Istituto MEME: Il Counselling come sostegno alla genitorialità nelle

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Istituto MEME: Il Counselling come sostegno alla genitorialità nelle
Istituto MEME
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
IL COUNSELLING COME SOSTEGNO
ALLA GENITORIALITÀ
NELLE FAMIGLIE CON FIGLI DISABILI
Scuola di Specializzazione:
Relatore:
Contesto di Project Work:
Tesista Specializzando:
Anno di corso:
Counselling Scolastico
Dott.ssa Roberta Frison
Centro diurno per disabili
Giuseppina Pompili
Secondo
Modena: 9 settembre 2012
Anno Accademico: 2011 - 2012
ISTITUTO MEME S.R.L.- MODENA ASSOCIATO UIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
Giuseppina Pompili - SST Counselling Scolastico (Secondo anno) A.A. 2011 - 2012
Indice dei Contenuti
Introduzione ....................................................................................................... 5
Capitolo 1
ANALISI E STUDI SULLA FAMIGLIA
1.1. La famiglia come sistema ………………………………………………….. 7
1.2. Le caratteristiche della famiglia sistemica ……………………..………..…. 9
1.3. La struttura della famiglia ……………………..………………………….. 11
1.4. Il ciclo vitale della famiglia nell’approccio sistemico …………...….......... 13
1.5. La crisi della famiglia …………………………………..………………… 15
1.6. La famiglia resiliente …………………………..…………………………. 17
Capitolo 2
LA FAMIGLIA CON FIGLIO DISABILE
2.1. La nascita di un figlio disabile …………………………..………………... 20
2.2. Il disabile adolescente .……………………………………………………. 22
2.3. Quali supporti per i figli disabili e le loro famiglie? ................................... 23
Capitolo 3
IL CASO DI D.
3.1. La storia di D .…………………………………………………...………... 27
3.2. D. in difficoltà ……………………………………………………...……... 29
3.3. Primo colloquio con la famiglia ……………………………………...…... 30
3.4. Riflessioni dopo il primo colloquio ……………………………...……….. 34
3.5. Secondo colloquio con la famiglia ………………………………...……... 35
3.6. Riflessioni dopo il secondo colloquio ………………………………...…... 37
3.7. Terzo colloquio con la famiglia …………………………………...……… 38
3.8. Riflessioni dopo il terzo colloquio …………..……………………………. 40
3.9. Quarto incontro con la famiglia ……………………..……………………. 40
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3.10. Riflessioni dopo il quarto colloquio …………………………..………… 43
Conclusioni ……………………..…………………………………………….. 45
Bibliografia e Sitografia ……………………………..………………………. 47
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Si può togliere tutto a un uomo, tranne l’ultima delle
libertà umane - scegliere il proprio atteggiamento in
qualunque serie determinata di circostanze, scegliere il
proprio comportamento.
[Viktor Frankl]
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INTRODUZIONE
L’idea di approfondire il tema dell’essere genitori di figli disabili e di
sperimentare come il counselling può essere sostegno alla genitorialità in questi
casi, nasce dall’incontro professionale tra me, queste famiglie e le loro
problematiche.
Essere genitori è un’esperienza molto complicata che non si acquisisce solo con
un dato biologico (mettere al mondo un figlio) ma è un percorso di formazione
continua che può durare anche tutta una vita. L’esperienza è la materia principale.
Oggi il continuo e veloce cambiamento dei modelli familiari ha modificato anche
il modo di essere genitori. I modelli genitoriali del passato sono superati,
l’autorevolezza e l’autorità sono sempre più insicure ed incerte; tra genitori e
figli si crea a volte un’interdipendenza affettiva che dà luogo a forme di lassismo
e di fuga dal ruolo genitoriale.
In questi casi sarebbe importante avere la possibilità di un supporto che possa
aiutare la coppia a far emergere le proprie competenze genitoriali. Il counselling,
per sua natura, indirizza il proprio intervento verso questa direzione.
Il sostegno all’essere genitori è da intendersi anche nell’ottica di prevenzione nei
giovani degli eventuali comportamenti a rischio e favorire il benessere emotivo
dei figli e dell’intero nucleo familiare. Quanto più i genitori saranno in grado di
attivare nei confronti dei figli un processo di differenziazione/individuazione dal
nucleo, tanto più questi ultimi saranno capaci di costruire la propria personalità. I
genitori devono avere degli atteggiamenti positivi nei confronti dei figli, essere
disponibili all’ascolto, aiutarli con discrezione a risolvere i loro problemi
indirizzandoli comunque, come si diceva, verso un processo di differenziazione
ed individuazione.
Per i genitori di figli disabili i problemi sono più complessi e la necessità di
sostegno più pressante. Non sempre però, come anche avviene per i genitori di
figli normodotati, c’è la volontà di chiedere un supporto alla genitorialità.
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Nel lavoro da me prodotto ho raccolto l’esperienza di una famiglia con figlio
disabile che ha accettato il sostegno tramite una serie di incontri.
Il lavoro è suddiviso in tre parti: la prima ripercorre brevemente l’analisi
sistemica della famiglia rifacendosi agli assunti di Bateson, in seguito la famiglia
viene delineata tramite le fasi del suo ciclo vitale per analizzare poi la crisi della
famiglia e il modello di famiglia resiliente di fronte alla crisi.
La seconda parte del lavoro analizza nello specifico la famiglia con figlio
disabile, i vissuti rispetto un evento così complesso, le risorse che la nostra
regione (Emilia Romagna) mette in atto per supportare simili situazioni.
Nella terza ed ultima parte viene proposto sommariamente, un breve percorso di
sostegno condiviso con una famiglia la cui figlia frequenta il centro diurno per
disabili Iride.
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CAPITOLO 1
ANALISI E STUDI SULLA FAMIGLIA
1.1. LA FAMIGLIA COME SISTEMA
Sono molti gli studiosi che si sono occupati della famiglia del suo funzionamento
e delle relazioni tra suoi componenti. Nel corso degli anni le teorie che cercavano
di spiegare e delineare il funzionamento della famiglia sono cambiate e si sono
evolute di pari passo con i cambiamenti che hanno caratterizzato il “sistema
famiglia” stesso.
Bateson è stato il primo studioso a parlare di famiglia come “sistema” intendendo
il sistema come una struttura complessa di elementi tra loro interdipendenti per
cui modificando uno degli elementi si modifica l’intero sistema; ogni sistema
inoltre si pone sempre in relazione con altri sistemi per costituire sistemi di
universi sempre più complessi. In quest’ottica ne consegue che la famiglia è un
sistema complesso e aperto e che ogni suo componente non può essere
considerato come elemento a sé, indipendente dalle relazioni intrasistemiche
che egli vive, stabilisce o subisce all’interno della rete familiare. Allo stesso
modo ogni sistema-famiglia deve essere considerato alla luce delle relazioni
intersistemiche con altri sistemi: altre famiglie, le istituzioni, i servizi, ecc.
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SCHEMA DELLE RELAZIONI INTRASISTEMICHE
PADRE
MADRE
FIGLIO
FIGLIA
Si è considerato lo schema base della famiglia nucleare ma possono essere
compresi nella famiglia anche altri vincoli di parentela (nonni, cugini, zii, …) ciò
che occorre tenere presente è che qualsiasi membro stabilisce o subisce vincolo
all’interno della rete familiare.
SCHEMA DELLE RELAZIONI INTERSISTEMICHE
SCUOLA
SERVIZI
SANITARI
FAMIGLIA
ATTIVITA’
DEL TEMPO
LIBERO
QUARTIERE
ASSOCIAZIONI
SPORTIVE
PARROCCHIA
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A scopo esemplificativo sono stati indicati alcuni sistemi socio - territoriali con i
quali la famiglia si rapporta creando l’opportunità per i medesimi di entrare in
relazione anche tra di loro.
Ciò che si evince da questi schemi è sicuramente la ricchezza relazionale
intrinseca in ciascuno di essi.
Nel sistema famiglia l’attenzione viene rivolta alle relazioni reciproche che
legano gli elementi del sistema piuttosto che alle loro individualità infatti ogni
singolo componente influenza ed è a sua volta influenzato dagli altri. Ogni
cambiamento di un membro del sistema comporta modificazioni agli altri e al
sistema stesso. Ogni cambiamento non si esaurisce nel sistema famiglia ma
riguarda anche le interazioni con il mondo esterno.
Le relazioni tra i sistemi poi, non sono qualcosa di astratto, ma avvengono
attraverso i soggetti stessi: ognuno entra in relazione quotidianamente con uno o
più soggetti di altri sistemi extrafamiliari, soggetti che, a loro volta, sono in
relazione intrasistemica all’interno del sistema di appartenenza.
Le relazioni che caratterizzano la famiglia, mutano con il tempo, con il
trasformarsi dei soggetti e mutano anche nello spazio (si passa dalle relazioni
nello spazio interno: la casa, il nido, lo spazio che protegge, che rappresenta
l’intimità, allo spazio esterno la città, il quartiere) in una dialettica
interno/esterno. Il sistema delle relazioni interne infatti, e il modo di porsi dei
soggetti nelle relazioni con gli altri sistemi sociali, interagiscono continuamente
creando una sorta di interdipendenza tra sistemi che genera il cambiamento dei
medesimi.
1.2.
