verificare se alcuni fattori dell’allevamento connessi alla natura del territorio, quali il tipo genetico
(TG), la stagione di nascita (SN) e l’età alla macellazione (EM), possano o meno influenzare non
solo alcune caratteristiche “infra vitam” e “post mortem ”, ma anche quelle caratteristiche
organolettiche della carne che maggiormente influenzano il consumatore nelle sue scelte: flavour e
tenerezza
MATERIALE E METODI
La sperimentazione è stata condotta su:
12 agnelli di razza Sarda e 12 di razza Merinizzata, nati in due diversi periodi (autunno ed inverno)
e mattati ad un’età media di 55 giorni (gruppo A)
30 agnelli di razza Sarda mattati a 60, 80 e 100 giorni di età (gruppo B).
Sono state considerate variabili “infra vitam” (incremento ponderale giornaliero e peso vivo) e
“post mortem” (peso della carcassa, resa alla macellazione, incidenza di tagli di I e II qualità). I
rilievi alla mattazione e alla sezionatura sono stati effettuati secondo le norme ASPA (1989).
Successivamente, una giuria selezionata ed opportunamente addestrata ha valutato l’intensità delle
caratteristiche organolettiche (flavour e tenerezza) sui tagli “lombata” (gruppo A) e “costolette”
(gruppo B). I punteggi attribuiti da ciascun giudice a ciascun campione sono stati normalizzati
standardizzando i dati al fine di ridurre l’effetto dovuto al differente uso della scala (Naest, 1991). I
valori così ottenuti sono stati sottoposti ad analisi della varianza con procedura GLM (SAS, 1990).
RISULTATI E DISCUSSIONE
Rilievi “infra vitam” e “post mortem”
L’influenza del tipo genetico sui parametri quantitativi è significativa (P<0,05÷0,001),
analogamente a quanto osservato da altri Autori (Aksoy, 1994; Sañudo e coll.,1997). I soggetti
Merinizzati, rispetto a quelli di razza Sarda, presentano una migliore predisposizione alla
produzione della carne (tabella 1). Questo si evince dagli incrementi ponderali giornalieri superiori
(0,238 ± 0,006 kg vs. 0,205 ± 0,007; P<0,01), ma soprattutto dalle migliori rese di macellazione
(62,9 ± 0,79 % vs. 58,7 ± 0,69 %; P<0,001) e dalla maggiore incidenza dei tagli di I qualità (58,3 ±
0,268 % vs. 55,9± 0,307 %; P<0,001). Anche la stagione di nascita influenza significativamente le
performance in vita e i rilievi di mattazione: i soggetti nati in autunno, rispetto a quelli nati in
inverno, evidenziano un maggiore accrescimento (0,235 ± 0,006 kg vs. 0,208 ± 0,006; P<0,01) e
una resa alla mattazione superiore (62,3 ± 0,77 % vs. 59,3 ± 0,72; P<0,001).
Con riferimento alla sola razza Sarda (tabella 2), è da rilevare che le migliori caratteristiche
quantitative circa l’incremento in peso (P<0,05) e l’incidenza di tagli di I qualità (P<0,01) si
riscontrano negli agnelli mattati ad 80 e 100 giorni.
Caratteristiche organolettiche
Il flavour è un aspetto importante per definire la qualità di una carne e a sua volta può essere
influenzato da svariati fattori. In accordo con precedenti studi (Sañudo e coll., 1998), il TG non
influenza significativamente il flavour della carne di agnello (tabella 3). Tra i soggetti nati in
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autunno e quelli nati in inverno, al contrario, si osservano differenze di rilievo: la carne di questi
ultimi, infatti, presenta un flavour più intenso (6,71 ± 0,12 vs. 6,27 ± 0,12; P<0,05).
Tabella 1: Performance in vita e caratteristiche della carcassa degli agnelli in relazione al Tipo
Genetico ed alla Stagione di Nascita (media ± e.s.)
Table 1: Lamb performance and carcass traits related to the Genetic Type and the Season of Birth
(mean ± s.e.)
Tipo Genetico
Stagione di Nascita
Significatività
Genetic Type
Season of Birth
Significance
Performance
Sarda
Merinizzata
Inverno
Autunno
TG
SN
Performance
Sarda
Merino
Winter
Autumn
Incremento (kg)
0,205 ±
0,238 ±
0,208 ±
0,235 ±
P<0,01
P<0,01
Daily gain
0,006
0,007
0,006
0,006
Peso vivo (kg)
15,379 ±
17,396 ±
17,138 ±
15,637 ±
P<0,01
P<0,05
Live weight
0,420
0,481
0,436
0,467
P. carcassa. (kg)
9,042 ±
10,970 ±
10,258 ±
9,754 ±
P<0,001 P<0,001
Carcass weight
0,286
0,328
0,297
0,318
Resa (%)
58,70 ±
62,90 ±
59,30 ±
62,30 ±
P<0,001 P<0,001
Yield (%)
0,693
0,793
0,718
0,770
Tagli I qual. (%)
55,90 ±
58,30 ±
57,0 ±
57,20 ±
P<0,001
NS
Primal cuts
0,268
0,307
0,278
0,298
Tagli II qual.(%)
39,70 ±
37,40 ±
38,60 ±
38,50 ±
P<0,01
NS
Secondary cuts
0,340
0,390
0,353
0,378
Tabella 2: Performance in vita e caratteristiche della carcassa degli agnelli di razza Sarda in
relazione all’Età alla Mattazione (media ± e.s.)
Table 2: Performance and carcass traits of Sarda lambs related to the Age at Slaughter (mean ±
s.e.)
Performance
Performance
Incremento (kg)
Daily gain
Peso vivo (kg)
Live weight
Peso carcassa (kg)
Carcass weight
Resa (%)
Yield
Tagli I qualità (%)
Primal cuts
Tagli II qualità (%)
Secondary cuts
Età alla Mattazione, d
Age at Slaughter, d
Significatività
Significance
60
80
100
0,179 ± 0,007
0,206 ± 0,008
0,203 ± 0,009
P<0,05
15,133 ± 0,564
18,428 ± 0,639
22,888 ± 0,564
P<0,0001
8,259 ± 0,347
9,885 ± 0,393
12,033 ± 0,347
P<0,0001
54,518 ± 0,792
53,753 ± 0,898
52,511 ± 0,792
NS
56,638 ± 0,391
58,657 ± 0,444
58,260 ± 0,391
P<0,01
39,441 ± 0,391
36,066 ± 0,443
36,776 ± 0,391
P<0,0001
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Tale risultato potrebbe essere attribuito alla migliore composizione floristica dei pascoli primaverili
e, conseguentemente, alle migliori caratteristiche organolettiche del latte delle pecore partorite in
inverno. L’età di macellazione non influisce in modo significativo sull’intensità del flavour (tabella
4), in accordo con quanto già evidenziato in altri studi (Hernando e coll., 1996; Sañudo e
coll.,1996). La tenerezza della carne è un altro parametro qualitativo fondamentale per le scelte del
consumatore sebbene per la carne di agnello abbia un’importanza minore rispetto alla carne bovina.
Nella presente prova, analogamente a quanto riscontrato da altri Autori (Young e coll., 1993;
Sañudo e coll., 1997) si è osservato un significativo effetto del TG su questo parametro: nella
tabella 3, infatti, si rileva che la carne dei soggetti di razza Merinizzata risulta più tenera di quella
dei soggetti Sardi (6,70 ± 0,16 vs. 6,18 ± 0,16; P<0,05). Alcuni Autori hanno osservato che le razze
da carne forniscono un prodotto più tenero e dalle migliori caratteristiche organolettiche (Sañudo e
coll., 1998). Il maggior accrescimento giornaliero evidenziato generalmente dai genotipi da carne
viene infatti associato ad una maggiore presenza di collagene solubile nella carne e quindi ad una
maggiore tenerezza (Aberle e coll., 1981; Sañudo e coll., 1998). Anche l’effetto della stagione di
nascita è risultato significativo (tabella 4), dal momento che la carne dei soggetti nati in inverno è
più tenera rispetto a quella dei soggetti nati in autunno (6,75 ± 0,16 vs. 6,13 ± 0,16; P<0,05).
L’effetto dell’età di mattazione sulla tenerezza è risultato significativo (P<0,05): i soggetti mattati
ad un’età superiore (80 e 100 giorni), infatti, hanno fornito una carne più tenera di quella dei
soggetti più giovani (tabella 4), a conferma di precedenti studi su altre specie (Wood, 1990;
Carlucci e coll., 1999). Questa maggiore tenerezza potrebbe essere dovuta ad un più elevato grado
di marezzatura della carne dei soggetti più “maturi” rispetto a quelli giovani.
Tabella 3: Caratteristiche sensoriali della carne di agnello in relazione alla Stagione di Nascita ed al
Tipo Genetico (media ± e.s.)
Table 3: Sensory properties of lamb meat related to the Season of Birth and the Genetic type (mean ± s.e.)
Caratteristica sensoriale
Sensory properties
Flavour
Flavour
Tenerezza
Tenderness
Stagione di Nascita (SN)
Season of Birth (SN)
Inverno
Autunno
Winter
Autumn
6,71 ± 0,12
6,27 ± 0,12
6,75 ± 0,16
6,13 ± 0,16
Tipo Genetico (TG)
Genetic Type (TG)
Sarda
Merinizzata
Sarda
Merino
6,44 ±
6,53 ± 0,12
0,12
6,18 ±
6,70 ± 0,16
0,16
Significatività
Significance
SN
TG
P<0,05
NS
P<0,05
P<0,05
Tabella 4: Caratteristiche sensoriali della carne di agnello in relazione all’Età alla Mattazione
(media ± e.s.)
Table 4: Sensory properties of lamb meat related to the Age at Slaughter (mean ± s.e.)
Età alla Mattazione, d
Caratteristica sensoriale
Significatività
Age at Slaughter, d
Sensory properties
Significance
60
80
100
Flavour
6,30 ± 0,20
6,38 ± 0,21
6,37 ± 0,22
NS
Flavour
Tenerezza
5,90 ± 0,25
6,83 ± 0,26
6,84 ± 0,27
P<0,05
Tenderness
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CONCLUSIONI
I risultati del presente studio indicherebbero che fattori quali il tipo genetico, la stagione di nascita e
l’età alla mattazione influenzano le caratteristiche “infra vitam” e “post mortem” e le qualità
organolettiche della carne ovina. Tali risultati potrebbero fornire indicazioni utili per la messa a
punto di opportuni disciplinari produttivi al fine di ottenere prodotti “di nicchia” che sono
fondamentali per la salvaguardia e lo sviluppo delle aree protette. Inoltre, le caratteristiche
organolettiche di questi prodotti, unitament e a fattori quali il rispetto dell’ambiente, il benessere
degli animali, la sicurezza alimentare, incontrerebbero facilmente il favore del consumatore, mai
come oggi mosso da diversi “concerns” nelle sue scelte consumistiche.
BIBLIOGRAFIA
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Carlucci, A., Napolitano, F., Girolami, A., Monteleone, E. (1999). Methodological approach to
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VALUTAZIONE DELLA CRESCITA RELATIVA IN PULEDRI DI RAZZA
C.A.I.T.P.R. ALLEVATI IN PROVINCIA DI BARI*
Pasquale Centoducati 1 , Alessandra Tateo
2
RIASSUNTO: Puledri di razza CAITPR nati da fattrici allevate in provincia di Bari, sono stati
sottoposti, dalla nascita sino a circa 330 giorni di età, a controlli mensili per rilevarne il peso vivo e
alcune misurazioni somatiche. Gli incrementi medi giornalieri registrati nei primi tre mesi di vita si
mostrano, come era da attendersi, i più elevati dell’intera prova. Da 60 a 90 giorni, infatti,
l’incremento medio giornaliero registrato è pari a 1,821 kg contro un valore medio di 1,320 kg. Su
tutte le variabili prese in considerazione, sono state ricavate le equazioni di regressione, le quali
hanno mostrato un R2 tra 0,82 e 0,97. Mettendo a confronto il peso vivo e alcune misurazioni
somatiche, mediante l’equazione di Huxley (y=axb), è stato possibile ottenere i coefficienti
allometrici. Tutte le misurazioni somatiche hanno uno sviluppo bradiauxesico (b< 1) rispetto al
peso vivo. In particolare le misure di altezza (garrese, dorso, groppa) hanno uno sviluppo precoce
(b~0,19), mentre le misure di lunghezza (groppa e tronco) e di larghezza (groppa, petto e
circonferenza torace) hanno uno sviluppo tardivo (0,33<b<0,38). In definitiva si assiste a due fasi di
accrescimento, la prima in altezza, la seconda in lunghezza e larghezza.
PAROLE CHIAVE: Puledro, crescita relativa, misurazioni somatiche.
ASSESMENT OF RELATIVE GROWTH IN C.A.I.T.P.R. FOALS REARED IN THE
PROVINCE OF BARI, ITALY
SUMMARY: C.A.I.T.P.R. foals born from mares reared in the province of Bari were examined
monthly from one to approximately 330 days of age to measure their live weight and some body
parameters. As expected, the average daily increases of the first three months of life were the
highest registered throughout the trial. From day 60 to day 90 the average daily increase in terms of
daily live weight gain was 1,821 kg with an average weight of 1,320. Regression equations were
developed on all the variables considered showing on R2 ranging from 0.82 to 0.97. Comparison of
live weight and some body measurements by means of Huxley’s equation (y=axb), yielded
allometric coefficients. All the body measurements showed a slower growth rate (b< 1) than did
live weight. In particular, the height parameters (withers, back, loin) appeared to develop early
(b~0,19) while the length (rump and trunk) and width parameters (rump, chest and chest
circumference) developed later (0,33<b<0,38). In conclusion, two phases of growth have been
observed, the first involving height and the second length and width.
KEY WORDS: Foal, relative growth, body measurements.
*
Progetto finanziato dall’Amministrazione Provinciale di Bari. Assessorato Agricoltura.
1
Professore straordinario. Dipartimenti di Sanità e Benessere degli Animali. Università di Bari.
2
Ricercatore confermato. Dipartimento di Produzione Animale. Università di Bari.
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PREMESSA
Il consumo di carne equina nel nostro paese è basso (0,15%) se confrontato con il consumo di altre
carni; e la regione con il maggior indice di macellazione e consumo di questo prodotto è la Puglia.
In Italia la specie equina si distribuisce in modo uniforme nel Nord nel Meridione e nel Centro
comprese le isole. Lo scarso consumo non è certo da attribuire più a fatti psicologici che alle
caratteristiche della carne equina. Negli ultimi anni molti allevatori della provincia di Bari hanno
mostrato un rinnovato interesse verso la produzione di carne equina spinti anche da una domanda in
aumento da parte dei consumatori che si rivolgono, sempre più numerosi, verso questo prodotto in
seguito alla vicenda BSE che ha coinvolto la specie bovina, facendone ridurre i consumi del 30%,
ma anche dalla possibilità di creare per la propria azienda una attività economica aggiuntiva. Per
soddisfare le esigenze di produzione gli allevatori si sono orientati nello sfruttamento di due razze
equine presenti sul territorio: il Murgese e il Cavallo Agricolo Italiano da Tiro Pesante Rapido
(CAITPR). Nella regione le province in cui il cavallo agricolo si è maggiormente insediato sono
quelle di Bari e Taranto. Attualmente la consistenza delle fattrici in queste province raggiunge le
350 unità. Gli equini che nella Murgia Barese sono allevati allo stato semibrado ed alimentati al
pascolo con integrazioni alimentari in stalla a base di concentrati, in genere prodotti nella stessa
azienda, sono soggetti adatti a produrre carne di qualità e potranno in futuro avere una espansione
che costituirà un’alternativa alla massiccia importazione di carne equina dall’est europeo. Questo
prodotto importato non sempre è tracciabile lungo l’intera filiera produttiva e commerciale. Inoltre
questa razza insieme alla Murgese fa parte del prezioso patrimonio zootecnico della provincia di
Bari che deve essere salvaguardato e incrementato.
