Il corpo mutante. Come è essere un X-Men

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Il corpo mutante. Come è essere un X-Men
Il corpo mutante. Come è essere un X-Men
«Volete davvero sapere come ci si sente nei panni di un XMan? Basta essere un ragazzo di colore intelligente e
amante della lettura in un ghetto americano
contemporaneo. Mamma mia! Un po’ come avere due ali
di pipistrello o un paio di tentacoli che ti spuntano dal
petto»
(Junot Díaz, La breve favolosa vita di Oscar Wao)
1. Perturbanti mutanti
Stupefacenti, meravigliosi, sorprendenti (astonishing), senza limiti (unlimited) ed estremi (xtreme). Così sono stati definiti, nel corso degli anni, i mutanti membri del gruppo noto come gli XMen. Ma è con l’aggettivo uncanny – misteriosi, irreali o, come è tradizionalmente stato tradotto
nelle testate italiane, incredibili – che nel settembre del 1963 gli autori Stan Lee e Jack Kirby ci
presentano per la prima volta questa loro nuova creazione fumettistica (Uncanny X-Men, appunto).
Aggettivo che sarebbe plausibile tradurre anche con “perturbanti”, concetto il cui significato risiede
nell’esperienza di un fatto intimamente familiare che riemergerebbe dopo essere stato sottoposto a
un processo di rimozione, un residuo di attività psichica riportato alla luce. Cos’è che fa dei mutanti
un fenomeno capace di destare in noi tale sentimento? Cosa rende gli X-Men così uncanny? Quali
segrete attività e processi rimossi il leggere le loro avventure, il guardare le loro imprese, fanno
riemergere e venire alla luce dalle zone familiari e intime – eppure celate e nascoste – della nostra
psiche?
La paura? Sarebbe questo il sentimento prodotto e generato dalla presenza di queste
“meraviglie” (marvels), che non sarebbero altro che mostri che minacciano l’uomo normale,
comune, di cui mettono a rischio la vita pacifica con la loro semplice presenza e a cui non fanno che
infliggere sofferenze con le loro azioni? Senso di inferiorità o il sentirsi punti su generiche
mancanze e colpe collettive, su ciò che si potrebbe – o dovrebbe – essere ma non si è? Oppure è la
diversità, l’alternativa tra essere normali o diversi, tra il richiamo della normalità o il desiderio di
essere un mutante?
Uno dei paradossi e degli enigmi dell’essere umano è dato dal fatto fondamentale che in lui
convivano, in maniera più o meno pacifica o più o meno conflittuale, sia un forte desiderio di essere
ordinario, adeguato e perciò accettato in un gruppo, in una comunità, sia uno ad attirare
l’attenzione, distinguersi dagli altri, emergere, essere e venire riconosciuto straordinario.
Assecondare il primo impulso – assumendo il termine “normale” non come meramente descrittivo
ma come prescrittivo, come indicante un obiettivo, una linea guida, un criterio per come le cose
dovrebbero essere, e non come un indicatore di come semplicemente le cose statisticamente sono –
è più facile e comodo, accettare il secondo, invece, più eccitante ma rischioso. Essere singolare,
unico, eccezionale ed essere a parte, separato, solitario, isolato, abbandonato, senza gli altri, non
sembrano stati e condizioni così diversi, o comunque così separabili. Più che il rappresentare una
paurosa minaccia per l’umanità, più che l’esprimere un monito e un rimprovero per una non eroica
condotta di vita, l’elemento perturbante che caratterizza i mutanti sembra essere il loro dare
espressione, simbolica ma vivida, al conflitto tra normalità e individualità che è connaturato ad ogni
uomo: le storie degli X-Men possono essere ben comprese come esempi letterari delle crisi
esistenziali attraversate e affrontate da ogni individuo. L’esperienza dei mutanti è angosciosa,
assurda, una lotta senza fine, ma l’eterna fatica dei mutanti rappresenta l’infinita e senza senso
ricerca che è la vita dell’uomo in generale, rispecchia la ricerca propriamente umana di autenticità e
identità. Gli X-Men simboleggiano l’inquietante – e potenzialmente terrificante – realtà della
condizione umana.
L’uomo si può anche attribuire da se stesso una realtà e un valore autonomi, assoluti, ma la
sua certezza, in questo modo, non è ancora un sapere, potrebbe ancora essere illusoria, falsa, folle.