LE
CARATTERISTICHE
DELLA
FAMIGLIA
SISTEMICA
Secondo l’orientamento sistemico, vengono riconosciuti alle famiglie alcuni
aspetti che le caratterizzano:
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1. la non sommatività cioè la famiglia costituisce un sistema diverso dalla
somma delle sue parti/individui che deriva dall’interconnessione dei suoi
membri;
2. la causalità circolare cioè le azioni comunicative dei familiari si
influenzano reciprocamente. Ogni azione è anche, a sua volta, un effetto o
una reazione di un’altra azione;
3. l’omeostasi cioè la ricerca di meccanismi stabilizzatori che tendono a
riportare i comportamenti dei singoli elementi della famiglia dentro una
fascia contenuta di oscillazioni ad evitare dei cambiamenti particolarmente
destabilizzanti;
4. la morfogenesi cioè la capacità della famiglia di proporre cambiamenti
organizzativi stabili e profondi relativi ad esempio alle regole e
all’organizzazione di base;
5. l’equifinalità (intesa come imprevedibilità) cioè un risultato finale non è
rigidamente determinato dalle condizioni iniziali infatti a partire da
condizioni simili due famiglie possono evolvere verso stadi finali molti
differenti e viceversa condizioni di funzionamenti iniziali molto differenti
tra di loro possono dar luogo a famiglie con funzionamenti simili;
6. l’essere un sistema in costante trasformazione cioè possiede la capacità
di adattarsi alle differenti esigenze che vengono esplicitate dalla fase di
sviluppo che attraversa allo scopo di assicurare continuità e crescita
psicosociale ai membri che la compongono.1 Il processo di continuità e
crescita, avviene attraverso un equilibrio dinamico tra due funzioni
apparentemente contraddittorie “tendenza omeostatica e capacità di
trasformazione” queste tendenze sono entrambi indispensabili per
mantenere un equilibrio dinamico all’interno del sistema stesso in un
continuum circolare2;
1
2
M. Andolfi, La terapia con la famiglia, Astrolabio - Ubaldini editore, Roma, 1977 pg. 13 e seg.
Ivi pg. 15.
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7. autogoverno cioè la capacità di esplicitare regole che si sono definite e
modificate nel tempo tramite tentativi ed errori. La funzione di suddette
regole è quella di consentire ai membri della famiglia di sperimentare ciò
che nella relazione è permesso e ciò che non lo è fino ad arrivare ad una
definizione stabile del rapporto familiare;
8. essere un sistema aperto in relazione con altri sistemi (vedi paragrafo
precedente “relazioni intersistemiche”) consente alla famiglia di vivere in
modo equilibrato e dinamico le relazioni a livello socio-territoriale
favorendo il cambiamento, l’arricchimento, la crescita intersistemiche3.
Alla luce di quanto esplicitato, è facile comprendere come nell’approccio
sistemico alla famiglia, la problematicità di un singolo non è mai da
circoscrivere all’individuo in sé, ma viene sempre letta all’interno di un
contesto che attribuisce significati e l’eventuale superamento del problema
del singolo, attraversa sempre l’intero nucleo familiare e le modalità di
relazione tra tutti i singoli che lo compongono. Il cambiamento del “singolo
problematico” richiede il cambiamento dell’intero nucleo familiare.
1.3. LA STRUTTURA DELLA FAMIGLIA
La struttura familiare è caratterizzata dall’insieme delle richieste funzionali
che determinano i modi in cui i componenti della famiglia interagiscono tra
loro. La famiglia è un sistema che opera attraverso “transazioni” (scambi) che
regolano il comportamenti dei suoi membri. Ad esempio una madre che dice
al figlio di mangiare e lui obbedisce, delinea una interazione in cui si
definisce chi è lei rispetto a lui; simili operazioni ripetute nel tempo delineano
un modello di transazione.
Alla famiglia poi, viene chiesto di adattarsi se le situazioni cambiano e
affinché essa possa sopravvivere deve possedere diversi modelli transazionali
3
Ivi pg. 17.
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alternativi e deve essere sufficientemente flessibile nel mobilitarli quando è
necessario. La famiglia entra in “crisi” quando i suoi modelli transazionali
non mostrano una “flessibilità” tale da adeguarsi alla nuova situazione che la
famiglia deve affrontare.
Ogni sistema familiare si differenzia e svolge le sue funzioni attraverso
“sottosistemi”; ciascun individuo rappresenta un sottosistema della famiglia
ed appartiene a sua volta a diversi sottosistemi (es. figlio e genere
maschile/femminile) in cui ha diversi gradi di potere e capacità differenziate.
I confini di un sottosistema sono definiti dalle regole che determinano chi
partecipa e come al sottosistema stesso. Affinché la famiglia funzioni bene, i
confini tra i sottosistemi devono essere “chiari” e sufficientemente “flessibili”
in modo da consentire un nuovo assestamento quando le situazioni interne ed
esterne alla famiglia cambiano.
Rispetto i confini, si possono delineare due differenti tipi di famiglie:
 Famiglie disimpegnate – quando i confini sono eccessivamente rigidi
al punto da compromettere la comunicazione tra i sottosistemi; i
legami sono deboli ed è presente uno scarso senso di responsabilità.
 Famiglie invischiate – quando la distanza tra i suoi membri
diminuisce e i confini tra una generazione e l’altra si confondono. La
differenziazione del sistema familiare si indebolisce.
All’interno di questi due estremi, disimpegno e invischiamento, ogni
famiglia può essere collocata in un continuum posizionato tra i due poli
estremi: confini diffusi o eccessivamente rigidi4. La tendenza eccessiva verso
il disimpegno o l’invischiamento può dar luogo alla manifestazione di un
“sintomo” da parte di uno dei suoi membri. Compito del counsellor, in questo
caso, è quello di aiutare a ridefinire ed eventualmente costruire confini,
chiarificando quelli invischiati e sciogliendo quelli eccessivamente rigidi.
4
Minuchin S., Famiglie e Terapia della famiglia, Astrolabio, Roma, 1976.
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1.4. IL CICLO VITALE DELLA FAMIGLIA NELL’APPROCCIO
SISTEMICO
Come per l’identità individuale, anche la famiglia che si forma deve
affrontare fasi molto delicate che portano ad una progressiva differenziazione
tra famiglie di origine e i sottosistemi presenti in essa.
Queste fasi vengono definite “fasi del ciclo vitale” e, come per i processi
evolutivi individuali, sono caratterizzate da specifici compiti di sviluppo, con
tappe ben stabilite.
Tali fasi si susseguono in modo naturale, completando un percorso di crescita
che si compie alternando periodi di stabilità e momenti di transizione.
Le fasi di passaggio sono quelle più delicate, perché comportano un
riadattamento che coinvolge tutti i membri della famiglia; quelle più
importanti da considerare sono, secondo Carter e Mc Goldrick5:
 la formazione della coppia con il distacco dalle famiglie d’origine;
 la nascita dei figli con l’assunzione del ruolo di genitori;
 le progressive fasi di crescita dei figli (dai primi anni all’età scolare);
 i figli adolescenti e tardo adolescenti;
 i figli adulti;
 la famiglia nella fase del pensionamento e della vecchiaia.
In ciascuno di questi momenti, come anche in tutti gli eventi imprevisti che
sembrano modificare questo percorso “ideale”, la famiglia è chiamata ad attivare
le proprie risorse per fronteggiare i cambiamenti, definendo un nuovo equilibrio
che resterà tale fino alla fase successiva.
La prima tappa del ciclo, la formazione della coppia con il distacco dalla
famiglia di origine, è caratterizzata dalla scelta del partner. In questa fase è
importante riuscire a conciliare i vecchi impegni con i nuovi: ogni partner è
portatore di modelli e cultura del proprio nucleo familiare di origine; primo
compito evolutivo della coppia è quello di negoziare il modo di stare insieme
5
Carter E., Mc Goldrick M., The family life cycle: a framework for family therapy, Gardner Press, New
York, 1980.
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integrando aspettative e stili di comunicazione ereditati dalle famiglie, l’obiettivo
è quello di creare un proprio modello, unico e nuovo. L’appoggio e il sostegno
delle famiglie di origine è fondamentale affinché la nuova coppia si costituisca in
modo armonico ed equilibrato. Se la/le famiglie di origine reclamano “vincoli di
fedeltà”, possono manifestarsi problemi all’interno della coppia ed insorgere
conflitti con i genitori o i suoceri anche su questioni banali. E’ possibile però
rendersi consapevoli del modo in cui la famiglia di origine influenza la nuova
relazione di coppia e grazie a tale consapevolezza si possono costruire relazioni
migliori. Ciò consente di gettare le basi per la fase successiva.
La nascita dei figli con l’assunzione del ruolo di genitori, rappresenta una vera
e propria rivoluzione per la coppia. Il nuovo ruolo genitoriale che si viene ad
assumere modifica i ruoli precedenti. Si deve imparare ad essere figli, coniugi e
genitori. E’ fondamentale il lavoro di differenziazione dalle famiglie di origine e
di negoziazione di un modo nuovo di stare insieme avvenuto nella fase
precedente. I membri della coppia saranno in accordo relativamente alle
aspettative che ciascuno ripone nell’altro, rispetto le modalità di interazione e la
costante ricerca di un nuovo equilibrio. Avrà un punto di forza quando entrambi
le parti sanno prendersi cura l’uno dell’altra in modo equilibrato ed efficace.
Nella coppia devono essere presenti elementi di flessibilità che garantiscono la
reciprocità nella relazione.
Nel terzo stadio del ciclo, quello della famiglia con bambini piccoli, le
attenzioni
dei
genitori
saranno
concentrate
sul
processo
emotivo
dell’accettazione dei nuovi membri all’interno del sistema. Il ruolo coniugale si
deve riassestare per lasciare spazio ai figli e per riformulare una famiglia
“trigenerazionale” in cui i ruoli dei genitori e dei nonni vanno ridefiniti.
Nella famiglia con figli adolescenti (quarto stadio del ciclo della famiglia), la
flessibilità dei confini della famiglia verso l’esterno deve aumentare per
consentire l’indipendenza dei figli. In questo caso i figli si sentiranno liberi di
entrare ed uscire dal sistema famiglia senza condizionamenti o costrizioni
favorendo così il loro processo di responsabilizzazione.
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Il quinto stadio, quello della famiglia con figli adulti, è caratterizzato da un
numero maggiore di movimenti in entrata ed uscita dei figli dal sistema famiglia.
La coppia concentrerà i suoi sforzi sull’accettazione emotiva di tali movimenti.
Le relazioni si devono ridefinire, potrebbero includere nipoti, generi/nuore e le
relazioni genitori-figli diventano relazioni alla pari tra genitori e figli adulti. Il
sottosistema dei coniugi potrà avere nuovi interessi.
Nel sesto stadio, quello relativo alla fase del pensionamento e della vecchiaia,
si assiste al mantenimento del funzionamento di copia e al riconoscimento come
ruolo più centrale alle generazioni di mezzo (ai figli) che in futuro offriranno
supporto alle generazioni più anziane.
