Cineforum - Fondazione Per Leggere
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Centro Culturale Città Viva Eventi al cinema teatro Cristallo di Cesano Boscone (Mi) Cineforum gennaio 2013 condotto da Fabio Bressan Regia di: Michael Haneke Venerdì 11 gennaio ore 21.15 Ingresso € 5,00 Trama. Parigi, oggi. Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva) sono una coppia di anziani insegnanti di musica ormai in pensione. Il loro amore viene messo a repentaglio dall’ictus che colpisce improvvisamente Anne. Georges si prende cura di lei, mentre la figlia Eva (Isabelle Huppert), anch’essa musicista, può offrire ai genitori solo un aiuto saltuario … Durata: 127’ Il film. Haneke è stato definito un “regista della crudeltà”, perché i suoi film mettono a dura prova la sensibilità degli spettatori. La sua opera si mostra sempre coerente e determinata nel voler sollecitare nel pubblico una riflessione sulla cattiva coscienza, sull’angoscia e sulla violenza che avvelenano la società occidentale contemporanea, ancorché evoluta e borghese. Il rigore matematico della composizione delle inquadrature, il severo uso della colonna sonora e del montaggio, il percorso narrativo a partire da spunti di cronaca e quasi sadico nell’attrarre e colpire il pubblico, caratterizzano le sue regie, finalizzate a ispirare in esso un senso di implacabile costrizione, un disagio persistente e disturbante. L’ultimo film del regista austriaco conferma tale prospettiva, pur apparendo intriso di un’inattesa dolcezza di sentimenti. In Amour lo sguardo del regista sui protagonisti si fa teneramente complice, conformandosi alla loro fragilità di fronte all’approssimarsi della morte, a motivo dello spunto autobiografico che è alla base della sceneggiatura. A Cannes, il settantenne regista ha infatti dichiarato che alla sua età è inevitabile affrontare la sofferenza dei propri cari: «Non volevo fare una pellicola che riflettesse sulla società. Sono partito dal fatto che prima o poi nella vita bisogna confrontarsi con la sofferenza di qualcuno che ami. E non ho mai scritto un film per provare qualcosa. Quando raggiungi una certa età, sei inevitabilmente pervaso da un senso di sofferenza. Io non voglio mostrare altro se non questo e proprio per questo ho girato il film interamente in un appartamento». Ha poi raccontato di una promessa reciproca fatta alla moglie per cui mai uno dei due avrebbe abbandonato l’altro alla fine della vita in un ospedale o in una casa di riposo. Ciò a seguito del dolore provato per la lunga agonia solitaria dell’anziana zia che l’aveva cresciuto. Dopo il prologo in cui i vigili del fuoco entrano nella casa per trovare il corpo di un’anziana donna dignitosamente ricomposto nel letto nuziale, Haneke ripercorre a ritroso la storia dei protagonisti, con un procedimento a lui caro che gli permette di demistificare l’atto stesso della narrazione, e cominciare così la narrazione dal principio. Il film mostra come il deperimento fisico e psichico dei personaggi e la prospettiva della morte vicina rinsaldi a tal punto il loro legame da renderlo esclusivo e quasi folle (una forma di amour fou, di amour à mort). La coppia, segregata nel proprio appartamento, diviene una cellula fusionale, chiusa nei confronti del mondo esterno. Tutto si svolge all’interno dell’appartamento ottocentesco di Anne e Georges, la cui studiata eleganza è come incrinata dalla presenza dei medicinali. L’autore riesce ad allestire attraverso la messa in scena un luogo così realistico da suscitare un senso di intimità, all’interno del quale si percepisce la presenza di una lunga vita passata insieme, giorno dopo giorno. Il regista ha immaginato tale spazio interiore simile a quello dei suoi genitori: «Questo appartamento ricostruito in studio è quello dei miei genitori, con la piccola stanza a lato della cucina, dove si era rifugiato il mio patrigno dopo la morte di mia madre, come fa Trintignant alla fine del film. I miei genitori possedevano quella stessa biblioteca, delle sedie identiche e un pianoforte». Tuttavia, si avverte un clima di esclusività nel rapporto dei due coniugi, ai limiti del morboso, specialmente se si osserva come appaiano estranee e intempestive le apparizioni dei visitatori esterni. Il giovane pianista in visita alla sua antica maestra (Alexandre Tharaud, anche nella realtà un giovane concertista) e la figlia Eva hanno un approccio superficiale alla malattia di Anne; sono troppo presi da se stessi per occuparsi seriamente degli anziani musicisti. Entrambi sono simboli di una contemporaneità che non riesce più a integrare malattia, anzianità e morte nel tessuto sociale. Ogni volta che i due genitori sono in esterni o con personaggi più giovani si avverte lo scollamento di due mondi che si escludono a vicenda: quello