If V - Note

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If V - Note
1. Così...: cfr. il finale del canto precedente e relativa n. ai
vv. 150-151.
4. Minòs: personaggio della mitologia greca, re e legislatore
di Creta, marito di Pasifae che da un toro sacro generò il
Minotauro, mostro mezzo uomo e mezzo toro rinchiuso da
Minosse nel labirinto costruito da Dedalo; al Minotauro
venivano sacrificati annualmente dieci giovinetti ateniesi, finché
l’eroe ateniese Teseo non uccise il Minotauro riuscendo a
evadere dal labirinto con l’aiuto di Arianna, figlia di Minosse e
di Pasifae. Di questo notissimo ciclo mitologico, che
comprendeva anche la fuga a volo dal labirinto e la caduta di
Icaro, figlio di Dedalo, Dante era informato principalmente dalle
Metamorfosi di Ovidio (VII 456-516 e VIII 1-263), come
dimostrano sparsi riferimenti (If XVII 109-111, XXIX 116, Pd
VIII 125-126, XII 14) nonché il riuso del Minotauro come
custode del VII cerchio infernale dei violenti (If XII 11-30).
Che Minosse fosse giudice dell’aldilà Dante lo desume dal VI
libro dell’Eneide, dal quale, come abbiamo visto ampiamente
nel c. IV, egli è molto influenzato in questa prima parte
dell’Inferno: «Nec vero hae sine sorte datae, sine iudice sedes. /
Quaesitor Minos urnam movet: ille silentum / Conciliumque
vocat vitasque et crimina discit» (‘ Ma non queste sedi son date
senza un giudizio o una sorte. / Inquisitore è Minosse, e scuote
l’urna: di muti / egli aduna un concilio, le colpe indaga e le vite’,
vv. 431-433). Dalla stessa fonte (Eneide VI 295-332 e 384416) Dante aveva desunto la figura di Caronte, il traghettatore
delle anime al di là dell’Acheronte (If III 70-136). In entrambi i
casi, come in tutti gli altri casi di riuso da parte di Dante di
figure della mitologia pagana in funzione di demoni (Cerbero,
Plutone, le Furie, ecc.), si pone un problema di coerenza
teologica. I demoni, infatti, nel sistema accettato da Dante, sono
gli angeli ribelli, caduti con il loro capo Lucifero e condannati
da Dio a occupare l’Inferno, il luogo creato dal principio
(«Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne», If III 78) per loro. Dunque anche Caronte e Minosse e gli altri non
possono essere se non angeli ribelli; il che non quadra,
apparentemente, con le corrispettive figure virgiliane. Ma in
realtà il racconto di Virgilio e quello di Dante sono coerenti,
nell’ottica di quest’ultimo: infatti Enea, nella sua discesa agli
Inferi, che è avvenuta realmente («... ad immortale / secolo
andò, e fu sensibilmente», If II 14-15), ha visto là Caronte e
Minosse, senza sapere che erano demoni; né poteva saperlo
Virgilio che ha narrato quella discesa, perché era anche lui
chiuso dentro i limiti conoscitivi della cultura pagana (cfr. ED,
s.v. demonologia). Dante rivede ora Caronte e Minosse al loro
posto, ma sa che sono demoni. Mostrando questa conoscenza
nitida al posto della confusa visione pagana, Dante mette sùbito
avanti la superiorità del proprio poema cristiano sul poema
pagano del suo maestro e autore: «Caron dimonio...» (If III
109).
5-6. essamina... giudica... manda: i tre verbi sintetizzano i
tre momenti del giudizio, sviluppati poi nelle due terzine
successive: la confessione e inquisizione delle colpe (vv. 7-8), la
sentenza (vv. 9-10), la destinazione al luogo di pena
appropriato (vv. 11-12); i tre momenti sono poi di nuovo
riassunti, dal punto di vista delle anime, nel v. 15: «dicono e
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odono e poi son giù volte». Nel Minosse dantesco sembrano
qui confluire anche tratti del Radamanto virgiliano, il fratello di
Minosse signore del Tartaro (l’Ade virgiliano comprende i
Campi Elisi, sede dei buoni, e il Tartaro, sede dei malvagi, il
tutto sottoterra): «Gnosius haec Rhadamanthus habet durissima
regna / Castigatque auditque dolos subigitque fateri / Quae...
piacula..., ecc.» (‘Radamanto di Cnosso ha questo regno
spietato, / punisce e ascolta i raggiri, e costringe a svelare / le
colpe che... ecc.’, Eneide VI 566-567). Forse Dante identificava
erroneamente i due fratelli di Cnosso, considerando Radamanto
un epiteto di Minosse; questo spiegherebbe perché egli abbia
fatto di Minosse il giudice dei dannati, ruolo che in Virgilio è di
Radamanto, mentre Minosse, più a monte, è giudice di tutti i
morti, sia dei dannati che dei beati destinati ai Campi Elisi.