MATERIALE E METODI
Lo scopo di questa prima indagine è stato quello di valutare le performances in vita e l’evoluzione
delle misure somatiche di puledri CAITPR allevati in provincia di Bari. Nell’arco di 14 mesi si sono
eseguiti, dalla nascita alla macellazione 330d di età, controlli, con periodicità mensile, sul peso vivo
ed i rilievi di alcune misurazioni somatiche. Solo successivamente, dopo aver acquisito e studiato lo
sviluppo dei puledri, si potrà intervenire, sia dal punto di vista genetico, sia nell’individuazione di
tecniche di allevamento e sull’alimentazione più appropriata per ottimizzare la produzione della
carne equina. Per la prova sono stati controllati in vita 45 puledri, 24 maschi e 21 femmine, alcuni
dei quali a fine prova sono stati macellati, gli altri sono stati trattenuti in azienda per vita. Per lo
studio allometrico (Huxley J.S. ,(1932); Braghieri A. e coll., (1982); Chiofalo L e coll., (2001))
delle misurazioni somatiche rispetto al peso vivo e tra tutte le variabili a confronto, è stata utilizzata
la formula: y=axb, linearizzata nella corrispondente formula logaritmica y= loga + blogx. Inoltre, su
tutte le variabili considerate, è stata eseguita l’analisi di regressione multivariata.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Peso vivo e accrescimenti - Nell’arco dell’intera prova, durata 330d, il peso vivo, in tutti i soggetti,
è aumentato in modo progressivo e regolare, non presentando i puledri nessun problema di carattere
sanitario. Sin dalla nascita i maschi hanno presentato un peso maggiore rispetto alle femmine, con
differenze pari a 2,270 kg alla nascita (69,500 vs 67,231) e 27,600 kg a fine prova (517,807 vs
490,231). Gli incrementi medi giornalieri mostrano un minor aumento con l’avanzare dell’età.
Naturalmente, così come evidenziato nell’andamento del peso vivo, i maschi presentano sempre
valori superiori alle femmine fatta eccezione per il primo mese di allevamento. Questi incrementi
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passano da 1,721 kg dei primi trenta giorni, a 1,068 kg degli ultimi trenta giorni di allevamento. Il
periodo più critico, si osserva per entrambi i sessi tra i 211 e i 240d di età, infatti, le femmine hanno
fatto registrare valori di 0,981 kg, i maschi di 1,104 kg. Osservando le equazioni di regressione, si
nota un incremento medio giornaliero nell’intero periodo di 1,307 kg (R2 = 0,975).
Misurazioni somatiche - Le tre misure di altezza: al garrese, al dorso, alla groppa mostrano un
andamento perfettamente sovrapponibile nell’arco dell’intera prova. Alla nascita i valori rilevati
oscillano tra i 95 cm dell’altezza al garrese e i 99 cm dell’altezza alla groppa. Anche a fine prova
l’altezza alla groppa (147 cm) si mostra più elevata rispetto alle altre due altezze considerate, 140
cm per l’altezza al dorso e 142 cm per l’altezza al garrese. Il maggior sviluppo registrato a fine
prova dell’altezza alla groppa è da imputare al maggior sviluppo delle masse muscolari di questa
regione, per la presenza della tipica groppa doppia dei cavalli TPR. Le equazioni di regressione di
queste misure somatiche presentano un R2 prossimo a 0,86. Le misure di lunghezza e di larghezza
della regione della groppa, fanno assumere a questa una forma quadrata, tipica dei soggetti destinati
alla produzione di carne. Nel confronto fra maschi e femmine a fine prova, mentre la misura di
larghezza è identica la lunghezza prevale di poco nei soggetti femmine. Le equazioni di regressione
calcolate sulle due variabili mostrano l’intercetta quasi identica e un R2 prossimo al valore di 0,88,
più debole rispetto alle altre misurazioni prese in considerazione. Le due misure somatiche della
testa non indicano alcuna differenza dovuta al dimorfismo sessuale; l’accrescimento relativo della
lunghezza si presenta sempre doppio (0,4 mm/die vs 0,22 mm/die) rispetto alla larghezza. La
larghezza petto risulta identica in entrambi i sessi, sia nel primo periodo di allevamento, che a fine
prova, nel periodo intermedio prevale leggermente nei maschi. L’accrescimento relativo
giornaliero, calcolato mediante l’equazioni di regressione è pari a 2 mm al giorno e l’R2 di queste
equazioni è di 0,87.
Indici zoometrici - L’indice “altezza torace” (altezza torace*100 /altezza al garrese) presenta un
costante e continuo incremento con l’avanzare dell’età ed inoltre nei primi due mesi di vita, nel
confronto tra i due sessi, è identico; nel prosieguo dell’allevamento le femmine si differenziano
mostrando un indice più elevato. Questo parametro tende a stabilizzarsi nell’ultimo mese di prova
(300-330d) su un valore pari a 45,75%. L’indice di “compattezza” (peso vivo/altezza al garrese) ci
rivela che con l’avanzare dell’età l’aumento del peso vivo, riferito ad un’unità di incremento in
altezza, risulta sempre più elevato, infatti, alla nascita è di 714 gr a fine prova è di 3549 gr.
Tabella 1: Equazioni di regressione
Table 1: Regression equations
Equazioni di regressione
y=88,994+1,307x
y=104,79+0,131x
y=103,63+0,123x
y=108,66+0,134x
y=30,523+0,066x
y=32,213+0,078x
y=89,796+0,201x
y=18,628+0,022x
y=40,189+0,040x
Peso vivo - Live weigth
Altezza al garrese - Height at withers
Altezza dorso – Height at back
Altezza groppa – Height at pelvis
Larghezza groppa – Width of pelvis
Lunghezza groppa – Length of pelvis
Lunghezza tronco- Body length
Larghezza testa – Width of head
Lunghezza testa – Length of head
141
R2
0,975
0,846
0,868
0,879
0,875
0,88
0,872
0,820
0,859
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Coefficienti allometrici (equazione di Huxley) - Nello studio degli accrescimenti relativi di tutte le
misure somatiche riferite al peso vivo si assiste ad una crescita di tipo bradiauxesico (b<1). Le
misure che si sviluppano più precocemente sono quelle che indicano il profilo superiore del tronco
(altezza al garrese, dorso e groppa) e lo sviluppo della testa (lunghezza e larghezza) (b<0,2). Ad uno
sviluppo più lento si assiste per le altre misure, in particolare per quelle di larghezza e lunghezza
dove l’indice “b”, pur mostrando uno sviluppo bradiauxesico, si attesta su valori compresi tra 0,31
per la larghezza groppa e 0,37 per la larghezza petto. L’attendibilità di questi confronti risulta
elevata per quasi tutte le misurazioni somatiche con un R2 superiore a 0,90, fanno eccezione le due
misure della testa dove l’R2 è prossimo a 0,80. Nel confronto tra le misure di altezza e quelle
longitudinali e trasversali queste ultime mostrano uno sviluppo più accelerato o di tipo
tachiauxesico, infatti il “b” risulta in quasi tutti i confronti pari a 1,5 con un R2 superiore a 0,88.
Tabella 2: Coefficienti allometrici riferiti al P.V.
Table 2: Allometric coefficient referring to L.W.
“b”
0.198
0.186
0.199
0.314
0.345
0.330
0.171
0.153
Altezza al garrese - Height at withers
Altezza dorso – Height at back
Altezza groppa – Height at pelvis
Larghezza groppa – Width of pelvis
Lunghezza groppa – Length of pelvis
Lunghezza tronco- Body length
Larghezza testa – Width of head
Lunghezza testa – Length of head
R2
0.908
0.909
0.955
0.923
0.939
0.939
0.784
0.824
CONCLUSIONI
Dall’analisi dei risultati ottenuti si evince che i puledri di razza CAITPR, allevati in provincia di
Bari, tendono al tipo meso-brachimorfo. Per estrinsecare al massimo la precocità somatica di questi
soggetti si dovrà, in seguito, puntare alla realizzazione di un tipo brachimorfo, agendo sugli aspetti
genetici, utilizzando come riproduttori soggetti sia CAITPR che Bretoni in grado di esaltare lo
sviluppo dei diametri trasversali e longitudinali rispetto alle altezze. Inoltre, l’alimentazione delle
fattrici in allattamento e dei puledri nella fase di finissaggio, dovrà essere opportunamente studiata
per garantire buoni risultati.
RINGRAZIAMENTI: Un grazie ai collaboratori Sig.ri Francesco D’Onghia e Giuseppe Ruospo per
il proficuo lavoro svolto nel rilievo dei dati e all’Assessore all’Agricoltura Dott.ssa Procino.
BIBLIOGRAFIA
Braghieri A., Zezza L., Centoducati P., Bongermino L., Melodia L. (1982). Valutazione della
crescita relativa in ovini di razza Gentile di Puglia. Atti 10^ Cong. Int. SIPAOC
Chiofalo L., Zumbo A., Chiofalo B., Lotta L., Rondo Sotera A. (2001). Caratterizzazione
morfologica della popolazione cavallina “Sanfratellana”. Prime osservazioni. Atti 3^ Conv.
Nuove acquisizioni in materia di alimen., allev. e allenam. del cavallo. 49-52.
Huxley J.S. (1932). Problems of relative growth. Ed. Methuen, London.
142
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SUINI CINTA SENESE E LARGE WHITE X CINTA SENESE ALLEVATI
AL PASCOLO IN BOSCO: ALCUNE CARATTERISTICHE QUALITATIVE
DEL PROSCIUTTO∗
Giovanna Preziuso 1 , Claudia Russo 2 , Maria D'Agata 3 , Carolina Pugliese4 , Francesco Sirtori5
RIASSUNTO: 12 suini di razza Cinta Senese e 14 Large White x Cinta Senese sono stati allevati al
pascolo in bosco di macchia Mediterranea fino alla macellazione, avvenuta al raggiungimento di 11
mesi d'età. I prosciutti, ottenuti secondo la tradizionale tecnica di produzione del prosciutto
Toscano, sono stati stagionati per 14 mesi; successivamente, da ogni prosciutto é stato prelevato un
campione di carne (muscolo biceps femoris), da sottoporre ad ana lisi per la determinazione della
composizione chimica centesimale, del contenuto in sale e dell'indice di proteolisi.
PAROLE CHIAVE: suini, pascolo, prosciutto, sale, proteolisi.
CINTA SENESE E LARGE WHITE X CINTA SENESE PIGS RAISED ON PASTURE IN
WOOD: HAM QUALITY TRAITS.
SUMMARY: Twelve Cinta Senese and fourteen Large White x Cinta Senese pigs were raised
outdoor on woodland pasture and slaughtered at an average age of 11 months. Hams were produced
using traditional technique of Toscano ham; after 14 months of seasonig sample of biceps femoris
muscle were taken and analysed for chemical composition, salt content and proteolysis index.
KEY WORDS: pigs, outdoor, ham, salt, proteolysis.
PREMESSA
Negli ultimi anni anche per il settore suinicolo si è verificata una sempre maggiore sensibilizzazione
dell'opinione pubblica verso i problemi di tutela del benessere animale; per migliorare le condizioni
di vita e di salute dei suini si è quindi diffuso l'allevamento all'aperto, per il quale vengono preferite
le razze locali, che meglio si adattano alle diverse situazioni ambientali: in questo contesto viene
favorita la salvaguardia delle risorse genetiche autoctone, nonché il recupero di aree marginali
altrimenti inutilizzate.
Inoltre dal 1976 la Regione Toscana ha condotto una politica di conservazione delle razze in via di
estinzione, contribuendo all'espansione dell'allevamento della Cinta Senese, la cui consistenza
∗
Lavoro eseguito con finanziamento ARSIA (Regione Toscana).
1
Professore associato. Dipartimento di Produzioni Animali. Università di Pisa.
2
Ricercatore. Ibidem.
3
Dottoranda di ricerca. Ibidem.
4
Assegnista di ricerca. Dipartimento di Scienze Zootecniche. Università di Firenze.
5
Dottorando di ricerca. Ibidem.
143
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numerica lascia intravedere buone possibilità di recupero, anche grazie alle opportunità offerte da
un mercato di nicchia per i prodotti da essa derivati (Pugliese e coll., 2000).
Nell'ambito di un progetto di ricerca finanziato dall'ARSIA (Azienda Regionale per lo Sviluppo e
l'Innovazione in Agricoltura) teso alla salvaguardia ed alla valorizzazione della razza Cinta Senese,
è stata svolta un'indagine per valutare le performance produttive di suini Cinta Senese e dei loro
incroci con la Large White allevati al pascolo: in questa nota vengono riportati alcuni parametri di
qualità dei prosciutti.
MATERIALE E METODI
Sono stati utilizzati 14 suini di razza Cinta Senese e 12 meticci provenienti dall'incrocio con la
Large White, razza con la quale tradizionalmente la Cinta senese viene incrociata per ottenere il
cosiddetto "grigio" che, per le sue favorevoli performance produttive, può essere attualmente
proposto come incrocio industriale (Campodoni e coll., 2003; Pugliese e coll., 2003).
Gli animali sono stati allevati al pascolo su terreno boschivo con prevalenza di lecci e castagni, con
integrazione alimentare soltanto in primavera ed in estate; al raggiungimento del peso vivo medio di
circa 140 kg i suini sono stati macellati presso un mattatoio industriale a norma UE: per i risultati
relativi agli accrescimenti, ai rilievi alla macellazione ed alla qua lità della carne rilevata sulla
lombata, si rimanda a precedenti pubblicazioni (Campodoni e coll., 2003; Pugliese e coll., 2003).
I prosciutti sono stati sottoposti a lavorazione e stagionatura seguendo le tecniche proprie della
produzione del prosciutto Toscano, che prevede le fasi di salatura mediante cloruro di sodio, pepe
ed aromi di origine vegetale, riposo, lavaggio, asciugamento e stagionatura.
Dopo stagionatura media di 14 mesi, da ogni prosciutto destro sono stati prelevati campioni di
muscolo biceps femoris da sottoporre ad analisi; nel presente lavoro vengono riportati i risultati
relativi alla composizione chimica centesimale (AOAC, 1995), alla percentuale di cloruro di sodio
(AOAC, 1995), all'indice di proteolisi, espresso come rapporto percentuale tra azoto solubile in
acido tricloroacetico e azoto totale (Careri e coll., 1993) ed all'indice di frammentazione
miofibrillare (MFI) (Culler e coll., 1978).
Per confrontare i parametri qualitativi dei prosciutti derivati dai due tipi genetici considerati, i
risultati sono stati sottoposti ad analisi della varianza semplice (SAS, 1994).
RISULTATI E DISCUSSIONE
In tabella 1 sono riportati i dati analitici rilevati sul muscolo biceps femoris; per quanto riguarda
l'analisi chimica centesimale si può evidenziare una minore umidità ed un maggior contenuto in
proteine dei campioni analizzati rispetto a quanto riscontrato in bibliografia su prosciutto di Parma e
San Daniele (Baldini e coll., 1992; Schivazappa e coll., 1998; Virgili e coll., 1995); tale risultato
conferma il fatto che la diversa lavorazione a cui è sottoposto il prosciutto Toscano determina
caratteristiche chimiche ed organolettiche differenti rispetto agli altri prosciutti italiani.
Comunque, per tutti i prosciutti, la compattezza e la consistenza della carne magra rappresentano i
principali parametri di qualità: infatti, pur essendo gradita una certa "morbidezza" della carne, è
assolutamente da evitare il grave difetto di "mollezza", spesso associato ad altri difetti come colore
scuro, precipitazione di cristalli di tirosina, patina bianca superficiale, retrogusti anomali.... (Virgili
e coll., 1994, 1995). La scarsa consistenza del prosciutto è in genere associata ad un elevato indice
di proteolisi, favorito dal ridotto contenuto in sale e da scarsa disidratazione delle carni.
I risultati della presente indagine hanno mostrato un ridotto indice di proteolisi, a conferma della
tipica consistenza del prosciutto Toscano, che risulta generalmente più "tirato" rispetto a quelli di
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Parma e San Daniele; tale risultato è probabilmente legato alla ridotta umidità ed all'elevato
contenuto in sale riscontrati nei prosciutti in esame ed è confermato dall'elevato rapporto
sale/umidità e dal basso rapporto umidità/proteine (Baldini e coll., 1992; Schivazappa e coll., 1998;
Virgili e coll., 1995).
Per quanto riguarda il confronto fra i prosciutti ottenuti dai suini di razza Cinta Senese o dai loro
incroci con la Large White, l'analisi chimica ha evidenziato una significativa maggior percentuale di
proteine nei meticci (33,07% vs 31,96%).
Interessante osservare nei prosciutti di Cinta Senese un significativo maggiore indice di proteolisi, a
testimonianza di una maggior morbidezza del prodotto; tale risultato è confermato dall'indice di
frammentazione miofibrillare (MFI) che, tendenzialmente maggiore, indica un più elevato grado di
degradazione delle proteine responsabili della consistenza della carne.
Tabella 1: Dati analitici rilevati sul muscolo biceps femoris (sul tal quale)
Table 1: Analytical data of biceps femoris muscle (on wet basis)
Cinta Senese
Meticci
Significatività
Cinta Senese
Crossbreed
Significance
Umidità
%
52,56
52,36
n.s.
