La prospettiva apocalittica nella polemica di Giacomo Leopardi

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La prospettiva apocalittica nella polemica di Giacomo Leopardi
LORENZO GERI
La prospettiva apocalittica nella polemica
di Giacomo Leopardi contro lo spiritualismo
Nell’opera di Giacomo Leopardi non è presente l’Apocalisse in qualità di
fonte, né direttamente il simbolismo apocalittico, sia pure risemantizzato in
forma parodica o ironica.
La nostra tesi è che nelle opere della maturità Leopardi utilizzi piuttosto una
prospettiva apocalittica per rovesciare la forma mentis che è alla base del pensiero apocalittico: vale a dire una concezione della storia come progressivo
maturare dei tempi sino allo stravolgimento finale, che, secondo una finalità
prestabilita, vede il bene trionfare sul male. Questo rovesciamento di concetti
fondamentali del pensiero apocalittico è funzionale ad una più ampia polemica
contro lo spiritualismo; o in altre parole contro la convinzione che l’universo
abbia per fine l’uomo e che la vita dell’uomo abbia un senso, convinzione che
Leopardi rifiuta sia nella accezione religiosa sia in quella laica. Tanto i cristiani
quanto i «nuovi credenti», infatti, rifiutano di affrontare quelle verità terribili
che Leopardi elenca nella penultima pagina dello Zibaldone:
Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla,
l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non
aver nulla a sperare dopo la morte1.
Date queste premesse il punto di vista apocalittico, che tramite l’annuncio
dell’imminente fine dei tempi annuncia la presenza di un piano provvidenziale e
di una palingenesi, è utilizzato da Leopardi per “dimostrare”, al contrario, che la
natura non si cura dell’uomo, e che la fine della razza umana non sarebbe la fine
1
G. LEOPARDI, Zibaldone, p. 4525. Lo Zibaldone si cita da ID., Tutte le opere, a c. di W.
BINNI e E. GHIDETTI, vol. II, Firenze, Sansoni, 1969; il numero di pagina riportato è quello del
manoscritto.
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del cosmo, così come l’uomo non è il centro della creazione. Nelle Operette
morali si incontra l’ipotesi apocalittica: nel Dialogo di un folletto e di uno
gnomo si prospetta la fine della razza umana; nel Cantico del Gallo silvestre e
nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco si immagina la fine del
cosmo stesso. Nella Ginestra l’ipotesi apocalittica e la polemica contro l’antropocentrismo conducono alla scelta di un paesaggio apocalittico come sfondo per
l’estremo messaggio di Leopardi. Nota Angiola Ferraris come:
L’accostamento tra lo scabro paesaggio vesuviano e l’«erme contrade» della campagna
romana, giocato sulla peculiare risonanza connotativa insita nell’etimo del sema «ermo» (dal
greco, desolare), spegne l’eco di ogni presenza umana intorno al fiore del deserto. Ne scaturisce, sul piano narrativo, una situazione limite apocalittica. […] Ed è appunto in virtù della
conquista di questa posizione liminare, di confine tra la vita e la morte, che il poeta può volgersi agli uomini del proprio tempo come alla «mortal prole infelice2.
L’epigrafe alla Ginestra, tratta dal Vangelo di Giovanni, racchiude in forma
criptica il cuore del messaggio leopardiano:
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Il versetto giovanneo in questo contesto è da interpretarsi con Mirella
Naddei come la condanna di quanti hanno voltato le spalle al materialismo illuminista per ritornare ad una interpretazione spiritualistica del mondo e della storia3. Questa interpretazione è confortata, tra l’altro, da un passo quanto mai
esplicito dello Zibaldone datato 1826:
[…] l’idea […] ed il nome di materia abbraccia tutto quello che cade o può cader sotto i
nostri sensi, tutto quello che noi conosciamo, e che noi possiamo conoscere e concepire […]
Per tanto il definire lo spirito, sostanza che non è materia, è precisamente lo stesso che definirla sostanza che non è di quelle che noi conosciamo o possiamo conoscere o concepire […]
2
A. FERRARIS, L’ultimo Leopardi, Torino, Einaudi, 1987, p. 153 e 161. Per il concetto di
posizione liminare, si veda quanto scrivono Cesare Garboli e Niccolò Gallo nel loro commento, G. LEOPARDI, Canti, a cura di N. GALLO e C. GARBOLI, Torino, Einaudi, 1993 (1962)
p. 273: «[…] la sua voce arriva sempre da un punto limite, dal punto in cui l’emozioni, i palpiti, le scaturigini della vita fanno tutt’uno con le secche, con le immobili scaturigini della
morte. […] Come se la materia di cui è fatto l’universo potesse chiedere a se stessa, al nulla,
all’inerzia, le ragioni della sua vita, e lo facesse con un fil di voce insieme infinitamente
superba e discreta, umile e planetaria».