Ciascuna delle fasi di vita della famiglia, vede come indispensabile, una buona
flessibilità riferita ad ogni singolo membro; sarà tale flessibilità che consentirà il
cambiamento della “struttura” della famiglia per arrivare ad un nuovo equilibrio
che sappia fronteggiare la trasformazione.
1.5. LA CRISI DELLA FAMIGLIA
Si parla di crisi del ciclo vitale della famiglia quando si verifica il blocco di una
delle tappe evolutive. A volte è il prevalere dell’istanza omeostatica (ricerca di un
equilibrio statico ma rigido) su quella del cambiamento o quando uno dei membri
esprime un sintomo.
Quando nel nucleo familiare è presente un problema che interferisce con il suo
funzionamento generale, il sistema stesso produce un tentativo autonomo di
soluzione. A volte la soluzione adottata non è però in grado di risolvere il
problema e dare benessere alle persone in questo caso, il persistere di condizioni
di disagio psicologico, può rappresentare un fattore critico e determinare
situazioni a rischio psicopatologico. Le manifestazioni sintomatologiche possono
riguardare
disturbi
dell’umore,
d’ansia,
dell’alimentazione,
del
sonno,
problematiche affettivo-relazionali, scolastiche, lavorative, …
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Nei processi evolutivi che si verificano transitando da una fase del ciclo vitale
della famiglia alla successiva, se il nucleo familiare non riesce a ristrutturare il
suo sistema di funzionamento, non si da’ vita al cambiamento e il processo si
“blocca” interrompendo l’evoluzione e generando disagi che si possono
manifestare, come si diceva poc’anzi, in comportamenti sintomatici di uno o più
dei suoi membri.
Ogni fase di sviluppo è caratterizzata da un “evento critico” da intendere però
non nella sua accezione negativa bensì in termini positivi in quanto:
 portatore di nuove variabili;
 attivatore di processi evolutivi;
 configura nuovi compiti di sviluppo;
 richiede la messa in atto di strategie di problem solving;
 la sua soluzione segna il passaggio ad un nuovo stadio del ciclo di vita.
L’evento critico, può essere di tipo normativo o paranormativo. L’evento
critico normativo (o prevedibile) ha a che fare con eventi come matrimoni o
nascite; l’evento critico paranormativo (o imprevedibile) ha invece a che vedere
con separazioni, morti premature, crisi economiche, malattie.
La crisi del ciclo di vita della famiglia si genera quando il processo “evolutivo” si
incaglia e il nucleo non riesce a mettere in campo i necessari cambiamenti per la
conquista di un nuovo equilibrio funzionale al benessere di tutti i suoi membri. In
questo casi gli eventi normativi o paranormativi diventano veri e propri scogli da
superare.
Anche nella conflittualità che si genera nei momenti di crisi la famiglia può
evolvere, crescere e passare ad una fase di sviluppo più matura ma se il conflitto
non è ammesso, negato, temuto, represso, diviene elemento negativo e genera
stati di crisi.
A volte per superare i momenti di “empasse” è necessario l’intervento di un
esperto esterno alla famiglia che focalizzi l’attenzione non solo sul/sui membro/i
sintomatico
della
famiglia,
ma
sull’intero
nucleo
sempre
nell’ottica
dell’approccio sistemico-relazionale alla famiglia. Il portatore del sintomo infatti,
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esprime un disagio che non è solo suo, ma dell’intero nucleo ed è generato da
un’organizzazione disfunzionale del sistema stesso. Il compito dell’esperto (il
terapeuta) sarà quello di consentire alla famiglia di affrontare in modo
competente e cooperativo i compiti e le necessità vitali di quella famiglia in quel
particolare momento, deve sollecitare e sostenere il riemergere delle competenze
e risorse familiari utili per il superamento “dell’empasse”.
1.6. LA FAMIGLIA RESILIENTE
La famiglia che riesce a superare la momentanea difficoltà e riprende il naturale
corso di sviluppo ed evoluzione, si può definire resiliente.
Il termine resilienza viene preso in prestito dalla metallurgia e sta ad indicare la
capacità di un metallo di resistere alle forze che gli vengono applicate; per il
metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità (il metallo si deforma
ma è in grado di tornare allo stato iniziale senza subire particolari conseguenze).
Così anche in campo psicologico la persona resiliente è l’opposto di una
facilmente vulnerabile.
L’individuo resiliente è colui che sopravvive ad eventi fortemente stressanti e
traumatici: gravi lutti, pesanti trascuratezze o rifiuti, violenze, malattie, ecc.; tali
eventi vengono a volte collegati dai clinici alle successive eventuali tragedie
della vita adulta delle persone e dei loro familiari (disturbi mentali, suicidi,
omicidi, …) delineando alcune “catene intergenerazionali di trasmissione della
sofferenza”. Ma non sempre è così. Molto spesso si incontrano persone che
hanno vissuto drammi enormi o deprivazioni consistenti ma che appaiono serene,
normali o addirittura particolarmente creative. Queste sono le persone resilienti
che non rappresentano un’eccezione.
L’interrogativo che ci si pone è: come fa il resiliente a sopravvivere o addirittura
a prosperare? Molto probabilmente i “fattori di resilienza” sono quelli che in
ambito psicologico vengono chiamati “fattori di protezione” cioè quelle
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caratteristiche individuali o relazionali che nell’approccio del counselling si cerca
di valorizzare, riscoprire, co-costruire.
Il concetto di “resilienza familiare” si riferisce sia alla qualità della struttura
relazionale di una famiglia (quelle qualità che permettono il superamento delle
crisi), sia alla forza dei legami tra i suoi membri6. Le famiglie resilienti riescono,
anche nei momenti di crisi, a mantenere chiari i confini dentro e fuori dal loro
sistema (dentro rispetto i ruoli dei suoi membri, la gerarchia, ecc.; fuori rispetto
ad esempio le modalità di comunicazione dei vari membri con gli ambiti sociali).
Tali famiglie conservano un sentimento di chiarezza rispetto gli impegni e la
partecipazione alla vita familiare stessa, mantengono modalità di comunicazione
con l’esterno “assertive”, manifestano un maggiore sviluppo delle competenze
comunicative perché hanno maggiore dimestichezza con la risoluzione di
problemi e con i processi decisionali, attribuiscono significati positivi alle
situazioni (anche quelle problematiche), evidenziano una certa flessibilità nel
trasferimento di ruoli e mansioni secondo le necessità, l’impegno e la coesione
familiare sono focalizzati sul benessere di tutti i suoi membri.
La famiglia resiliente permette lo sviluppo di individui resilienti.
I momenti di crisi posseggono un enorme potenziale maturativo che viene
attivato attraverso un funzionamento psichico nuovo rispetto al precedente. Il
cambiamento avviene se non c’è una frattura radicale rispetto l’assetto
precedente. La famiglia risolve il dilemma aperto dalla crisi se riesce a negoziare
nuove risposte senza abbandonare del tutto i vecchi modelli.
I processi di resilienza, secondo Newman e Blackburn, si sviluppano su tre
differenti livelli:
 individuale, che riguarda cioè la singola persona con le sue caratteristiche
distintive di tipo cognitivo, affettivo, espressivo e le sue specifiche
esperienze di vita;
6
Scabini E., e Cigoli V., Il famigliare, Milano, Cortina, 2001.
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 comunità prossima, in particolare la famiglia e la scuola. Si inseriscono
qui i processi di socializzazione primaria e secondaria rispetto i ruoli e la
loro valorizzazione;
 comunità sociale più estesa. A questo livello appartengono le variabili
economiche e sociali che possono ostacolare o promuovere i processi di
crescita degli individui: la povertà, la presenza o meno di servizi
assistenziali, l’isolamento sociale, …
Parafrasando le parole di Edith Grotberg7 relativamente ad una ricerca condotta
in Canada verso la metà degli anni 90 e che cercava di comprendere i processi
della resilienza, la persona resiliente viene identificata come colei che di sé può
dire:
‘I HAVE………….…people I trust and love’
‘I AM……………………..a loveable person’
‘I CAN…………find ways to solve problems’
Non tutte le persone che superano gravi difficoltà possono però definirsi resilienti
infatti bisogna distinguere tra funzionamento competente e resilienza.
Quest’ultima implica il raggiungimento di un certo grado di benessere emotivo e
relazionale. La famiglia resiliente è dunque la famiglia che supera i momenti di
crisi attivandosi per un nuovo equilibrio in cui ciascun membro del sistema sia
tutelato e possa, assieme agli altri membri, godere di benessere emotivo e
relazionale.
7
E. Grotberg, The International resilience project. In M. John, A charge against society: the child’s
right to protection, ed. J. Kingsley, London, 1997.
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CAPITOLO 2
LA FAMIGLIA CON FIGLIO DISABILE
2.1. LA NASCITA DI UN FIGLIO DISABILE
L’esperienza di avere un figlio è di per sé un elemento che altera gli equilibri
presenti in una coppia e in una famiglia.
Oggi poi la procreazione è il risultato di una scelta, generalmente condivisa, e del
desiderio di autorealizzazione dei membri della coppia. Le fantasie, i bisogni, le
aspettative che ruotano attorno alla maternità hanno a che fare con il desiderio di
prolungare la propria vita nel figlio, con la voglia di trasmettere oltre all’eredità
biologica, anche un’identità culturale.
Tuttavia tali fantasie vengono disattese quando nasce un figlio con disabilità. La
relazione di coppia viene messa a dura prova, sorgono conflitti che amplificano il
disagio e si può giungere alla separazione.
Di fronte ad un evento così improvviso e traumatico, anche i sistemi familiari più
stabili sarebbero in difficoltà a reagire e gestire in modo adeguato i cambiamenti
che tale evento comporta. La scoperta che il bambino nato non corrisponde a
quello che ci si aspettava rappresenta una grave ferita narcisistica per la coppia:
si cerca una spiegazione medica, si ricorre alle figure sanitarie nella speranza di
guarire o quanto meno spiegare l’accaduto. Ma anche quando viene acquisita una
spiegazione eziologica, la famiglia non si sente sollevata dal senso di
disperazione che la pervade poiché la nascita di un figlio disabile provoca
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sicuramente stress al nucleo ed il modo in cui questo affronta l’evento influirà
notevolmente sullo sviluppo futuro del bambino e della famiglia stessa. La
modalità ideale per fronteggiare tale situazione sarebbe quella dell’accettazione o
quanto meno di un adattamento consapevole.