Moisture
Proteine grezze
%
31,96
33,07
*
Crude protein
Estratto etereo
%
4,13
4,07
n.s.
Ether extract
Ceneri
%
11,20
10,65
n.s.
Ash
Sale (NaCl)
%
7,24
7,23
n.s.
Salt (NaCl)
Sale/Umidità x 100
13,77
13,82
n.s.
Salt/Moisture x 100
Umidità/Proteine grezze
1,65
1,59
n.s.
Moisture/Crude Protein
Indice di proteolisi
%
13,20
12,31
*
Proteolysis index
MFI
13,34
11,63
n.s.
MFI
*: P≤ 0,05
CONCLUSIONI
Fra i tipi genetici considerati sono state osservate soltanto lievi differenze nella qualità del
prosciutto stagionato, riabilitando in parte la Cinta Senese, per la quale erano state rilevate peggiori
performance in vivo ed alla macellazione rispetto ai meticci (Campodoni e coll., 2003); nell'ambito
della valorizzazione dei prodotti stagionati, il valore aggiunto derivante dall'impiego della Cinta
Senese potrebbe quindi compensare tali risultati ed incoraggiare l'allevamento della razza in
purezza.
145
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BIBLIOGRAFIA
AOAC (1990). Official methods of analysis of the Association of Official Analytical Chemists.
Meat and meat products. 39. 15th edition. Pubblication Washington. DC., 931-933.
Baldini P., Bellatti M., Camorali G., Palmia F., Parolari G., Reverberi M., Pezzani G., Guerrieri C.
Raczynski R. Rivaldi P. (1992). Caratterizzazione del prosciutto tipico italiano in base a
parametri chimici, fisici, microbiologici e organolettici. "Industria Conserve" 67, 149-159.
Campodoni G., Badii M., Sirtori F. (2003). Cinta Senese and Large White x Cinta Senese raised on
woodland pasture: in vita and slaughter performances "Italian Journal Animal Science" 2
(Suppl.1), 394-396.
Careri M., Mangia A., Barbieri G., Bolzoni L., Virgili R., Parolari G. (1993). Sensory property
relationships to chemical data of Italian-type Dry-Cured Ham. "Journal Food Science" 58 (5),
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Culler R.D., Parrish Jr F.C., Smith G.C., Cross H.R. (1978). Relationship of myofibril
fragmentation index to certain chemical, physical and sensory characteristics of bovine
longissimus muscle. "Journal Food Science" 43, 1177-1180.
Pugliese C., Bozzi R., Campodoni G., Acciaioli A.., Franci O. (2000). Indagine conoscitiva sugli
allevamenti bradi di razza Cinta Senese in Toscana. "Rivista Suinicoltura" 5, 73-76.
Pugliese C., Campodoni G., Badii M., Pianaccioli L., Franci O. (2003). Cinta Senese and Large
White x Cinta Senese raised on pasture in wood: sample join composition and meat quality.
"Italian Journal Animal Science" 2 (Suppl. 1), 397-399.
SAS Institute Inc. (1994). JMP, Cary, NC, USA.
Schivazappa C., Virgili R., Degni M., Cerati C. (1998). Effetto della tipologia suina di provenienza
su alcune caratteristiche del prosciutto di Parma. "Industria Conserve" 73, 110-116.
Virgili R., Schivazappa C., Parolari G., Rivaldi P. (1994). Enzimi proteolitici nelle cosce destinate
alla produzione di prosciutto italiano: la catepsina B. "Rivista Suinicoltura" 9, 61-65.
Virgili R., Parolari G., Schivazappa C., Soresi Bordini C., Volta R. (1995). Effetto della materia
prima sulla proteolisi e sulla consistenza del prosciutto crudo tipico "Industria Conserve" 70, 2131.
146
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METODO D’ALLEVAMENTO “MEDITERRANEO” PER VALORIZZARE
GLI ALLEVAMENTI ALTERNATIVI LEGATI AL TERRITORIO
Maurizio Arduin1
RIASSUNTO: Con l’obiettivo di rendere omogenee le tecniche d’allevamento e riproduzione per le
razze locali e per le produzioni tipiche vengono indicate, per le diverse specie avicole di interesse
zootecnico, le concentrazioni di animali nei ricoveri e nei pascoli, le caratteristiche dei ricoveri
(posatoi e nidi) e l’età minima di macellazione. Vengono inoltre date indicazioni sulle cure sanitarie
e sui metodi di rimonta.
PAROLE CHIAVE: pollo, tacchino, faraona, oca, anatra, rimonta, ricovero, pascolo,
METHOD OF MEDITERRANEAN BREEDING TO EXPLOIT ALTERNATIVE BREEDINGS
CONNECTED TO THE TERRITORY
SUMMARY: With the aim to homogenize the breeding and reproduction methods of local
breeds/races, the concentrations in shelters and pastures of animals (perches and nests) and the
minimum age to butcher are indicated for the typical productions of the different avicultural
species of zootechnical interest. Moreover are indicated medical treatments and methods of
remount.
KEY WORDS: chicken, turkey, guinea-fowl, goose, duck, remount, shelter, pasture.
PREMESSA
L’attività di selezione e miglioramento genetico di razze rustiche di avicoli ha evidenziato la
necessità di definire un disciplinare per le procedure di sele zione e allevamento destinate alle
produzioni di nicchia utilizzando razze autoctone avicole. Questo metodo d’allevamento integrato
prende origine dalle seguenti esperienze:
- allevamento tradizionale come dai disciplinari della Stazione Sperimentale di Pollicoltura di
Rovigo;
- integrità dei suoli e protezione dell’ambiente applicando un metodo estensivo;
- benessere degli animali acquisendo le ultime conoscenze in materia;
- salubrità delle carni mutuando le norme previste in zootecnia biologica;
- legame con l’ambiente applicando idonei programmi di selezione e miglioramento genetico;
- tipicità delle produzioni attraverso l’impiego di razze autoctone, l’integrazione alimentare con
prodotti legati al comprensorio e il recupero degli usi locali.
1
Osservatorio Innovazione. Veneto Agricoltura, Legnaro (Pd).
147
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RISULTATI E DISCUSSIONE
Dall’elaborazione e dall’integrazione delle conoscenze indicate in premessa, e conformemente
all’esperienza acquisita ed alle informazioni scientifiche, possono essere dedotte le indicazioni di
seguito descritte.
Ricoveri
Recuperando le regola dell’allevamento tradizionale e per assicurare il benessere degli animali in
allevamento, garantendo la “libertà dal disagio” durante le fasi di accrescimento e ingrasso, il
pavimento dei ricoveri deve essere tutto pieno (paglia, truciolo, ecc.) per le anatre e per le oche
mentre, per polli, faraone e tacchini, a partire dalla 9^ settimana di vita, il pavimento deve essere
per almeno 2/3 realizzato con posatoi adeguatamente dimensionati. Per quanto riguarda i
riproduttori in pavimento rimane totalmente pieno per anatre e oche mentre per polli, faraone e
tacchini il pavimento deve costituito da posatoi almeno per 1/3-1/2 della sua superficie.
Per quanto riguarda la concentrazione dei capi, all’interno dei ricoveri, questa non deve superare,
durante la fase di ingrasso e dopo l’8^ settimana di vita, il seguente numero di capi per m2 di
ricovero: 10 capi per i polli; 8 capi per i capponi oltre la 16^ settimana di vita; 5 capi per tacchini; 8
capi per le anatre; 3-4 capi per le oche e 10 capi per le faraone.
Durante la fase riproduttiva il numero di capi per m2 di ricovero deve essere: 4 per le razze nane e
leggere di pollo; 3 per le razze mediopesanti e pesanti di pollo; 3 per i tacchini; 5 per le faraone; 2
per le oche e 3 per le anatre.
Pascolo
I ricoveri devono sempre avere a disposizione un’adeguata area pascolo. Il corretto
dimensionamento del pascolo è fondamentale per garantire l’integrità del suolo e la protezione
dell’ambiente evitando di superare una produzione di 170 Kg. di azoto/anno per ettaro a pascolo.
Un pascolo idoneo consente poi di garantire un ceto libello di benessere agli animali garantendo
loro la “libertà di esprimere un comportamento normale”.
Gli animali in accrescimento devono quindi poter accedere a recinti di ambientamento già dalla 3^4^ settimana di vita. Dall’8^ settimana di vita (e durante l’attività riproduttiva) devono avere libero
e continuo accesso al pascolo. La concentrazione di capi (m2 di pascolo per capo) non deve essere
inferiore a: 10 m2 /capo per i polli; 15 m2 /capo per i capponi; 25 m2 /capo per i tacchini; 15 m2 /capo
per le anatre; 30 m2 /capo per le oche e 10 m2 /capo per le faraone. Per evitare competizioni e
cannibalismo il pascolo deve essere sufficientemente diversificato (presenza di siepi e alberi) e deve
garantire un’area di ombreggiamento pari ad almeno 4 volte quella dei ricoveri. Per una adeguata
igiene d’allevamento i pascolo devono disporre di “buche” per il bagno di sabbia.
Nidi
Un adeguato dimensionamento dei nidi garantisce agli animali la “libertà di esprimere un
comportamento normale” e una “libertà dal disagio”. Sono da preferire i nidi collettivi anche se per
necessità di selezione sono ammessi i nidi individuali da utilizzare durante il primo ciclo di
deposizione. Questi i dati indicati per le singole specie: un nido individuale ogni 4 femmine o 120
cm2 di nido collettivo per femmina nel caso di polli di razze nane o leggere; un nido individuale
ogni 4 femmine o 150 cm2 di nido collettivo per femmina nel caso di polli di razze mediopesanti o
pesanti; un nido individuale ogni 3 femmine o 180 cm2 di nido collettivo per femmina nel caso di
tacchini; un nido individuale ogni 4 femmine o 120 cm2 di nido collettivo per femmina nel caso di
faraone; un nido individuale ogni 4 femmine o 200 cm2 di nido collettivo per femmina nel caso di
oche; un nido individuale ogni 4 femmine o 150 cm2 di nido collettivo per femmina nel caso di
anatre.
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Libertà dalla paura e dall’angoscia
I ricoveri e i pascoli devono essere adeguatamente attrezzati per evitare l’ingresso di predatori e di
animali nocivi. Gli animali devono poter riconoscere il tramonto e non aver paura del buio: è quindi
vietata l’illuminazione artificiale serale. La consistenza delle unità di produzione deve essere di
circa 500 soggetti nelle prime 8-10 settimane di vita. In seguito, durante l’ingrasso e la
riproduzione, devono essere costituiti “nuclei-ricovero” non superiori a 150 individui. In una stessa
area produttiva possono essere sistemati più “nuclei-ricovero”, anche senza recinzioni di divisione,
a patto che vangano rispettate la concentrazione dei capi al pascolo e la distanza-pascolo tra un
nucleo-ricovero e l’altro.
Alimentazione
Agli animali allevati col “metodo mediterraneo” deve essere garantita la “libertà dalla fame e dalle
sete”. Durante le prime 6-8 settimane di vita gli animali devono essere alimentati a volontà con
razioni proteiche; dalla 6^-8^ alla 10^-12^ settimana l’alimentazione deve essere razionata e ricca
di fibra; dalla 10^-12^ settimana e fino alla fine dell’ingrasso la razione deve essere energetica e
nuovamente a volontà. Ai riproduttori deve essere somministrata una razione in grado di evitarne
l’ingrassamento e favorire il pascolo. Gli animali, a partire dalla 3^ settimana di vita, devono
sempre avere a disposizione rastrelliere con foraggi freschi e/o conservati.
Età minima di macellazione:
per garantire la tipicità delle produzioni e la qualità delle carni vengono indicate le seguenti età
minime di macellazione: pollo 16 settimane (112 giorni); cappone26 settimane (182 giorni);
tacchino, faraona e oca 22 settimane (154 giorni); anatra comune 15 settimane (105 giorni); anatra
muta e mulard 18 settimane (126 giorni).
Rimonta
Per selezionare un adeguato livello di rusticità non è ammessa la rimonta con animali schiusi da
uova deposte da riproduttori al primo ciclo di deposizione. La rimonta può essere fatta con animali
schiusi da uova deposti da riproduttori che hanno superato almeno una muta e cioè dal secondo
ciclo di deposizione in poi. Dalle uova deposte al secondo ciclo di deposizione si scelgono
preferibilmente le femmine; dalle uova deposte al terzo ciclo di deposizione si scelgono
preferibilmente i maschi. Nei gruppi riproduttivi al fine di garantire un certo livello di benessere
degli animali, si utilizzano preferibilmente solo maschi di un anno.
Tipicità delle produzioni
Al fine di garantire la tipicità delle produzioni tradizionali ottenute con “metodo mediterraneo” è
necessario che:
- gli animali vengano allevati in un comprensorio ben definito;
- gli animali devono nascere da riproduttori nati e selezionati nello stesso comprensorio;
- l’alimentazione deve essere integrata con materie prime prodotte nel comprensorio.
Igiene e profilassi
Dovendo garantire agli animali la “libertà dal dolore, dalle ferite e dalle malattie” viene favorita la
prevenzione predisponendo, per ogni comprensorio, idonei piani di profilassi per gli animali in
produzione e per quelli in rimonta. I programmi di profilassi per gli animali in produzione devono
garantire la protezione da malattie infettive e parassitarie. I programmi di profilassi per gli animali
in rimonta devono garantire la resistenza individuale dei riproduttori a determinate situazioni
patologiche.
Non è ammessa la pratica del taglio del becco e dei tendini alari.
149
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Salubrità delle carni
Nell'alimentazio ne degli animali non vengono impiegai antibiotici, stimolatori di crescita o altre
sostanza intese a stimolare la crescita o la produzione.
Il tempo di sospensione tra l'ultima somministrazione di medicinali e la macellazione degli
alimentari deve essere di durata doppia rispetto a quello stabilito dalla legge o, qualora tale tempo
non sia precisato, di 48 ore.
Al fine di non distribuire carni di animali che “sono stati ammalati” non sono consentiti interventi di
cura. Gli animali ammalati e curati, anche con metodo omeopatico, prodotti fititerapici, ecc., non
possono essere commercializzati come “prodotti con metodo mediterraneo”.
CONCLUSIONI
L’allevamento con metodo mediterraneo, conformemente all’esperienza acquisita ed alle
informazioni scientifiche, integra le conoscenze tradizionali e tecnologiche già note e può essere
soggetto a modifiche e/o integrazioni in base all’evoluzione delle innovazioni. Questo metodo
inoltre da delle indicazioni sul metodo da seguire per il recupero, la conservazione e la diffusione
delle razze e delle popolazioni locali di avicoli che, da sempre allevate con metodo tradizionale,
difficilmente si adattano a tecniche d’allevamento intensive.
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PROTOCOLLO PER IL RECUPERO DELLE RAZZE AUTOCTONE E LA
VALORIZZARE GLI ALLEVAMENTI ALTERNATIVI LEGATI AL
TERRITORIO
Maurizio Arduin1
RIASSUNTO: In questi anni l’attività di recupero e conservazione delle razze avicole ha raccolto
dalle campagne gruppi di animali che per decenni si sono conservati autonomamente arrivando sino
a noi. Queste popolazioni, sottoposte a prove e valutazioni hanno, in alcuni casi, manifestato
problemi di fertilità e fecondità, una perdita della variabilità genetica e una deriva genetica relativa
alle caratteristiche morfologiche tipiche della razza. Sono state quindi analizzate le esperienze già
avviate (gallina Padovana, Gallina Polverara, pollo Bianca di Saluzzo, pollo Valdarnese, ecc.)
acquisendone i punti di forza, evidenziando e risolvendo i punti critici. Il metodo proposto tende ad
evitare tali problematic he consentendo sia la conservazione della razza che un’adeguata attività di
miglioramento genetico a scopo commerciale.
PAROLE CHIAVE: conservazione, valorizzazione, razze lovali.
RECORD FOR THE RECOVERY OF AUTOCHTONAL SPECIES AND THE EXPLOITATION
OF THE ALTERNATIVE BREEDINGS CONNECTED TO THE TERRITORY
SUMMARY: Recently the activity of recovery and preservation of avicultural species has picked
up from lands animals that for decades have been keep themselves autonoms, arriving to us; these
populations, subjected to tries and valuations have sometimes showed fertility and fecundity
problems, a loss of genetic drift in relation to the morphological characteristics, typical of race.
Experiences, wich have already started, have been analyzed (for example Gallina Padovana, Gallina
Polverara, Pollo Bianco di Saluzzo, Pollo Valdarnese), some positive aspects have been acquired,
weak points have been evinced and resolved. Method, wich has been suggested, has the purpose to
evade these problems, in order of permitting both the preservation of breed and an appropiate
genetic improvement for the sake of trade.