3
M. NADDEI, L’epigrafe giovannea della «Ginestra», in AA.VA., Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 9-11 settembre 1984), Firenze, L. S. Olschki, 1989, pp. 399418, in particolare p. 415: «L’uso di Giovanni è quindi – come mi suggerisce Sebastiano
Timpanaro – volutamente provocatorio; la luce è la verità illuministica quale la intendeva
Leopardi, non apportatrice di felicità, ma di coraggio della verità.».
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questo spirito, non essendo altro che quello che abbiam veduto, è stato per lunghissimo spazio di secoli creduto contenere in se tutta la realtà delle cose; e la materia, cioè quanto noi
conosciamo e concepiamo, e quanto possiamo conoscere e concepire, è stata creduta non
essere altro che apparenza, sogno, vanità rispetto allo spirito. È impossibile non deplorar la
miseria dell’intelletto umano considerando un così fatto delirio. Ma se pensiamo poi che questo delirio si rinnova oggi completamente; che nel secolo XIX risorge da tutte le parti e si
ristabilisce radicatamente lo spiritualismo, forse anche più spirituale, per dir così, che in
addietro; che i filosofi più illuminati della più illuminata nazione moderna, si congratulano di
riconoscere per caratteristica di questo secolo, l’essere esso éminemment religieux, cioè spiritualista; che può fare un savio, altro che disperare compiutamente della illuminazione delle
menti umane, e gridare: o Verità, tu sei sparita dalla terra per sempre, nel momento che gli
uomini incominciarono a cercarti4.
Questo stesso concetto è ribadito con maggiore ampiezza nei Paralipomeni
della Batracomiomachia:
Non è filosofia se non un’arte
la qual di ciò che l’uomo è risoluto
di creder circa a qualsivoglia parte,
come meglio alla fin l’è conceduto,
le ragioni assegnando empie le carte
o le orecchie talor per instituto,
con più d’ingegno o men, giusta il potere
che il maestro o l’autor si trova avere.
Quella filosofia dico che impera
nel secol nostro senza guerra alcuna,
e che con guerra più o men leggera
ebbe negli altri non minor fortuna,
fuor nel prossimo a questo, ove se intera
la mia mente oso dir, portò ciascuna
facoltà nostra a quelle cime il passo
onde tosto inchinar l’è forza al basso.
In quell’età, d’un’aspra guerra in onta,
altra filosofia regnar fu vista,
a cui dinanzi valorosa e pronta
l’età nostra arretrossi appena avvista.
Di ciò che più le spiace e che più monta,
esser quella in sostanza amara e trista;
non che i pricipii in lei né le premesse
mostrar false da sé ben ben sapesse.
Ma false o vere, ma disformi o belle
esser queste si fosse o no mostrato,
4
G. LEOPARDI, Zibaldone, 26 Set.1826, pp. 4207-4208, corsivo nostro.
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le conseguenze lor non eran quelle
che l’uom d’aver per ferme ha decretato,
e che per ferme avrà fin che le stelle
d’orto in occaso andran pel cerchio usato
perché tal fede in tali o veri o sogni
per sua quiete par che gli bisogni5.
