Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Haneke firma ancora una volta una pellicola in cui dimostra come il rigore del suo cinema possa far risuonare le
corde più intime del reale, con un’intensità che non fa sconti e non fornisce chiavi di lettura semplici.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
scenografia:
distribuzione:
105 MINUTI
FRANCIA, AUSTRIA, GERMANIA
2012
MICHAEL HANEKE
MICHAEL HANEKE
MICHAEL HANEKE
DARIUS KHONDJI
NADINE MUSE, MONIKA WILLI
JEAN-VINCENT PUZOS
TEODORA
interpreti:
JEAN-LOUIS TRINTIGNANT (Georges), EMMANUELLE RIVA (Anne), WILLIAM
SHIMELL (Geoff), ISABELLE HUPPERT (Eve), ALEXANDRE THARAUD (Alexandre) .
premi e nomination:
2012 - Festival di Cannes Palma d'oro a Michael Haneke
2013 - Premio Oscar: Nomination Miglior film, Miglior film straniero, Miglior
regia, Migliore attrice protagonista, Migliore sceneggiatura originale
Michael Haneke
Regista e sceneggiatore austriaco. Tra i registi contemporanei che dividono di più il pubblico, è autore di storie
spesso disturbanti, talvolta scioccanti, al punto di essere definito da taluni un regista “sadico”, ma sempre dense
di senso e molto ben raccontate. Come ha detto l’attrice Isabelle Huppert durante la consegna della Palma d’oro
a Cannes nel 2009 è un cinema che “o si ama o si odia”, che non offre al pubblico spiegazioni della crudeltà
umana, né tantomeno giudizi o rassicurazioni, ma piuttosto mira spesso a svelare le ipocrisie sociali che
germinano fin dal seno della famiglia e dei suoi valori ostentati. Nato a Monaco di Baviera il 23 marzo del 1942 è
figlio di un'attrice e di un regista. Studia filosofia e psicologia all'Università di Vienna. Dapprima è critico
cinematografico, in seguito sceneggiatore per la televisione tedesca e per la compagnia teatrale Südwestfunk. Da
qui il passo alla regia è breve: è regista televisivo a partire dal 1973 ed esordisce sul grande schermo nel 1989 alla
direzione del suo primo film, Il settimo continente, dove, in una spietata critica alla società austriaca borghese, ne
sviscera ipocrisie e pregiudizi. Nel 1992 realizza Benny’s Video il cui protagonista, appassionato di tecnologia,
s’innamora di un proprio video sulla morte di un maiale al punto da uccidere una ragazza per realizzare una
ripresa ancora ‘migliore’; del 1994 è la pellicola 71 frammenti di una cronologia del caso. Nel film, le vite di
alcune persone si incrociano in una banca dove uno studente fa una strage senza motivi apparenti: ne esce un
quadro sociale di svuotamento di valori al quale concorrono uno stile rigoroso e realistico ma anche intenso e
ipnotico. Nel 1997 è la volta di Funny Games (1997), storia dell’ordinaria follia di due giovani che torturano per
divertimento una famiglia in vacanza. che riecheggia nel successivo Storie – Racconto incompleto di diversi
viaggi, (2000) gioca ancora sul caso che congiunge diverse vite, con uno stile particolarmente sperimentale che
non convince la critica e il pubblico. Grande successo riscuote invece il successivo La pianista, Gran Premio al
Festival di Cannes nel 2001 e premio a Benoit Magimel e Isabelle Huppert, che mette in scena il rapporto sadomaochistico tra una maestra di piano e un allievo. Nel 2005 Haneke vince il premio per la miglior regia sempre a
Cannes, con il notevole Niente da nascondere (Cachè), un film che lascia nel dubbio lo spettatore sull’esatto
senso degli eventi, ma capace di trattenere e trasmettere attraverso la sua struttura e le sue immagini una serie
di domande e dubbi sulla natura della comunicazione, della censura e della relazione tra le generazioni in una
Francia borghese ma piena di contraddizioni, cresciuta anche sulla rimozione del suo passato violento e
disonesto. Quattro anni dopo si aggiudica la Palma d'oro con il film Il nastro bianco, ambientato in un paesino
tedesco alla vigilia della Grande Guerra, dove la mentalità e soprattutto l’educazione trasmessa ai ragazzi
risuonano come una premonizione e un segno di una cultura destinata a evolvere nel delirio nazionalsocialista.