KEY WORDS: preservation, eploitation, local races.
PREMESSA
Negli ultimi mesi si è presentata la necessità di pianificare l’attività di recupero e valorizzazione di
razze avicole autoctone: gallina Grossa di Bologna nelle varietà nera e cucula, pollo Giante nera
d’Italia, tacchino di Corticella, tacchino di Benevento, anatra Friulana, oca del Doge o di Treviso,
pollo Milanino, pollo Perniciato Fidentino e pollo Italiano a cinque dita. In alcuni casi l’attività
richiesta è solo di conservazione mentre in altri vengono richiesti programmi di valorizzazione
produttivi. In altri ancora vengono richiesti entrambi. Al fine di omogeneizzare l’attività e non
1
Osservatorio Innovazione. Veneto Agricoltura, Legnaro (Pd).
151
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entrare in competizione tra attività di conservazione e programmi di miglioramento genetico è stato
attivato un diagramma di flussi che ha lo scopo di consentire un facile monitoraggio dei progressi
ottenuti. Questo protocollo ha come obiettivo principale la conservazione della variabilità genetica
delle razze autoctone e consente, successivamente, l’attivazione di programmi di miglioramento
genetico per attività economiche. Molta importanza è stata data al legame col territorio vincolando
l’attività alla costituzione di registri anagrafici e associazioni di razza. La scelta di un “diagramma
di flussi” per organizzare l’attività di recupero, conservazione e valorizzazione delle razze avicole, è
dettata dalla necessità di non avventurarsi in maldestre attività di conservazione o produttive
portare i soggetti recuperati alla deriva genetica.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Le fasi del diagramma di flussi volte ad acquisire i risultati precedentemente indicati in premessa
sono le seguenti:
• ricognizione storica: deve essere realizzata un’indagine bibliografica e iconografica volta a
stabilirne l’autenticità e a tracciare l’evoluzione della razza;
• acquisizione della memoria storica: ci si può trovare di fronte ad una popolazione con
caratteristiche ben definite e trasmissibili ma manca del tutto qualsiasi riferimento bibliografico
(es. “Fagiano delle Valli Napoleoniche veronesi” e “Oca del Doge” a Treviso). In questo caso è
necessario acquisire i “ricordi” della popolazione locale rafforzandoli in un documento storico;
• identificazione del comprensorio oggetto di studio: in base alle indicazioni storiche viene
individuato il comprensorio, al quale è legata la popolazione, definendone le caratteristiche ecopedologiche, che influenzeranno i disciplinari di conservazione;
• monitoraggio del territorio: si avvia la ricerca degli animali e l’individuazione dei gruppi
esistenti procedendo ad una corretta valutazione del gruppo etnico;
• ricostituzione dei soggetti: a volte la popolazione può essere del tutto estinta ma, dalla
documentazione storica, è possibile recuperare i programmi genetiche che ne hanno permesso la
formazione (es. Grossa di Bologna, Gigante nera d’Italia, Milanino, ecc.). in questo caso è
possibile procedere alla ricostituzione della razza;
• purezza genetica: viene valutato il grado di purezza genetica della popolazione analizzando
l’uniformità dei soggetti e la trasmissione dei caratteri somatici;
• registro anagrafico: con le procedure previste dall’attuale normativa si procede all’istituzione
del registro anagrafico nel quale vengono annotati gli animali riproduttori della razza o
popolazione in esame con l'indicazione dei loro ascendenti;
• associazione di razza: per formare un solido legame tra la razza e il comprensorio si procede ad
una diffusione degli animali e all’istituzione di un’associazione di razza tra gli allevatori
interessati;
• standard di razza: lo standard di razza, che stabilisce le caratteristiche della popolazione in
esame, deve essere realizzato dall’associazione di razza e costituire parte integrante del registro
anagrafico;
• disciplinare di conservazione: dopo il recupero di una popolazione e la realizzazione dello
standard è indispensabile procedere al mantenimento della variabilità genetica della popolazione
anche a scapito della uniformità delle caratteristiche somatiche. Il disciplinare di conservazione,
che deve essere fatto proprio dall’associazione di razza, deve garantire soprattutto la rusticità
della popolazione e il mantenimento della variabilità genetica del gruppo e dei singoli soggetti;
tali obiettivi vengono raggiunti con l’applicazione di un idoneo programma riproduttivo;
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• iniziative di valorizzazione: solo quando è consolidata un’associazione allevatori di razza e
quando le caratteristiche genetiche della popolazione sono al sicuro si può procedere a iniziative
di valorizzazione. Questa è la linea di confine tra attività di conservazione e attività di
miglioramento genetico e deve avere come attore principale l’Associazione allevatori di razza. le
iniziative di valorizzazione possono esseeìre così individuate: riconoscimento di “prodotto
agroalimentare tradizionale”, riconoscimento di “prodotti tipico”, realizzazione di marchi
aziendali e certificazione di processo, marchi Comunitari: D.O.P., I.G.P., ecc. In questa fase è da
favorire lo sviluppo di più aziende che, a marchio individuale, commercializzano il prodotto
mentre la vendita collettiva (monopolio d’offerta) ha spesso dato risultati deludenti;
• incubatoi di moltiplicazione e certificazione volontaria di prodotto: l’attività di valorizzazione
porta ad aumentare la diffusione dei soggetti anche al di fuori del comprensorio individuato
come zona di origine. È consigliabile l’istituzione di uno o più incubatoi, privati o associati e
l’identificazione del prodotto attraverso “certificazione volo ntaria” come previsto dalla
normativa comunitaria;
• miglioramento genetico: nelle aziende impegnate in attività produttive deve essere abbandonato
il programma genetico di conservazione e devono essere introdotti programmi genetici di
miglioramento in base alle esigenze di mercato. Per esempio, nel caso della Polverara, presente
in due colorazioni (bianca e nera), è auspicabile il miglioramento genetico verso la produzione di
carne per la varietà bianca e il miglioramento genetico verso la produzione di uova per la varietà
nera;
• disciplinari di produzione: le diverse attività produttive devono essere accompagnate da
disciplinari di produzione che si differenziano dai disciplinari di conservazione;
• valutazioni produttive: solo quando si è sviluppata una credibile attività produttiva è opportuno
avviare valutazioni produttive della popolazione e delle diverse varietà. Le valutazioni
produttive, condotte con metodo scientifico, durante la fase di conservazione non potranno mai
essere “ripetibili” e pertanto i dati che ne risultano presentano una significatività inutile;
• libro genealogico: il libro genealogico è l’ultima fase del processo e ha lo scopo di far conoscere
le caratteristiche produttive, misurate e trasmissibili alla prole, dei riproduttori.
CONCLUSIONI
Negli interventi di recupero, conservazione e valorizzazione delle razze locali è necessario
mantenere separate le attività di conservazione da quelle di valorizzazione. Dalle esperienze
acquisite è stato possibile elaborare un diagramma di flussi che consente la conservazione della
variabilità genetica, individuale e di gruppo, nelle popolazioni in conservazione e rende possibile
programmi di miglioramento genetico nelle iniziative di valorizzazione commerciale.
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INFLUENZA DELL'ALIMENTAZIONE SU ALCUNE CARATTERISTICHE
QUANTI-QUALITATIVE DELLA CARNE DI STRUZZO
D'Andrea G. 1 , Pacelli C. 2 , Surianello F. 3 , Braghieri A. 4 , Girolami A. 5
RIASSUNTO: II presente studio ha inteso valutare l'effetto di differenti diete (1 - basso tenore
proteico/basso apporto energetico, 2 - alto tenore proteico/basso apporto energetico, 3 - alto tenore
proteico/alto apporto proteico), somministrate nel corso della fase di finissaggio (da Sali mesi di
età), su alcune caratteristiche quanti-qualitative della carne di 16 struzzi Blue Neck L'indagine ha,
inoltre, considerato l'influenza del muscolo (M. Gastrocnemms, M. Ihotibiahs laterahs, M,
Ihofemorahs, M Ihofibulans) su alcuni parametri qualitativi I risultati non hanno evidenziato un
effetto dell'alimentazione sui rilievi alla sezionatura, il contrario è stato rilevato per il water loss e
per la luminosità della carne (P<0,01) Sono state osservate fra i muscoli differenze statisticamente
significative per quasi tutti i parametri considerati.
PAROLE CHIAVE: struzzo, dieta, muscolo, qualità della carne
FEEDING INFLUENCE ON MEAT PRODUCTION IN OSTRICHES
SUMMARY: Sixteen Blue Neck ostriches were used to study the effect of diet (low C.P %-low E,
high C P %- low E, high C P % - high E) and muscle (M. Gastrocnemms, M. Ihotibialis laterahs, M.
Ihofemorahs, M. Ihofibulans) on carcass traits and meat quality There was no significant difference
among diets for dissection data Diet significantly (P<0,01) influenced water loss and meat lightness
(L*) whereas muscle markedly affected (P<0,001) shear values, water holding capacity and most of
colour parameters
KEY WORDS: Ostrich, feeding, muscle, meat quality
PREMESSA
L'allevamento dello struzzo ha una tradizione consolidata in Sud Africa, che detiene tuttora il
primato delle produzioni di questo Ratite Tuttavia, negli anni più recenti, questo tipo di produzione
si è notevolmente sviluppato in diverse parti del Mondo (Israele, USA, Francia, Australia, Italia),
dove le condizioni ambientali e la ricettività del mercato ne hanno reso possibile la diffusione La
carne di struzzo, per l'elevata digeribilità, il basso potere calorico e l'ottimale composizione acidica
(Sales e coli, 1996, Paleari e coli, 1998, Sales, 1998), rappresenta una valida alternativa alla carne
bovina Dopo una fase iniziale caratterizzata solo dall'allevamento e vendita di riproduttori,
1
Dottorando di Ricerca. Dipartimento Scienze Prod Animali. Università Basilicata Potenza.
2
Ricercatore. Ibidem.
3
Dottorando di Ricerca. Ibidem.
4
Ricercatore confermato. Ibidem.
5
Professore ordinario. Ibidem.
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attualmente in Italia l'allevamento dello struzzo ha come scopo prevalente la produzione di carne
Tuttavia, ancora non si è pervenuti alla definizione di un'appropriata filiera di produzione, m
termini di alimentazione, di management degli animali e di marketing dei prodotti (Salghetti, 2002).
La presente sperimentazione ha lo scopo di valutare l'effetto di diete a diverso apporto energetico e
proteico.
MATERIALE E METODI
La ricerca è stata condotta su 16 struzzi del genere Struthio camelus var australis (Blue Neck) che,
all'età di circa 7-8 mesi, sono stati suddivisi in tre gruppi, omogenei per età, alimentati ad libitum
con tre differenti diete, la cui composizione è riportata nelle tabelle 1 e 2. I mangimi commerciali
per il finissaggio SZ60 e SZ130 (Panzoo) differivano per tenore in proteina grezza e concentrazione
energetica. Tutti gli animali sono stati allevati per circa 60d in tre diversi paddock, dotati di un
ricovero, fino ad un'età compresa tra 10 e 11 mesi (età di macellazione). Da una precedente
sperimentazione (Girolami e coll., 2003), infatti, tale età è risultata la più idonea per ottimali
produzioni quanti-qualitative. La sezionatura delle mezzene è avvenuta dopo 36h dalla mattazione
secondo la metodica indicata dall'Istituto di ricerca sulle carni di Kulmbach - Germania (Reiner e
Sommer, 1996)
Tabella 1: Composizione della razione
Table 1:Diet composition
Erba medica
Alfalfa
Mangime nucleo SZ60
Commerciai pellet
Mangime nucleo SZ 130
Commerciai pellet
Soia
Soy
1
2
3
40%
40%
40%
60%
42%
60%
18%
Tabella 2: Composizione chimica e valore nutritivo degli alimenti.
Table 2: Chemical composition and nutritive value offeedstuffs
1
2
U.F/Carne
French U.F V/kg dry matter
Protidi grezzi Crude protein
Estratto etereo
Ether extract
Fibra grezza
Crude fibre
Ceneri
Ash
Metiomna
Methwnin
3
0,88
0,83
0,88
19,28
24,66
24,23
3,3
2,7
3,06
19,32
19,52
18,98
9,05
12,08
8,95
0,46
0,63
0,47
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Dal fuso (regione anatomica della gamba) è stato isolato il muscolo Gastrocnemius (GT). Dal
sovracoscia (regione anatomica della groppa propriamente detta e della "sella") sono stati isolati i
muscoli Iliotibialis lateralis (IT), Iliofemoralis (IF), Iliofibularts (IFB) e Femorotibialis (FT). I
parametri considerati sono i seguenti:
- pH (solo sui muscoli GT e IT) a 1 e a 24 ore dopo la mattazione, utilizzando un pHmetro portatile
(Manna, HI 9025), provvisto di elettrodo per carne;
- colore - i parametri colorimetrici L* (Luminosità), a* (indice del rosso), b* (indice del giallo) e C
(croma) sono stati misurati mediante colorimetro Minolta.
- forza di taglio (WBS) (Girolami e coll., 2003);
- water loss - stimato applicando la formula indicata da Insausti e coll. (2001).
Tutti di dati sono stati sottoposti ad analisi della varianza per misure ripetute (proc.GLM, SAS,
1990), considerando il muscolo ed il tempo come fattori ripetuti e la dieta come fattore non ripetuto.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Dieta
Non si evidenziano effetti di rilievo dell'alimentazione sull'incidenza percentuale dei vari muscoli
sulla mezzena e sulla coscia (tabella 3).
Tabella 3: Incidenza % dei muscoli su mezzena e coscia (media ± e.s. ).
Table 3: Percentage of muscles on half carcass and leg basis (mean ± s.e).
Dieta
Gruppo 1
Gruppo 2
P
Diet
Peso mezzena PM (kg)
Half carcass weight
17,33 ±1,41
16,34 ± 1,29
NS
Peso coscia PC (kg)
Leg weight
11,17 ± 0,62
10,67 ± 0,57
NS
PC/PM (%)
64,88 ± 3,32
66,51 ± 3,03
NS
GT/PM (%)
9,79 ± 0,81
8,99 ± 0,74
NS
GT/PC (%)
14,98 ± 1,00
13,61 ± 0,91
NS
IT/PM (%)
5,67 ± 0,74
5,47 ± 0,68
NS
IT/PC (%)
8,81 ± 0,93
8,10 ± 0,85
NS
IF/PM (%)
2,60 ± 0,09
2,55 ± 0,09
NS
IF/PC (%)
4,01 ± 0,19
3,88 ± 0,18
NS
IFB/PM (%)
6,88 ± 0,37
6,46 ± 0,33
NS
IFB/PC (%)
10,58 ± 0,38
9,76 ± 0,35
NS
FT/PM (%)
5,64 ± 0,66
7,36 ± 0,60
P<0,10
FT/PC (%)
8,66 ± 0,95
11,12 ± 0,87
P<0, 10
Analogamente a quanto riscontrato da French e coll. (2001) nei bovini, il tipo di dieta non influenza
significativamente il pH e la forza di taglio (tabella 4). L'effetto dieta risulta significativo (P<0,01)
per il parametro -water loss., con valori inferiori per i soggetti del gruppo 2 (tabella 4).
Relativamente ai parametri colorimetrici, l'indice L* risulta significativamente influenzato dal
fattore alimentare (P<0,01). La carne prodotta dagli struzzi alimentati con dieta ad alto livello
energetico e con basso tenore proteico (gruppo 1) risulta più chiara (P<0,001) rispetto a quella degli
altri due gruppi (tab. 4). Presumibilmente, il più alto apporto energetico ha determinato una maggior
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infiltrazione di grasso nella carne, con positive influenze sull'indice di luminosità (Muir e coll.,
1998). Nei bovini l'influenza dell'alimentazione su questo parametro in alcune sperimentazioni non
è risultata significativa (French e coll., 2001), mentre altri Autori (Bidner e coll., 1981; Reagan e
coll., 1977) hanno riscontrato una carne più scura nei soggetti alimentati con foraggi. L'effetto
dell'alimentazione sugli altri indici colorimetrici è risultato irrilevante.
Tabella 4: Variazione di alcune caratteristiche qualitative della carne m funzione della dieta (media
+ e.s.)
Table 4: Diet effect on meat quality (mean± s.e.)