Occorre che tale valore sia rivelato come una realtà oggettiva, esterna all’io stesso, e quindi l’uomo
deve imporre l’idea che si fa di sé ad altri da sé, deve farsi riconoscere dagli altri. Questa azione
volta a soddisfare il desiderio di riconoscimento è la prima attività antropogena, che dà origine
all’uomo in quanto uomo e non semplice animale, essere biologico, dato naturale.
2. Darsi uno stile che spacca
Il mutante è soprattutto l’immagine dell’esistenziale lotta umana, tutta umana, per il
soddisfacimento del desiderio di riconoscimento, per la ricerca di un’autentica identità, fattori che
determinano e caratterizzano l’essere umano come costantemente in divenire, come mutante,
appunto. E se c’è un momento della mutante vita umana che essi in particolare incarnano e
rappresentano è l’adolescenza.
La trasformazione, la mutazione, non sono però caratteristiche esclusivamente
dell’adolescente, ma umane in senso generale. Solo come suo proprio desiderio l’uomo si
costituisce e si rivela, tanto a sé quanto agli altri, come un io propriamente umano e non meramente
biologico e naturale. Quest’essere che si “nutre” di desideri che l’uomo è, crea se stesso proprio
nella e dalla soddisfazione del suo desiderio, e si realizza, quindi, solo in quanto azione negatrice e
trasformatrice del dato, in vista del desiderio da soddisfare. L’essere dell’uomo è, allora,
essenzialmente azione, risultato del proprio stesso operare, e la sua esistenza significa
sostanzialmente divenire ciò che non è, mutare mediante la negazione di ciò che è stato.
Ma i sentimenti di solitudine, disperazione, incertezza, sofferenza, i risultati maldestri,
imperfetti, indecisi di queste auto-trasformazioni e auto-creazioni, sembrano mettere in dubbio la
sovrana sicurezza decisionale e il controllato aspetto teorico e pratico dell’azione messi in atto dal
soggetto hegelianamente inteso. Adolescenti e mutanti mettono in scena l’immagine di un soggetto
più che altro sconosciuto anche a se stesso, dotato di un quadro e una visione assai imprecisi e
incompleti di ciò che costituisce il proprio essere. In questo soggetto l’aspetto pienamente
cosciente, conoscibile, decidibile, calcolabile, rappresenta solo una parte dell’esistente, mentre ciò
che è più profondo ed essenziale rimane oscuro, intenso e denso. Sembra rappresentato, più che
altro, l’io problematico – e niente affatto ottimisticamente idealistico – e decostruito di uomini
sconosciuti a se stessi, l’io non accessibile e non scrutato fino in fondo.
La conoscenza di sé, per quanto possa essere fatta progredire, rimarrà sempre incompleta,
solo grossolana e approssimativa: non si potrà mai contare e calcolare il numero degli istinti e degli
impulsi che costituiscono i fili della tela di cui il sé è intessuto e intrecciato, non se ne potranno mai
misurare la forza, valutare i flussi e i riflussi, valutare e paragonare i continui andirivieni, gli alterni
allacci e scioglimenti, conoscere le leggi del nutrimento. Le incalcolabili fami del nostro sé vanno al
di là di ogni possibilità razionale e conoscitiva, e vengono appagate e nutrite solamente dal caso,
dagli eventi che ci occorrono e che gettano una preda ora a quello ora a quell’altro avido e affamato
istinto. Voracemente i tentacoli dei più intimi e sconosciuti istinti si nutrono e crescono,
sviluppando il sé come un mutante polipo casuale e in costante divenire. I sogni, fino a un certo
grado, forniscono una compensazione di queste fami istintuali, interpretandone in maniera
sfrenatamente e poeticamente libera i desideri e i bisogni di nutrimento. Ma anche tutta la nostra
esistenza vigile non è poi assai dissimile da questa funzione di appagamento, compensazione,
nutrimento: la cosiddetta coscienza, il cosiddetto io, sono, in fondo, un commento più o meno
fantastico – anche se meno libero, sfrenato e poetico rispetto ai sogni – di un testo inconscio e,
forse, inconoscibile, scritto in un alfabeto che erriamo a leggere, e che tuttavia sentiamo
profondamente e fortemente, che è il nostro sé.