Ma non sempre si raggiunge questa necessaria consapevolezza anzi, le reazioni
più frequenti possono prevedere:
 il rifiuto che si esplicita con la richiesta di istituzionalizzazione o con il
“correre da uno specialista all’altro”;
 un comportamento di iperprotezione verso il figlio e di iperesigenza
verso se stessi che prevede la dedizione assoluta al figlio come “modalità
di espiazione”;
 la negazione dell’handicap e minimizzazione del danno;
 la rivendicazione e aggressività nei confronti dell’ambiente che manifesta
un atteggiamento di “richiesta di risarcimento” (inteso come supporto e
sostegno nella gestione del figlio).
Quando non si riescono a superare adeguatamente le difficoltà si possono
sviluppare reazioni disadattive come la colpevolizzazione di se stessi o del
coniuge o ancora proiettare la colpa sui medici per ciò che riguarda le cure al
momento del parto, la tempestività e la correttezza della diagnosi. La ricerca del
colpevole però, pur avendo in alcuni casi un fondamento reale, è un
atteggiamento inadeguato perché tende a “cristallizzare” la situazione e a non
configurare un progetto di vita.
Se il dolore iniziale non viene superato, la relazione stessa con il figlio può
esserne compromessa e si possono evidenziare, come si diceva in precedenza,
atteggiamenti di rifiuto o all’opposto di iperprotezione (si impedisce al figlio di
crescere). La totale negazione dell’handicap esprime una negazione della realtà
intesa come minimizzazione del danno, ma quest’ultimo comportamento è
generalmente transitorio.
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2.2. IL DISABILE ADOLESCENTE
Dopo lo shock e le difficoltà iniziali, un altro momento di grave difficoltà, si
manifesta quando il figlio diventa adolescente. I genitori non interrompono o
concludono le attività di cura e di allevamento come invece nel normale ciclo di
vita dovrebbe verificarsi; non si raggiunge cioè il processo di separazioneindividuazione e la costituzione dell’autonomia con la relativa definizione
dell’identità reciproca (del figlio ma anche della coppia genitoriale). In questa
fase si spengono le speranze di possibili miglioramenti, termina la scuola
dell’obbligo il figlio e la famiglia sono posti di fronte a nuove e determinanti
scelte (proseguire il percorso scolastico, accedere a nuovi contesti di vita,
lavorare, …). A fronte di atteggiamenti di svalutazione del figlio (non sarà mai in
grado di fare qualcosa) che a volte ne impediscono il reale potenziamento delle
abilità presenti, possono manifestarsi vissuti di ipervalutazione delle abilità del
disabile (può fare qualsiasi cosa: lavorare, università, …) che potrebbero
generare in lui gravi frustrazioni.
I genitori vivono nuove ansie e nuove angosce soprattutto rispetto il pensiero del
futuro del loro figlio. La difficoltà di non concepirlo più come un bambino
nasconde a volte il timore di dover fare i conti con le difficoltà esistenziali che
adesso sono innegabili.
Il periodo dell’adolescenza come per ogni ragazzo comporta cambiamenti fisici e
psicologici. Se il ragazzo disabile non manifesta evidenti cambiamenti
psicologici a causa di eventuali problemi cognitivi sicuramente andrà incontro a
cambiamenti fisici rispetto i quali potrebbe agire comportamenti non mediati da
un’adeguata competenza cognitiva.
Rispetto gli interessi e le problematiche di carattere affettivo-sessuale mancano a
volte informazioni e riferimenti; i genitori possono vivere difficoltà
nell’affrontare tali tematiche per cui vengono spesso ignorate o, qualora siano
vissute ed agite, c’è la tendenza a censurarle. Sembra che al ragazzo disabile non
sia possibile crescere o costruire una propria identità.
Nel passaggio adolescenziale del ragazzo disabile nuovi interrogativi si
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presentano alla famiglia: come faremo quando saremo vecchi? Chi si occuperà di
nostro figlio? I suoi fratelli/sorelle saranno presenti nella sua vita? Chi
controllerà il suo stato di salute?
Questi interrogativi ricadono sull’intero nucleo famigliare al quale va comunque
riconosciuta una complessità gestionale rispetto la quale chiunque sarebbe in
difficoltà. E’ necessario per questo motivo offrire un buon supporto e sostegno
alla famiglia in ogni fase del ciclo che deve affrontare.
2.3. QUALI SUPPORTI PER I FIGLI DISABILI E LE
LORO FAMIGLIE?
Il primo grande bisogno delle famiglie alle quali nasce un figlio disabile è quello
dell’ascolto. A volte non è chiesto, a volte rifiutato, a volte è ritenuto inutile ma
offrire a queste famiglie spazi di ascolto può indirizzarle alla riflessione circa i
propri vissuti e conseguentemente a maturare la decisione di accettare l’aiuto
offerto in termini di sostegno, supporto, ascolto.
I bisogni delle persone disabili si possono distinguere in bisogni legati all’età
evolutiva e bisogni tipici dell’età adulta. Le risorse attivate per rispondere a tali
differenti bisogni devono dunque tenere conto anche della fase evolutiva che la
persona sta vivendo.
I bisogni delle persone disabili, soprattutto per ciò che riguarda l’età evolutiva, a
volte coincidono con i bisogni dei genitori. Queste alcune esigenze emerse:
- la necessità di una corretta informazione sulle cause e la natura del deficit e
sulle eventuali tappe di riabilitazione e di socializzazione;
- interventi psico-sociali sui genitori al fine di evitare o contenere reazioni di
depressione e di iperprotezione (che potrebbero ostacolare eventuali possibilità di
autonomia del figlio);
- interventi per prevenire il distacco o l’isolamento della famiglia dal contesto
sociale, evitando la gestione privata dell’handicap o il ricorso a comportamenti
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deleganti nei confronti delle istituzioni socio-assistenziali;
- consulenza interdisciplinare per le possibili terapie di recupero, per le
problematiche scolastiche, per le eventuali possibilità di lavoro assistito, per le
problematiche sessuali, per le possibilità di partecipazione alla vita sociale in
condizioni di crescita ed indipendenza.
Per poter rispondere anche solo ad alcune delle esigenze sopra esposte, sarebbe
importante mettere in atto modalità di lavoro di equipe in cui tutti i professionisti
coinvolti sul caso possano confrontarsi ed analizzare, ciascuno secondo il proprio
ambito di competenza, le eventuali problematicità (sanitarie, sociali, educative,
ecc.) in modo da restituire al disabile e alla sua famiglia un approccio unitario
alla situazione evitando ai soggetti coinvolti eventuale senso di frammentazione,
distorsione, confusione, contraddizione.
Riguardo la disabilità in età adulta, le esigenze emerse riguardano:
- necessità di servizio di assistenza domiciliare;
- servizi per emergenza assistenziale o di sollievo;
- presenza di centri diurni;
- presenza di servizi residenziali socio-assistenziali;
- prestazioni di socializzazione.
Anche per ciò che riguarda l’età adulta è fondamentale un approccio unitario alla
persona da parte degli specialisti che dovranno adesso affrontare anche le
problematiche legate all’invecchiamento fisico del disabile ma soprattutto
all’invecchiamento dei genitori che progressivamente saranno sempre più
impossibilitati a svolgere compiti assistenziali. Dovranno supportare e sostenere
le persone verso l’inevitabile separazione e distacco esistenziale.
A fronte di tanti bisogni evidenziati, i supporti possono differenziarsi sulla base
di molte variabili: luogo in cui la famiglia risiede (nazione, città, regione, …),
status sociale della famiglia (possibilità economiche), livello culturale della
medesima, grado di resilienza, ecc. . Sarebbe comunque e in ogni caso opportuno
offrire un sostegno all’essere genitori in generale e nello specifico genitori di figli
disabili. Il mondo moderno sta facendo i conti con nuove modalità genitoriali
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determinate dai cambiamenti della famiglia cui si accennava nel capitolo
precedente.
Alle coppie vengono richieste competenze genitoriali che non sono state
trasmesse dalle famiglie di origine perché rispondenti a modelli familiari che nel
passato non esistevano (es. famiglie ricomposte) da qui la necessità di “educare
alla genitorialità” cioè aiutare padre e madre a crescere come persone, a scoprire
le proprie risorse ed i propri limiti per imparare continuamente dai propri errori.
Questo tipo di sostegno sarebbe importante anche per i genitori di figli disabili
che di punto in bianco si trovano immersi in una realtà sconvolgente, non
desiderata, a volte rifiutata ma inevitabile.
Le leggi nazionali e quelle regionali prevedono forme di sostegno e supporto alle
famiglie con figli disabili ma le risorse che vengono messe a disposizione
possono variare anche di molto ad esempio in base alla regione italiana di
provenienza.
Sotto questo punto di vista la regione Emilia Romagna (come diverse altre
regioni d’Italia) da sempre si è mostrata sensibile a tali tematiche offrendo ai
cittadini disabili differenti supporti a partire dall’età infantile fino a quella adulta
pur consapevole che, in un mondo come quello della disabilità, i sostegni offerti
potrebbero non essere mai sufficienti a causa delle diverse e complesse situazioni
di vita.
Fin dalla nascita di un bambino disabile è possibile accedere a percorsi sanitari
con specialisti, in modo gratuito (come per qualsiasi cittadino in stato di
necessità), segue la presa in carico dal servizio di neuropsichiatria infantile che
funge da referente sia per gli aspetti sanitari (possono essere presenti anche altre
figure sanitarie di riferimento pubbliche o private) che educativi. Il
neuropsichiatra cura e dispone l’eventuale presenza di figure educative di
sostegno a scuola o in orario extra scolastico, può consigliare e predisporre
attività riabilitative di varia natura, indirizza assieme alla famiglia il progetto di
vita del bambino/ragazzo. Al termine del periodo di scolarizzazione obbligatoria
ed eventualmente facoltativa, è possibile accedere a strutture diurne (centri
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diurni) o residenziali oppure intraprendere percorsi lavorativi presso servizi
idonei ad accogliere le persone in difficoltà. Sono anche presenti sul territorio
regionale servizi pubblici e privati che possono supportare i ragazzi e gli adulti
disabili nei percorsi di socializzazione al fine di consentire una loro maggiore
integrazione sul territorio e consentire l’accesso alle agenzie pubbliche ricreative.