11-12. cignesi... messa: l’invenzione della coda è dantesca
(sull’esatto valore del suo movimento v. la n. ling-filol. 11-12);
insieme con l’aspetto orripilante e il ringhio (v. 4) contribuisce a
quella degradazione grottesca del mitico giudice virgiliano che
corrisponde appunto (v. la n. 5-6 qui sopra) alla
demistificazione della sua natura demoniaca.
16-20. «O tu... l’intrare»: come già aveva fatto Caronte (If
III 87-93), Minosse diffida Dante dal proseguire il viaggio
cercando d’intimorirlo. La ragione è che questi demoni temono
l’effetto benefico che uscirà dalla missione di Dante, il
messaggio provvidenziale che egli ne diffonderà agli uomini.
21-24. «Perché... dimandare»: Virgilio ripete le identiche
parole con cui già ha zittito Caronte (If III 94-96): enunciare
che il viaggio è voluto da Dio (indicato come al solito con una
perifrasi, per non nominare il Suo nome all’Inferno) ha il potere
di bloccare le velleità dei demoni di contrastarlo.
28. Io... muto: riprende If IV 151 «E vegno in parte ove
non è che luca», applicandovi la stessa sinestesia (cfr. Q.16) già
usata in If I 60 «dove ’l sol tace».
34. davanti a la ruina: non è chiaro che cosa sia; forse uno
scoscendimento provocato, come quelli di cui a XII 31-45 e
XXI 112-114, dal terremoto avvenuto alla morte di Cristo. Se
fosse vero che è direttamente Minosse a scagliare giù le anime,
com’è suggerito nella nota ling.-filol. 11-12, il lancio potrebbe
avvenire attraverso questa fenditura. Si giustificherebbe in
questo caso l’incremento di lamenti e bestemmie, ogni volta che
le anime ripassano davanti al punto dove hanno udito e subito la
propria condanna.
42-45. così... pena: questa prima similitudine con uccelli
serve a dare come prima percezione quella di un volo caotico e
quasi impazzito che gremisce il cielo, percezione rafforzata
dall’opposizione «l’ali» / «il fiato», che evidenzia come le
anime, a differenza degli storni, sono fatte volare da una forza
estrinseca: è in questa immagine rappresentato l’intero insieme
dei «peccator carnali» (v. 38), sbattuti qui dalla tempesta - per
contrappasso (cfr. Q.2) - come lo sono stati in vita dalla
passione irrazionale (il «talento» prevaricante sulla «ragion», v.
39).
46-49. E come... briga: questa seconda similitudine con
uccelli verte, oltre che sui lamenti (stretti dalla rima «lai» :
«guai»), sulla figura disegnata in aria dallo stormo. Il volare in
fila indiana era un comportamento riconosciuto caratteristico
delle gru (cfr. Isidoro, Etymologie XII VII 14 e Brunetto Latini,
Tesoro I V 27: «Grue... sempre vanno l’uno dietro l’altro»), e
serve a Dante per isolare, entro l’insieme caotico di cui alla
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similitudine precedente, una linea di anime nominabili, che
Virgilio infatti elenca una per una: «La prima...» (v. 52),
«L’altra...» (cioè ’la seconda’, v. 61), ecc. Si tratta, come
conclusivamente rivela il v. 69, di anime che per amore hanno
avuto morte violenta. Anche nell’Ade virgiliano, in prossimità di
Minosse, stavano i «Lugentes campi» (i ’Campi del Pianto’),
luogo dei morti per amore: «Hic quos durus amor crudeli tabe
peredit / Secreti celant calles et myrtea circum / Silva tegit:
curae non ipsa in morte relinquont» (‘Qui quanti duro consunse
con ansie struggenti l’amore, / sentieri appartati proteggono, e
intorno una selva di mirti / li copre: però non li lascia neppur
nella morte l’affanno’, Eneide VI 441-444). Mi sembra evidente
che i lamenti («traendo guai») che caratterizzano questa fila di
anime derivano dal “lugere” che caratterizza i corrispondenti
Campi virgiliani. Come il volo caotico, a tutto campo,
dell’insieme dei peccatori carnali si è specificato in questa linea
retta, così il rumore della tempesta e delle strida si è composto
in questo lamento modulato: un passaggio dall’informe al
formale in corrispondenza dell’uscita di queste anime
dall’anonimato. Che la parola prescelta sia precisamente il
tecnicismo letterario francese lai è elemento importante della
significazione: cfr. la n. ling.-filol. 46.
