Metamorfosi X, 243-297 - Pianeta Scuola Gallery

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Metamorfosi X, 243-297 - Pianeta Scuola Gallery
Pigmalione e il frutto della sua arte
(Ovidio, Metamorfosi X, 243-297)
Il mito di Pigmalione, oltre a essere uno dei più raffinati fra quelli narrati nelle Metamorfosi,
costituisce anche un accesso privilegiato per entrare nel multiforme universo creativo di Ovidio e
comprendere il modo originale con cui egli rileggeva la mitologia, conferendole nuova vita. Non
possediamo, purtroppo, attestazioni della leggenda di Pigmalione anteriori a quella ovidiana, ma di
questo personaggio parlarono anche Clemente Alessandrino e Arnobio (due Padri della Chiesa), che
inoltre individuarono in modo esplicito in Filostefano di Cirene la propria fonte comune. Filostefano visse nella prima età ellenistica e fu autore di una raccolta di mirabilia (cioè di “fatti prodigiosi”)
dal titolo Sugli eventi straordinari accaduti a Cipro, opera da cui ha probabilmente attinto lo stesso
Ovidio.
In base alla versione (forse originaria) del mito, Pigmalione, re di Cipro, si innamora perdutamente di una statua d’avorio raffigurante Afrodite nuda e arriva a un punto tale di follia da congiungersi fisicamente con essa. L’ambientazione cipriota ha fatto pensare che si tratti di un mito locale (quindi non greco), a cui si faceva risalire il costume della prostituzione sacra. Tale pratica arcaica, ancora vigente a Cipro e in altre località dell’Asia Minore in epoca ellenistica, non poteva
non risultare eterogenea ed eccezionale a un esponente della cultura greca di allora come Filostefano (che perciò inserì la vicenda fra i suoi mirabilia, “eventi fuori del comune”). I due Padri della
Chiesa, invece, se ne servono per mostrare a quale sorta di empietà il culto dei pagani poteva condurre l’uomo. Clemente, inoltre, alla polemica contro le divinità olimpiche, consueta nella produzione cristiana del tempo, aggiunge anche una severa requisitoria contro l’arte, accusandola di essere in grado, se praticata ad alti livelli, di riprodurre la realtà in modo così perfetto da ingannare
l’uomo, sino a fargli perdere il senno.
L’episodio del re cipriota non rappresenta l’unico caso di agalmatofilia (cioè, “amore per una
statua”) documentato dalle fonti antiche: nella Storia varia di Eliano e nei Deipnosofisti di Ateneo
si narra, in più occasioni, di individui colti da un’irresistibile attrazione per un simulacrum. Lo stesso Arnobio racconta di come un giovane di Cnido si fosse acceso di desiderio per una statua di Afrodite nuda scolpita da Prassitele, fino a volersi congiungere con questa. Anche gli Amori, attribuiti
in modo incerto a Luciano, fanno riferimento alla stessa leggenda popolare, con in più un particolare macabro circa la terribile morte che l’innamorato si diede dopo la profanazione dell’effigies: egli
si lasciò cadere da un dirupo oppure, secondo altri, si gettò in mare. Pene analoghe erano previste
per l’incesto, considerato dagli antichi una tra le più gravi aberrazioni sessuali.
Capiamo, dunque, in che modo fossero considerati dall’etica del tempo questi amori paradossali. L’immagine di una divinità era considerata sacra quanto la divinità stessa e dunque era assolutamente intoccabile: chiunque la profanasse, anche amandola, era interdetto dalla società civile e,
non potendo più entrare in contatto con essa, era lasciato in balia delle forze naturali quasi alla stregua di un mostro. Proprio in questo il Pigmalione ovidiano si differenzia dalla tradizione, presentando caratteristiche proprie, nonostante in generale si ispiri al personaggio della tradizione inaugurata da Filostefano e ricalchi altre figure ad esso simili. Innanzitutto non è un sovrano, ma un artista
che si invaghisce della sua stessa creazione; questa poi, lungi dal rappresentare una divinità, è
l’immagine della sua donna ideale; con la statua, infine, egli non ha alcun rapporto sessuale, ma si
limita a ricoprirla di attenzioni, come il più tenero degli amanti. Se il racconto di Ovidio può a tal
punto distanziarsi dalla tradizione ciò dipende dal fatto che egli – trasferendo la leggenda dalla sfera
sacrale, cui tutti i racconti menzionati appartengono, a quella umana – laicizza il mito, rinnovandolo.
1
Quas quia Pygmalion aevum per crimen agentis1
viderat, offensus vitiis, quae plurima menti
femineae natura dedit, sine coniuge caelebs
245
vivebat thalamique diu consorte carebat2.