Prima di tornare a discutere della prospettiva apocalittica è necessario un
breve e parziale excursus in merito al rapporto di Leopardi con la Bibbia. Il tentativo giovanile di conciliare il proprio sistema con il cristianesimo trova un
punto di forza nell’esegesi forzata e volutamente faziosa dei versetti della
Genesi, nel nome di una difesa della feconda ignoranza dello stato di natura di
contro alla conoscenza apportatrice d’infelicità6. Un simile uso della Bibbia si
riscontra nella fase matura del pensiero leopardiano, allorché la scoperta del
pessimismo antico dà vita ad un particolare apprezzamento dei libri di Giobbe e
di Salomone (vale a dire l’Ecclesiaste)7. Se nei versi di A se stesso Leopardi utilizza l’espressione dell’Ecclesiaste vanitas vanitatum per indicare l’essenza
della suo pensiero maturo; nella satira contro i Nuovi credenti il pessimismo
biblico è contrapposto al cristianesimo di facciata dei liberali napoletani, sconfitti nella loro fase giacobina e costretti al compromesso:
Ranieri mio, le carte ove l’umana
vita esprimer tentai, con Salomone
lei chiamando, qual soglio, acerba e vana,
spiaccion dal Lavinaio al Chiatamone,
da Tarsia, da Sant’Elmo insino al Molo,
e spiaccion per Toledo alle persone.
Questi e molti altri che nimici a Cristo
furo insin oggi, il mio parlare offende,
perché il viver io chiamo arido e tristo.
e in odio mio fedel tutta si rende
questa falange, e santi detti scocca
contra chi Giobbe e Salamon difende.
Racquetativi amici a voi non tocca
5
G. LEOPARDI, Paralipomeni della Batracomiomachia, IV, vv. 14-17; si cita da ID, Tutte
le opere cit., vol. I, pp. 247-292.
6
Cfr. G. LEOPARDI, Zibaldone, 9-15 Dic. 1820, pp. 395-420; nel pensiero del 10 febbraio
1821 pp. 637-638, l’ultimo dedicato all’argomento, la Genesi è affiancata in modo significativo alla favola di Amore e Psiche, rivelando così un sincretismo tra le favole antiche e le favole bibliche. D’altronde Leopardi non ha mai nascosto di apprezzare il Vecchio Testamento in
qualità di opera letteraria caratterizzata, al pari dei poemi omerici, da una gradevole arcaicità.
7
G. LEOPARDI, Zibaldone, 20 Lug.1821, pp. 1354-1355; 5-6 Ott.1821, pp. 1848-1350.
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dell’umana miseria alcuna parte,
che misera non è la gente sciocca8.
La scelta di questo peculiare canone biblico non è rivolto solo contro i
«nuovi credenti» ma anche contro lo stesso teismo di molti illuministi. In particolare si pensi a Voltaire, che affettava disprezzo per l’Ecclesiaste, libro che egli
sentiva affine all’ateismo:
I libri attribuiti a Salomone sono durati più del suo tempio. È forse una delle maggiori
prove della forza dei pregiudizi e della debolezza dello spirito umano. La prima opera che gli
è attribuita è quella dei Proverbi. È una raccolta di massime triviali, basse, incoerenti […]
L’Ecclesiaste […] è di un genere e di un gusto piuttosto diverso. Chi parla […] è un uomo
disingannato dalle illusioni della grandezza, stanco dei piaceri e disgustato della scienza. […]
Tutta l’opera è di un materialista a un tempo sensuale e disgustato. […] Quello che rimane
sorprendente è che sia stata consacrata tra i libri canonici quest’opera empia9.
Premesso dunque che Leopardi si sente libero di usufruire di espressioni e
temi biblici, dato che egli considera la Bibbia da un punto di vista esclusivamente letterario e filosofico, è interessante notare la parodia nei confronti del
Libro sacro svolta nel primitivo ordinamento delle Operette morali.
Un autografo rinvenuto nelle carte di Antonio Ranieri, e oggi conservato
nella Biblioteca Nazionale di Napoli, testimonia una prima redazione dell’opera10. Questa forma primitiva presenta un ordinamento dei testi diverso da quello
della prima edizione a stampa del 1827. Spicca in particolar modo la scelta di
concludere il libro, aperto da La storia del genere umano, con l’apocalittico
Cantico del Gallo silvestre. L’opera destinata nelle intenzioni di Leopardi a
«scuotere» l’Italia e il secolo Decimonono tramite le armi del ridicolo11, presentava dunque, come già notato da Fubini e ribadito da altri commentatori, una
struttura che si può leggere come parodia della Bibbia.