E’ possibile, durante tutto l’arco della vita, accedere a percorsi di sostegno
psicologico o psichiatrico secondo le necessità. Per le famiglie è possibile anche
la consulenza presso centri appositi.
Il quadro descritto però può variare anche da provincia a provincia e le offerte
possono essere differenti.
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CAPITOLO 3
IL CASO DI D.
3.1. LA STORIA DI D.
D. è una ragazza di 27 anni che frequenta un centro diurno socio riabilitativo
(centro Iride di Modena) per disabili da 9 anni. La diagnosi formulata parla di
“ritardo cognitivo grave, epilessia, microcefalia e dimorfismi” cui si aggiungono
problemi di intolleranze alimentari e soprattutto ad alcuni farmaci. A questo
quadro
sanitario
già
complesso
si
aggiungono
gravi
problematiche
comportamentali che negli anni hanno causato disagi al nucleo familiare in
particolar modo alla mamma che da sempre si occupa della ragazza in prima
persona.
Dopo la scolarizzazione obbligatoria D. è stata iscritta ad un istituto superiore
che ha frequentato fino al 3° anno tra mille difficoltà perché “l’ambiente
scolastico non rispondeva alle reali necessità di D. neanche rispetto il bisogno di
socializzazione” (parole della mamma). Contemporaneamente al periodo di
scolarizzazione superiore la ragazza ha iniziato a frequentare, durante i
pomeriggi, un gruppo di ragazzi disabili guidato da educatori della NPI
(neuropsichiatria infantile) con l’obiettivo di potenziare le autonomie presenti e
favorire percorsi di socializzazione.
Nonostante l’esperienza scolastica proseguisse, come si diceva, con molte
difficoltà, il rapporto con il gruppo della NPI si andava consolidando nel tempo e
per la prima volta D. ha potuto iniziare a sperimentarsi rispetto le autonomie
legate alla quotidianità. Al termine del 3° anno di scuola superiore la ragazza, su
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richiesta della famiglia, viene inserita presso il centro diurno. Tale passaggio è
stato fonte di lunghe e travagliate riflessioni da parte della famiglia (della
mamma in particolare) molto timorosa di privare la figlia di occasioni
normalizzanti e di apprendimento.
L’inserimento presso il centro diurno è stato agevolato e supportato dagli
educatori della NPI che hanno accompagnato la ragazza per tutto il periodo di
avvicinamento e conoscenza della struttura. Questa modalità ha contribuito a
tranquillizzare la famiglia che ha trovato in queste figure un elemento di
continuità tra il prima e il dopo, hanno percepito l’uscita dalla scuola non come il
termine di un’opportunità ma come un passaggio verso una nuova esperienza.
I contatti quotidiani tra gli educatori della NPI (che accompagnavano D. al centro
diurno e restavano con lei per un tempo variabile e progressivamente sempre più
breve) e gli operatori del servizio, hanno agevolato in percorso di inserimento
che non ha presentato problemi particolari.
La famiglia pur manifestando la propria preoccupazione per il cambiamento cui
la figlia e loro stessi andavano incontro, si è da subito mostrata disponibile e
collaborativa, disponibile a mettere in discussione il proprio modo di rapportarsi
con la ragazza e pronta ad accettare consigli e suggerimenti.
Agli incontri di pianificazione dell’inserimento che hanno coinvolto la famiglia,
la neuropsichiatra, gli educatori della NPI, l’assistente sociale, la coordinatrice
del centro diurno e l’educatore del medesimo, si sono susseguiti incontri di
verifica in cui i vari referenti si sono confrontati circa l’andamento del percorso
che, come accennato in precedenza, si è svolto senza problemi particolari.
Negli anni D. ha costruito e consolidato relazioni con gli operatori del centro
diurno, ha scoperto e potenziato diverse autonomie, ha sperimentato e si è
sperimentata in contesti di socializzazione parzialmente protetti, ha appreso il
rispetto delle regole della vita di comunità al cui interno ha trovato una propria
dimensione e un proprio spazio.
Con regolarità (almeno due volte all’anno) si sono svolti incontri con la famiglia
e l’a.s. di riferimento per condividere il progetto educativo di D. .
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La famiglia ha sempre vissuto con serenità questi momenti di scambio ed ha
manifestato più volte il desiderio di trovare momenti di condivisione con altri
familiari circa le problematiche che quotidianamente le famiglie di ragazzi
disabili devono affrontare. Una parziale risposta a questo bisogno è stata data
attraverso alcuni incontri (due all’anno) aperti a tutti i familiari degli utenti del
centro diurno in cui si condivide la progettualità del servizio e ci si confronta su
eventuali problematiche sollevate dalle famiglie. Oltre alle famiglie a questi
incontri sono presenti alcuni referenti istituzionali (un rappresentante del comune
di Modena e un rappresentante dell’ente che gestisce il servizio) e il coordinatore
del servizio. In un contesto di questo tipo non è naturalmente possibile entrare
nella specificità dei singoli casi ma rappresenta comunque un’opportunità offerta
alle famiglie anche per socializzare tra di loro e creare un gruppo che
all’occorrenza possa “supportare” e “sostenere” chi ne ha bisogno.
La famiglia di D. nel corso degli anni non ha mai mancato un solo appuntamento
(sia di gruppo che singolarmente) a conferma del desiderio e della disponibilità a
relazionarsi in gruppo e a chiedere sostegno e supporto.
3.2. D. IN DIFFICOLTÀ
Dopo un ottimo inserimento presso il centro diurno e dopo aver costruito e
consolidato relazioni con il personale della struttura, D. inizia a mostrare alcuni
segni di insofferenza alle regole comunitarie che prima accettava di buon grado,
diventa oppositiva, “capricciosa” (termine usato dalla mamma per descrivere
alcune modalità della ragazza) e purtroppo aggressiva verso gli altri.
Le attività proposte vengono rifiutate, si oppone alle uscite (sia per le passeggiate
che per svolgere attività di altra natura), il momento del pasto diventa occasione
per urla e rifiuti: non vuole mangiare il secondo ma solo il primo e il contorno8,
8
La famiglia aveva chiesto di somministrarle prima il secondo e dopo la pasta in quanto a casa la
ragazza accettava di mangiare solo pasta e questo creava un disequilibrio alimentare che i genitori
vivevano in modo faticoso e preoccupato. Al centro aveva accettato senza problemi questa nuova
regola.
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se non viene accontentata lancia il piatto, il bicchiere e occasionalmente tenta di
ribaltare il tavolo. Anche la più piccola frustrazione (es. se ha terminato di
mangiare la merenda) causa pianti disperati, crisi di rabbia, forme di aggressività.
Gli operatori del centro diurno la controllano a vista perché senza preavviso può
scagliarsi fisicamente contro qualcuno (sia altri utenti che personale del servizio)
e fare del male con calci, schiaffi, graffi, tirando i capelli. Gli altri utenti la
temono e … “stanno alla larga da lei” nel timore di diventare bersaglio della sua
aggressività.
Nell’equipe settimanale il gruppo si è confrontato ripetutamente su ciò che
accadeva e si sono condivise la modalità per tentare di arginare le manifestazioni
di aggressività: quando D. manifesta i primi segnali di agitazione l’operatore che
la affianca cambia situazione proponendole spazi alternativi con stimoli e/o
attività alternative. Se la crisi comportamentale è già in atto le viene proposta la
stanza morbida con luce soffusa e musica adeguata (D. ha da subito manifestato
un grande amore per la musica).
Sempre in sede di equipe la coordinatrice ha condiviso con il gruppo l’intenzione
di convocare la famiglia per aggiornarla sulla situazione e chiedere un rimando
circa la vita di D. a casa.
3.3. PRIMO COLLOQUIO CON LA FAMIGLIA
Di seguito viene riportata una parte del colloquio con i genitori di D. .
Con la lettera A viene indicato l’intervento di chi scrive, B sono le parole della
mamma, C quelle del papà.
La coppia arriva puntuale all’appuntamento e ci si accomoda nell’ufficio attorno
ad un tavolo rotondo.
A- “Benvenuti e grazie per aver accolto l’invito a questo colloquio. Mi rendo
conto che essere qui è una scelta solo in parte libera perché siete stati convocati
per parlare di vostra figlia e qualsiasi genitore vorrebbe parlare del proprio figlio
in un contesto diverso da quello del centro diurno ma l’essere adulti e genitori ci
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porta a dover accettare delle condizioni di vita che non sempre scegliamo e
desideriamo…”
B- “… è vero, noi (si riferisce anche al marito) non abbiamo scelto la condizione
di D. ma l’abbiamo accettata e amata da sempre. Non vogliamo un’altra figlia ma
vorremmo trovare il modo di vivere e farla vivere serenamente… (la signora si
commuove)”
A- “Avere chiaro un obiettivo di vita così importante mi sembra un ottimo punto
di partenza.”
B- “ma è così difficile… (la signora cerca di trattenere le lacrime e smette per un
momento di parlare)”
A- “Anche l’obiettivo del centro diurno è quello di dare a D. gli strumenti per
poter vivere con serenità assieme alla sua famiglia e qui al centro. Vorremmo che
D. e voi poteste godere di una buona qualità di vita e per fare questo dobbiamo
condividere gli obiettivi, le modalità di lavoro, … le difficoltà. Proprio di questo
volevo parlarvi”.
“A” mette al corrente la famiglia della situazione che la figlia vive al centro e
chiede come si comporta a casa.