della coppia resta sempre in netta antitesi rispetto a quello di fuori. La portata destabilizzante dell’irruzione dell’esterno è rappresentata simbolicamente dal tentativo di scasso dell’appartamento, all’inizio del film, quando Anne e Georges tornano dal concerto. Qualcuno, o qualcosa, ha cercato di introdursi nella quieta felicità della coppia. Un’intrusione dalla forte portata metaforica, che accomuna il cinema di Haneke al teatro della crudeltà di Strindberg, di Artaud, di Pinter e fa di Amour uno straordinario esempio di Kammerspiel. Cinema Teatro Cristallo – Sala della Comunità della Diocesi di Milano Aderente al circuito Microcinema: prima monosala in Italia con tecnologia digitale, anche in 3D Via mons. Domenico Pogliani 7/A • Cesano Boscone (Mi) • MM1 Bisceglie • Linea ATM 322 – capolinea 58/ tel. 024580242 • Email: [email protected] • Sito: www.cristallo.net Redazione: Salvatore Indino (Presidente), Laura Rizzi • Fabio Bressan (collaboratori) Centro Culturale Città Viva Eventi al cinema teatro Cristallo di Cesano Boscone (Mi) Lo sguardo di Haneke sull’indebolimento del corpo e dello spirito dei suoi personaggi si fa dunque frontale e diretto, senza compiacimenti né ipocrisie (La musica finisce era il titolo originario della pellicola, poi scartato perché troppo enfatico). Non ci sono lacrime sui volti degli attori: lei conserva un’altera fierezza nonostante il progredire della malattia, lui non rinuncia ad un approccio concreto alle cose. Affiorano tocchi di umorismo (le due scene col piccione, la fuga in carrozzina di Anne, la musica per piano che proviene da uno stereo ecc.), di tecniche e tematiche tipiche del cinema horror (il ritrovamento del cadavere, l’incubo di Georges), di raffinata poesia visiva (i quadri ad olio con paesaggi soavi) e sonora (Bagatelle n.126 di Beethoven, Impromptu n.90 di Schubert, il corale Ich ruf zu Dir, Herr Jesu Christ di Bach/Busoni). Così, Amour appare pellicola delicata e sfuggente, in cui lo strazio della malattia non cancella la dolcezza dei momenti in cui il ricordo del passato si infiltra nel presente attraverso una vecchia foto o le note di un brano musicale («Com’è bella la vita, e lunga»). Ma il cammino della vita è diretto in un’unica, triste direzione e la conclusione della vicenda è anticipata nell’incipit del film in modo brutale. Il patto con lo spettatore è perciò chiaro: accompagnare la coppia nel lungo viaggio dal giorno alla notte, comprendere il gesto finale all’interno di una lunga storia d’amore e di condivisione. La freddezza asettica della rappresentazione è la chiave di volta della regia di Amour. Fissità della camera che sa anche restare sufficientemente lontana, uso reiterato del fuoricampo visivo e sonoro, la profondità di campo capace di allungare lo spazio ristretto delle mura restituendo allo spettatore la scelta dello sguardo. Haneke lascia volutamente ambigui i suoi finali, preferendo suggerire piuttosto che esibire. In tutti i suoi film, il regista propone enigmi senza soluzione: pur non nascondendo nulla (cfr. la sua predilezione per il campo lungo e il pianosequenza), lo spettatore non riesce mai a venire a capo degli intrighi narrati. Per questo, sarebbe riduttivo etichettare Amour come un film “pro eutanasia”. I margini di riflessione lasciati allo spettatore da Haneke sono così ampi da invitare la sua coscienza a valutare il tema del “fine-vita” in tutta la sua complessità: «Come far fronte alla sofferenza di un essere amato? L’immaginazione e la realtà hanno poche cose in comune». L’eutanasia non è mai nominata, e il gesto di Georges appare l’atto disperato di un uomo distrutto, solo e abbandonato a se stesso che non riesce a rispondere altrimenti al grido d’aiuto della moglie. Il suo atto rimane difficilmente comprensibile entro i limiti del diritto, forse anche della morale, ma nella sua eccezionalità può essere definito come un enigma: si può uccidere per amore? Georges agisce con uno strazio che appare indicibile e per giunta, contro la propria intenzione (prendersi cura della moglie non sembra pesargli). L’amore è vinto dalla disperazione, o piuttosto la supera? Ecco il difficile dilemma che il regista pone, non prendendo affatto le parti di Georges e notando l’indifferenza della società esterna al dolore degli anziani: lo testimonia la penosa ripresa dei convulsi movimenti difensivi di Anne quando viene soffocata. Haneke stesso è il primo spettatore, lucido e disincantato, del dramma e non desiste mai dalla sua neutralità, che è rigore estremo ed estrema freddezza (si avverte qui la lezione di Bresson). Tutto il film non è altro che la contemplazione, lucida, mai offuscata da un velo di lacrime, di un dolore impronunciabile, di un’avventura intollerabile. La sensazione che ne deriva, è che l’essenziale sia