Nel 2012 torna a Cannes, vincendo per la seconda volta la Palma d'Oro con il film Amour, che all'inizio del 2013
compare fra i candidati all'Oscar come miglior film; nomination anche al regista e all'attrice protagonista
Emmanuelle Riva.
La parola ai protagonisti
Intervista a Michael Haneke
Da che cosa nasce l’idea del film?
Mi è successo di dovermi misurare con un dolore simile, di una persona di famiglia, che ho molto amato, e per
cui ho molto sofferto. Ho fatto delle ricerche e comunque quella che racconto non è una situazione insolita.
Nel finale di Amour il marito pone fine alle sofferenze della moglie. Qual è la sua posizione sull’eutanasia?
Non voglio esprimere la mia opinione sull’argomento, ogni spettatore è libero di farsi la propria. I film devono
aprire un dialogo, bisogna obbligare il pubblico a cooperare. E questo vale anche per la letteratura, un libro che
spiega tutto è un libro morto. Chi pensa di spiegare il mondo in 90 minuti sta solo prendendo in giro qualcuno.
La chiesa cattolica condanna l’eutanasia. Pensa che in Italia, dove la voce del Vaticano è più vicina, Amour
solleverà polemiche?
Sono ingerenze che non mi interessano. La scelta del protagonista può essere interpretata in modi diversi, come
una forma d’amore estremo oppure di egoismo. D’altra parte la realtà è spesso ambigua e contraddittoria e l’arte
deve cercare di rifletterla, solo così può nascere il confronto.
A Cannes ha dedicato la Palma a sua moglie, alludendo a una vostra vicendevole promessa. Si riferiva alla
decisione presa nel film da Trintignant?
No, parlavo del fatto che ci siamo giurati che, mai e poi mai, qualunque cosa accada, nessuno di noi due sarà
chiuso in una casa di riposo, conosciamo queste situazioni e sappiamo che finire in un ospizio è per tanti anziani
un incubo. No, non parlavo di eutanasia, e credo che mia moglie non sarebbe affatto felice se mi sentisse dire
che abbiamo deciso di ucciderci a vicenda.
Come ha convinto Trintignant a tornare sul set?
Non è stato difficile, la mia produttrice lo conosce, lo ha invitato alla prima dell’altro mio film Il nastro bianco e lui
ne è stato entusiasta. Così gli ho proposto Amour. All’inizio, dopo aver letto il copione, era un po’ scioccato, poi
ha accettato. Senza di lui non avrei potuto girarlo, nessuno avrebbe fatto meglio il suo ruolo.
Trintignant aveva abbandonato il cinema in seguito alla tragica morte della figlia Marie, uccisa a botte dal
compagno Bertrand Cantat. Ne avete mai parlato?
No, non abbiamo mai affrontato l’argomento, lui non lo ha fatto e io nemmeno, credo che ne parli solo con amici
intimi e che io non avessi alcun diritto di intromettermi. Trintignant è una persona particolare, affascinante,
riservata, delicata. Un uomo interessante dal punto di vista umano, oltre che un attore bravissimo.
Ha ricevuto la Palma dalle mani del presidente di giuria Nanni Moretti. Vi conoscevate?
Conoscevo il suo cinema, soprattutto Caro diario che ho molto amato. Quando ho saputo che sarebbe stato lui il
presidente, ho pensato subito che le cose per me non sarebbero andate bene. Sapevo che, quando era stato
membro della giuria e avevo presentato il mio film Funny games lui aveva detto che si sarebbe dimesso se mi
avessero dato un premio. E invece stavolta è stato tutto diverso, ho saputo che al film avrebbe dato anche altri
riconoscimenti.
Di lei si dice che fa film gelidi, implacabili, disturbanti. Amour è dolce e appassionato. A che cosa si deve
quest’inversione di tendenza?