54-60. La prima... corregge: Semiramide, moglie del
fondatore dell’impero assiro-babilonese Nino e poi lei stessa
imperatrice (XIV sec. a.C.). La fonte di Dante, nella quale
appunto «si legge / che succedette a Nino e fu sua sposa» è
Paolo Orosio, Storie contro i Pagani, I IV 4-8: «Nino mortuo
Semiramis uxor successit» (‘Alla morte di Nino gli successe la
moglie Semiramide’). Il delitto che dichiarò lecito, avendolo lei
stessa compiuto, è l’incesto: «filio... inceste cognito, privatam
ignominiam publico scelere obtexit. Praecepit enim ut inter
parentes et filios, nulla delata reverentia naturae, de coniugiis
adpetendis quod cuique libitum esset, licitum fieret» (‘avendo...
incestuosamente conosciuto il figlio, coprì la sua privata
ignominia con una nefandezza pubblica. Prescrisse infatti che tra
genitori e figli, senza alcun rispetto per la natura, ciò che a
ciascuno piacesse, quanto al desiderare rapporti sessuali, fosse
lecito’, ivi): da cui la clausola tradotta alla lettera da Dante.
Non è chiaro da quale fonte Dante abbia desunto che
Semiramide finisse uccisa. Che fosse «imperadrice di molte
favelle» dipende dal carattere multietnico dell’impero assirobabilonese; ma forse risente anche dell’identificazione di
Babilonia con la Babele della confusione delle lingue (cfr. De
vulgari eloquentia, I VII 4-8); mentre il riferimento al Soldano
sembra presupporre una confusione tra l’antica Babilonia assira
e la Babilonia egizia.
61-62. L’altra... Sicheo: Didone, l’eroina virgiliana vedova
di Sicheo che per amore tentò invano di trattenere Enea a
Cartagine, ostacolando la sua missione fatale in Italia, e,
abbandonata, si suicidò. Nei Campi del Pianto, il suo incontro
con Enea aveva lo spazio maggiore (En. VI 450-475). Qui
Dante la liquida in due versi biasimandola per l’infedeltà a
Sicheo (con parole che riprendono letteralmente la
dichiarazione della stessa Didone in En. IV 552: «Non servata
fides cineri promissa Sichaeo», ’Non ho servato la fede
promessa al cenere di Sicheo’), come ribadirà in Pd IX 97-98:
«... arse la figlia di Belo / noiando a Sicheo e a Creusa» (‘... arse
d’amore Didone / recando con ciò offesa a Sicheo e a Creusa’
[la moglie morta di Enea]). Didone è svalutata anche in
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Convivio IV XXVI 8, dove sta allegoricamente per il «piacere» e
la «dilettazione» erotiche dell’età giovanile, abbandonate nella
maturità «per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa». In
Monarchia II III 15, invece, viene presentata come seconda
moglie di Enea, legittima al pari di Creusa e Lavinia se può
apportargli anche lei una quota di nobiltà.
63. Cleopatràs: Regina d’Egitto, amante prima di Cesare
poi di Antonio, assieme al quale intendeva costituire una
monarchia orientale contrapposta a Roma; dopo che questi,
sconfitto da Ottaviano ad Azio nel 31 a.C., si suicidò, si fece
mordere da un serpente velenoso: cfr. «Piangene ancora la trista
Cleopatra, / che, fuggendoli innanzi [cioè fuggendo di fronte
all’avanzata dell’aquila imperiale portata da Ottaviano], dal
colubro / prese la morte subitana e atra» (Pd VI 76-78). Questo
riscontro manifesta perché Didone e Cleopatra vengono
appaiate nella stessa terzina: perché entrambe hanno coi loro
amori intralciato la storia provvidenziale dell’Impero.
64. Elena: moglie di Menelao, fuggita con Paride da Sparta
per Troia, era stata la causa della decennale guerra di Troia
(«tanto reo tempo...»). Nel nostro VI dell’Eneide, vv. 515-527,
Deifobo narra che Elena aiutò Menelao nella presa di Troia, ma
Virgilio non la pone tra gli uccisi per amore. Dante avrà
supposto che venisse uccisa durante la distruzione di Troia.
65. Achille: la notizia che la sua uccisione in agguato da
parte di Paride (narrata anche in Metamorfosi XII 584-611)
fosse collegata al suo innamoramento per la sorella di lui
Polissena, risale a Servio, Commento all’Eneide, III 321.
