Sigmund Freud, Il perturbante

Transcript

Sigmund Freud, Il perturbante
Sigmund Freud, Il perturbante
Perturbante […] si riallaccia indubbiamente a ciò che è spaventoso, che suscita terrore e orrore;
tende a coincidere con ciò che genericamente suscita paura. […] Il perturbante rientra in un genere
di spavento che si riferisce a cose da lungo tempo conosciute e familiari. […] In generale vediamo
che la parola heimlich non è priva di ambiguità, appartenendo a due ordini di idee che, anche se
non contraddittorie, sono tuttavia assai diverse: da una parte ciò che è familiare e piacevole e,
dall’altra, ciò che è nascosto e tenuto celato. […] È unheimlich tutto ciò che doveva rimanere
segreto ma è venuto alla luce. […] L’elemento spaventoso è costituito da qualcosa di rimosso che
si ripresenta. […] Questo elemento perturbante non è in realtà nulla di nuovo o estraneo, ma un
elemento ben noto e impiantato da lungo tempo nella psiche, che solo il processo di rimozione
poteva rendere estraneo.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello Spirito
La presentazione di sé […] consiste nel mostrarsi come negazione pura della propria modalità
oggettiva, cioè nel mostrare di non essere legato a nessuna esistenza determinata, […] in altre
parole: consiste nel dimostrare di non tenere alla vita. […]
Questa presentazione è un fare duplicato: fare dell’altro e fare da se stesso. Nella misura in cui si
tratta del fare dell’altro, ciascuno tende dunque alla morte dell’altro. Ma in ciò è già dato anche il
secondo fare, il fare da se stesso, in quanto il fare dell’altro comporta la messa a rischio della
propria vita. Il rapporto tra le due autocoscienze, dunque, si determina come un dar prova di sé, a
se stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e la morte.
La necessità di questa lotta risiede nel fatto che ciascuna autocoscienza deve elevare a verità,
nell’altra e in se stessa, la propria certezza di essere per sé. Ed è soltanto rischiando la vita che si
mette alla prova la libertà. […]
Tale coscienza [servile] ha avuto paura della morte. […] In questa angoscia la coscienza è stata
intimamente dissolta, ha tremato fin nel suo più remoto recesso, e tutto quanto c’era in essa di fisso
è stato scosso. […] Questo assoluto divenire-fluida di ogni sussistenza, però, è appunto l’essenza
semplice dell’autocoscienza.
Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel
Solo nel e mediante, o meglio ancora, come, “suo” Desiderio, l’uomo si costituisce e si rivela – a
sé e agli altri – come un Io. […] Quest’Io che si “nutre” di Desideri sarà anch’esso nel suo stesso
essere Desiderio, creato nella e dalla soddisfazione del suo Desiderio. E, dal momento che il
Desiderio si realizza in quanto azione negatrice del dato, l’essere di questo Io sarà azione. Per
quest’Io il mantenimento dell’esistenza significherà: “non essere ciò che è (in quanto essere statico
e dato, in quanto essere naturale, in quanto ‘carattere innato’) ed essere (ossia divenire) ciò che non
è”. Quest’Io sarà così la sua propria opera: sarà ciò che è diventato mediante la negazione di ciò
che è stato. […]
Il Desiderio umano deve prevalere sul Desiderio di conservazione. Detto altrimenti, l’uomo
“risulta” umano solo se rischia la propria vita (animale) in funzione del suo Desiderio umano. Ecco
perché parlare dell’”origine” dell’Autocoscienza significa necessariamente parlare del rischio della
vita (in vista di un fine essenzialmente non-vitale).
Natsume Sōseki, Io sono un gatto
Se fosse nella loro natura contentarsi dell’uguaglianza, dovrebbero essere soddisfatti di crescere e
invecchiare nudi. Ma un giorno uno di questi uomini nudi probabilmente si è detto: visto che siamo
tutti uguali, qual è l’utilità dello studio? Che risultato danno lo sforzo e la fatica? In qualche modo
vorrei distinguermi dalla massa, vorrei essere unico e inconfondibile. Dovrei indossare qualcosa
che stupisca tutti. Dopo aver riflettuto una decina d’anni per trovare quel che faceva al caso suo, il
nostro uomo inventò finalmente delle corte braghe, se le infilò immediatamente e se ne andò in
giro pavoneggiandosi e cercando di intimidire la gente.
Jonathan Lethem ne La fortezza della solitudine
Non incontrò mai nessuno che non fosse sul punto di trasformarsi in qualcun altro. Era una sua
specialità incontrare persone pronte a disfarsi di un’identità o di un travestimento per assumerne un
altro.
Sono liberi dalla pagina ‘colora-secondo-i-numeri’ dei loro giorni di scuola, dai loro ruoli
prestabiliti di carnefici o vittime, pronti per un’estate incontaminata, quel terreno invitante per
crogiolarsi nell’autotrasformazione. Chissà come finirà, a che cosa assomiglieranno quando sarà
finità? Dylan sa solo che è in preda alla vertigine, sciolto, in volo.