Dieta
1
2
3
pHl
5,94 ± 0,05B
6,21 ± 0,05AA
5,95 ± 0,05B
pH24
5,64 ± 0,05B
5,95 ± 0,05Aa
5,78 ± 0,05b
WBS (kg)
1,28 ± 0,09
1,12 ± 0,13
0,99 ± 0,1
WL (%)
0,63 ± 0,04A
0,33 ± 0,05B
0,24 ± 0,05B
L*
32,66 ± 0,22A
30,22 ± 0,24B
30,02 ± 0,24B
a*
13,48 ± 0,26
14,25 ± 0,28
14,27 ± 0,28
b*
2,09 ± 0,16
2,44 ± 0,17
2,55 ± 0,17
C
13,43 ± 0,29
14,10 ± 0,32
13,93 ± 0,32
A,B P<0,001; A,B P<0,01; a,b P<0,05
Muscolo
II muscolo ha scarsa influenza sull'andamento del pH (tabella 5), in accordo con quanto evidenziato
da Berge e coll. (1997) nei muscoli di emù. Altre sperimentazioni (Sales e Mellett, 1996; Sendra e
coll., 2000), al cont rario, hanno rilevato differenze rilevanti fra i muscoli per questo parametro.
Analogamente a quanto osservato da vari Autori (Sales e Mellet, 1996; Sales e Horbanczuck, 1998;
Paleari e coll., 1998; Sendra e coll., 2000; Hoffman e coll., 2001), il pH finale della carne di struzzo
tende a rimanere piuttosto alto (tabelle 4 e 5). Sales e Mellett (1996), in base ai valori elevati di pH
riscontrati in diversi muscoli di struzzo, hanno classificato la carne di questo ratite come intermedia
fra una carne normale (pH<5,8) ed una DFD (pH>6,2). La tenerezza della carne varia
significativamente in relazione al muscolo (P<0,001), a conferma di quanto precedentemente
osservato in struzzi della stessa età (Girolami e coll., 2003). Il M. Gastrocnemius, infatti, risulta più
duro rispetto agli altri muscoli considerati, mentre si conferma la maggiore tenerezza
dell'Iliofibularis e dell'Iliofemoralis ed il valore intermedio del M. Iliotibialis. Un andamento
analogo è stato rilevato da altri Autori nello struzzo (Pollok e coll., 1997) e negli emù (Berge e coll.,
1997). Queste differenze di tenerezza fra i muscoli suddetti potrebbero essere attribuite al contenuto
di collagene maggiore nel GT e minore nell'IFB (Sales e coll., 1996). Il water loss differisce in
maniera significativa fra i muscoli (tabella 5) (P<0,01); il muscolo GT, rispetto all'IT, infatti,
evidenzia minori perdite percentuali (P<0,001) facendo presupporre un maggiore potere di
ritenzione dell'acqua, analogamente a quanto osservato negli stessi muscoli di struzzo da Sendra e
coli. (2000). L'effetto muscolo è rilevante sull'indice L* (P<0,001); in particolare il Gastrocnemius
risulta meno luminoso (più scuro) rispetto agli altri muscoli (P<0,001); al contrario Sendra e coli.
(2000) non hanno osservato differenze di rilievo fra i muscoli. Anche l'indice del rosso a* (P<0,01)
e C (P<0,001) variano significativamente in funzione del muscolo con valori più elevati nei muscoli
Iliofemoralis e lliofibularis. I valori di a* e di C osservati sono simili a quelli rilevati da Sendra e
coll. (2000) nella carne di struzzi allevati in Spagna. Hoffman e coll. (2001), al contrario, riportano
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valori di a* inferiori. L'indice del giallo b* non risulta influenzato dal tipo di muscolo.
Considerando nell'insieme i rilievi colorimetrici della presente sperimentazione, questo prodotto
può essere classificato come carne scura, in riferimento alla classificazione del colore della carne
riportata da Alberti e coll. (2002). L'intenso colore rosso, caratteristico della carne di struzzo e degli
altri ratiti è dovuto ad un elevato contenuto di mioglobina (Sales, 1996; Berge e coll., 1997). Questa
peculiarità va considerata positivamente da un punto di vista dietetico in quanto indice di un più
elevato contenuto di ferro. Ferrara e coll. (2002) hanno rilevato che la carne di struzzo presenta una
quantità di Fe pari a 3,8mg/100g, più elevato che nella carne di altre specie.
Tabella 5: Variazione di alcune caratteristiche qualitative della carne in funzione del muscolo
(media ± e s)
Table 5: Muscle effect on meat quality (mean ±s e)
GT
IF
IFB
IT
FT
pHl
6,07 ± 0,04
6,00 ± 0,04
pH24 5,82 ± 0,04
5,76 ± 0,04
WBS 1,90 ± 0,10A 0,65±0,14Bb 0,85±0,14Ba l,14 ± 0,15Ba
l,ll±0,14Ba
WL 0,26 ± 0,06Bb 0,30 ± 0,06Bb 0,50 ± 0,06a 0,57 ± 0,06AAa
0,40 ± 0,06Bb
L*
29,19 ± 0,30B 31,64±0,30Aa 31,77±0,30Aa 30,68 ± 0,30Ab
31,58±0,30Aa
a*
12,91 ± 0,35Bb 14,83 ±0,35Aa 14,61 ±0,35A
13,91±0,35a
13,73 ±0,35b
b*
2,14 ± 0,21
2,65 ±0,21
2,50 ±0,21
2,31 ±0,21
2,18 ±0,21
C
12,30±0,40BBb 14,85±0,40A 14,11±0,40A 14,06 ± 0,40A
13,77±0,40a
A,B P<0,001; A,B P<0,01; a, b P<0,05
CONCLUSIONI
Tenendo conto delle limitate acquisizioni relative al rapporto fra caratteristiche quanti-qualitative
della carne ed alimentazione negli struzzi, la presente sperimentazione va considerata come un
primo contributo a questa problematica E' opportuno, infatti, prevedere ulteriori studi per
individuare idonei piani alimentari per questa specie tali da ottenere un prodotto di qualità,
rispondente alle esigenze del consumatore.
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160
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L’ALLEVAMENTO DEL COLOMBO DA CARNE: OSSERVAZIONI SU
DIVERSI SISTEMI DI ALIMENTAZIONE ♦
Pistoia A. 1,2 , Ferruzzi G. 1,2, Casarosa L. 2 , Poli P.1 , Balestri G. 1
RIASSUNTO: Tre gruppi di 23 coppie di colombi di razza California, allevati in voliera, sono stati
alimentati con tre differenti razioni ad libitum: Controllo (C) granaglie di mais e favino,
Sperimentale 1 (S1): granaglie di mais + mangime “complementare”, Sperimentale 2 (S2):
mangime “completo”. Durante la prova sono stati rilevati i pesi alla nascita ed alla macellazione e
controllati, per ogni gruppo, i consumi dei singoli alimenti. 8 soggetti di 28 gg di età, provenienti da
ciascun gruppo, sono stati utilizzati per le prove di macellazione e la caratterizzazione chimica della
carne del petto e della coscia. I risultati intra vitam evidenziano scarse differenze degli
accrescimenti e dei consumi alimentari. I rilievi post mortem mostrano valori più elevati (P≤ 0.05)
per la resa sfilata e il peso del petto nei soggetti del gruppo di controllo, che si distinguono per un
minore contenuto di grassi (P≤ 0.05) della coscia.
PAROLE CHIAVE: colombo da carne, rilievi alla macellazione, alimentazione.
COMMERCIAL SQUABS BREEDING: OBSERVATIONS ON DIFFERENTS FEEDING
SYSTEMS
SUMMARY: 3 groups of 23 couples of California breed pigeons, bred in aviary, were fed with 3
different ad libitum rations: control (C) grain of maize and faba bean; experimental 1 (S1) grain of
maize+ supplementary feed; experimental 2 (S2) complete feed. During the trial the born weights,
slaughtering weights and feed consumptions of every group were controlled. 8 squabs of every
group at 28 days of age were slaughtered. Slaughtering relieves and chemical composition of the
breast and the thigh meat of every squabs were analysed. Intra vitam results show low differences
in the daily increases and in the feed daily consumptions. Those post mortem show an eviscerated
yield and a breast higher weight in the control group, but a less fat content in thigh meat.
KEY WORDS: commercial squabs, slaughtering yields, feeding.
PREMESSA
L’allevamento del colombo da carne rappresenta una delle attività zootecniche “alternative” più
interessanti sotto il profilo tecnico ed economico, poichè necessita di modesti costi di impianto e di
gestione e permette di ottenere un prodotto con un mercato in continua espansione (Pezzi, 1987).
Da impresa di tipo familiare com’era negli anni ’60, si è passati a forme di allevamento più
consistenti e razionali, fino a giungere a sistemi intesivi specializzati, che si avvalgono di razze e
ceppi appositamente selezionati e strutture moderne (Meluzzi e coll., 1986; Meluzzi e coll., 1988;
♦
1
2
Lavoro eseguito con finanziamento: INTERREG III.
DAGA Sezione Scienze Zootecniche, Università di Pisa.
CIRAA Centro Interdipartimentale “E. Avanzi”, Università di Pisa.
161
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Panella e coll., 1989). Tale attività si è impiantata e consolidata dapprima nelle zone ad antica
vocazione avicola, come Emilia- Romagna e Veneto, per poi estendersi in altre zone dell’Italia
centro- meridonale (Giordani e coll., 1978). Anche in provincia di Livorno, negli ultimi anni,
l’allevamento del colombo ha avuto un notevole impulso. Da un’indagine svolta nell’ambito del
progetto di ricerca Interreg III, è stata rilevata la nascita di alcuni allevamenti intensivi di colombi
ed una tendenza ad ampliare le dimensioni di quelli già esistenti.
Nell’allevamento del colombo, l’alimentazione assume una particolare importanza, in quanto questa
specie autoregola l’ingestione dei diversi mangimi, in funzione dei vari momenti fisiologici ed
adotta modalità di nutrizione dei piccoli del tutto particolari.
Da alcuni anni, questo argomento, risulta un elemento di disaccordo per tecnici ed allevatori del
settore, in parte sostenitori dell’alimentazione “tradizionale” (solo granaglie), in parte di
un’alimentazione più completa e bilanciata (mangimi composti pellettati, integrati con complessi
minerali e vitaminici; Davoli, 1983).
In considerazione del crescente interesse su questo argomento, nonché della scarsa documentazione
scientifica in proposito, ci è sembrato opportuno svolgere una ricerca comparativa sull’influenza del
tipo di alimentazione sulle “performances” intra vitam e post mortem del colombo da carne.
MATERIALE E METODI
La ricerca è stata svolta in un allevamento intensivo di colombi situato a Cecina (LI), che dispone
attualmente di circa 800 coppie di razza California allevate in voliera.
Per la prova, sono state scelte 3 voliere, ciascuna con 23 coppie di colombi, in piena attività
riproduttiva, che sono state alimentate con 3 differenti tipologie alimentari:
- Controllo (C): granaglie intere di mais e favino
- Sperimentale 1 (S1): granaglie intere di mais e mangime “complementare” in pellet (• )
- Sperimentale 2 (S2): mangime “completo” in pellet (∗ )
Prima dell’inizio della prova, i colombi, venivano alimentati con la dieta di Controllo e pertanto,
l’adozione delle 2 nuove diete sperimentali è stata fatta in maniera graduale per non creare stress
agli animali. Tutti gli alimenti sono stati somministrati ad libitum ed in settori separati degli
autoalimentatori in modo da facilitare l’ingestione selettiva.
Durante la prova sono stati effettuati i rilievi ponderali sui nuovi nati (pesi alla nascita ed alla
macellazione) e valutati i consumi alimentari di gruppo. Da ciascuna voliera, infine, sono stati
prelevati 8 soggetti di 28gg di età che, dopo un digiuno di 12 ore, sono stati sacrificati per
dislocazione delle prime vertebre cervicali e spiumati, lasciando le penne di collo e testa.
I rilievi alla macellazione, hanno riguardato la determinazione del peso morto “sfilato”, cioè senza il
pacchetto intestinale, e del peso morto “eviscerato”, eliminando anche testa, collo, zampe,
ventriglio e frattaglie. Successivamente sono state pesate le singole parti, il petto e la coscia (regioni
anatomiche della coscia e della gamba).
Sulla carne proveniente dal petto e dalla coscia, disossata con pelle, di ciascun soggetto macellato, è
stata effettuata la caratterizzazio ne chimica secondo la metodica AOAC (1984), al fine di valutare il
livello di ingrassamento intramuscolare e sottocutaneo.
Le differenze tra le medie relative ai parametri rilevati sono state confrontate statisticamente
mediante ANOVA.
(•) analisi chimiche da cartellino: PG: 28,0%, EE: 4,0%, FG: 7,0%, Ceneri: 9,0%
(∗ ) analisi chimiche da cartellino: PG: 23,0%, EE: 5,2%, FG: 8,0%, Ceneri. 7,6%
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RISULTATI E DISCUSSIONE
I risultati riportati nella tabella 1 indicano una scarsa influenza del tipo di alimentazione sui pesi alla
nascita e sull’accrescimento dei giovani soggetti. Nel gruppo di controllo, il peso medio alla
macellazione è risultato di circa il 13% superio re rispetto agli altri due, ma l’elevata variabilità
individuale non ha permesso di evideziare differenze statisticamente significative. Riguardo i
consumi alimentari, non vi sono state differenze di rilievo tra le tre tesi a confronto, anche se si è
notata una certa preferenza dei colombi verso gli alimenti in granaglie. I parametri post mortem
(Tab. 2) sono risultati in linea con quelli riscontrati da altri Autori in prove analoghe (Giordani e
coll., 1983), evidenziando valori statisticamente più elevati per la resa sfilata nel gruppo di
controllo. In quest’ultimo, è stata inoltre osservata una maggiore incidenza del petto e del petto +
coscie e una minore incidenza delle frattaglie rispetto al peso sfilato. Non si sono osservate
differenze di rilevanza statistica per la resa eviscerata e per l’incidenza delle altre parti anatomiche.
Tabella 1: Rilievi ponderali e consumi alimentari (Tq)
Table 1: Weight relieves and feed consumptions (as received)
Rilievi ponderali
Consumi alimentari giornalieri/coppia + prole)
Weight relieves
Feed daily consumptions/couple + prole)
Peso
Peso
IMG
Mais
Favino
Mangime
Mangime
Totale
nascita macellazione DMI
Maize
Faba
complementare
completo
Total
Born Slaughtering (g)
(g)
bean
Supplementary
Complete
(g)
weight
weight
(g)
feed
feed
(g)
(g)
(g)
(g)
C 20,62
538,13
55
83
138
18,48
S1 20,38
475,00
70
61
131
16,24
S2 20,25
476,87
123
123
16,31
Tabella 2: Rese e rilievi alla macellazione
Table 2: Slaughtering yields
Resa sfilata♦
Resa
Testa,
Frattaglie* Ventriglio* Petto* Coscia*
Eviscerated eviscerata*
collo,
Giblets
Gizzard
Breast Thigh
yield
Ready-to- zampe*
cook yield
Head,
neck, feet
C
84,43 a
77,58
13,18
4,32 a
2,90
24,65 a 5,31
S1
83,18 b
74,34
14,39
5,77 b
2,63
20,64 b
5,21
S2
78,93 b
81,75
13,92
5,30 b
2,66
19,52 b
5,56
♦
% peso vivo, * % peso sfilato
♦
% live weight, * % eviscerated weight
Lettere diverse sulla stessa colonna indicano differenze significative per P ≤0,05
Different letters on the same column show significantly differences for P≤ 0,05
Petto +
coscie*
Breast +
Thighes
35,27 a
31,07 b
30,64 b
Le analisi chimiche della carne, infine, hanno permesso di evidenziare una certa superiorità dei
colombi del gruppo di controllo, poichè nel petto è stata rilevata una minore % di acqua (P≤ 0,05)
ed un aumento del tenore proteico (P≤ 0,05), mentre nella coscia è stato riscontrato un contenuto di
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grasso significativamente più basso. Il diverso stato di ingrassamento ha riguardato soltanto quello
di tipo sottocutaneo e non quello intramuscolare, poiché il tenore di grasso nei muscoli pettorali è
risultato simile nelle tre tesi a confronto.