Alla Genesi, dunque, corrispondeva La storia del genere umano, narrazione che sostituisce alla caduta del peccato originale il tema della noia delle
creature, incapaci di dilettarsi dello stato edenico. Lo svuotamento del mito
del paradiso terrestre è d’altronde funzionale alla polemica nei confronti del
8
G. LEOPARDI, I nuovi credenti, vv. 1-12 e 70-78; si cita da ID., Tutte le opere cit., I,
pp. 324-325.
9
VOLTAIRE, Dizionario filosofico, Torino, Einaudi, 1995, pp. 390-392.
10
Biblioteca Nazionale di Napoli Fondo Leopardiano p. IX. Le carte sono descritte in F.
MORONCINI, Discorso proemiale in G. LEOPARDI, Operette morali, edizione critica a cura di F.
MORONCINI, Bologna, Cappelli, 1928, pp. XXVI-XXXII, e da O. BESOMI, Introduzione a G.
LEOPARDI, Operette morali, edizione critica a cura di O. BESOMI, Milano, Fondazione A.
Mondadori, 1979, pp. LVII-LXIV.
11
G. LEOPARDI, Zibaldone, 27 Lug.1821, p. 1394.
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cristianesimo 12. In un pensiero coevo a quest’operetta, infatti, Leopardi parte
dal presupposto che il paradiso è incomprensibile e in fin dei conti non desiderabile per l’uomo 13, per dimostrare la natura coercitiva della religione cristiana:
Osservisi che di due future vite, l’una promessa l’altra minacciata dal Cristianesimo, questa fa sul mortale molto maggior effetto di quella. E perché? perché ci s’insegna che nell’inferno (e così nel Purgatorio) avrà luogo la pena del senso. Onde ci si rende concepibile nel
genere, benché non concepibile nell’estensione, la pena che dee aver luogo in una vita e in un
modo di essere a noi d’altronde inconcepibile non meno che quello de’ Beati nel Paradiso.
[…] E perciò può dirsi con verità che il Cristianesimo è più atto ad atterrire che a consolare,
o a rallegrare, a dilettare, a pascere colla speranza. Ed è certissimo infatti che l’influenza da
lui esercitata sulle azioni degli uomini, è sempre stata ed è tuttavia come di religion minacciante assai più che come di religion promettente; ch’egli ha indotto al bene e allontanato dal
male, e giovato alla società ed alla morale assai più col timore che colla speranza; che i
Cristiani osservarono e osservano i precetti della religion loro più per rispetto dell’Inferno e
del Purgatorio che del Paradiso14.
All’Apocalisse, in questa struttura provvisoria di cui stiamo discutendo, corrisponde il Cantico del Gallo silvestre, presentato al lettore come una traduzione
di un cantico «in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica»15. Il gallo gigante che vive tra cielo e terra ricorda ai mortali che «l’ultima
causa dell’essere non è la felicità»16 e promette un sonno eterno, privo di sensazioni come riposo dall’infelicità dell’esistenza. Il Cantico si conclude prospettando agli uomini la fine di quel mondo che non ha mai visto «un solo infra i
viventi beato»17:
12
Se quella che noi definiamo polemica nei confronti del cristianesimo, è leggibile solo
in controluce nelle Operette, nondimeno la versione leopardiana della creazione del mondo
non mancò di inquietare i cristiani del tempo, come è testimoniato dall’intervento imposto dal
censore fiorentino Mauro Bernardini, in seguito al quale Leopardi è costretto a scrivere una
nota chiarendo che “L’autore protesta […] che non ha fatto alcuna allusione […] a veruna
delle tradizioni e dottrine del Cristianesimo”. Si ricordi infine che il clero napoletano si oppose alla pubblicazione di una nuova edizione delle Operette morali.