L’adolescenza era innanzitutto un’identità segreta. A tredici anni si cominciava a lasciare tracce,
nomi arcani e segni proliferanti, lenzuola che ti ostinavi a volerti lavare da solo. Come una rotella
dello Spirograph, la tua traiettoria incerta combinava casini. Aeroman era una via più audace, solo
che sembrava restio a uscire dal guscio di felpa.
Non hai ancora un tag, tu? Inventatene uno. […] I fumetti Marvel avevano ragione, il mondo era
fatto di nomi segreti, tu dovevi solo scoprire il tuo.
Dylan, il ragazzino volante. Si sarebbe cucito un costume e sarebbe andato sui tetti, per piombare
addosso al crimine. […] Per quel giorno la cosa doveva essere camuffata: la Scoperta del Volo,
proprio sotto il loro naso. Al suo balzo inaugurale, però, lui sentiva già amore e simpatia per tutti
mentre nuotava nell’aria, il suo orizzonte riorganizzato.
Il mantello, ritagliato da un logoro lenzuolo del Dr. Seuss con il leone che lecca un lecca-lecca al
limone, era attaccato in due punti del collo della maglietta celeste che formava il corpo del
costume. Dylan aveva fatto in modo di collocare il leone, logo adeguatamente enigmatico, quanto
più possibile al centro del mantello. Le maniche della maglietta le aveva prolungate con le gambe a
strisce sgargianti tagliate da un paio di pantaloni a zampa abbandonati da sua madre, trafugati dalla
cima del mucchio sul fondo del suo armadio dove solo Dylan era mai andato a guardare.
Pendevano maestose, le mani di Dylan che sbucavano tra le frange di fili come il batacchio di una
campana. Era poco pratico, ma quello era solo un prototipo. Un pezzo da esposizione. Il petto della
maglietta l’aveva teso su un cartone e decorato con lo Spirograph, le punte arrugginite, le ruote
recalcitranti, un lavoro maldestro dagli esiti imperfetti. L’emblema era un cerchio oscillato, la
traiettoria sempre più ampia di un atomo tracciata un migliaio di volte nello spazio a formare fasci
di energia. Da una qualche distanza, però, sfumava in uno zero un po’ ciccione.
Friedrich Nietzsche, Aurora
fr. 115. Il cosiddetto «io». – Il linguaggio e i pregiudizi, su cui è edificato il linguaggio stesso, ci
sono, in molteplici modi, di impedimento alla penetrazione di intimi procedimenti ed istinti; per il
fatto, ad esempio, che propriamente esistono parole soltanto per i gradi superlativi di questi
processi ed istinti: ma noi ora abbiamo preso l’abitudine, laddove ci fanno difetto le parole, a non
dirigervi più la nostra minuziosa osservazione, giacché è penoso spingere ancora fino a quel punto
il nostro preciso pensiero; anzi, un tempo, si concludeva automaticamente, che laddove cessa il
regno delle parole cessa anche il regno dell’esistenza. Ira, odio, amore, compassione, bramosia,
conoscimento, gioia, dolore – sono tutti nomi che indicano stati estremi: i gradi intermedi più
temperati e perfino quelli inferiori, che sono continuamente in giuoco, ci sfuggono, e tuttavia sono
proprio questi ad intessere la tela del nostro carattere e del nostro destino. Quelle manifestazioni
estreme […] molto spesso lacerano la tela e sono allora brutali eccezioni, dovute, il più delle volte,
a stati d’accumulo. E quanto possono, come tali, ingannare l’osservatore! Non certo meno di
quanto ingannino l’uomo che agisce. Ciò che sembriamo essere, secondo gli stati per i quali
soltanto abbiamo coscienza e parole, – e quindi lode e biasimo, – nessuno di noi lo è; stando a
queste grossolane manifestazioni, che sono le sole a farsi conoscere, noi mal ci conosciamo,
ricaviamo una conclusione da un materiale in cui le eccezioni prevalgono sulla regola, erriamo nel
leggere questa scrittura alfabetica del nostro sé apparentemente chiarissima.
fr. 119. Esperienza vissuta e finzione poetica. – Per quanto uno faccia progredire la sua
conoscenza di sé, nessuna cosa potrà mai essere più incompleta del quadro di tutti quanti gli istinti
che costituiscono la sua natura. Difficilmente potrà dare un nome ai più grossolani di essi: il loro
numero e la loro forza, il loro flusso e riflusso, il giuoco alterno dell’uno con l’altro e soprattutto le
leggi del loro nutrimento gli resteranno del tutto sconosciuti. Questo nutrimento diventa dunque
un’opera del caso; i nostri intimi eventi d’ogni giorno gettano ora a questo, ora a quell’istinto una
preda che viene subito avidamente afferrata, ma l’intero andirivieni di queste vicende sta al di fuori
di ogni nesso razionale con le esigenze nutritive di tutti quanti gli istinti. […] Ogni momento della
nostra vita fa crescere alcuni tentacoli del nostro essere ed altri invece li atrofizza. […] E in
conseguenza di questo casuale nutrimento delle parti, anche il polipo interamente sviluppatosi sarà
qualcosa di altrettanto casuale, come lo è il suo divenire. […] Il significato e il valore dei nostri
sogni è proprio quello di compensare – fino a un certo grado – quella casuale mancanza di
“nutrimento” durante il giorno.[…] La vita allo stato di veglia non ha questa libertà
d’interpretazione come quella del sogno, è meno poetica e sfrenata – tuttavia non dovrò forse
concludere […] che tra veglia e sogno non v’è sostanzialmente alcuna differenza? […] che tutta la
nostra cosiddetta coscienza è un più o meno fantastico commento di un testo inconscio, forse
inconoscibile, e tuttavia sentito?
Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale
In senso proprio, che cosa sa l’uomo su se stesso? Forse che, una volta tanto, egli sarebbe
capace di percepire compiutamente se stesso, quasi si trovasse posto in una vetrina
illuminata? Forse che la natura non gli nasconde quasi tutto, persino riguardo al suo corpo,
per confinarlo e racchiuderlo in un’orgogliosa e fantasmagorica coscienza, lontana
dall’intreccio delle sue viscere, dal rapido flusso del suo sangue, dai complicati fremiti delle
sue fibre? La natura ha gettato via la chiave, e guai alla fatale curiosità che una volta riesca a
guardare attraverso una fessura della cella della coscienza, in fuori e in basso, e che un giorno
abbia il presentimento che l’uomo sta sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido,
insaziabile e, per così dire, sul dorso di una tigre.
Friedrich Nietzsche, La gaia scienza
fr. 290. Una cosa sola è necessaria. – ”Dare uno stile” al proprio carattere – è un’arte grande e
rara! L’esercita colui che abbraccia con lo sguardo tutto quanto offre la sua natura in fatto
d’energie e debolezze, e che inserisce quindi tutto questo in un piano artistico, finché ogni cosa
non appare come arte e ragione, e perfino la debolezza incanta l’occhio. Qui si è aggiunta una gran
quantità di natura secondaria, là si è eliminato un frammento di natura primaria: in tutti e due i
casi, con un lungo esercizio e un lavoro quotidiano. […] Infine, quando l’opera è compiuta, si
rivela che fu la costrizione imposta da uno stesso gusto a dominare e a plasmare nel grande come
nel piccolo. […] Saranno le nature forti e dominatrici a godere la loro gioia più sottile in tale
costrizione, in tale vincolata disciplina. […] Una cosa sola, infatti, è necessaria: che l’uomo
raggiunga l’appagamento di sé – sia con questa, sia con quella composizione poetica e artistica;
soltanto allora l’uomo è tollerabile a vedersi!
Jacques Derrida, Politiche dell’amicizia
Quale parola greca potrebbe tradurre unheimlich, uncanny? Perché non átopos? Fuori luogo o
senza luogo? Senza famiglia né familiarità, fuori di sé, espatriato, straordinario, stravagante,
assurdo o folle, insolito, sconveniente, strano ma anche straniero.
Jacques Derrida, La Bestia e il Sovrano. Volume I
Qualcosa che ci espelle dall’Heimliche, dalla tranquillità rassicurante del domestico. […] Il
proprio dell’uomo sarebbe insomma quel modo di non essere a casa propria con sicurezza
(heimisch), fosse anche presso di sé nel senso della propria essenza.
Jacques Derrida, La Bestia e il Sovrano. Volume II
La solitudine allontana dagli altri? Cosa dico quando dico «sono solo»? Ciò mi allontana o mi
avvicina all’altro o agli altri? Dirsi «il solo» avvicina o allontana? […] Avvicina o allontana l’altro
nel mondo? Ciò forma o distrugge il legame sociale? […]
Non è un caso che due sensi così diversi come «sono solo» (nel senso della solitudine) e «sono il
solo», nel senso dell’eccezione, della singolarità, dell’unicità, dell’elezione e dell’insostituibile
(che d’altro canto sono spesso le caratteristiche della sovranità) alloggiano qui nello stesso
termine. […] Non ci sono talvolta nella stessa persona, nello stesso desiderio, una torbida
concorrenza e strana simultaneità, quanto all’insularità dell’isola, tra l’attrazione e l’avversione, tra
l’insularofilia e l’insularofobia?
L’altro, gli altri, sono proprio coloro che possono sempre morire dopo di me, sopravvivermi
e disporre così di ciò che resta di me, dei miei resti. […] L’altro è, gli altri sono coloro
davanti ai quali sono disarmato, indifeso, l’altro è colui che potrebbe sempre, un giorno, fare
di me e dei miei resti qualcosa, una cosa, cosa sua, qualsiasi siano il rispetto e la pompa, per
vocazione funebre, con i quali tratterà questa singolare cosa chiamata i miei resti. L’altro mi
appare come altro in quanto tale, in quanto colui, colei o coloro che possono sopravvivermi,
sopravvivere al mio decesso e procedere come vogliono, sovranamente, e sovranamente
disporre dell’avvenire dei miei resti, se ce ne sono.