Tabella 3: Composizione chimica della carne (%Tq)
Table 3: Chemical composition of pigeon meat (% as received)
Umidità
Proteine
Lipidi totali
Ceneri
Moisture
Proteins
Total Fats
Ashes
Petto
Coscia
Petto
Coscia
Petto
Coscia
Petto
Coscia
Breast
Thigh
Breast
Thigh
Breast
Thigh
Breast
Thigh
C
72,04 a 61,90
20,68 a 17,50
3,07
17,42 a
1,62
0,92
S1
74,69 b
59,95
17,40 b
15,62
2,80
20,64 b
1,52
0,93
S2
73,60 b
57,90
19,01 c 16,54
3,01
21,56 b
1,56
0,99
Lettere diverse sulla stessa colonna indicano differenze significative per P ≤ 0,05
Different letters on the same column show significantly differences for P≤ 0,05
CONCLUSIONI
Da questa prova è emerso che, il differente sistema di alimentazione, ha determinato alcune
significative differenze, riguardo le caratteristiche della carcassa e della carne dei colombi. Quelli
alimentati esclusivamente con granaglie, hanno presentato una migliore conformazione dovuta al
maggiore sviluppo dei muscoli pettorali, che si traduce in un aumento del valore commerciale per la
più alta incidenza della parte edibile di pregio. Inoltre, la loro carne presenta caratteristiche
qualitative migliori per il più basso tenore di acqua e soprattutto per la minore presenza di grasso di
tipo sottocutaneo. Tali risultati, tuttavia, devono essere valutati con una certa cautela, poichè il
confronto con l’alimentazione in grani, è stato fatto solo con 2 tipi di mangimi pellettati, mentre in
commercio ne esistono molti e con caratteristiche nutrizionali estremamente differenti (Davoli,
1983). A favore dell’ alimentazione in grani giuocano, comunque, due fattori determinanti: il primo,
riguarda la convinzione ideologica del consumatore, che preferisce prodotti derivati da animali
alimentati con sistemi tradizionali; il secondo, si riferisce a scelte di natura economica, infatti,
questo tipo di alimentazione risulta, agli attuali prezzi di mercato, il più conveniente per
l’allevatore.
RINGRAZIAMENTI: Si ringrazia il Sig. Giunti Stefano, proprietario dell’allevamento, per
l’ospitalità e la preziosa collaborazione.
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CARATTERIZZAZIONE DI 4 POPOLAZIONI DI CONIGLIO TIPICHE DEL
COMPRENSORIO VENETO
Maurizio Arduin1
RIASSUNTO: I risultati ottenuti dalla ricognizione storica, dal monitoraggio del territorio e dalla
prove d’allevamento hanno evidenziato la presenza di quattro varietà di conigli autoctoni del veneto
e hanno consentito l’individuazione delle caratteristiche necessario per l’istituzione di un registro
anagrafico di razza.
PAROLE CHIAVE: coniglio, ricognizione storica, razze.
CHARACTERIZATION OF FOUR RABBIT POPULATIONS TYPICAL OF VENETIAN
TERRITORY
SUMMARY: The results, wich have been obtained from historical recognition, from monitoring of
territory and from the breeding tries, have underlined the presence of four autochtonal venetian
rabbits varieties and have permitted the individuation of the characteristics necessary to the
institution of a private race register.
KEY WORDS: rabbit, historical recognition, species/races.
PREMESSA
Il Veneto è sempre stato una delle regioni in cui la produzione cunicola ha avuto un’importanza
rilevante per la zootecnia rurale. Negli ultimi anni però l’avvento della coniglicoltura intensiva e la
diffusione di razze rustiche come la Blu di Vienna, la Fulvo di Borgogna, ecc. hanno determinato la
scomparsa, o quasi, delle varietà locali anche dalla “memoria storica”. Si è voluto precedere ad una
ricognizione storica e ad un monitoraggio del territorio per verificare l’esistenza, o meno, di varietà
locali.
Seguendo un preciso programma, atto a recuperare e valorizzare razze rustiche, si è iniziato con una
ricognizione storica, bibliografica ed iconografica, allo scopo di verificare l’eventuale esistenza di
varietà o razze locali di conigli allevati in Veneto. Sono state prese in considerazione le
pubblicazioni e le riviste specializzate pubblicate dall’inizio del secolo scorso fino alla fine degli
anni ’60. Da questa indagine sono emersi dati documentali (caratteristiche e morfologia) relativi a
due varietà: il coniglio comune veneto e il coniglio dei Colli Euganei.
Si è proceduto quindi ad una ricognizione sul territorio veneto, e sulle zone limitrofe, alla ricerca di
soggetti che morfologicamente corrispondessero alle indicazioni recuperate nella bibliografia.
Durante l’attività di ricognizione, oltre al recupero di soggetti delle varietà citate dalla bibliografia,
è stata individuata una terza popolazione di conigli chiamata dagli allevatori “coniglio nostrano”. La
memoria storica degli allevatori locali conferma la presenza in zona, da oltre cinquant’anni, di
1
Osservatorio Innovazione. Veneto Agricoltura, Legnaro (Pd).
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questa popolazione che presenta caratteristiche morfologiche ben distinte e non riconducibili a
nessuno degli standard attuali.
Da alcuni allevatori sono stati quindi recuperati dei soggetti delle tre varietà e si è provveduto,
attraverso un preciso programma, a valutare del grado di purezza genetica delle tre popolazione
analizzando l’uniformità dei soggetti e la trasmissione dei caratteri somatici.
Dalle prove di allevamento del coniglio “dei Colli Euganei” e del coniglio “nostrano veneto” è stato
possibile stabilire subito una uniformità dei soggetti per almeno tre generazioni. Invece nelle prove
d’allevamento del coniglio “comune veneto” si è verificata inizialmente una disgiunzione delle
caratteristiche morfologiche fissatesi in seguito sia nel gruppo di animali con caratteristiche simili a
quelle indicate dalla bibliografia che nel gruppo “mutante”.
Le successive prove d’allevamento hanno permesso di individuare quei caratteri necessari per
fornire le indicazioni utili alla eventuale costituzione di un registro anagrafico di razza.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Dalle osservazioni d’allevamento, che hanno dimostrato per almeno tre generazioni una uniformità
dei soggetti e la trasmissione dei caratteri somatici, si possono indicare, per le quattro varietà
individuate, le seguenti caratteristiche:
Coniglio Comune Veneto: coniglio vivace di dimensioni medie che raggiungono il peso di circa
3,00 Kg. Sono animali con pelle sottile, carne ottima e buone rese al macello. La pelliccia ha un
colore bianco con macchie irregolari, di color fulvo, situate in genere sui fianchi e sul muso;
Coniglio dei Colli Euganei: è un coniglio con pelliccia candida (Bianca) formata da peli serrati,
sericei, di media lunghezza. Non è una razza albina dato che la colorazione degli occhi è azzurra. È
un coniglio rustico con una buona prolificità delle femmine.
È da considerarsi una razza da reddito poiché nei conigli adulti il peso oscilla dai Kg. 3,500 ai
4,500. I coniglietti danno presto carni mature di eccellente qualità, raggiungendo a 10-12 settimane
il peso richiesto dal mercato.
Gli animali dimostrano di sopportare assai bene sia le temperature eccessivamente elevate della
pianura e delle zone collinari.
Coniglio Nostrano Veneto: coniglio di taglia medio – piccola e di pelame - grigio selvatico. È un
animale molto vivace con indole selvatica. I maschi raggiungono il peso di circa 2,000 Kg. mentre
per le femmine il peso si aggira attorno a 2,100 Kg. La è pelle sottile, carne ottima e buone rese al
macello. In media i piccoli per parto sono in numero di 5-6 con punte anche di 9-10 redi.
All’età di 22-25 settimane entrambe i sessi raggiungono il peso di 1,800-2,000 Kg.;
Pezzato di Ceregnano: Nel lavoro di selezione del coniglio comune veneto, presso il centro “Le
Faunali” a Ceregnano (Rovigo), si è presentata una mutazione evidenziando conigli, non albini, con
pelliccia bianca macchiata irregolarmente di nero. Allevati a parte questi conigli hanno dimostrato
di mantenere costanti le caratteristiche morfologiche. Sono conigli da carne di taglia media: negli
adulti il peso oscilla dai Kg. 3,500 ai 4,500. i coniglietti presentano un buon accrescimento.
CONCLUSIONI
Il recupero di quatto popolazioni venete di conigli locali apre la strada a indagini più ampie, su scala
nazionale. Diventa quindi fattibile la ricerca di razze locali che, in forza ad un isolamento genetico,
frutto di scarse comunicazioni tra le comunità rurale del secolo scorso, si sono selezionate nelle
diverse regioni del nostro paese. La bibliografia è ancora molto ricca di indicazioni, bibliografiche e
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iconografiche, alle quali non sembra sussistere apparente riscontro reale. Questa esperienza
dimostra come, monitorando il territorio, sono ancora vive popolazioni locali di conigli.
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ALLEVAMENTO ALTERNATIVO DEL CONIGLIO
Clara Castrovilli 1
RIASSUNTO: L’allevamento del coniglio può essere effettuato in modo industriale non solo per la
produzione di carne, di pelo e di pelle, ma anche come animale da laboratorio oppure con un
sistema da considerare alternativo per la produzione di soggetti di razza pura e di animali da
affezione. I conigli cosiddetti da affezione appartengono a particolari razze classificate nello
standard italiano come razze nane e rappresentano un settore di interesse dal punto di vista
economico per gli allevatori ed un motivo di passione per chi ospita tali animali nel proprio
territorio, cioè nel proprio appartamento, dal momento che sono da considerare animali da
compagnia.
PAROLE CHIAVE: Allevamento del coniglio da affezione; utilizzo del territorio domestico
ALTERNATIVE RABBIT REARING
SUMMARY: Rabbit can be reased according to industrial system for meat, hear and fur production
and as laboratory animal; moreover rabbit can be raised following an alternative system for purebred and for affection. So-called pet rabbits belong to special breeds of italian standard classed as
dwarf; furthermore are economically important for breeders and are company animals for those
people that gives hospitality to rabbit in their territory, that is the house, because are to be
considered company animals.
KEYWORDS: Rabbit rearing as affection animals; familiar territory utilization
PREMESSA
Il coniglio da allevamento industriale deriva direttamente dal coniglio selvatico e, grazie alla
selezione, sono stati creati ibridi con particolari caratteristiche morfologiche e produttive,
soprattutto per quanto riguarda la produzione di carne di particolare qualità; inoltre esistono razze
che vengono allevate per la produzione di pelo e di pelle.
Per quanto riguarda l’allevamento del coniglio nano, esistono due differenti tipologie: una
casalinga, che ha lo scopo di garantire all’animale condizioni ambientali, comportamentali e di
benessere ottimali e una razionale, che mira alla produzione e alla commercializzazione dei
soggetti. Recentemente vi è stata la tendenza ad introdurre nell’ambiente domestico, oltre alle
tradizionali specie animali da compagnia, il coniglio nano, classificato in questo modo date le
ridotte dimensioni corporee. Nell’allevamento casalingo, vengono utilizzate particolari gabbie, in
quanto è difficile abituare l’animale a vivere in completa libertà. Pertanto in questa comunicazione
si intende sottolineare l’importanza dal punto di vista tecnico ed economico dell’allevamento del
1
Professore Straordinario di Zoocolture, Istituto di Zootecnia generale, Facoltà di Agraria, Università degli Studi di
Milano.
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coniglio nano, utilizzato anche per la “pet-therapy”; inoltre verranno riportate alcune indicazioni sui
criteri da seguire per un corretto allevamento.
MATERIALE E METODI:
L’indagine compiuta ha messo in evidenza l’esistenza di due differenti tipologie di allevamento del
coniglio nano: una “casalinga”, che si prefigge lo scopo di garantire all’animale le condizioni più
adatte, ed una “razionale”, che mira alla produzione e alla commercializzazione dei soggetti. Queste
forme di allevamento prevedono attrezzature ed attenzioni diverse. Per un allevamento di tipo
“casalingo”, si deve ricordare come diventi possibile svincolarsi da considerazioni di tipo
economico, per garantire agli animali le migliori condizioni. In un allevamento “razionale” lo scopo
è quello di far riprodurre gli animali per vendere i coniglietti appena svezzati; questo impone una
precisa e razionale organizzazione del lavoro, al fine di contenere i costi di produzione e di
garantire all’animale le migliori condizioni, dal momento che queste influenzano il comportamento
e il rapporto con il proprietario.
Allevamento casalingo
La gabbia è una delle attrezzature più importanti rappresentando, da un lato, un sicuro rifugio e,
dall’altro, l’unica soluzione alla naturale tendenza del coniglio a rosicchiare ciò che incontra per
casa. Conviene dire subito, infatti, che molto difficilmente il coniglio potrà vivere completamente in
libertà, in quanto manifesterà sempre (e soprattutto da giovane) un’innata tendenza a rodere i più
svariati materiali presenti in casa (dalle piante, ai mobili, alle tende, ai fili elettrici, ecc.). La gabbia,
opportunamente attrezzata, ospiterà l’animale in nostra assenza; esso potrà guadagnarsi la “libera
uscita” al nostro rientro, comunque, sotto una bonaria ma attenta sorveglianza. Nella scelta della
gabbia si devono considerare: le dimensioni, le aperture, la presenza sul fondo di un cassetto
estraibile, le possibili soluzioni per la realizzazione del fondo, il materiale utilizzato per la
costruzione. Lo spazio minimo fornito deve permettere all’animale di esprimere il suo etogramma
(riposo, toilettatura, cecotrofia, ecc.); ovviamente, più spazio riusciremo a destinargli, più questo
vivrà in modo confortevole.
Alcune delle gabbie in commercio presentano un fondo dotato di un cassetto estraibile, molto
comodo per la raccolta delle deiezioni e per la loro asportazione; nel cassetto, realizzato in acciaio
inox o in lamiera zincata, è anche possibile stendere un sottile strato di lettiera costituita da
sabbietta igienica caratterizzata da un elevato potere assorbente e dalla capacità di trattenere gli
odori. Inoltre, la possibilità di lavaggio della superficie garantisce una perfetta igiene anche grazie
alla frequenza con cui diventa possibile la pulizia e il cambio della lettiera. Il fondo della gabbia
rappresenta un elemento fondamentale, in quanto offre all’animale buone condizioni di vita
cercando nel contempo di ridurre gli odori fastidiosi che possono svilupparsi dalle deiezioni. Oltre
alla sabbia, spesso vengono usati come lettiera materiali vari quali torba e trucioli di legno; altre
volte, si ricorre all’utilizzo di carta da giornale. In commercio sono presenti sia gabbie con solo
fondo in plastica, sia gabbie con differenti tipi di pavimentazione; è importante considerare, per
questo allevamento alternativo, che tali strutture non possano provocare ferite ai cuscinetti plantari
dell’animale; all’opinione corrente che questo genere di rischio non esista per soggetti nani di peso
ridotto, si deve ricordare come essi siano destinati a soggiornarvi per diversi anni, cioè per un
periodo di tempo sufficiente a provocare problemi anche alle zampe più resistenti.
Il fondo può essere realizzato da listelli di legno duro o di plastica (per resistere ai denti del
coniglio), fissati ad un supporto alla distanza di 0,8 cm uno dall’altro.
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Questa soluzione, di poco costo e grande praticità, anche per la assoluta lavabilità del materiale,
potrebbe essere migliorata se fosse possibile reperire listelli di larghezza idonea, in modo da ridurre
la superficie totale di appoggio a favore degli spazi vuoti per aumentare la velocit à di
allontanamento delle feci ed evitare il possibile accumulo di ciecotrofo non reingerito dall’animale.
Tuttavia bisogna porre attenzione alla distanza tra questi listelli, per evitare che le zampe si
incastrino determinando una lussazione degli arti. In un angolo della gabbia, poi, consigliamo di
porre una vaschetta contenente uno strato di sabbietta igienica; in poco tempo il coniglio si recherà
in questa zona per sporcare e la cercherà anche quando si troverà in “libera uscita”.
Le gabbie reperibili in commercio sono tutte realizzate in alluminio, in lamiera zincata
eventualmente verniciata o, nei modelli più costosi che si ispirano alle strutture di laboratorio per la
sperimentazione, in acciaio inossidabile; tali gabbie, concepite con l’intento di evitare la fuoriuscita
di materiale della lettiera o di urine, visto il particolare comportamento dei maschi, svolgerebbero
anche un’azione di protezione nei confronti delle correnti d’aria, molto dannose per il coniglio. A
nostro avviso tale soluzione, no n permettendo all’animale di partecipare a quanto accade
nell’ambiente circostante, può generare una condizione di isolamento che rischia di complicare il
rapporto con la famiglia nella quale il coniglio è ospitato; inoltre, riducendosi lo scambio d’aria con
l’esterno, verrebbero a mancare quelle condizioni in grado di garantire un ambiente salubre.
Alcune gabbie, che a volte vengono utilizzate anche su balconi e terrazze, sono grandi strutture
destinate alle fattrici in riproduzione: presentano un nido esterno, un fondo grigliato o in listelli e un
cassetto estraibile per le deiezioni; progettate per l’esterno, vengono realizzate in lamiera zincata
resistente alle intemperie e richiedono solo un corretto posizionamento che preveda una tettoia per
evitare che l’animale si bagni in caso di pioggia.