Forse sono diventato più mite perchè sono più anziano, aspettiamo di vedere il prossimo.
Intervista a Jean-Louis Trintignant
Un film importante, a distanza di più di una decina d'anni dall'ultimo set, il premio come miglior attore a Cannes,
un'autobiografia appena uscita ("Alla fine ho deciso di vivere", Mondadori): è tempo di bilanci, signor
Trintignant?
No. Io non sono importante nel film di Haneke. Sono un collaboratore del regista, alla stregua del direttore della
fotografia. Sono bravo, ma non è merito mio, è merito del regista. Ho avuto molta fortuna, ma è stato soprattutto
un caso. Prévert diceva che "il caso è una cosa troppo importante per essere lasciata al caso" ma io sono come
un tappo di sughero, mi sono lasciato trasportare dalla corrente. Ho fatto 130 film, 100 dei quali si possono
anche dimenticare, ma i bilanci li lascio ai registi, sulla loro opera, non c'è bisogno che li facciano anche gli attori.
Lei ha spesso detto di aver apprezzato moltissimo Michael Haneke. Quali qualità gli riconosce?
Apprezzo il suo grande rigore. È il primo a dire di se stesso che è più esigente di altri registi e che probabilmente è
un buon regista proprio per questo. Non posso che essere d'accordo.
È vero che è stato molto esigente anche col piccione?
È vero. Avevo un braccio rotto, senza gesso, perché non si doveva vedere, ma pur sempre rotto. E abbiamo girato
la seconda scena del piccione, la più difficile, per ben tre giorni. Dico solo che per un altro regista probabilmente
non l'avrei mai fatto.
Il racconto del film è molto doloroso. Quanto lo è stato interpretare il personaggio di Georges?
Tanto. Ma è stato anche un piacere. Ripeto: mi sono lasciato andare.
È vero che all'inizio non voleva accettare la parte?
Avevo visto Caché - Niente da nascondere e l'avevo adorato. Fuori dal cinema avevo detto agli amici che erano
con me che se uno come Haneke mi avesse chiamato avrei fatto volentieri un film con lui. Sei mesi esatti dopo mi
ha chiamato. Quando ho letto la sceneggiatura, però, mi è sembrata troppo triste e non volevo più farlo, non mi
andava di rattristare il pubblico. Haneke mi ha spiegato che l'argomento in effetti era triste ma il film sarebbe
stato più lieve e carico di speranza. Se non avessi letto la sceneggiatura, non sarei mai andato a vedere un film su
quest'argomento. Invece l'ho già visto quattro volte e sono d'accordo con il regista: è un film algido ma c'è
persino un po' di umorismo e soprattutto della poesia. Si esce più felici che tristi. È un film che va difeso per
questo, perché chi lo vedrà lo amerà, ma non sarà facile mandare al cinema gli italiani e i francesi. I tedeschi sono
un popolo più duro, non si sono fatti intimorire e il film in Germania è già un grande successo.
Il film affronta un argomento che oggi è tabù. Concorda?
Molti argomenti del film fanno paura, ma un bravo regista è autorizzato a parlarne. Per me Amour è il miglior film
di Haneke fino ad ora. La violenza che in altri suoi film io talvolta avevo trovato gratuita, qui non è che sia sparita
ma è totalmente al servizio della storia e rende il film molto sensibile.
Quale immagina che sia il destino di Georges?
Ho fatto la stessa domanda a Haneke ma lui mi ha risposto che non lo sa, lascia la scelta all'immaginazione dello
spettatore. Forse si suicida - mi ha detto - o va a vivere in un altro paese. Secondo me si suicida, ma con gioia. È
un finale logico: ha ucciso qualcuno, anche se lo ha fatto per amore, e merita di trovare la morte a sua volta.
Ciò che colpisce nel film, oltre al livello delle performances attoriali individuali, è la straordinaria naturalezza di
Georges e Anne come coppia. Spontaneità o duro lavoro?