13
Una considerazione analoga si trova nel Dialogo di un fisico e di un metafisico, nel
quale, contro il senso comune e una secolare tradizione della filosofia occidentale, il metafisico teorizza, servendosi dei miti pagani, la non appetibilità della vita eterna. In questo caso,
più che nei confronti delle promesse del cristianesimo la critica è esplicitamente rivolta contro la religione del progresso.
14
G. LEOPARDI, Zibaldone, 23 Set. 1823, pp. 3507-3508, corsivo nostro.
15
ID., Operette morali, in ID., Tutte le opere cit., vol. I, p. 156.
16
Ivi, p. 157.
17
Ivi, p. 156.
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Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l’universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché se nell’autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre
alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente
si estinguono; così l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno
continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che
furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo
intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio;
ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo
arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi18.
Il passo, di vivissima efficacia poetica, presenta il rovesciamento sistematico
di molte delle tematiche proprie della concezione apocalittica. Innanzi tutto si
nega la palingenesi, che pure sembrerebbe svelata dal ciclico alternarsi delle stagioni; il riferimento alla pienezza dei tempi diviene il segno di una vecchiaia
irreversibile; infine, introdotta dallo stilema profetico «tempo verrà» si annuncia
la fine degli imperi umani, che prelude, però, non ad un regno divino ma alla
fine di ogni forma di vita. Nell’aggettivazione stessa di questo spettacolo mirabile e spaventoso troviamo i segni di un’ambivalenza tra attrazione e repulsione
tipica del rapporto di Leopardi con il pensiero della morte. Al sublime biblico
che nel descrivere la divinità «dee veramente subissare e oltrepassare la capacità
umana»19 Leopardi sostituisce l’ardito tentativo di descrivere che nelle Operette
trova una mirabile realizzazione nel cantico dei morti che apre il Dialogo di
Federico Ruysch e delle sue mummie. Anche la Ginestra è caratterizzata da questa peculiare forma di sublime allorché il poeta si sforza di infondere al lettore
l’accettazione della morte e del nulla. Nella stampa del 1827 questo finale che,
dando vita ad una grandiosa parodia della Bibbia aspirava ad un afflato universale viene sostituito da una più personale e risentita conclusione dedicata ad
anticipare e vanificare le polemiche dei detrattori: Il dialogo di Timandro e di
Eleandro. All’afflato universale si sostituisce, sul modello della Palidia a Gino
Capponi, una ritrattazione fittizia messa in bocca ad un trasparente alter ego di
Leopardi, il cui nome, ironicamente, ha il significato opposto del termine filantropo.
18
Ivi, pp. 156-157.
G. LEOPARDI, Zibaldone, p. 13. Tutto il pensiero è interessante nella contrapposizione
tra sublime biblico e sublime delle letterature classiche.
19
149
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La finta palidia è utilizzata nell’ordinamento definitivo per unire al Cantico
del Gallo silvestre il successivo Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco
che, lungi dal derogare a quanto scritto nell’operetta precedente, fonda il monito
apocalittico su di un lucido materialismo di stampo settecentesco. In nota all’ultima frase del Cantico, infatti troviamo scritto:
Questa è conclusione poetica, non filosofica. Parlando filosoficamente, l’esistenza, che
mai non è cominciata, non avrà mai fine.
Il frammento attribuito a Stratone, chiosa subito questa affermazione, dimostrando come l’universo sia sì eterno, ma soltanto nel suo movimento di continua distruzione. Le genesi e le apocalissi si moltiplicano, come nella dottrina
stoica della apokatastasis; ma a differenza di quanto prospettato dallo stoicismo
ciò avviene nell’indifferenza della natura al dolore delle creature, piuttosto che
obbedendo ai dettami di un logos divino. La struttura genesi/apocalisse, parodiata in precedenza, si trova ora compendiata in questa breve trattazione che è la
summa del pensiero leopardiano intorno al materialismo. Leopardi, ancora una
volta nelle vesti di presunto volgarizzatore, utilizza il fittizio paratesto per intitolare i due frammenti rispettivamente Della origine del mondo e Della fine del
mondo. Allo stesso tempo nel preambolo non manca di attribuirsi criticamente il
pensiero contenuto nell’operetta:
Lo intitolo Frammento apocrifo perché, come ognuno può vedere, le cose che si leggono
nel capitolo della fine del mondo, non possono essere state scritte se non poco tempo addietro; laddove Stratone da Lampsaco, filosofo peripatetico, detto il fisico, visse da trecento anni
avanti all’era cristiana. È ben vero che il capitolo della origine del mondo concorda a un di
presso con quel poco che abbiamo delle opinioni di quel filosofo negli scrittori antichi. E
però si potrebbe credere che il primo capitolo, anzi forse ancora il principio dell’altro, siano
veramente di Stratone; il resto vi sia stato aggiunto da qualche dotto Greco del secolo passato. Giudichino gli eruditi lettori20.