Interea niveum mira feliciter arte
sculpsit ebur formamque dedit, qua femina nasci
nulla potest; operisque sui concepit amorem.
Pigmalione aveva visto le Propetidi vivere questa loro vita colpevole e, indignato dai difetti di cui [245]
la natura aveva abbondantemente dotato la donna, aveva rinunciato a sposarsi e passava la sua vita da celibe, dormendo da solo nel suo letto9. Grazie però alla
felice ispirazione dettatagli dal suo talento artistico,
scolpì in candido avorio una figura femminile di bellezza superiore a quella di qualsiasi donna vivente e
si innamorò della sua opera.
Virginis est verae facies, quam vivere credas
et, si non obstet reverentia, velle moveri:
ars adeo latet arte sua3. Miratur et haurit
pectore Pygmalion simulati corporis ignes4.
[250] Questa aveva l'aspetto di una fanciulla vera,
tanto che la si sarebbe creduta viva e desiderosa di
muoversi, se non l'avesse impacciata il pudore. L'arte
era tanto grande da non apparire addirittura 10. Pigmalione stesso è preso dall’immagine di quel corpo e
contemplandolo concepisce una passione ardente.
250
Saepe manus operi temptantes admovet, an sit
corpus an illud ebur, nec adhuc ebur esse fatetur 255
Oscula dat reddique putat loquiturque tenetque
et credit tactis digitos insidere membris
et metuit, pressos veniat ne livor in artus;
et modo blanditias adhibet, modo grata puellis
munera fert illi conchas teretesque lapillos
260
liliaque pictasque pilas et ab arbore lapsas
Heliadum lacrimas; ornat quoque vestibus artus,
dat digitis gemmas, dat longa monilia collo;
aure leves bacae, redimicula pectore pendent.
265
Spesso allunga le mani verso la sua opera per accertarsi se si tratti [255] di carne o di avorio e nemmeno
dopo il contatto ammette che sia avorio. La bacia e
gli sembra di essere baciato, le parla, la stringe e crede che le sue dita affondino nelle membra che tocca:
teme perfino che per la pressione spuntino dei lividi
sulla pelle. E la colma di tenerezze, [260] e le porta
quei doni che le fanciulle amano: conchiglie, sassolini levigati, piccoli uccelli, fiori variopinti, gigli, palle
colorate e gocce d'ambra dall'albero delle Eliadi. Le
mette anche addosso dei bei vestiti, le infila anelli
alle dita e lunghe collane intorno al collo; [265] pendono dalle orecchie perle leggere, dal petto catenelle.
1
Quas... aevum per crimen agentis: nei versi immediatamente precedenti (vv. 238-242), Ovidio ha fatto riferimento alle Propetidi, fanciulle di Cipro che, per aver oltraggiato la divinità di Venere prostituendosi, furono da
questa mutate in pietre. L’espressione aevum per crimen agere non è di uso frequente nell’autore, il quale si avvale solitamente di iuncturae di senso opposto, quali sine crimine vivere, esse, moriri: ciò pone ovviamente in
massimo risalto la gravità della trasgressione compiuta dalle Propetidi.
2
A differenza del Pigmalione di Clemente o di Arnobio, il personaggio ovidiano non è un insanus che, vinto
dal furor, commette atti di empietà, ma un artista che sceglie in modo consapevole di evadere da una realtà che lo
scontenta per vivere la perfezione dell’arte e abbandonarsi alla sua illusione. L’amore per la statua non nasce allora come mera perversione sessuale, ma all’opposto trova la sua ragion d’essere in un’esigenza tutta interiore, che
comprende anche il desiderio di un amore puro. Lungi dall’essere un profanatore di immagini cultuali, Pigmalione
è un uomo dalla spiccata sensibilità, che preferisce la solitudine alla vita con una donna senza pudore. Il poeta vi
insiste più volte, prima con il pleonasmo sine coniuge, che caratterizza fortemente l’aggettivo caelebs (245), poi
attraverso un’ulteriore reiterazione del concetto nel nesso allitterante consorte carebat (246).
3
L’estetica antica aveva il suo principio cardine nella mimesis, vale a dire nella fedele riproduzione del reale:
quanto più l’arte si avvicinava al vero tanto più era degna di lode. Espressioni come Virginis est verae facies,
quam vivere credas (v. 250) e soprattutto ars adeo latet arte sua (v. 252) ci fanno intendere che la scultura eburnea di Pigmalione rispondeva perfettamente al criterio dell’imitazione. Vi è, tuttavia, una differenza sostanziale rispetto al tradizionale modo di fare arte: l’opera d’arte qui non riproduce un oggetto reale, ma cerca di dare concretezza a un’idea e all’ispirazione interiore dell’artista. La sua è più una “creazione” che una riproduzione. Ne è
conferma, per esempio, il v. 248, in cui si dice che egli formam(que) dedit, qua femina nasci nulla potest: l’arte,
dunque, supera in bellezza la realtà. Tale ribaltamento è attestato anche altrove nella produzione di Ovidio e rispecchia fondamentalmente i principi della sua poetica, incline a non porre limiti alla creazione artistica soggettiva e a sancirne l’autonomia dagli aspetti oggettivi essenziali nell’estetica tradizionale.