Non abbiamo fatto delle prove nel senso tradizionale del termine. Il film non è stato girato in pellicola ma in
digitale, cosicché giravamo tutto, male che andava si buttava qualcosa senza che questo fosse un danno o un
costo per la produzione. Però, prima di iniziare le riprese, io e Emmanuelle Riva abbiamo parlato molto. Questo
ha fatto sì che il nostro stare in scena insieme funzionasse e fosse credibile nonostante la freddezza recitativa che
il regista ci aveva imposto. Haneke non voleva assolutamente che facessimo trasparire le emozioni. Qualche volta
la scena era così pesante che Emmanuelle scoppiava a piangere, ma allora lui la tagliava. "Niente lacrime",
ripeteva. E non perché sia insensibile ma perché è convinto che l'emozione debba venire dalla situazione e debba
essere catturata dalla macchina da presa. Non vuole che sia l'attore a cercare la commozione per poterla
suscitare poi nello spettatore. Per lo stesso motivo non c'è alcuna musica di commento nel film. Se c'è una
musica è perché esce dallo stereo o qualcuno la suona in scena, ma non perché il regista se ne serve per
aumentare l'emozione. Non ho mai conosciuto un regista con così tante idee originali.
A suo avviso, il film parla di un caso di eutanasia o di un assassinio per amore?
So che Haneke aveva una zia che amava molto che, in fin di vita, gli aveva chiesto di aiutarla a morire. All'epoca
lui si era rifiutato, non so se perché non se la sentisse o se perché è illegale, però credo che se ne sia pentito e
che abbia fatto questo film per lei. Lui comunque non ama che si parli di eutanasia e trova che in Italia se ne parli
troppo, probabilmente per una ragione religiosa.
Che rapporto ha con la vecchiaia?
M'infastidisce. Vorrei essere più giovane. Un amico una volta mi ha detto: dopo i sessant'anni, se quando ti svegli
alla mattina non ti fa male da nessuna parte, è perché sei morto.
Non crede che il cambiamento di tono di Haneke possa essere dovuto proprio al fatto di avere a che fare con lei?
Può darsi. Nel tempo trascorso insieme mi ha parlato molto, non solo del film ma del cinema e della vita in
generale. Riguardo alle singole scene non eravamo sempre d'accordo. La scena della colazione, per esempio, me
l'ha fatta fare come volevo ma poi mi ha spiegato che lui aveva tutta un'altra idea di come doveva essere recitata.
E in quel caso come in altri, aveva ragione lui. Io ero concentrato sul mio personaggio ma lui aveva presente il
film nel suo insieme, che è la cosa più importante. Ha sempre avuto ragione lui.
Intervista a Emmanuelle Riva
Quando ha ricevuto la sceneggiatura del film è stata subito catturata o ha temuto che fosse troppo doloroso da
interpretare?
Me lo chiedono in molti. Per me la risposta è molto semplice: veniva da un regista straordinario, per cui in primo
luogo c'era la felicità di essere stati contattati da lui, e in secondo luogo quello di Anne era un personaggio molto
bello, che sarebbe stato da matti rifiutare. Era impensabile rinunciare ad un tesoro così ricco. Oltretutto, è un
argomento che tocca ognuno di noi, nessuno escluso, perciò ho detto in fretta di sì. E poi sentivo intimamente
che potevo farlo: niente a che fare con la vanità, credetemi, ma avevo l'età per interpretare questo ruolo e la
fiducia di chi me lo chiedeva. È stato un grande regalo, perché non capitano spesso ruoli del genere per attrici
della mia età.
Haneke vi ha domandato espressamente una recitazione trattenuta, che non portasse in superficie i sentimenti. È
stato più facile o più difficile del solito?