Lo sconosciuto polipo mostruoso e mutante e la spietata, avida, insaziabile e inquietante
tigre sul cui dorso cavalchiamo e di cui solo caoticamente nutriamo le bramose fami – che sono il sé
proprio dell’uomo – si agitano continuamente per loro propria costituzione. Sulla base di questa
instabile, mutevole, rischiosa condizione umana, una cosa sola, è necessaria: un’arte grande e rara
spetta all’uomo che voglia provare a cavalcare l’avida e feroce tigre sul cui dorso è sospeso il
proprio essere, a nutrire e far crescere in maniera appagante e non casuale i voraci tentacoli che si
intrecciano nel proprio intimo. Egli deve imparare a conoscere e abbracciare, almeno il più
possibile, tutti i fili, forti e deboli, che costituiscono il tessuto del suo essere, e inserirli nella trama
di un piano artistico, affinché ognuno di essi – e con ciò l’esistenza stessa nel suo complesso –
acquisti un senso, un significato, una giustificazione estetica. Esercizio costante, lavoro quotidiano,
costrizione e disciplina sono necessari per dominare il proprio essere e sperimentarlo, plasmarlo e
scolpirlo in una composizione poetica, artistica e assolutamente singolare. Dare uno stile, un gusto,
una marca, una firma al proprio sé è il solo modo di appagarlo, di nutrirlo e farlo crescere, di
rendere il proprio costante divenire e mutare una auto-trasformazione e auto-creazione, inventando
poeticamente il proprio ethos. Cucirsi un costume sembrerebbe una metafora perfetta di questo
lavoro trasformativo dei fili, delle fibre e dei tessuti del proprio essere in un’opera dallo stile unico,
personale e autentico.
3. In segreto trema l’identità dell’io
Le vicende dei mutanti ci insegnano che la questione della costituzione del soggetto non si
arresta ad una lotta a morte in cui un trionfo conserva in sé le tracce di una battaglia o una vittoria
viene strappata nel corso di una guerra tra due avversari al fondo inseparabili per cui di tale guerra
conserva la memoria. La vera questione del soggetto non è nell’autonomia e nella libertà, quanto
piuttosto nell’eteronomia del ciò mi (ri)guarda anche laddove io non vedo niente, non so niente, non
ho l’iniziativa, laddove non ho l’iniziativa su ciò che mi ingiunge di prendere delle decisioni – che
nondimeno saranno le mie, e che dovrò assumermi da solo.
Decostruire il fantasma della sovranità del soggetto, significa aprire la possibilità di pensare
in maniera diversa il sé. L’io è una pausa, una stasi nella stanza del tè, è il perenne mutamento che
ritorna su se stesso, è ospitalità incondizionata all’altro da sé. L’io trema, si ritorce, si squarcia,
affetto da un fattore di mutazione che non è assoluta, libera, sovrana, autonoma, ma piuttosto
eteronoma, guidata e diretta come da un gene X, da una “cosa” se non sconosciuta certo mal
conosciuta dal cosiddetto io. L’uomo sarebbe, quindi, l’essere più perturbante, «il più unheimlich».
Il sé dell’uomo sarebbe, dunque, un eterno adolescente in divenire, un polimorfo mutante,
per lo più mal conosciuto tanto agli altri quanto a se stesso, che tenta e sperimenta un proprio stile
per giustificare e dare un senso alla propria esistenza. Ed è questa inquietante e incredibile
condizione umana che in qualche modo le vicende degli X-Men e dei mutanti Marvel in generale
mettono in scena nelle loro storie a fumetti. Con i mutanti viene chiaramente alla luce – perché
rappresentato in maniera estrema, superlativa, emblematica, enfatica – l’altrimenti indicibile e
impensabile ma intimo e familiare segreto della natura umana: il suo elemento instabile e
spaventoso – come un proliferante polipo o una famelica tigre –, generalmente rimosso e quindi
inconsapevole per la limpida e chiara coscienza ma in realtà ben impiantato nella psiche, torna, si
(ri)presenta e rappresenta come un inquietante ed estraneo altro nelle tavole disegnate e nelle storie
raccontate dei mutanti. Il sentimento che questi inducono a provare è, appunto, quello del
perturbante. Ecco perché, credo, i mutanti sono perturbanti – gli X-Men così uncanny – e la lettura
dei loro fumetti un’esperienza così profondamente e incredibilmente filosofica.