B- “… a casa è intenibile, tutti i giorni sono capricci, lacrime, schiaffi, calci … io
cerco di accontentarla come posso. Tutti i giorni dopo il centro io e mio marito la
portiamo fuori, le prendiamo la pizza che lei ama tanto; l’altro giorno c’era la
banda al parco che suonava le ho detto che l’avrei portata li e lei rideva felice ma
quando siamo arrivati dopo 10 minuti ha iniziato a piangere e ad urlare le
abbiamo preso la pizza e dopo averla mangiata a continuato con una “piazzata”
in mezzo alla gente … (di nuovo si commuove) … cercavo di tranquillizzarla le
parlavo con dolcezza ma lei mi ha dato uno schiaffo sul viso che mi ha fatto
malissimo… (adesso piange e si asciuga le lacrime)”
C- “ non riuscivamo più a spostarla da quel posto. Non sapeva neanche lei cosa
voleva. Solo quando ho fatto la voce grossa siamo riusciti a portarla via”
B- “… vede, mia figlia è capricciosa e non tollera niente! A casa vuole tutto e
subito e poi non è comunque contenta. Tutte le sere c’è la crisi di turno. Per
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motivi inspiegabili di punto in bianco inizia ad urlare. Prima picchiava solo me
adesso alza le mani anche con suo padre anche se lo teme un po’ di più. Riesco a
volte a farla calmare mettendola a letto e dandole uno “straccetto” di stoffa che
lei mette in bocca e tira con i denti. Se volete vi porto uno “straccetto” anche per
il centro…”
A- “Dovremmo cercare di capire che cosa può disturbare D. al punto da farla
diventare aggressiva, ammesso che ci sia davvero qualcosa nell’ambiente o nel
comportamento di chi la circonda che la infastidisce”
B- “secondo lei potrebbe non essere colpa mia e di mio marito se D. si arrabbia?
Io penso che lei diventi aggressiva quando a casa non riusciamo a capire cosa
vuole…”
A- “ ma… innanzitutto non parlerei di colpe. D. è così e le persone che la
circondano fanno di tutto per comprenderla e cercare di darle gli strumenti
affinché possa soddisfare o, ancora meglio, imparare a controllare i propri
desideri o impulsi. D. come ogni ragazza giovane deve apprendere che non
sempre è possibile soddisfare nell’immediato i propri desideri e che un mancato
soddisfacimento nell’immediato non vuol dire dover rinunciare per sempre a
qualcosa”
C- “ sa che è vero, mia figlia non sopporta neanche il più piccolo no. Noi le
diciamo, quando ad esempio è brutto tempo, che non si può andare al parco o a
prendere la pizza al taglio le facciamo vedere dalla finestra che piove e che fa
freddo ma... non c’è verso. Sapesse quante volte sotto l’acqua l’abbiamo caricata
in macchina e siamo andati a prendere la pizza pensando di farla contenta e poi…
ha lanciato la pizza dentro la macchina e picchiava mia moglie arrabbiatissima
… (il papà si interrompe)”
A- “Secondo voi, se in una di queste giornate di freddo quando non è possibile
uscire, proponeste a D. qualcosa da fare in casa assieme a voi come reagirebbe
vostra figlia?”
B- “… non saprei… non ho idea di cosa si possa fare con lei in casa…”
Si crea un breve silenzio di attesa.
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A- “e il papà cosa dice?”
C- “(si rivolge alla moglie) … ma dai ti ricordi che quando era piccola stava un
sacco di tempo ad ascoltarti mentre suonavi il pianoforte? Le piaceva tanto e ti
ascoltava in silenzio… ogni tanto batteva le mani per accompagnarti al ritmo
della musica…”
La signora sorride al ricordo. Si crea di nuovo un momento di silenzio.
A- “pensate sia proponibile oggi una cosa del genere a D.?”
B- “si… certo… sono un po’ fuori allenamento ma non importa. E’ da tanto
tempo che non suono più il pianoforte”
A- “se entrambi siete d’accordo possiamo definire questo primo, chiamiamolo
così, piccolo impegno da mettere in atto a casa in quei momenti di difficoltà. Poi
vediamo come va.”
I genitori acconsentono fiduciosi ma poi si crea nuovamente il silenzio.
A- “C’è qualche altra situazione con D. che a casa vi mette in difficoltà?”
B- “a dir la verità si. Quando devo andare in mansarda a stendere il bucato e sono
da sola non so come fare perché D. non vuole fare le scale io devo trascinarla a
forza ma poi devo tornare giù a prendere il bucato e sono in pena a lasciarla sola
anche se per poco tempo perché temo che cada dalle scale nel tentativo di tornare
in casa… mi rendo conto che sembra una sciocchezza ma per me è un grande
disagio come anche andare a fare la spesa al supermercato. Lei non tollera di
dover fare la fila alla cassa o di dover girare lungo le corsie; vorrebbe prendere
solo ciò che le interessa (la pizza o la focaccia) e andarsene. Varie volte mi è
capitato che alla cassa scoppiasse a piangere e mi dava calci e schiaffi… io ero
molto imbarazzata li davanti a tutti e qualcuno a volte si è impietosito e mi ha
lasciato passare. Ma io non voglio questo, vorrei che D. fosse un po’ più
tollerante … (si commuove)“
A- “queste mi sembrano difficoltà reali è non sciocchezze. Per questo pensavo
che anche qui al centro potremmo prenderci un piccolo impegno con D. . Dal
momento che anche noi abbiamo tutti i giorni le tovaglie da stendere potremmo
definire che questo è il compito che D. svolgerà con un operatore cercando di
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renderla autonoma il più possibile nelle varie fasi dell’attività e potremmo anche
proporre a D. l’attività di spesa che ogni settimana i ragazzi e gli operatori del
centro fanno al supermercato …”
Viene esposta in modo dettagliato la proposta di attività.
B- “… guardi… sarebbe una cosa meravigliosa. Io non so se D. vi darà retta ma
voi siete bravi e forse ci riuscirete …”
A- “il vero obiettivo è che in futuro D. possa aiutarla a casa a stendere il bucato e
venire con lei a fare la spesa senza creare problemi e magari dandole anche una
mano”.
Ci congediamo e prendiamo appuntamento per il mese successivo (dopo circa 4
settimane).
3.4. RIFLESSIONI DOPO IL PRIMO COLLOQUIO
Nell’idea iniziale, era mia intenzione mettere al corrente la famiglia della
situazione di D. al centro, ascoltare un loro rimando rispetto la vita a casa ed
eventualmente proporre ed ascoltare possibili soluzioni.
In realtà, fin dalle prime battute dell’incontro è emersa molto chiaramente la
grande sofferenza presente nel vissuto relazionale dei genitori (in particolar modo
della mamma) con la loro figlia.
Ho pensato quindi durante il colloquio di lasciare un tempo adeguato (ma non
eccessivamente lungo) affinché potessero raccontarsi nella quotidianità con la
loro figlia. Ritengo infatti che il raccontarsi oltre ad avere una funzione
liberatoria possa contribuire ad incrementare la capacità comunicativa dei
membri permettendo al contempo di perseguire un’idea condivisa delle vicende
familiari.
Ho cercato di attivare la figura paterna che mi sembrava più sullo sfondo delle
vicende ma lasciava trasparire un profondo coinvolgimento ed infatti è stato lui
che in un momento di empasse ha sbloccato la situazione con una proposta
attuabile e costruttiva per l’intero nucleo familiare (proposta del pianoforte).
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Ho reputato di secondaria importanza le difficoltà del centro diurno che può in
ogni caso contare su più risorse umane e altri strumenti di supporto al proprio
lavoro (supervisione, equipe settimanale, formazione, …). Mi è sembrato
importante però sottolinearne la presenza e l’impegno a supportarli nel difficile
compito genitoriale attraverso la proposta di attività che potessero andare a
vantaggio anche delle dinamiche familiari (es. spesa, stendere il bucato, …). Ho
reputato importante consolidare “l’alleanza” con il centro nella gestione della
ragazza in quanto attualmente è l’unica presenza significativa che affianca la
famiglia in questo delicato compito.
3.5. SECONDO COLLOQUIO CON LA FAMIGLIA
La famiglia arriva puntuale all’appuntamento e ci si accomoda nel solito ufficio
attorno al tavolo rotondo.
A- “Benarrivati. Come state?”
B- “Non c’è male grazie anche se siamo preoccupati per D. perché continua ad
essere molto agitata ed aggressiva …”
La signora racconta episodi simili a quelli raccontati nell’incontro precedente.
A- “…e siete riusciti a proporle l’ascolto della mamma che suona il pianoforte?”
B e C (insieme) - “si, si”
B- “sa, per me è stato un momento molto emozionante. Per un po’ mi è sembrato
di tornare indietro nel tempo a quando D. era piccola. All’epoca non avrei mai
immaginato che da grande sarebbe stato così complicato gestirla”
C- “secondo me è stata una bella proposta. D. non se lo aspettava quando la
mamma a cominciato a suonare. Sembrava una cosa nuova per lei. … siccome
non potevamo uscire perché la nonna non stava bene9 abbiamo subito visto che
iniziava ad innervosirsi così le abbiamo proprio detto che c’era una bella sorpresa
9
La nonna cui si fa riferimento è quella materna che in passato viveva autonomamente in un
appartamento attiguo al loro ma adesso a causa di un processo di demenza senile, vive assieme al
nucleo familiare. Anche questo elemento appesantisce il carico dei coniugi che a volte non sanno
come dividersi gli impegni di cura.
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per lei, “guarda la mamma” le ho detto e lei quando ha sentito le prime note ha
cambiato espressione del viso. Era meravigliata… è rimasta li in piedi per un po’.
Quando si è seduta sulla poltrona vicina, ha accavallato le gambe ed ha iniziato a
battere le mani a ritmo di musica. Quasi non ci credevamo!!! … Lo abbiamo
fatto altre volte di proporle la musica e per il momento sembra che funzioni …”
A- “sua moglie ha parlato di agitazione ed aggressività che continuano ad essere
presenti, anche lei rileva queste modalità in D.?”
C- “non è più la crisi tutte le sere, un po’ si sono diradate ma ci sono ancora.
Veramente c’è stato un brutto episodio accaduto proprio davanti al neurologo che
segue la terapia per D.10. Eravamo li con l’esito degli esami del sangue per
verificare il dosaggio dell’antiepilettico e mia moglie raccontava al dottore del
comportamento di D. di quanto è aggressiva e agitata…“
La signora si sovrappone al marito e prende la parola continuando il racconto.