Dopo la prima scena, e dopo diversi ciak, Haneke è venuto da me e, parlando della mia prova, mi ha detto: "è
molto bella, ma è troppo tenera." "Niente di sentimentale" è stata la chiave di recitazione richiesta. Vivere tutto
all'interno e non mostrarlo non è facile, ma è molto più interessante. Tra i protagonisti di questo film, c'è un
grande amore ma è un amore privo di sentimentalismi ostentati. Al punto che durante la malattia sia l'uomo che
la donna conservano questo carattere, restano le stesse persone nonostante la situazione sia molto cambiata, e
questa è la cosa che io trovo straordinaria. Per me - e ci penso ora per la prima volta - è forse meno difficile
recitare in modo trattenuto che non mostrare il più possibile senza rischiare di scadere nella caricatura. Detto
questo, come attori dobbiamo essere pronti a rispondere alle richieste del regista, qualsiasi esse siano.
Come giudica il gesto di Georges nel film?
Non voglio certo giudicarlo. Quello che so è che sua moglie desiderava la morte, è evidente, ha tentato di gettarsi
dalla finestra, e lui sa bene che per lei è impossibile e intollerabile continuare a vivere in quel modo. Dapprima
quindi rispetta la promessa di non ospedalizzarla e di tentare il più possibile di conservare la quotidianità anche
in quelle condizioni, ma in seguito al secondo attacco e all'aggravarsi di Anne, la sua sofferenza, mista a delirio, è
talmente insopportabile per entrambi, che lui fa quel gesto, ma non per sé, lo fa per lei. Credo che ogni caso sia
diverso dall'altro, dunque non si può generalizzare. Ci sono sicuramente dei casi in cui una cosa del genere può
accadere. Nel film, il personaggio di Trintignant non pare aver premeditato il gesto, o almeno non sapeva quando
lo avrebbe fatto, solo forse che sarebbe toccato a lui, perché lei non era in grado di farlo da sola. Come avviene,
con quel movimento che pare un abbraccio... beh, quel movimento è un capolavoro e quel gesto è un gesto
d'amore. Da lì è nato il titolo, semplicemente perché sarebbe stato impossibile trovarne uno più adatto.
Com'è stato, fisicamente, interpretare una bella donna, amata e innamorata, che si ritrova in quelle condizioni
estreme?
Non è stato difficile. Trasformarsi al servizio della storia, anche grazie all'aiuto della truccatrice, che ha fatto un
lavoro straordinario (per esempio quando mi ha truccato per la scena della morte) era una cosa che mi
interessava molto. Volevo essere verosimile e, nell'attore, esterno e interno ad un certo punto arrivano a
confondersi, per cui se dovevo avere un braccio paralizzato, alla fine non riuscivo a muoverlo davvero. Haneke
all'inizio aveva pensato di portarmi in giro per ospedali per vedere i veri malati, e io non ero contraria, ma poi
passavano i giorni e non me lo domandava più ed è stato lui stesso a mostrarmi come fare. Per un attore,
trasformarsi è appassionante e utile: un po' di cotone in bocca aiuta a entrare nel corpo di un personaggio con
un'emiparesi, e così via, con altri piccoli trucchi, perché l'attore è tanto artista quanto artigiano.
Ha vissuto la stagione più creativa e sperimentale del cinema francese. Cosa ne pensa del cinema europeo del
presente?
La vita sul pianeta è cambiata, in ogni aspetto, e il cinema riflette l'attualità, dunque oggi riflette l'amore ma
anche il terrorismo e il male verso cui purtroppo stiamo lentamente tendendo. Non sono abbastanza cinefila per
rispondere esaurientemente, penso che dovrei passare la vita dentro della sale buie per vedere chiaro. Ma vedo
che ci sono tantissimi nuovi talenti in giro e soprattutto tante donne in Francia che si esprimono con grande
creatività. Nonostante questo sono molto turbata dalle ferite mortali del nostro mondo e spesso scrivo delle
poesie, che nascono proprio dal mio essere così violentemente colpita da ciò che accade.
C'è un terzo personaggio nel film, ossia l'appartamento e ciò che contiene. Come vi siete relazionati?