La scherzosa rappresentazione di se stesso in vesti di un «dotto Greco del
secolo passato» racchiude in forma densamente allusiva l’essenza della proposta
culturale di Leopardi: da una parte è rivendicata la cultura classica, dall’altra,
con riferimento al secolo Decimottavo, la filosofia illuminista. Insomma la formula, così come tutto l’operetta, esprime quello che potremmo chiamare un
classicismo materialista.
Per tornare al nostro tema notiamo come il Frammento si concluda in modo
simile al precedente Cantico del Gallo silvestre. Se infatti la materia non smette
20
150
G. LEOPARDI, Operette morali cit., pp. 158-159.
La prospettiva apocalittica nella polemica di Giacomo Leopardi contro lo spiritualismo
di distruggersi e generare nuovi mondi, la razza umana, che è legata ai destini di
un singolo pianeta, è destinata a perire, e a non avere cognizione dell’infinità di
mondi che seguiranno:
Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di
questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo. Ma le qualità di questo e di
quelli, siccome eziandio degl’innumerevoli che già furono e degli altri infiniti che poi saranno, non possiamo noi né pur solamente congetturare 21.
La palingenesi, dunque, il nuovo mondo destinato a nascere dalle rovine del
vecchio, è negata allo sguardo dell’uomo.
In due dialoghi di fattura squisitamente lucianea che precedono la stesura del
Frammento si trova la raffigurazione di un’apocalisse parziale, che riguarda
solo gli uomini e dimostra l’insensatezza della concezione antropocentrica della
creazione. Nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo l’estinzione della razza
umana non cambia i ritmi del mondo che continua ad alternare le stagioni, in un
tempo caratterizzato dall’assenza di avvenimenti che non siano ciclici. Nel dialogo intitolato a Copernico è il sole stesso che, presa la decisione di non girare
più intorno alla Terra, controbatte alle obiezioni dell’Ora Prima affermando la
sua indifferenza all’apocalisse degli uomini:
ORA PRIMA: E al freddo come provvederanno? che senza quell’aiuto che avevano da
vostra Eccellenza, non basterà il fuoco di tutte le selve a riscaldarli. Oltre che si morranno
anco dalla fame: perché la terra non porterà più i suoi frutti. E così, in capo a pochi anni, si
perderà il seme di quei poveri animali: che quando saranno andati un pezzo qua e là per la
Terra, a tastone, cercando di che vivere e di che riscaldarsi; finalmente, consumata ogni cosa
che si possa ingoiare, e spenta l’ultima scintilla di fuoco, se ne morranno tutti al buio, ghiacciati come pezzi di cristallo di roccia.
SOLE: Che importa cotesto a me? che, sono io la balia del genere umano; o forse il
cuoco, che gli abbia da stagionare e da apprestare i cibi? e che mi debbo io curare se certa
poca quantità di creaturine invisibili, lontane da me i milioni delle miglia, non veggono, e
non possono reggere al freddo, senza la luce mia?22
Il riferimento agli uomini come «creaturine invisibili» prepara quello che
sarà la similudine centrale de La Ginestra, vale a dire il confronto tra le formiche e gli uomini, tra l’eruzione del Vesuvio e la caduta di un «picciol pomo» su
di un formicaio: apocalissi entrambi del tutto insignificanti per la natura. Se
21
22
Ivi, p. 160.
Ivi, p. 166, corsivo nostro.