Molta attenzione andrà rivolta alle correnti d’aria ed all’esposizione ai raggi solari, per evitare che
colpiscano direttamente la gabbia e l’animale. Le conigliere da esterno sono generalmente a più
piani sovrapposti, spesso realizzate su modello delle strutture utilizzate tradizionalmente per
l’allevamento cunicolo. Normalmente chiuse su uno o più lati, garantiscono agli animali una
protezione maggiore e permettono di allevare, in spazi ridotti, un numero elevato di capi.
Dopo aver scelto con cura la gabbia, occorrerà riflettere sul luogo in cui collocarla in casa.
Affinché la gabbia sia posizionata correttamente, bisognerà soddisfare le seguenti condizioni:
*accertarsi che riceva luce, ma non sia colpita direttamente dal sole che riscalderebbe
eccessivamente l’ambiente circostante;
* riparare l’animale da colpi d’aria che possono determinare patologie respiratorie;
* evitare l’eccessiva vicinanza con fonti di calore e di umidità; inoltre l’elevata temperatura può
ridurre, nelle razze a pelo lungo, la lunghezza dello stesso tanto da cambiare, apparentemente, la
tipica morfologia della razza in questione;
* garantire all’animale un ambiente tranquillo senza isolarlo in modo da permettergli di partecipare
alla vita familiare.
L’esperienza e l’attenta osservazione delle abitudini del nostro coniglio ci guideranno, in modo da
garantirgli le migliori condizioni di vita.
Allevamento razionale
Anche per i conigli nani è possibile seguire le tecniche utilizzate negli allevamenti industriali per
gli animali destinati alla produzione di carne. Su coniglie nane di razza ariete, allevate in gabbia,
sono stati controllati i parametri riproduttivi, cioè il numero di nati ed il numero di svezzati. Le
femmine sono state sottoposte a fecondazione tramite monta naturale, effettuata da maschi
appartenenti allo stesso tipo genetico, dopo lo svezzamento della precedente nidiata. Gli animali
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sono stati alimentati con un mangime pellettato a ciclo unico, ospitati in gabbie con caratteristiche
simili a quelle dell’allevamento industriale, cioè di particolari dimensioni, dotate di mangiatoia, di
abbeveratoio e di nido esterno.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Per quanto riguarda la prolificità, valutata su 10 fattrici per un totale di 100 parti, il numero di nati
per parto è risultato mediamente pari a tre soggetti, mentre per gli svezzati pari a due soggetti, dal
momento che in alcuni casi si sono verificati problemi di cannibalismo oppure, soprattutto al primo
parto, una scarsa capacità di preparare il nido e di partorire all’interno del nido stesso.
Indubbiamente, se si confrontato queste osservazioni con quelle relative agli allevamenti industriali,
si deduce che la selezione genetica di queste fattrici non ha permesso di ottenere soggetti con buon
istinto materno, dal momento che le coniglie nane di razza ariete sono state scelte in base alle
caratteristiche morfologiche anziché per le prestazioni riproduttive. Tuttavia appare interessante
considerare che i coniglietti nati da queste fattrici, sottoposti a manipolazione da parte dell’uomo,
hanno presentato un buon comportamento nei confronti dell’uomo, essendo affettuosi e tranquilli. Il
coniglio nano accetta di buon grado molto contatto con l’uomo, ma va accarezzato con cautela;
bisogna inoltre parlargli con voce calma e sommessa e ripetere spesso il suo nome, così che
gradualmente sia in grado di capirlo e riconoscerlo.
CONCLUSIONI
L’allevamento del coniglio nano può essere considerato come allevamento alternativo, essendo un
animale da affezione.
La “pet-therapy” trova impiego in diverse situazioni, anche di tipo territoriale; in primo luogo
risulta particolarmente utile per facilitare il contatto nella pratica psicoterapeutica in cui l'animale
assume il ruolo di co-terapeuta: dal momento che vi sono effetti positivi della presenza di un
animale da compagnia da un lato per le persone anziane e per i bambini, dall’altro per soggetti
inseriti in istituzioni quali ospedali, carceri e comunità, questa tipologia di allevamento riveste un
particolare interesse sia sociale che economico. Ovviamente l’esito positivo dipende sempre dal
fatto di aver inserito l’animale idoneo nell’ambiente adatto: a tale proposito, la scelta del coniglio
nano come co-terapeuta potrebbe rivelarsi corretta non solo per le ridotte dimensioni che
garantiscono un’estrema semplicità di gestione dell’animale, ma anche per l’indole molto tranquilla
e mai aggressiva che permette un’interazione sicura con l’uomo, sfruttando il territorio casalingo.
Il coniglio nano sta conoscendo una sempre maggiore diffusione all’interno delle case italiane e
quindi si ritiene che questo allevamento non solo sia di tipo alternativo, ma che influenzi anche
l’utilizzazione di zone territoriali particolari.
174
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PROVE DI ALLEVAMENTO DELLA VARIETA’ DORATA DI TINCA
(TINCA TINCA, L.) FINALIZZATE ALLA COSTITUZIONE DI UNO STOCK
DI RIPRODUTTORI ED ALLA PRODUZIONE DI GIOVANILI IN STAGNO
Andrea Dees 1 , Alessandra Roncarati2 , Paolo Melotti3 , Oliviero Mordenti4
RIASSUNTO: Il presente lavoro riferisce di una prova di allevamento di giovani tinche della
varietà colorata “gold” accresciute in stagno al fine di costituire uno stock di riproduttori in grado di
fornire avannotti da destinarsi al mercato ornamentale italiano ed europeo.
PAROLE CHIAVE: tinca dorata, allevamento dei riproduttori in stagno, produzione di giovanili.
EXPERIMENTAL REARING OF GOLD TENCH (TINCA TINCA, L.) AIMED TO OBTAIN A
BROODSTOCKS’ FAMILY AND POND PRODUCTION OF JUVENILES
SUMMARY: The present work refers about a rearing trial of young tench of gold coloured strain
growed in pond in order to obtain a family of broodstocks in order to produce fingerlings for the
ornamental fish market in Italy and Europe.
KEY WORDS: gold tench, rearing of broodstocks in pond, production of juveniles.
PREMESSA
L’allevamento della tinca in Italia ha conosciuto la massima diffusione negli anni ’50 quando, in
consociazione con la carpa comune, veniva allevata in stagno con tecniche estensive, mentre negli
ambienti naturali era presente nelle acque lentiche, ricche di vegetazione, dove rappresentava una
preda assai ambita per i pescatori.
Le produzioni venivano anche realizzate in risaia dove la tinca, grazie alle tecniche colturali allora
applicate, trovava alimento a sufficienza per fornire rese produttive apprezzabili (80-100 kg p.v./ha)
(Russo, 1987).
Successivamente, negli anni ’60, la diffusione di questo ciprinide ha subito una drastica contrazione
anche negli ambienti ove l’allevamento aveva una tradizione radicata. Le ragioni di tale
contrazione, nonostante la rusticità che contraddistingue questa specie, sono da ricercarsi
prevalentemente nell’avvento delle moderne tecniche colturali impiegate in risaia che, utilizzando
composti chimici tossici, hanno pressoché azzerato le popolazioni ittiche, tinca inclusa. Questo
pesce, vivendo sul fondo dove reperisce il proprio cibo, viene infatti a contatto con i prodotti
utilizzati per il diserbo che tendono ad accumularsi nel sedimento.
1
Borsista. Centro Universitario di Ricerca e Didattica in Acquacoltura e Maricoltura. Facoltà di Medicina Veterinaria.
Università di Camerino.
2
Prof. Associato. Ibidem.
3
Prof. Ordinario. Ibidem.
4
Ricercatore. DI.MOR.FI.PA. Facoltà di Medicina Veterinaria. Università di Bologna.
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Solo recentemente, la tinca ha destato nuovamente interesse nel nostro Paese, sia per scopi di
ripopolamento delle acque superficiali finalizzato alla pesca sportiva che per il consumo diretto o la
ristorazione, come nel caso della tinca dorata dell’Altopiano di Poirino in Piemonte (Gasco e
Zoccarato, 2001) o di quella consumata sul lago d’Iseo.
In Europa, il rinnovato interesse si è invece focalizzato sulla possibilità di produrre la varietà
ornamentale; specialmente nella Repubblica Ceca, le varietà blu, dorata e albina vengono
selezionate da una decina di anni facendo ricorso alla riproduzione controllata (Linhart e Billard,
1995), basata su tecniche di selezione e miglioramento genetico dei riproduttori (Rodina e coll.,
2002; Buchtová e coll., 2003).
Il presente lavoro riferisce di una prova di allevamento di giovani tinche della varietà colorata
“gold”, accresciute in stagno al fine di costituire uno stock di riproduttori in grado produrre
avannotti da destinarsi al mercato ornamentale italiano ed europeo.
MATERIALE E METODI
Stabulazione e allevamento dei riproduttori. Le prove hanno avuto luogo presso un impianto della
pianura bolognese ed hanno preso avvio nella primavera del 2001, quando 200 tinche della varietà
colorata “gold”, di due anni di età, di provenienza estera con un peso medio di g 35±3, sono state
stabulate in vasche in calcestruzzo, del volume di 70 m3 cadauna, per un periodo di quarantena di 7
giorni in acque ben ossigenate (=7 mg/l) alla temperatura di 18±1 °C e salinità pari al 6‰,
mantenuta solo per i primi due giorni successivi all’arrivo in impianto, prima del rinnovo graduale
effettuato con acqua dolce.
Le tinche sono state quindi trasferite in uno stagno in terra, della superficie di 600 mq e profondità
massima di 2 m, dove venivano alimentate con un mangime sotto forma di pastone avente la
seguente composizione, espressa sul tal quale: proteine pari al 35%, grassi 5,9%, fibra grezza 3,5%,
ceneri 10%, fosforo 1%.
Quale integratore veniva impiegato il prodotto normalmente utilizzato nel mangime per pesce gatto.
Il mangime, una volta impastato, veniva preparato sotto forma di sfere, del diametro di 5 cm, che
venivano depositate ogni mattina su di una mangiatoia quadrata, con lato di 30 cm, con collare
metallico e rivestimento di materiale plastico di maglia pari a 1 cm.
La mangiatoia era posizionata ad una profondità di 0,8-1 m e veniva controllata quotidianamente
per verificare l’avvenuto consumo dell’alimento.
La razione veniva distribuita in relazione alla biomassa ed alla temperatura delle acque variando
dall’1,2% p.v./giorno in primavera-estate allo 0,8% p.v./giorno in autunno mentre era interrotta nel
periodo dicembre- febbraio.
Raccolta, sessaggio e semina dei riproduttori. Alla fine del mese di aprile 2002, si è proceduto alla
raccolta dei riproduttori, al rilievo dei parametri biometrici (peso e lunghezza) e della sopravvivenza
ed al riconoscimento del sesso che ha avuto luogo considerando la taglia e le caratteristiche
morfologiche proprie della specie (Gandolfi e coll., 1991).
Per questa prova, è stato utilizzato un bacino in terra, a pianta rettangolare avente una superficihe di
1350 m2 e profondità media di 1,20 m, in cui era presente un sistema di aerazione dell’acqua,
costituito da un aeratore a fungo della potenza di 0,5 CV, in grado di mantenere il tasso di ossigeno
disciolto sopra 5-6 ppm.
Diversi mesi prima della semina dei riproduttori, il fondo del bacini è stato seminato con
graminacee pluriennali in grado di resistere all’immersione. Si è cercato inoltre di favorire la
presenza di un’abbondante vegetazione di ripa al fine di garantire la disponibilità di un supporto
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idoneo per le uova adesive della tinca. Nel bacino è stata anche effettuata una fertilizzazione
attraverso la distribuzione di letame bovino in un’unica somministrazione (3 q). Il 2 maggio 2002, il
bacino è stato invasato con acqua di falda ed il 15 maggio, quando la temperatura delle acque aveva
raggiunto i 23-24 °C, sono stati seminati 120 riproduttori (68 maschi e 72 femmine, densità pari a
900 soggetti/ha).
Produzione di giovanili. A partire dalla prima decade di giugno, quando la temperatura oscillava tra
26,9 e 28 °C, si sono intensificati i sopralluoghi volti a rilevare la comparsa di larve e accertata la
presenza dopo tre giorni, è stato messo a disposizione degli avannotti un alimento sfarinato
somministrato ad libitum.
Ad intervalli regolari, sono state effettuate operazioni di campionamento rilevando i parametri
biometrici su 20-40 soggetti catturati casualmente con l’impiego di un retino, a manico lungo e
maglia fine, solitamente utilizzato per la raccolta del plancton.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Al termine del mese di aprile 2002, l’indice di sopravvivenza delle tinche adulte è risultato alquanto
elevato (96,5%) e di gran lunga superiore a quelli che si registrano, su analoghi periodi, in
allevamenti di ciprinidi che dispongono di un proprio parco riproduttori.
Anche gli incrementi ponderali sono apparsi assai soddisfacenti e non dissimili da quelli ottenuti
con soggetti di tinca comune allevata in stagno a differenza di quanto riportato da altri autori
(Wedekind e coll., 2003) secondo i quali la varietà ornamentale è caratterizzata, a parità di età nelle
medesime condizioni ambientali ed apporto di alimento, da un accrescimento più lento rispetto alla
tinca comune.
Nel nostro caso, l’alimento somministrato, grazie ad un’ottima integrazione vitaminico-minerale
(Arlinghaus, e coll., 2003) ed alla particolare consistenza dell’impasto parallelamente all’impiego
della mangiatoia sommersa, veniva consumato totalmente senza disgregarsi e disperdersi sul fondo.
L’apporto di nutrienti ha favorito lo sviluppo della vegetazione seminata e di specie acquatiche
come Ceratophyllum demersus, Myriophyllim, Chara e Potamogeton, che sono ritenuti substrato
indispensabile per la deposizione delle uova (Perez-Regardera e Velasco Gemio, 1995).
La comparsa delle prime larve, che appaiono ben pigmentate sin dalla nascita, ha avuto luogo tra il
12 ed il 15 giugno ma la deposizione si è comunque protratta sino alla fine di luglio.
Per quanto riguarda l’alimento artificiale fornito agli avannotti, la razione somministrata
giornalmente poteva apparire del tutto insufficiente a sostenere un adeguato accrescimento dei
soggetti, ma l’abbondante presenza di alimento naturale nello stagno ha consentito di ottenere
buoni risultati in termini di accrescimento.
Tabella 1: Età e biometrie relative ai riproduttori di tinca al momento della semina nello stagno di
deposizione
Table 1: Age and biometric parameters of tench sampled at stocking in reproduction pond
Età
Peso
Lunghezza
Peso femmine
Peso maschi
Age
Weight
Length
Females weight
Males weight
femmine maschi
females males
g
cm
g
g
3+
3+
75 ± 13,5
18 ± 4,5
65 ± 12
85 ± 15
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A 30 giorni di età, gli avannotti presentavano una lunghezza pari a 15±2,1 mm, a 45 giorni era stata
raggiunta una taglia di 22,5±2,5 mm, mentre a 4 mesi le tinchette risultavano di 30±1,8 mm. L’anno
successivo, a 12 mesi dalla schiusa, tutti gli esemplari rientravano nella pezzatura di 3-7 cm . Le
rese alla raccolta sono state stimate in 14.000-18.000 giovanili in pieno accordo con i dati reperibili
in bibliografia (Perez-Regardera e Velasco Gemio, 1995).
CONCLUSIONI
La sperimentazione condotta ha evidenziato come anche in Italia sia possibile lo sviluppo della
tinchicoltura ornamentale. Questa varietà ha di fatto reinserito questa pesce tra le specie allevabili
nel nostro Paese in condizioni semi- intensive o estensive con risultati economici comparabili a
quelli di specie ornamentali tradizionalmente più pregiate.
Nel nostro caso, lo stagno di deposizione si è identificato con lo stagno di primo allevamento grazie
al potenziamento delle risorse trofiche naturali attraverso concimazioni ed alla somministrazione, a
partire dal 12mo-15mo giorno di vita, di mangime sfarinato.
BIBLIOGRAFIA
Arlinghaus R., Wirth M., Rennert B. (2003). Digestibility measurements in juvenile tench (Tinca
tinca L.) by using a continuous filtration device for fish faeces. “J. Appl. Ichthyol.”, 19, 152156.
Buchtová H., Svobodová Z., Flajšhans M., Vorlová L. (2003). Analysis of growth, weight and
relevant indices of diploid and triploid population of tench Tinca tinca (Linnaeus,1758).