Abbiamo passato tutto il tempo dentro quel set, dunque ci siamo dovuti adattare e ne abbiamo sicuramente
subito l'influenza. Haneke ha ricostruito l'appartamento dei suoi nonni, esattamente com'era nella realtà, con la
cucina e il bagno così piccoli che ponevano non pochi problemi ai tecnici, ma noi ci siamo subito sentiti a casa. Io
ho affrontato questo lavoro con grande passione, tutti i giorni, dall'inizio alla fine. Finite le ore di lavoro, però,
tornavo alla mia vita normale, anche se, per non stancarmi troppo, tornavo a Parigi solo il fine settimana,
altrimenti il caso della città mi avrebbe reso ancora più pesante un lavoro già faticoso per la natura del testo.
Dunque ho praticamente vissuto sul set, nel mio camerino. Ha fatto bene alla mia concentrazione.
Recensioni
Natalia Aspesi. La Repubblica
Ormai da giorni, pronostici e cinefili, senza aver visto il film, avevano deciso: la Palma d’oro anche questa volta se
la prende Michael Haneke, che già l’ha vinta nel 2009 con il potente Il Nastro bianco e comunque, qualunque film
lui faccia, (Funny Games, La pianista, Caché, Codice sconosciuto) riesce sempre ad attirare premi su premi da
tutto il mondo. D’altra parte è impossibile difendersi dalla fascinazione assoluta e intimidente dei crudeli film del
settantenne barbuto autore austriaco; e anche questa volta Amour, in concorso, titolo che dato a una sua opera
diventa inquietante, ha tutto per impietrire la giuria, e come sempre coi suoi film, a metterla in uno stato di tale
inquietudine, da convincerla ad esorcizzarlo con un premio più o meno massimo. Ma poi, a parte la solenne,
potente sobrietà registica di Haneke, come si fa, nel festival di massimo prestigio, osare mettere da parte
l’asperità, la crudeltà, la verità della devastante storia di un lungo amore che la vecchiaia e la malattia
deteriorano sino alla morte? […]. George affronta con l’amore di sempre la nuova quotidianità desolata della
malattia di Anne, che assiste nelle azioni più intime e sgradevoli, allontanando le infermiere che lui sente
disumane, accollandosi tutta l’assistenza con una specie di gelosia, tenendo lontana anche la figlia Eva (Isabelle
Huppert) come se il suo aiuto potesse essere inopportuno, si insinuasse in quella disperazione che adesso è il
loro legame, che appartiene solo a loro due: è lui a cambiarla, a prepararle le pappe, ad accarezzarle le mani per
confortarla, a raccontarle storie, anche quando ormai lei non riesce più ad essere coerente, e grida la sua
sofferenza, prigioniera del suo corpo immobile. Il suo modo di chiedere a lui l’ultimo gesto d’amore, di aiutarla
perché il calvario finisca, è rifiutare l’a cqua che dolcemente lui cerca di insinuarle tra le labbra ostinatamente
serrate, mentre muta, con lo sguardo indurito, lo fissa perché lui capisca. [...]
Roberto Silvestri. Il Manifesto
Attento, esperto e preoccupato sismografo dello sguardo fascista e autoritario - incorporato ormai come optional
e ornamento dalle democrazie occidentali - fino all'immedesimazione più ambigua (Funny Games, prima
versione), perché soprattutto gli artisti austriaci, visti gli strascichi post bellici, a queste radiazioni maligne sono
sottoposti (dagli akzionisti, e da Waldheim, in poi, fino a Haider), Michael Haneke, come Valie Export, è un
fabbricante di emozioni per lo sguardo quasi sempre insostenibili. La violenza, nei suoi film più drastici, non è mai
consumabile. È quello che è. Come nel Salò di Pasolini. [...] esce finalmente in Italia distribuito da Teodora
L'amore, la sua nuova produzione austro-francese antiromantica, densa e impressionante, estrema e fuori
schema. Il film, un altro duetto da camera ma per cannibali più esperti, [...] questa volta segue e insegue
l'evoluzione drammatica della simbiosi sentimentale tra due colti borghesi - li riconosciamo subito in una
foltissima platea di melomani, e non solo perché si chiamano Emmanuelle Riva e Jean Louis Trintignant, ma per
magia di regia - devastata dalla gravissima malattia di uno di loro e dall'indifferenza del mondo […]. Il film,
magnifico nella sua semplicità, come lo definisce Deborah Young su Hollywood Reporter, segna il ritorno davanti
alla macchina da presa dei due mitici attori francesi di Hiroshima mon amour lei e di L'uomo senza memoria e Il