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all’Ora prima, preoccupata che «il seme» degli uomini vada perduto, il sole
risponde con l’indifferenza, nella Ginestra è il poeta stesso ad affermare che:
Non ha natura al seme
dell’uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell’altra è la strage,
non avvien ciò d’altronde
fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde 23.
La visuale che si affaccia sui resti pietrificati di un’apocalisse destinata a
ripetersi è per Leopardi l’occasione per annunciare che la libertà dell’uomo consiste nell’accettare la propria mortalità e il proprio ruolo subalterno alle leggi
universali di creazione e distruzione:
[…] A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
«le magnifiche sorti e progressive».
Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco […]
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
23
G. LEOPARDI, La Ginestra, vv. 231-236, corsivo nostro. La Ginestra si cita da ID., Tutte
le opere cit., vol. I, pp. 42-45.
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La prospettiva apocalittica nella polemica di Giacomo Leopardi contro lo spiritualismo
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle 24.
In questo passo è detto a chiare lettere che la luce che gli uomini fuggono
vigliaccamente in favore delle tenebre, come i malvagi e gli increduli condannati nel passo del Vangelo citato in epigrafe, è quella dell’illuminismo. Ovvero, e
qui il rovesciamento della parola evangelica non potrebbe essere più netto, la
luce va identificata con un materialismo che, se accettato nelle sue estreme conseguenze, comporta il rifiuto non solo del cristianesimo, ma anche del mito del
progresso così come della concezione deista di una struttura provvidenziale che
regge il cosmo.
Il rovesciamento della concezione cristiana e spiritualista della natura
umana, permette a Leopardi di annunciare la “buona novella” dell’innocenza
dell’uomo:
Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell’alma generoso ed alto,
non chiama sé né stima
ricco d’or né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
[…]
Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna25.
24
25
Ibidem, vv. 37-53 e vv. 78-86, corsivo nostro.
Ibidem, vv. 84-93 e vv. 112-125.
153
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Nota Achille Tartaro nella sua acuta lettura del canto come:
La citazione lucreziana di colui che osa levare lo sguardo alla verità dello stato umano
(«che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato»; esattamente come
Epicuro «primum Graius homo mortalis tollere contra/est oculos ausus primus que obsistere
contra» [Luc. De rer. I, 66-7]) presuppone la sconfessione della mitologia cristiana di cui
l’Eden è il momento fondativo26.
Aggiungiamo noi a questa considerazione, usufruendo del nostro peculiare
punto di vista, come qui il rovesciamento della Weltanschauung cristiana sia
totale: se il cristianesimo è pessimista in merito origini dell’uomo, segnate dal
peccato originale, ed è ottimista in merito alla redenzione finale (destinata a
compiersi con l’Apocalisse); Leopardi è ottimista in merito alle origini dell’uomo, che nasce innocente, ma è pessimista per quanto riguarda il destino oltremondano del singolo e della razza umana, dal momento che non vede redenzione nella morte. Ma se manca la palingenesi e la felicità eterna, quella felicità
che, ricordiamo, Leopardi considera estranea alla natura umana e dunque non
pensabile, allo stesso tempo viene meno la punizione con la quale il cristianesimo terrorizza gli uomini: non ci sarà un giudizio universale che condannerà
molti all’inferno. Come è scritto nel Coro dei morti, «Lieta no, ma sicura»27 sarà
l’esistenza degli uomini dopo la morte. L’umiltà cristiana dell’attesa dei tempi,
cui invita Giovanni nell’Apocalisse, è sostituita dall’umile eroismo della ginestra, che si lascia travolgere dalla lava senza illudersi di essere eterna.
26
A. TARTARO, La ginestra o il fiore del deserto in AA.VV., Lectura leopardiana. I quarantuno «Canti» e i «Nuovi credenti», a cura di A. MAGLIONE, Venezia, Marsilio, 2003,
p. 638.
27
G. LEOPARDI, Operette morali cit., p. 134. Si noti come le mummie proseguono negli
ultimi versi la loro litania: “Lieta no, ma sicura/però ch’esser beato/nega ai mortali e nega a’
morti il fato/”.
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