Thatcher, la mediocrità fatta Premier

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Thatcher, la mediocrità fatta Premier
Thatcher, la mediocrità fatta Premier
Martedì 09 Aprile 2013 23:00
di Michele Paris
La morte dell’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher ha prevedibilmente prodotto un
numero infinito di necrologi e commenti sui media di tutto il mondo, quasi sempre all’insegna
della celebrazione della lunga carriera politica della prima e finora unica donna installatasi al
numero 10 di Downing Street. Anche i giornali con un approccio più critico all’eredità politica
della “Lady di ferro” hanno spesso offerto il riconoscimento di una presunta indiscutibile statura
politica che, a ben vedere, appare del tutto ingiustificato.
Gli onori tributati dai giornali e dalla classe dirigente britannica appaiono in ogni caso in netto
contrasto con le spontanee manifestazioni popolari di gioia esplose in decine di città del Regno
Unito alla notizia del decesso dell’87enne Thatcher in seguito ad un ictus.
In grado di raggiungere il successo e la stabilità economica quasi esclusivamente grazie al
matrimonio nel 1951 con l’uomo d’affari ultra-reazionario Denis Thatcher, Margaret Hilda
Roberts deve la sua ascesa ai vertici del Partito Conservatore e del governo britannico alle
condizioni storiche createsi in seguito all’esplosione del conflitto di classe in tutta Europa tra la
fine degli anni Sessanta e il decennio successivo.
Convinta sostenitrice del liberismo di Milton Friedman e dell’economista austriaco Friedrich von
Hayek, la Thatcher è stata lo strumento per l’avanzamento della borghesia britannica più
reazionaria e dedita all’arricchimento personale, nonché la rappresentante della fazione del suo
partito più critica nei confronti della precedente leadership - da Winston Churchill a Anthony
Eden, da Harold Macmillan a Alec Douglas-Home - e della cosiddetta “politica del consenso”,
basata sull’accettazione del crescente ruolo dello stato nell’economia e su concessioni
relativamente generose alla classe lavoratrice.
I suoi tre mandati alla guida del governo vanno dal 1979 fino alla sommaria estromissione dalla
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leadership del partito nel 1990 per evitare ai conservatori un disastro elettorale alla luce della
sua calante popolarità nel paese.
L’impronta della Thatcher sull’economia della Gran Bretagna è stata caratterizzata
fondamentalmente dalla rimozione di ogni limite possibile all’accumulazione di ricchezza nelle
mani dell’upper middle-class, da raggiungersi attraverso la deregulation del settore finanziario,
la svendita delle aziende pubbliche, i tagli alle tasse per il business e i redditi più elevati, il
contenimento dei sindacati e, più in generale, lo smantellamento delle conquiste sociali ottenute
nel secondo dopoguerra dalla classe operaia.
Una politica marcatamente di classe e spesso associata a quella messa in atto negli stessi anni
in America dal presidente Reagan, le cui conseguenze più drammatiche e durature furono la
distruzione di interi settori industriali, disoccupazione di massa e impoverimento diffuso. Inoltre,
il confronto diretto con i sindacati e la classe lavoratrice provocò il riesplodere di violente
tensioni sociali nel paese, come risultò evidente dallo sciopero dei minatori del 1984-85,
conclusosi con due morti, migliaia di arresti e di feriti, nonché con la sconfitta di questi ultimi.
Quello che emergeva, tra le righe della sua decantata "durezza", era non tanto una convinzione
fortissima nelle teorie economiche che gli spiegavano, quanto un odio di classe feroce, che si
miscelava con una tenacia irriducibile e che vedeva nei diritti sociali una sfida all'autorità, prima
ancora che alle compatibilità economiche.
La lunga permanenza al potere di Margaret Thatcher, nonostante la profonda ostilità di ampie
fasce della popolazione, fu possibile anche grazie al definitivo abbandono in quegli anni delle
politiche volte alla difesa della working-class da parte del Partito Laburista, incapace di tenere
insieme il filo della difesa delle classi lavoratrici con le necessità di porsi alla guida della Gran
Bretagna. Prevalse la seconda opzione e non erano certo i Kinnock di turno a poter invertire
una tendenza internazionale che vedeva l'affermazione della reaganomics anche in ragione del
sostegno che offrì la Thatcher.