4
Dopo la presentazione del personaggio e delle motivazioni che lo hanno indotto a scolpire la sua statua, si
possono individuare due sezioni principali, separate dall’intervento risolutore di Venere (vv. 270-279): nella prima si narra con chiarezza di particolari come lo scultore si abbandoni alla propria illusione artistica, amando e adorando la propria opera d’arte (vv. 250-269); nella seconda questa illusione, grazie a Venere (autentica dea ex
machina), diviene realtà e l’effigies si trasforma in essere umano (vv. 280-294).
2
et parvas volucres et flores mille colorum 5
Cuncta decent; nec nuda minus formosa videtur.
Conlocat hanc stratis concha Sidonide tinctis
appellatque tori sociam adclinataque colla
mollibus in plumis tamquam sensura reponit.
Festa dies Veneris tota celeberrima Cypro
270
venerat, et pandis inductae cornibus aurum
conciderant ictae nivea cervice iuvencae,
turaque fumabant, cum munere functus ad aras
constitit et timide « si, di, dare cuncta potestis,
sit coniunx, opto », (non ausus « eburnea virgo » 275
dicere) Pygmalion « similis mea » dixit « eburnae ».
mette anche addosso dei bei vestiti, le infila anelli
alle dita e lunghe collane intorno al collo; [265] pendono dalle orecchie perle leggere, dal petto catenelle.
Tutto le sta bene: però nuda non appare meno bella. Il
giovane la depone su tappeti tinti con la porpora Sidonia, la chiama sua amante, le fa appoggiare la testa
su morbidi cuscini di piume, come se lei se ne rendesse conto 11.
[270] E viene il giorno della festa di Venere, frequentatissima da tutta la gente di Cipro: cadono, colpite alla nuca, giovenche candide come la neve, con
le corna ricurve rivestite d'oro; fumano gli incensi, e
anche Pigmalione porta il suo dono agli altari, davanti a cui si ferma sussurrando timidamente: "O dèi,
se è vero che voi potete concedere tutto, [275] io ho
un desiderio: vorrei che fosse mia sposa..." e non osa
dire "la fanciulla d'avorio" ma dice "una donna simile
a quella d'avorio!".
Sensit, ut ipsa suis aderat Venus aurea festis,
5
munera… et parvas volucres et flores mille colorum ripropone una situazione presente anche in Properzio
(III, 13, 27 ss.), che a sua volta riprende un passo di Teocrito. Nella descrizione delle attenzioni amorose
dell’artista verso la propria opera d’arte è possibile riscontrare tópoi propri della poesia erotica elegiaca. Le premure che Pigmalione riserva con tenerezza e trasporto all’ebur che ha scolpito sono infatti le azioni tipiche
dell’amante elegiaco: l’unica sostanziale differenza sta nel fatto che qui l’amata non è in carne ed ossa e ha una
sua realtà soltanto nella dimensione immaginaria in cui l’artista si è calato.
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Dopo l’intermezzo relativo all’intervento di Venere, la seconda parte del racconto (vv. 280-294), incentrata
sulla realizzazione del sogno di Pigmalione, è interamente costruita sul rovesciamento della prima sezione: la scena d’amore che se ne ricava è, infatti, l’immagine speculare di quella tra l’artista e la sua statua, solo che questa
volta l’amata è in carne e ossa. Non solo l’innamorato ripete gli stessi gesti che aveva riservato all’amato simulacrum, ma anche la terminologia adoperata è identica. Il “miracolo” di Venere non comporta effetti immediati, ma
lascia che l’effigies prenda vita pian piano, sotto le mani dello scultore innamorato, cosicché sembra che sia egli
stesso a farle acquisire calore e mobilità con il suo solo tocco. Gli oscula del v. 281 danno all’amante il primo segno dell’avvenuta metamorfosi, dal momento che la statua visa tepere est. Essi corrispondono simmetricamente
agli oscula del v. 256, i quali, però, trovavano risposta solo nella finzione di Pigmalione.