B- “avevo l’impressione che il dottore non mi prendesse neanche più di tanto sul
serio, non mi guardava neanche in faccia. Io insistevo nel raccontare le difficoltà
che abbiamo; quando D. in modo inaspettato ed imprevedibile mi ha dato un
calcio nello stomaco che mi ha scaraventato contro il muro facendomi poi cadere
a terra (alla signora si riempiono gli occhi di lacrime). Poi il dottore ha prestato
più attenzione, mi hanno fatta sdraiare su un lettino mentre D. ha iniziato a
piangere. Quando stavo meglio è stato proprio il dottore che ci ha proposto di
somministrarle delle gocce che dovrebbero aiutarla ad essere più tranquilla. Io
sono contraria ai farmaci ma proprio non ce la faccio più. Pensavamo di provare
e volevamo chiedere se ci aiutate a tenerla monitorata sulle possibili reazioni.
Qualsiasi cosa di diverso dal solito notiate sia come comportamento che dal
punto di vista fisico per favore comunicatecelo… a volte questi farmaci non
vanno bene con gli antiepilettici…”
10
Poiché la ragazza soffre di crisi epilettiche assume alcuni farmaci che le tengono sotto controllo. La
famiglia si è rivolta al servizio sanitario di un’altra città della regione per le cure antiepilettiche e a
scadenze precise deve recarsi li per il monitoraggio dei farmaci o eventuali altri problemi. Il fatto di
doversi spostare in un’altra città per queste cure viene oggi vissuto con un certo disagio ma la signora
ha più volte affermato di non avere referenti sanitari vicini ai quali poter sottoporre le problematiche
della figlia.
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A- “per questo state tranquilli, riferirò agli operatori del centro le novità dal
punto di vista farmacologico e osserveremo attentamente D. riferendovi ogni
cambiamento perché è vero che a volte i farmaci che agiscono sul
comportamento hanno un’interazione negativa con gli antiepilettici. Ma
ribadisco, state tranquilli anche perché D. ha sempre un operatore con lei. Vi
chiedo solo di avvisarci quando inizierete con la nuova somministrazione”.
Il colloquio prosegue con ulteriori approfondimenti da parte della famiglia sulle
questioni sanitarie.
A- “se potreste cambiare qualcosa dal punto di vista delle cure sanitarie che cosa
cambiereste?”
B- “… sicuramente avere una figura sanitaria qui in città che conosce bene mia
figlia e la sua storia sarebbe un grande aiuto perché tutte le volte che c’è un
problema o si deve fare una visita dover andare in un’altra città, lasciare la cura
di mia madre all’altro figlio (D. ha un fratello maggiore sposato che vive fuori
casa) che deve prendere un giorno di ferie… è tutto complicato poi D. non
sempre vuole salire in macchina…”
Il padre annuisce e conferma tutto.
A- “so che è possibile avere un referente anche qui a Modena. Se siete d’accordo
proviamo a coinvolgere anche l’a.s. chiedendole a chi ci si può rivolgere…”
La famiglia accetta di buon grado la proposta e ci diamo appuntamento a dopo 4
settimane.
3.6. RIFLESSIONI DOPO IL SECONDO COLLOQUIO
L’idea iniziale di riprendere da dove ci eravamo lasciati la volta precedente e cioè
verificare come era andata rispetto i piccoli impegni che la famiglia e il centro
avevano concordato, è stata superata quasi subito perché ho percepito che
l’episodio accaduto dal neurologo aveva una portata emotiva importante per
entrambi i coniugi, in particolare per la mamma. Ancora una volta era impellente
il bisogno di raccontare, quasi per rielaborare, l’accaduto. Temevo che la signora
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si lasciasse prendere dall’emotività e che il colloquio si impantanasse in un
circolo vizioso di autocommiserazione, per questo motivo ho pensato che
l’azione perturbante più sensata in questo racconto potesse agganciarsi alle
problematiche sanitarie. Ho quindi indirizzato una riflessione su aspetti pratici,
fattibili e soprattutto utili qual’ora si fossero concretizzati. La signora stessa è
riuscita ad esprimere il bisogno di cercare un referente sanitario più vicino (forse
non solo in senso spaziale).
Ancora una volta ho lasciato in secondo piano gli eventuali approfondimenti
sulla progettualità intrapresa dal centro, concordata e condivisa con la famiglia.
Gli scambi più o meno quotidiani tra gli operatori del servizio e la famiglia (che
si verificavano quando accompagnavano e venivano a prendere la figlia al
centro) mi davano un rimando positivo circa le relazioni tra casa e centro.
Nell’incontro di equipe settimanale il gruppo di lavoro riceveva gli
aggiornamenti necessari per un miglior monitoraggio della situazione dal punto
di vista comportamentale e sanitario. Veniva portata avanti, rivista, discussa
nuovamente, la progettualità condivisa con la famiglia.
3.7. TERZO COLLOQUIO CON LA FAMIGLIA
Ci accomodiamo nel solito ufficio e noto la famiglia particolarmente sorridente e
rilassata.
A- “come state?”
B- “sapesse!!! Da quando abbiamo iniziato con il nuovo farmaco va molto
meglio. La nostra vita è cambiata radicalmente! D. è molto più tranquilla!”
A- “devo confermare che qui al centro le cose vanno molto meglio. Non solo D.
è più tranquilla ma è anche più recettiva. Risponde bene a tutte le attività, ha
voglia di “fare”. In questi mesi abbiamo continuato con il progetto del bucato da
stendere ed è diventata abbastanza autonoma così come con la spesa. Adesso
aspetta alla cassa il proprio turno senza lamentarsi, assieme all’operatore spinge
il carrello ed esegue gli acquisti che ha sulla lista: indirizzata prende gli oggetti e
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li depone nel carrello. Al termine dell’attività fa uno spuntino con il resto del
gruppo con il quale accetta di condividere persino la pizza!
Le manifestazioni di aggressività si sono sempre più diradate ed è da un paio di
settimane che non si manifestano più…”
B- “avevo capito che stavate lavorando sullo stendere perché già diverse volte
quando le dicevo “vieni che andiamo a stendere” lei senza batter ciglio prendeva
autonomamente il catino e si dirigeva verso la lavatrice e in solaio, senza che io
lo chiedessi, mi allungava il bucato da stendere. Con la spesa fa ancora qualche
capriccio di troppo quando alla cassa deve aspettare mentre invece vorrebbe
subito mangiare la focaccia o la pizza che le compero come premio. Ma va bene
lo stesso così. Non tenta neanche di farmi del male adesso… Dopo tanto tempo
ho riprovato il piacere di stare con mia figlia, di suonare il pianoforte per lei… e
lei è felice, lo apprezza…”
A- “… ho anche contattato l’a.s. per chiederle a chi ci si può rivolgere per avere
il nominativo di un referente sanitario cui far riferimento qui a Modena. Mi ha
parlato di una psichiatra, la dott. M. che ha già in carico altri casi di utenti
disabili. L’idea è quella di proporre un incontro con lei, l’a.s. e il medico di base
qui al centro per fare il punto della situazione e predisporre per l’eventuale presa
in carico sanitaria qui a Modena…”
La famiglia apprezza la proposta ma si mostra subito scettica sulla riuscita
dell’incontro. Afferma che il medico di base è sempre stato latitante rispetto le
problematiche della figlia per questo loro, anche per il certificato più banale, si
sono sempre rivolti allo specialista fuori città. Manifestano perplessità anche
circa la disponibilità di tale specialista a passare il caso con la relativa
documentazione (la famiglia parla di documenti sanitari di una vita intera) ad un
eventuale collega. Si impegnano comunque a contattarlo e verificarne la
disponibilità.
Prima di concludere l’incontro comunico alla famiglia l’idea del centro di
portare D. alcuni giorni in montagna assieme ad un piccolo gruppo di utenti.
Ancora una volta la signora si commuove accetta volentieri, ringrazia dicendo
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che mai avrebbe immaginato che sua figlia potesse fare tanti progressi da essere
pronta per allontanarsi da casa senza genitori. Rimando con la famiglia i
dettagli del viaggio ad ulteriori momenti di scambio.
Saluto dicendo che dopo l’estate li contatterò per comunicare loro la data
dell’”incontro allargato”.
3.8. RIFLESSIONI DOPO IL TERZO COLLOQUIO
L’introduzione di un farmaco adeguato ha consentito una svolta nella gestione di
D. da parte della famiglia e del centro diurno.
Il disturbo comportamentale è risultato strettamente legato alla patologia
(risultato emerso dalle consultazioni con i sanitari) e questo ha liberato la
famiglia dal peso del senso di colpa che in particolar modo si attribuiva la
mamma sentendosi “non capace di comprendere” le richieste della figlia.
La coppia sembra aver trovato una nuova serenità. I visi non sono più tirati, tristi,
sconfortati. In questo momento è la svolta attesa.
A riguardo rifletto sull’importanza dell’apporto delle figure sanitarie e rinforzo
l’idea dell’incontro allargato. Solo l’integrazione tra i diversi saperi può indicare
la strada per la comprensione del comportamento di D. e fungere da fondamento
per la costruzione di nuove modalità di interazione con lei.
Effettivamente i primi risultati di questa inconsapevole e involontaria
integrazione ha già dato i suoi frutti in quanto l’assunzione del nuovo farmaco ci
ha consentito di sperimentare altre forme di apprendimento con D. e costruire
nuove possibilità per lei (es. la partecipazione al soggiorno estivo).
3.9. QUARTO INCONTRO CON LA FAMIGLIA
Ci rivediamo dopo l’estate. Il breve soggiorno con D. è andato molto bene; al
centro siamo molto felici del risultato raggiunto, anche la famiglia è soddisfatta.
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L’incontro, come previsto, coinvolge diversi referenti del caso: il centro diurno,
l’a.s. di riferimento, la psichiatra indicata dall’a.s. come possibile nuovo referente
sanitario: dott.ssa M. .
L’incontro inizia con circa 45 minuti di ritardo perché la psichiatra tarda ad
arrivare.
Con la lettera A sono indicati gli interventi della sottoscritta, B e C sono
rispettivamente le parole della mamma e del papà, D è l’a.s. ed E la psichiatra.
E. arriva trafelata e si scusa del ritardo giustificandolo con un’emergenza
verificatasi presso il CSM (Centro di Salute Mentale). Il resto delle persone la
giustifica cortesemente.
A- “… mi preme ricordare il perché di questo incontro e chiedo aiuto ai genitori
di D. visto che hanno espresso un bisogno… (mi rivolgo alla coppia) volete
esprimervi direttamente voi in modo da circostanziare e precisare la natura della
vostra richiesta?”