invisibile, non solo allo sguardo ma anche alla coscienza. Il coinvolgimento del pubblico è assicurato dall’inquadratura frontale del pubblico, anziché del palcoscenico, a teatro, con cui -subito dopo il prologo- si apre il film, prima di rinchiudersi entro l’appartamento di Anne e di Georges. Un’inquadratura lunga e straniante in cui lo spettatore del film ha la sensazione di essere scrutato, osservato. Haneke conduce e costringe il pubblico dentro il film. Il resto della pellicola, rinchiuso nell’appartamento, è come un controcampo di quell’inquadratura. Come a dire che Anne e Georges nel loro appartamento non sono altri da noi spettatori. Haneke vuole mostrarci ciò che rifiutiamo, ciò che poniamo ai margini della nostra coscienza perché ci fa paura: l’immagine oscena (fuori quadro) della vecchiaia, del dolore, della morte. Il regista ci obbliga a fare i conti con tutto ciò, senza però negare il valore dell’amore messo alla prova dalla malattia. Spettatori inermi di questo amore terribile, Haneke riesce nel miracolo di commuoverci, di renderci testimoni di una pietas estrema, ingenerando in noi una logorante compassione. Amour -paradosso di un capolavoro- è il film più empatico di Haneke, il suo film meno disperato e più umanista. Quanto allo stile, il film è costruito su una trama essenziale, articolata per micro-azioni, sguardi, assenze, tutti elementi così calibrati da rendere piena una scrittura di due ore senza alcun passaggio a vuoto e al contempo senza colpi di scena. Amour sembra un’unica, lunghissima pausa tra l’incidente e un finale annunciato. C’è quasi un ritmo musicale nella sceneggiatura che scandisce i dialoghi con una precisione sorprendente, una musica fatta di parole e di silenzi evocativi in cui si frammenta il tempo del sentire umano che divaga nel ricordo, nella fantasia, o nell’incubo. Amour è quel che resta del film una volta svanito l’oggetto filmico che lo rappresenta, è quel lieve sentimento, il silenzio, che l’immagine ha evocato. Il film deve tutto alla bravura dei due protagonisti; sembra disegnato sulla loro pelle. Haneke l’ha pensato appositamente per Trintignant (classe 1930) che, ritornato al cinema dopo 15 anni, vi riversa tutto il suo dolore per la morte della figlia Marie, nel 2003 massacrata di botte dal compagno. Emmanuelle Riva (classe 1927) giganteggia nel ruolo in fondo più difficile. Ottima la scenografia di Jean-Vincent Puzos e la fotografia di Darius Khondji, che lavora su una scala di colori limitata ai marroni e ai grigi, ritraendo efficacemente un mondo privato incupito dalla pioggia e popolato da ombre che si allungano sempre più. Il regista. Michael Haneke, “lucido cantore del disagio borghese contemporaneo”, è nato a Monaco di Baviera il 23 marzo 1942 da un’attrice austriaca di nobili origini e da un regista-attore tedesco, presto separatisi. Trascorre la giovinezza negli ambienti artistici di Wiener Neustadt dove frequenta il ginnasio e si diploma nel 1962. Fallito il progetto di studiare recitazione al Reinhardt-Seminar di Vienna e di divenire pianista, studia psicologia e filosofia all’Università di Vienna, dove segue i corsi di arte drammatica; scrive racconti e lavora come critico cinematografico e letterario. Dal 1967 lavora come redattore, drammaturgo e regista televisivo, riducendo per la tv testi di Bachmann, J. Roth, Kafka e si dedica al teatro, allestendo opere di Goethe, Strindberg, Hebbel, Kleist, Duras. Nel 1989, a 47 anni, dirige la prima opera cinematografica Die Siebente Kontinent, prima parte di una trilogia dedicata alla “freddezza emotiva” con Benny’s Video (1992), e 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls (1994). I tre film s’interrogano sulla sconcertante presenza della violenza nelle società moderne, sulla disintegrazione delle famiglie e sul potere dei media (temi ricorrenti in tutta la sua opera). Del 1997 è Funny Games, provocatoria riflessione sulla violenza nella società contemporanea. Seguono una riduzione cinematografica del Castello di Kafka e Code inconnu (Storie, 2000) primo film in francese. Del 2001 è La Cristallo – Sala della Comunità della Jelinek. Diocesi diSeguono Milano Le Temps du loup (2003), Caché pianiste con Isabelle Huppert, trattoCinema da unTeatro romanzo dell’amica scrittrice Elfriede Aderente al circuito Microcinema: prima monosala in Italia con tecnologia digitale, anche in 3D (Niente da nascondere, 2005), il rifacimento Fanny Games US (2008), Il nastro bianco (2009). Vive attualmente tra Parigi e Via mons. Domenico Pogliani 7/A • Cesano Boscone (Mi) • MM1 Bisceglie • Linea ATM 322 – capolinea 58/ Katzelsdorf in Bassa Austria. tel. 024580242 • Email: [email protected] • Sito: www.cristallo.net Redazione: Salvatore Indino (Presidente), Laura Rizzi • Fabio Bressan (collaboratori)