sorpasso, più circa 130 opere (molte italiane) che disegnano perfettamente l'evoluzione del cinema europeo anni
60-80, ma che da anni è disgustato dal cinema, troppo poco velenoso, soprattutto hollywoodiano, lui. Sono gli
esecutori perfetti di una partitura ad alto quoziente di difficoltà che il cineasta della crudeltà modella come un
kammerspiel atroce. Un'analisi microscopica dell'amore condotta fino ai confini della morte e oltre. La crudeltà è
l'esercizio etico di purificazione espressiva che il cineasta fa su se stesso, sul suo corpo, come fosse quello di
Trintignant. Riproponendo interiormente il metodo aktionismus anni 60 quando l'artista si trasformava in corpo
segato in due, fatto a pezzi e sanguinante (come nelle action di Rudolf Schwarzkogler). La crudeltà non è qui un
gioco sadico con il pubblico che, se non si deve mai indottrinare, provocare o far reagire, certamente si vuole
curare (almeno dalla cattiva musica tossica, visto che, in cameo, vediamo anche il famoso pianista schubertiano
Alexandre Tharaud). Anche perché l'argomento è delicatissimo, ai confini della Bella addormentata di Marco
Bellocchio. [...] La mutazione diventa insostenibile per George. Non vi diremo cosa farà. Ma, inseguendo e
decifrando parole d'ordine misteriose, che vanno oltre la logica o la giustizia degli umani e provengono dal cielo,
forse da un piccione, invece di smettere di vivere e di irrigidirsi nella fissità e nell'opacità senile, tetra e ibrida
condizione di mezzo, sceglie di agire. Di salire in alto. Nelle tenebre o nella luce, lo dirà lo spettatore.
Fabio Ferzetti. Il Messaggero
Il momento più difficile della vita, che naturalmente è la fine, in un film che tiene fede per due ore filate al suo
titolo: Amour. E senza effetti di stile, ma con un linguaggio sorvegliatissimo che esalta la prova magnifica dei
protagonisti. Senza ricorrere a medici, letti di ospedale, flebo,cateteri e altri elementi ricattatori, immancabili
nella pornografia del dolore oggi dilagante. Anzi, senza mai uscire dal vasto appartamento parigino in cui vivono
gli anziani musicisti. Se non nel prologo, un concerto visto dal palco, unica concessione al mondo esterno insieme
a qualche giornale, alle visite della figlia o di un ex-allievo diventato famoso concertista, e ad un piccione bizzarro
che si ostina ad entrare dalla finestra. […] Haneke non è mai stato più delicato, anche se non fa sconti. Dal primo
malore al ritorno a casa dopo l’operazione, al progressivo e inesorabile deteriorarsi della Riva fino al gesto
estremo compiuto dal marito per risparmiarle le ultime sofferenze, sullo schermo ci sono solo loro, i loro ricordi, i
loro sentimenti, quella casa piena delle cose di una vita: insomma i loro sentimenti ma senza mai un’ombra di
sentimentalismo (persino la musica è usata con parsimonia ammirevole). Questione di sguardo, Haneke coglie
bellezza e tenerezza nei momenti più imprevisti. […] concentra decenni di felicità coniugale in pone frasi, un
campo lungo, un lampo di civetteria o ironia.
Alberto Crespi. L’Unità
Chi ci segue regolarmente, ahilui, su queste pagine sa quanto NON amiamo il cinema di Michael Haneke. Grande
rispetto, per carità: l'austriaco è un autore vero, nel senso che il suo controllo sul proprio lavoro è totale e il
pessimismo che lo pervade, la convinzione che l'uomo sia sempre e comunque homini lupus sono costanti
tematiche che percorrono tutti i suoi film. Siamo però convinti che Haneke sia un regista tecnicamente sadico,
che gode nel far soffrire (psicologicamente ed esteticamente, sia chiaro) lo spettatore. E non sempre ci siamo
sentiti disposti a stare al suo gioco. Per parafrasare un vecchio detto, giocare è lecito ma accettare le regole del
gioco altrui è cortesia. Fatta questa premessa, Amour è un grande film. [...] Amour non è una passeggiata né
tanto meno una garrula commediola, ma è quel che il titolo promette: una forte, tragica, tenera storia d'amore. È
sostanzialmente un film con due personaggi, visti nella metaforica chiusura del loro appartamento parigino e
diciamo subito che Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva sono di una bravura astrale, sovrumana, pazzesca.