B- “si, mi sembra opportuno…”
La signora racconta ai presenti della necessità di un referente sanitario in città
per il monitoraggio farmacologico della figlia. Sottolinea la scomodità di doversi
recare in un’altra città ogni qualvolta insorge qualche problema o
semplicemente per i controlli di routine.
E- “ma che farmaci prende sua figlia?”
La signora sottopone alla psichiatra lo schema dei farmaci assunti da D. .
E- “… mi dispiace ma le dico subito che io non posso essere il referente che lei
cerca… vede… i farmaci che io prescrivo agiscono negativamente con gli
antiepilettici che prende sua figlia. Io non posso aiutarla. Lei deve rivolgersi al
medico di base che cura sua figlia anzi, oggi dovrebbe essere qui anche lui…”
D- “il medico è stato convocato, l’ho chiamato io ma non si è dato disponibile
per l’incontro affermando di non conoscere bene il caso e di non poter essere di
aiuto…”
C- “non mi meraviglio noi lo avevamo già detto che probabilmente non si
sarebbe reso disponibile”
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D- “il tentativo andava comunque fatto…”
Tutti concordano.
A- “(mi rivolgo alla psichiatra) crede sia possibile cercare di rispondere in
questa sede o quanto meno indirizzare questa famiglia anche se non è presente il
medico di base?”
E- “(un po’ imbarazzata) si, certo ma io non posso fare molto”
A- “cerchiamo allora di comprendere meglio la situazione di D. almeno dal punto
di vista sanitario. (Mi rivolgo ai genitori). Dovendo descrivere sinteticamente le
principali problematiche sanitarie di vostra figlia da dove partireste?”
La signora parla con precisione e competenza di problemi epilettici, di anemia,
di carenza di calcio, di intolleranze alimentari e non, di problemi
comportamentali.
La psichiatra si mostra interessata e fa domande sull’insorgenza delle prime
problematiche di D. I genitori (anche il papà interviene) fanno adesso un lungo
racconto ripercorrendo la vita di D. dalla nascita.
E- “vedo che i problemi sanitari di vostra figlia sono diversi e questo conferma la
necessità di rivolgersi al medico di base affinché diventi elemento di raccordo tra
i vari specialisti di cui vostra figlia ha bisogno…“
D- “sarebbe una buona idea avere il medico come elemento di raccordo ma nello
specifico questa persona non è intenzionata a collaborare…”
A- “(Mi rivolgo nuovamente ai genitori). Conoscete un altro medico di base non
lontano da casa vostra?”
B- “a dir la verità… no, ma adesso che ci penso la mamma di S. (è una ragazza
che frequenta lo stesso centro diurno di D.) mi ha parlato del suo medico ed
effettivamente mi sembra, da ciò che lei dice, molto capace e soprattutto
disponibile verso i ragazzi con problemi come i nostri…”
C- “… a questo punto ci conviene cambiare medico di base… tanto il nostro non
conosce per niente D. … forse un nuovo medico ci può dare qualche indicazione
in più…ed essere un po’ più presente…”
D- “se volete (rivolta ai genitori) posso contattare io questo nuovo medico ed
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avvisarlo che vi rivolgerete a lui per vostra figlia…”
B- “… magari… Sarebbe comunque un aiuto in più. Grazie! Speriamo che
questo nuovo medico ci sappia poi indirizzare dagli specialisti giusti… Noi
avevamo anche chiesto al professore che segue D. da quando è nata (è lo
specialista dell’altra città che loro vorrebbero lasciare) se era disponibile a
passare la documentazione su nostra figlia ad un altro specialista. Gli avevo poi
spiegato delle nostre difficoltà e che la richiesta non metteva assolutamente in
discussione il suo operato ma… mi è sembrato seccato dalla richiesta. Abbiamo
capito chiaramente che non ha nessuna intenzione di trasmettere tutti questi anni
di documentazione… Adesso non sappiamo come è meglio fare…”
A- “(ai genitori) l’idea di cambiare in medico di medicina generale è già un
punto di partenza. Fatto questo primo passo con l’aiuto dell’a.s., potremmo
insieme costruire un percorso assieme al nuovo medico. Ogni referente che
conosce D. può portare il proprio contributo per costruire insieme una
conoscenza condivisa e “ricca” su D. . Per la storia sanitaria possiamo per il
momento contare sul materiale che abbiamo qui al centro e quello che avete voi a
casa (la famiglia annuisce convinta). Possiamo stabilire che una volta fatto
questo passaggio “burocratico” (cambio del medico) ci rivediamo qui al centro
contando sulla presenza del medico di base e di tutti noi per proseguire con l’idea
di condividere e costruire la conoscenza su D. . Chiedo in particolare alla dott.ssa
M. la possibilità di rimanere “agganciata” sul caso ben consapevoli che ogni suo
eventuale intervento va costruito assieme ad altre figure sanitarie…”
La dott.ssa M. acconsente. Ci salutiamo con l’impegno di un giro di telefonate
per fissare la data di un nuovo appuntamento.
3.10. RIFLESSIONI DOPO IL QUARTO COLLOQUIO
Non è stato facile organizzare l’incontro perché gli psichiatri generalmente
tendono a non farsi carico dei soggetti disabili estremamente complessi da gestire
perché le normali prassi di cura adottate con gli altri pazienti si rivelano
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fallimentari così come l’eventuale gestione dei farmaci, che deve tenere conto di
possibili interazioni con medicinali somministrati da altri specialisti11.
Durante il colloquio mi sono resa conto che i 45 minuti di ritardo della psichiatra
(senza neanche una telefonata che avvisava di ciò) avevano creato in me una
sorta di pregiudizio nei suoi confronti. Ho cercato, soprattutto all’inizio
dell’incontro, di tenere sotto controllo questo sentimento anche se ho percepito
da parte sua un atteggiamento di rifiuto nei confronti della famiglia e della
situazione stessa.
La competenza acquisita dalla famiglia rispetto le questioni sanitarie ha, a mio
avviso, ribaltato la situazione catturando l’attenzione della professionista e
interessandola al caso. Alla ritrosia iniziale infatti (la prima cosa che la dott.ssa
ha chiarito era che lei non avrebbe potuto in alcun modo aiutare D.) si è sostituito
un interesse sincero che ha portato i genitori a raccontare le vicende sanitarie
della figlia (durante questa fase del colloquio la dott.ssa M. era molto attenta al
racconto ed ha preso diversi appunti).
Ho provato un sentimento di ammirazione verso questi genitori che pur nella
difficile situazione che vivono non hanno perso di vista mai, neanche per un
momento, l’obiettivo legato al benessere per la loro figlia. Nonostante il ritardo,
nonostante il poco interessamento iniziale, hanno mantenuto la lucidità per
portare avanti l’obiettivo privi (almeno apparentemente) di risentimento.
L’obiettivo dell’incontro era quello di trattare gli aspetti di cura sanitaria di D. e
anche se non è stata trovata una soluzione definitiva, la strada intrapresa porta
verso quella direzione. Allo stato delle cose non è ancora possibile dire se il
percorso intrapreso darà gli esiti sperati (individuazione di un nuovo, o più,
referenti sanitari per D. che si attivino all’occorrenza evitando il disagio per
l’intero nucleo di doversi recare in un’altra città), credo che molto dipenda dalla
volontà dei referenti sanitari.
11
Questa riflessione condivisa dall’a.s. di riferimento è stata esplicitata da un referente sanitario con
ruolo di responsabilità e profondo conoscitore della realtà sanitaria locale.
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CONCLUSIONI
Il percorso intrapreso con la famiglia di D. è nato dal bisogno di accrescere la
collaborazione centro diurno e famiglia soprattutto (ma non solo) per ciò che
riguarda la gestione delle situazioni critiche.
La famiglia di D. da subito si è mostrata collaborativa, desiderosa di condividere
la problematiche inerenti la figlia e pronta ad accogliere (e dare) suggerimenti e
consigli. Questi genitori, a mio avviso, affrontando la difficile quotidianità con la
figlia hanno maturato una competenza genitoriale non comune in queste
situazioni. Hanno saputo riconoscere i loro ambiti di difficoltà nella gestione
della figlia ma non si sono fatti schiacciare dalla situazione hanno reagito
chiedendo aiuto e raccontando gli eventi.
Il concetto di resilienza affrontato nei capitoli precedenti (Cap. primo, par.1.6),
trova un esplicativo esempio nel comportamento di questa famiglia. In uno dei
colloqui, la mamma stessa afferma di non desiderare una figlia diversa (assenza
di problemi) ma di voler trovare il modo di convivere in modo costruttivo con lei.
Questo è l’assunto base del concetto di resilienza: non solo sopravvivere ai
problemi, ma cercare di convivere con quelli insolubili continuando a lottare per
costruire un’esistenza “ricca” e vitale. In quest’ottica nessuna sofferenza risulta
irrimediabile, ma può essere trasformata e vissuta come occasione di
cambiamento e di miglioramento di se stessi e della propria esistenza.
Nel caso analizzato l’elemento di fragilità che ho riscontrato nel percorso
effettuato con la famiglia è rappresentato dalla difficoltà che è emersa nella
richiesta di collaborazione con le figure sanitarie. Mi è sembrata evidente
l’intenzione, delle diverse figure sanitarie che si è cercato di coinvolgere, di
prendere le distanze dal caso o comunque di non essere intenzionati a
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condividere le eventuali conoscenze sanitarie sul caso con altri professionisti. In
questi comportamenti ho letto più l’intenzione di tutelare interessi personalistici
o di categoria contrastando al mandato di una professione a servizio dei cittadini,
soprattutto di quelli in difficoltà12. Penso comunque che questa famiglia abbia
dato una “lezione di umanità e competenza” alle persone coinvolte nel percorso.
Gli incontri successivi purtroppo non hanno dato gli esiti attesi. Ancora una volta
le figure sanitarie si sono rese latitanti e la famiglia ha dovuto affrontare una
nuova grave crisi comportamentale della figlia. In una situazione così difficoltosa
si è comunque ulteriormente consolidata l’alleanza tra la famiglia e il centro
diurno.
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Preciso che i sanitari coinvolti sono tutti dipendenti del servizio pubblico.
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Sitografia
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