“Aquaculture Research”, 34, 719.
Gandolfi G., Zerunian S., Torricelli P., Marconato A. (1991). I pesci delle acque interne italiane –
Ministero dell’ambiente, U.Z.I., Istituto Poligrafico dello Stato.
Gasco L., Zoccarato I. (2001). Tinca: confronto tra la riproduzione semi- naturale in vasca e quella
artificale. “Quaderni della Regione Piemonte”, 28, 1-4.
Linhart O., Billard R. (1995). Biology of gametes and artificial reproduction in common tench,
Tinca tinca (L.). A review. “Polskie Archiwum Hydrobiologii”, 42, 37-56.
Perez-Regardera J.J., Velasco Gemio R. (1995). Reproduction of tench Tinca tinca (L. 1758) in
spawning ponds. “Polskie Archiwum Hydrobiologii”, 42, 57-61.
Rodina M., Linhart O., Cosson J., Gela D. (2002). The first results on the characterization of
spermatozoa motility of tench (Tinca tinca). In: “Pond aquauculture in Central and Eastern
Europe in the 21st century”. EAS Sp.Publ.31, 67-70.
Russo S. (1987). Moderne tecniche di coltivazione del riso in rapporto all’allevamento del pesce.
In: “Piscicoltura in risaia nuove tecniche per l’incremento della produttività”. Verona, 43-52.
Wedekind H., Rennert B., Kohlmann K. (2003). Product quality in different strains of tench (Tinca
tinca) tested under controlled environmental conditions. “J. Appl. Ichthyol.”, 19, 174-176.
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VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO ATTRAVERSO PRODUZIONI
ALTERNATIVE DI PERLE DI ACQUA DOLCE DI ELEVATA QUALITA’,
CON TECNICHE DI POLICOLTURA ECO-SOSTENIBILE.
Paolo Berni1 , Silvia Bitossi2 , Marianna2 Salvato, Matteo Orlandi2 , Jacopo Salviati3 , Marco Silvestri4 ,
Pier Gino Megale1 , Paolo Orlandi 1 , Roland Billiard 5 .
RIASSUNTO: Il presente lavoro espone il risultato di un'applicazione eco-sostenibile di un
processo produttivo zootecnico che ha come oggetto la valorizzazione delle potenzialità produttive
della Sinanodonta woodiana (LEA, 1834), mollusco bivalve di acqua dolce.
L’allevamento della S. woodiana è finalizzato ad ottenere prodotti perliferi e può ritenersi
un’alternativa per la valorizzazione del territorio, in quanto oltre a essere un’attività di impatto
ambientale molto contenuta, promuove un indotto specializzato altamente professionale, per la
produzione di gioielli e manufatti d’alta moda, strettamente legati al territorio e alla sua storia.
La tecnica di allevamento policolturale, risponde in modo adeguato alle necessità della S.w. di
parassitizzare, attraverso la sua forma larvale (glochidio) (Giusti F. 1975), numerose specie ittiche.
Per allevare la S.w. è quindi necessario allevare parallelamente anche alcune specie di pesci d’acqua
dolce: Cyprinus carpio, Gambusai affinis, Aristichthys nobilis, Tinca tinca, ecc..
PAROLE CHIAVE: Sinanodonta woodiana (LEA, 1843), Perle, Prodotti nacrei
TERRITORY EXPLOITATION BY ALTERNATIVE PRODUCTIONS OF FRESHWATER
PEARLS OF HIGH QUALITY, WITH TECHNICS OF ECO-SUSTENAIBLE POLICULTURE.
SUMMARY: Present work shows a future example of eco-sustainable application in a zootechnic
productive proces that have as subject the valorization of the productive potentiality of Sinanodonta
woodiana (LEA, 1834), freshwater mollusc bivalves.
The breeding of S. Woodiana that is going to be conduct, for produce pearls products, can be
regarded as an alternative exploitation of the territory, in that in addition to be an activity of poor
enviromental impact, increase works of high professional content, for the production of jewels and
high style hand- made, tightly bound to the territory and to his history.
The tecnique of polyculture breeding, base on the necessity of S.w. of to be parasite, with its larvae
form (glochidium) (Giusti F.1975), numerous species of fishes. For breeding S.w is necessary
reared also some species of freshwater fishes: Cyprinus carpio, Gambusai affinis, Aristichthys
nobilis, Tinca tinca, ecc..
KEY WORDS: Sinanodonta woodiana, freshwater pearls, polyculture, Mollusc.
1
Ricercatore. Università di Pisa.
2
Laureato. Collaboratore alla ricerca.
3
Imprenditore agricolo.
4
Presidente Gruppo Orafi Pisani.
5
Museum Nationale d’Histoire Naturelle, Parigi, Francia.
179
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PREMESSA
La Sinanodonta woodiana è un animale originario del sud-est asiatico, a vita esclusivamente
acquatica (Castagnolo, 1980; Chang, 1991).
Dotata di una buona capacità di adattamento, la S.w. è stata capace di colonizzare bacini idrici e
corsi d’acqua dolce del litorale Tirrenico. Altri significativi ritrovamenti sono stati segnalati in altre
zone di: Italia, Francia, Germania, Spagna, Romania e Ungheria.
La conchiglia che riveste interamente l’animale è equivalve, di forma più o meno ovale e può
raggiungere dimensioni considerevoli (anche 30 cm di lunghezza).
La S.w. vive principalmente su fondi melmosi di corpi idrici superficiali, all’interno dei quali trova
il materiale organico di cui si nutre, costituito principalmente da microalghe (Allen, 1914). La S.w.
è una specie dioica, che nella forma larvale (glochidio) svolge un’azione di ectoparassitismo nei
confronti di numerose specie ittiche d’acqua dolce (Arey, 1924; Kat, 1984).
Sinanodonta woodiana (LEA, 1834), scheda identificativa:
CLASSE Bivalvia
SOTTOCLASSE Palaeoheterodonta
ORDINE unionida
SUPERFAMIGLIA Unionidea
FAMIGLIA Unionidae
SOTTOFAMIGLIA Anodontinae
GENERE Sinanodonta
SPECIE woodiana
Si ringrazia il Museo di Scienze Naturali di Parigi, per la collaborazione nel definire la tassonomia
della Sinanodonta woodiana (LEA 1834)
RISULTATI E DISCUSSIONE:
Studi condotti dal Dipartimento di Agronomia e Gestione dell’Agroecosistema – sez. Scienze
Zootecniche della Facoltà di Agraria di Pisa, hanno messo in evidenza alcune particolari
caratteristiche e attitudini produttive di questa specie di bivalve.
Tramite analisi mineralogiche mediante diffrattometria di polveri a Rx (tab.1), è stato possibile
constatare che la componente inorganica della madreperla è costituita prevalentemente da aragonite
(tab. 2).
Tabella 1: Analisi chimica e diffrattometriche a raggi X del guscio calcareo di Sinanodonta
woodiana.
Table 1: Rey X fluorescence chemycal analysis of nacre products
Ossidi - Oxid - %
CaO CO2 +H2 O MgO Al2 O3 SiO 2
P2 O5 Na2 O K2O
TiO 2
MnO Fe2 O3
54.04
45.33
0.11
0.04
0.11
0.08
0.20
0.00
0.00
0.07
0.02
Elementi in tracce - Trace Elements - ppm
Nb
Zr
Y
Sr
Rb
Cu
Zn
Ce
Ba
La
Ni
Cr
V
Co
1
24
0
822
3
5
3
7
0
5
10
1
0
0
Campione costituito da circa il 96% di guscio calcareo e restante parte da frazioni di periostraco e
incrostazioni di materiale detritico-argilloso.
180
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Tabella 2: Analisi diffrattolmetrica a raggi X e parametri di cella dell’aragonite.
Table 2: X ray diffrattometric analysis of aragonite and cells parameters
Parte inorganica calcarea costituita da oltre il 99% di aragonite
Parametri di cella dell’aragonite (sistema cristallino ortorombico; gruppo spaziale Pmen)
a = 4.969(1) Å
b = 7.957(5) Å
c = 5.751(2) Å
Questa caratteristica abbinata a una particolare tecnica di impianto finalizzata alla produzione di
perle coltivate, hanno permesso di effettuare i primi studi sugli impianti perliferi effettuati su S.w..
I primissimi prodotti a un analisi visiva si sono dimostrati estremamente brillanti e dotati di riflessi
cangianti con differenti sfumature dal nocciola, al bianco ed al rosa.
Inoltre, da un confronto con i parametri medi, relativi alla composizione chimica e mineralogica,
riportati da Crescenti (1993), risulta che i prodotti ottenuti dalla S. woodiana sono in alcuni casi
addirittura superiori.
Infine, la Sinanodonta woodiana, ha dimostrato di possedere un range di adattabilità termica molto
ampio, e se mantenuta in condizioni ambientali favorevoli (22-26 °C e saturazione di O2 ), il
mantello è in grado di depositare cristalli di aragonite con notevole velocità.
Tutto ciò ha indotto ad allevare il mollusco con tecniche di policoltura, al fine ottenere animali di
taglia sufficiente ad accogliere l'impianto, con processo brevettato, per produrre perle e prodotti
nacrei, da utilizzare in gioielleria, nella moda e nell’ebanisteria.
La tecnica di allevamento policolturale studiata, prevede la presenza contemporanea nello stesso
bacino idrico di allevamento sia della Sinanodonta woodiana, che di particolari specie ittiche che
potrebbero assolvere alla doppia funzione: 1) contribuire alla chiusura del ciclo biologico del
mollusco, che in fase larvale è un ectoparassita dei pesci, e quindi permettere l’allevamento della
S.w., 2) garantire un “sottoprodotto” aggiuntivo costituito da avannotti da destinare al mercato.
Le ricerche condotte hanno permesso di dare vita ad un progetto di “spin-off di Ateneo”, scaturito
grazie al contributo dell’Università di Pisa, di enti pubblici e privati, che attraverso finanziamenti,
materiale tecnico e conoscenze, hanno permesso la costituzione di un’azienda pubblico-privata.
Il processo produttivo trae origine dal brevetto UNIPI – (AA Berni, Bitossi, Salvato) N°
2002A01065 del 6/12/2000. L’impresa è finanziata ai sensi del DM 593/2000, al fine di
promuovere un’azienda di incubazione di tipo spin-off, la quale, conformememnte ai dispositivi di
Legge, verrà poi sostituita entro 3 anni, con un’azienda pubblico-privata che utilizzando le
acquisizioni dell’impresa spin-off, concretizzerà il processo produttivo e affermerà le diverse
tipologie di prodotto sul mercato Nazionale e Internazionale.
CONCLUSIONI
Già nella fase transitoria d’impresa le sollecitazioni da parte del mercato e delle varie categorie
coinvolte (gioilleieri, ebanisti e operatori dell’alta moda), hanno confermato, in maniera
significativa, la validità del progetto, sia dal punto di vista economico, esposti nel "busines-plan"
d'impresa depositato presso l'Ateneo di Pisa, che sul piano ambientale e socio-culturale del territorio
toscano.
1 – L’allevamento della Sinanodonta woodiana al fine di produrre perle e materiale nacreo, sfrutta
le potenzialità produttive di una "risorsa biologica" che altrimenti rimarrebbe inutilizzata.
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2 – La futura azienda nasce in un area geografica in cui la Sinanodonta woodiana è già presente,
evitando quindi problemi ambientali legati all’introduzione di una specie alloctona.
3 – Il sistema policolturale, sostenuto dall’allevamento, consente la realizzazione di una catena
trofica, nella quale il mollusco riveste il ruolo di filtratore, utilizzando le disponibilità nutritive
presenti nell’ambiente naturale, ottimizzando le fasi del ciclo produttivo e contribuendo al
contenimento dei costi di produzione.
4 – Le zone geografiche a più spiccata vocazione per l’introduzione di questa singolare attività,
sono state individuate nelle cosi dette “zone umide” in cui non è possibile sviluppare attività di tipo
agricolo. Viceversa la rpoduzione di perle, abbinata da una’allevamento policolturale, si
svilupperebbe in sinergia con attività naturalistiche, senza escludere i territori dei parchi naturali e
le zone protette.
BIBLIOGRAFIA
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27: 127–147.
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Republic of China. 16: 85-96.
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glochidium of Anodonta cygnea L. from lago Trasimeno (central Italy)”. Monitore Zool. Ital.
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INDICE
PREFAZIONE
RELAZIONI
DURANTI E., CASOLI C. - Valorizzazione del territorio con attività diverse da
quelle tradizionali
BATTAGLINI L. - Ruolo territoriale e potenzialità produttive dell’allevamento
ovi-caprino nell’arco alpino occidentale
CAMPODONI G., FABBIO G., FRANCI O. - Valorizzazione delle risorse boschive
con l'allevamento suino
BOSTICCO A. - L’allevamento della fauna di interesse venatorio
COMUNICAZIONI
MORBIDINI L., PAUSELLI M., DONNINI D., TORRICELLI R. - Indagine sulla
struttura degli allevamenti nel settore umbro del parco dei Monti Sibillini
ACCIAIOLI A., PIANACCIOLI L., ANIA G., FRANCI O., CAMPODONI G. Digeribilità in vivo della ghianda di cerro in suini migliorati e rustici
CASTROVILLI C., FERRANTE V., TOSCHI I. - Valutazione delle performance
zootecniche di polli ibridi allevati con sistema alternativo
MAZZONI M., CASTILLO A., CHIARINI R., ROMBOLI I. - Indagine preliminare
sulle prestazioni produttive di una razza avicola autoctona: la razza
Livorno
GUALTIERI M., PIGNATTELLI P., MICHELOTTI R., RAPACCINI S. - Valdarnese
bianca: riconoscimento e valorizzazione
TARANTO S., DI MEO C., FLORIO S., NIZZA A. - Parametri riproduttivi della
popolazione locale “Coniglio d’Ischia” e della razza BNZ allevate in
gabbie all’aperto
BERNI P., BILLARD R., BITOSSI S., SALVATO M., ORLANDI M. - Nuovo
sviluppo dell'acquacoltura in policoltura e con sistemi integrati, esempio di
produzioni alternative per un moderno uso del territorio
CORATO A., FASOLATO L., ELIA C., SEGATO S. - Allevamento di ombrina in
vallicoltura integrata
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MECATTI M., GUALTIERI M. - Effetto della densità su tinche allevate in
impianto a ricircolo
GASCO L., GAI F., LUSSIANA C., DAPRÀ F., GUO K., PALMEGGIANO G.B.,
ZOCCARATO I. - Qualità nutrizionali di due specie di acqua dolce: tinca e
coregone
POSTER
GIORNANO D., BRANCIERI D., MAURO M., NAPOLITANO F., RIVIEZZI A.M.,
GIROLAMI A. - Potenzialità produttive dell’agnello nelle aree protette della
Basilicata
CENTODUCATI P., TATEO A. - Valutazione della crescita relativa in puledri di
razza C.A.I.T.P.R. allevati in provincia di Bari
PREZIUSO G., RUSSO C., D' AGATA M., PUGLIESE C., SIRTORI F. - Suini Cinta
Senese e Large White x Cinta Senese allevati al pascolo in bosco: alcune
caratteristiche qualitative del prosciutto
ARDUIN M. - Metodo d’allevamento “mediterraneo” per valorizzare gli
allevamenti alternativi legati al territorio
ARDUIN M. - Protocollo per il recupero delle razze autoctone e la valorizzare
gli allevamenti alternativi legati al territorio
D'ANDREA G., PACELLI C., SURANIELLO F., BRAGHIERI A., GIROLAMI A. Influenza dell'alimentazione su alcune caratteristiche quanti-qualitative
della carne di struzzo
PISTOIA A., FERRUZZI G., CASAROSA L., POLI P., BALESTRI G. - L’allevamento
del colombo da carne: osservazioni su diversi sistemi di alimentazione
ARDUIN M. - Caratterizzazione di 4 popolazioni di coniglio tipiche del
comprensorio veneto
CASTROVILLI C. - Allevamento alternativo del coniglio
DEES A., RONCARATI A., MELOTTI P., MORDENTI O. - Prove di allevamento
della varietà dorata di tinca (Tinca tinca, L.) finalizzate alla costituzione di
uno stock di riproduttori ed alla produzione di giovanili in stagno
BERNI P., BITOSSI S., SALVATO M., ORLANDI M., SALVIATI J., SILVESTRI M.,
MEGALE P.G., ORLANDI P., BILLIARD R. - Valorizzazione del territorio
attraverso produzioni alternative di perle di acqua dolce di elevata qualità,
con tecniche di policoltura eco-sostenibile
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