Ed è vietato fare graduatorie: uscirete dal cinema ricordando soprattutto il sofferto travaglio di Trintignant, ma
fate caso a quanto è difficile il ruolo della Riva, che nella seconda metà del film deve fingersi moribonda. È una
prova eroica, ai confini della realtà. [...] Si capisce, pian piano, in cosa consiste il tocco di Haneke nel raccontare
una storia che altri registi avrebbero reso patetica o, al contrario, brutalmente melodrammatica: la verità è che
Georges non vuole nessuno accanto a sé, in questa prova suprema. Vuole stare solo con Anne, curarla, lavarla,
imboccarla fino alla scelta estrema che apre il film, perché Haneke non vuole creare alcun tipo di suspence: vuole
che sappiamo subito, sin dalla prima scena, che Georges e Anne si sono talmente amati da condividere tutto, ma
proprio tutto. E persino la figlia, il cui carattere aspro è reso con la consueta perizia da Isabelle Huppert [...], è
esclusa da questo amore totalizzante, pieno di sé, addirittura egoista. La bravura degli interpreti è tutto in un
simile film, ma è mirabile il modo in cui Haneke la asseconda con una regia apparentemente assente, delicata,
precisissima. Osservate con attenzione la scena in cui Trintignant tenta, solo nell'appartamento, di catturare un
piccione entrato dalla finestra. È costata giorni di riprese, e dice misteriosamente tutto sulla solitudine dell'uomo
moderno. Degna di Bunuel. Palma d'oro cannense meritatissima, assai più di quella vinta sempre da Haneke con
Il nastro bianco. [...]
Alessandra Levantesi Kezich
Di Amour, Palma d’oro a Cannes lo scorso maggio, si parla con unanime consenso come di un capolavoro e con
fondate ragioni. Intanto porta la firma dell’austriaco Michael Haneke, autore degli acclamati Niente da
nascondere e Il nastro bianco e reputato maestro della scena cinematografica internazionale. L’argomento del
film poi [...] sembra fatto apposta per entrare nel dibattito in corso sull’a ccettabilità o meno del ricorso
all’eutanasia nei casi senza speranza. C ’è inoltre la componente preziosa di un rapporto di profonda complicità
affettiva, come racchiuso nel titolo; […] a dispetto dell’età della coppia e del tema della malattia, il film non ha
nulla di senile e patetico, anzi possiede un’asciutta, stoica forza di rivendicazione: rivendicazione di una civiltà di
modi e di pensiero, di cultura e sensibilità che impregna ogni angolo dell’appartamento in cui Trintignant e la Riva
vivono. In questo senso è esemplare la presenza di un terzo personaggio, la figlia Isabelle Huppert che, pur
essendo anche lei una musicista, è più in sintonia con la grettezza spirituale d’epoca che con il mondo interiore
dei genitori. Non si è sottolineato abbastanza che il protagonista si assume l’onere, per un anziano
particolarmente arduo, di non ricorrere alle strutture ospedaliere e accudire la moglie in casa, in quanto
consapevole di essere il solo a poterle assicurare sino alla fine una dignità di essere umano pari alla dignità con
cui, entrambi, hanno attraversato l’esistenza [...]. Uso a sviscerare le anime con la distaccata attitudine
dell’entomologo, si direbbe che l’aristocratico Haneke si sia stavolta, in qualche modo, identificato nei
personaggi: tramite segni impercettibili - uno sguardo, un gesto sommesso, una frase, un’attenzione - in questo
suo film sentiamo vibrare il palpito dell’emozione.