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Ora che la bellissima donna eburnea prende pian piano vita tra le braccia di Pigmalione, egli è assolutamente
incredulo rispetto a quanto ha sotto gli occhi. Ovidio rende bene il suo stato di completo sbalordimento, servendosi della tecnica della ripetizione: al v. 282 troviamo admoves os iterum; subito dopo temptat è ripreso da temptatum (v. 283) e ancora da temptatae (v. 289); mollescit (v. 283) è raddoppiato da remollescit (v. 285), così tractata
(v. 285) da retractat (v. 288) e rursus da rursusque (v. 288).
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In posizione enfatica ad inizio di verso, sensit racchiude in sé quasi visivamente il passaggio dalla condizione inanimata a quella di essere vivente.
9
I primi versi (vv. 243-246) sono funzionali a contrapporre l’episodio di Pigmalione alla vicenda delle Propetidi. La metamorfosi che rende per sempre visibile la loro durezza interiore è infatti esattamente il processo inverso a quello subito dall’ebur di Pigmalione: nel caso delle Propetidi, Venere toglie la vita; nel caso di Pigmalione,
la dona.
10
Accanto al tema erotico tradizionale emerge un altro motivo portante della vicenda: la capacità dell’arte non
solo di riprodurre il reale, ma anche di sostituirlo. Già Clemente Alessandrino vi aveva accennato nella sua redazione del mito, ma Ovidio vi mette senza dubbio maggiore enfasi. Giampiero Rosati, sulla scia di E. Fränkel (che
ha definito l’episodio uno dei più fini apologhi della meraviglia dell’immaginazione creativa), parla del Pigmalione ovidiano come di una delle figure antonomastiche dell’artista e ritiene che il tema dell’arte sia il vero fulcro del
racconto: in effetti, l’intero passo pare fondarsi proprio sull’opposizione fra illusione e realtà.
11
Ovidio di solito non si dilunga troppo nella descrizione di scene d’amore; se questo passo costituisce
un’eccezione a tale abitudine, la motivazione va ricercata nell’intento di sottolineare l’assurdità della situazione e
permettere così al lettore di percepire meglio la condizione psicologica del protagonista.
3
vota quid illa velint, et, amici numinis omen,
flamma ter accensa est apicemque per aera duxit.
L'aurea Venere, che è presente in persona alla sua festa, percepisce il significato reale di questa supplica
ed ecco che la fiamma, interprete della benevolenza
della dea, tre volte si riaccende e guizza verso l'alto.
Ut rediit, simulacra suae petit ille puellae
280
incumbensque toro dedit oscula6: visa tepere est;
admovet os iterum, manibus quoque pectora temptat;
temptatum mollescit ebur positoque rigore
subsidit digitis ceditque, ut Hymettia sole
cera remollescit tractataque pollice multas
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flectitur in facies ipsoque fit utilis usu.
Dum stupet et dubie gaudet fallique veretur,
rursus amans rursusque manu sua vota retractat7;
corpus erat: saliunt temptatae pollice venae.
Il giovane resta attonito, quasi si lascia andare alla
gioia ma teme di ingannarsi: pieno d'amore torna a
toccare più e più volte l'oggetto dei suoi desideri: è
proprio un corpo vivo! Le vene pulsano sotto la pressione del pollice.
Tum vero Paphius plenissima concipit heros
290
verba, quibus Veneri grates agat, oraque tandem
ore suo non falsa premit dataque oscula virgo
sensit8 et erubuit timidumque ad lumina lumen
attollens pariter cum caelo vidit amantem.
Coniugio, quod fecit, adest dea, iamque coactis
cornibus in plenum noviens lunaribus orbem
illa Paphon genuit, de qua tenet insula nomen.
[280] Pigmalione, non appena torna a casa, si reca
dalla statua della sua fanciulla e sdraiandosi sul letto
accanto a lei, prende a baciarla: gli sembra di incontrare qualcosa di tiepido. Di nuovo accosta la bocca e
le tocca il petto con le mani: al tocco l'avorio si ammorbidisce, deponendo la sua rigidità; cede sotto le
dita come [285] la cera dell'Imetto si fa morbida al
sole e, lavorata dal pollice, assume varie forme e rende di più quanto più la si usa.
[290] Allora sì che il giovane di Pafo trabocca di gratitudine e cerca le parole per esprimerla a Ven ere! Finalmente preme le sue labbra su una bocca vera e dà
dei baci che la fanciulla sente: arrossendo ella leva
timidamente verso di lui lo sguardo e ai suoi occhi
appare contemporaneamente la visione del cielo e
quella dell’uomo che l'ama.
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[295] La dea presenzia al matrimonio di cui è stata
artefice. Dopo che per nove volte la luna ebbe congiunto le sue corna a completare il cerchio, la sposa
generò Pafo, da cui l'isola ha preso il nome.
[Trad. G. Faranda Villa]
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