Una svolta, quella del “Labour”, che segnò la totale accettazione del libero mercato, dimostrata
qualche anno più tardi dalla sostanziale continuazione del thatcherismo da parte di Tony Blair e
del “New Labour”, e che, come sostenne Hugo Young, il biografo della “Lady di ferro”,
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concretizzò quanto quest’ultima aveva affermato in un’occasione, cioè che la sua “missione non
sarebbe stata completata finché il Partito Laburista non sarebbe diventato come quello
Conservatore: un partito del capitalismo”.
Le conseguenze rovinose e le fragili fondamenta delle politiche della Thatcher sarebbero state
testimoniate non solo dalla devastazione sociale prodotta in Gran Bretagna ma anche dal
continuo ripresentarsi di gravi crisi finanziare, risultato della deregulation selvaggia e dello
svincolo pressoché totale dell’accumulazione del capitale dalla produzione di beni.
Sul fronte della politica estera, oltre ad avere sostenuto la dittatura cilena di Pinochet e il regime
dell’apartheid in Sudafrica, la Thatcher fu allineata agli interessi dell’imperialismo americano,
distinguendosi per una risoluta avversione nei confronti dell’Unione Sovietica, almeno fino
all’arrivo al potere a Mosca di Mikhail Gorbachev, correttamente identificato come l’uomo che
avrebbe finito per riaprire il suo paese al capitalismo internazionale.
Donna dalle passioni decise, soprattutto quando del tutto impresentabili ed ingiustificabili,
s'identificò notevolmente proprio con il macellaio cileno Pinochet, al punto da difenderlo anche
quando ormai si era ritirata a vita privata, non rinunciando a sostenere il boia cileno anche
intervenendo pesantemente sulla magistratura inglese, che aveva promosso iniziative concrete
per giudicarlo con l'accusa di crimini contro l'umanità.
L’evento che, secondo le commemorazioni ufficiali, diede alla Thatcher la reputazione di vera
statista fu però la guerra delle Falkland (Malvine) nella primavera del 1982. Il conflitto esplose ai
primi di aprile in seguito all’invasione delle isole al largo dell’Argentina ordinata dalla giunta
militare al potere a Buenos Aires.
La dura risposta di Londra provocò complessivamente oltre 900 morti, tra cui 323 membri
dell’equipaggio dell’incrociatore argentino ARA Generale Belgrano, deliberatamente affondato
da un sottomarino nucleare britannico nonostante si trovasse al di fuori della cosiddetta “Zona
di Esclusione Totale”, dichiarata arbitrariamente dagli inglesi, e stesse facendo ritorno alla
terraferma.
Né le posizioni assunte sulle questioni internazionali più controverse né tantomeno le scelte di
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politica economica furono mai oggetto di qualche ripensamento da parte di Margaret Thatcher
dopo l’addio alla vita pubblica e prima del sopraggiungere dei primi sintomi di demenza senile,
destino del resto comune al suo grande amico Reagan.
Tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, anzi, l’ex primo ministro diede ad esempio il
proprio sostegno sia all’intervento occidentale nella ex Yugoslavia che all’invasione illegale
dell’Iraq di Saddam Hussein e al principio della guerra preventiva, ideato dall’amministrazione
Bush, contro quei paesi indicati come sostenitori del terrorismo.
In definitiva, però, l’eredità lasciata dal thatcherismo risiede principalmente nell’aver contribuito
a gettare le basi dell’esplosione della gravissima crisi economica del 2008 e tuttora in atto, così
come nella promozione di politiche di austerity e di impoverimento di massa, perseguite
indistintamente anche dalla classe politica odierna, espressione unica, come la “Lady di ferro”,
dei grandi interessi economici e finanziari responsabili della regressione sociale che ha segnato
gli ultimi tre decenni in tutto l’Occidente.
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