67. Parìs: figlio di Priamo, rapitore di Elena e uccisore di
Achille (per questo elencato in sequenza con l’una e l’altro), fu
a sua volta ucciso da Filottete a causa del suo amore per Enone.
67. Tristano: l’ultimo ucciso per amore non appartiene alla
mitologia pagana ma ai romanzi arturiani, le «Arturi regis
ambages pulcerrime» (‘le bellissime avventure del re Artù’, De
vulgari eloquentia, I X 2) con cui Dante, direttamente o
indirettamente, aveva familiarità. Nel Tristano francese in versi
della fine del XII sec., o nella compilazione in prosa redatta
intorno al 1230, o in un volgarizzamento italiano, Dante poteva
leggere la famosa storia del cavaliere Tristano, nipote prediletto
del re Marco di Cornovaglia, che innamoratosi della giovane
moglie di lui Isotta viene infine da questi ucciso.
L’accoppiamento di Paride e Tristano, come di Elena ed Isotta
-segno del ’pan-cronismo’ medievale, dello schiacciamento
sullo stesso piano di vicende mitologiche, leggendarie e
storiche, antiche e moderne - si ritrova in altri autori medievali
europei (cfr. ED, IV, p. 305; e v. sotto la n. 71). Nel séguito del
canto la storia di Tristano si rifrangerà in quella di Lancillotto, e
in definitiva in quella di Paola e Francesco (v. n. ai vv. 127129).
52-69. La prima... dipartille: i sette personaggi qui elencati
(Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride,
Tristano), più Paolo e Francesca di cui sotto, danno il numero
di 9: probabilmente non casuale, data l’attenzione numerologica
di Dante (illustrata in Q.3): vi si è visto un «simbolo
antitrinitario» e una «allusiva antitesi... della Beatrice-nove della
Vita nuova» (ED V, pp. 151-152; e cfr. sotto la n. 100-108).
71. le donne antiche e ’ cavalieri: questa espressione è
emblematica di come la civiltà medievale assimilava la civiltà
pagana antica a sé stessa: gli eroi greco-latini diventano
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«cavalieri», Paride e Tristano (v. 67) vanno in coppia: cfr. qui la
n. 67 e la n. a If XXVI 79-84.
74. quei due che ’nsieme vanno: questo è un
comportamento unico, che Dante ha voluto far risaltare, entro
la «lunga riga» di anime di cui i due fanno parte (cfr. v. 48 e
nota): e come la figura generale dello stormo in fila indiana è
definita con la similitudine delle gru, così l’eccezione
rappresentata da Paolo e Francesca in coppia sarà definita con
la similitudine delle colombe (vv. 82-87). Questa eccezionale
solidarietà visualizza la passione assoluta, oltre la morte, dentro
la condanna e dentro l’eternità, di cui i due amanti sono
emblema.
82. Quali... Dido: terza similitudine con uccelli, dopo quella
degli storni (vv. 40-43) e quella delle gru (vv. 46-49), questa
delle colombe serve intanto a evidenziare l’eccezionale
posizione appaiata dei due amanti entro la fila indiana degli
uccisi per amore, come detto alla n. 72. Lo spunto viene a
Dante da due distinti passi virgiliani, il primo dei quali ha diretta
pertinenza alla situazione attuale, perché si tratta di due
colombe che Enea incontra nella discesa all’Ade: «Vix ea fatus
erat, geminae cum forte columbae / Ipsa sub ora viri caelo
venere volantes / Et viridi sedere solo. Tum maxima heros /
Maternas agnovit aves laetusque precatur: Este duces...»
(‘Aveva appena pregato, e due colombe dal cielo / proprio sotto
i suoi occhi volando discesero; / sul verde suolo, ecco, posano.
Certo il grandissimo eroe / conobbe gli uccelli materni, e così
lieto chiede: Siatemi guida...’, En. VI 190-194). Da qui Dante
prende l’idea della coppia di colombe, e della meta desiderata
del loro volo: «Sedibus optatis... sidunt» (‘nel luogo bramato si
posano’, v. 203). È anche rilevante che Enea riconosca in esse
uccelli sacri a sua madre Venere, dea dell’Amore; e che da esse
si faccia guidare. Il riuso dantesco di queste colombe virgiliane
instaura così un rovesciamento, seppur metaforico, della fallace
visione pagana nella verità cristiana: le colombe, mandate da
Venere, guidano Enea a trovare la strada dell’Ade; Dante,
ripassando nello stesso luogo, le evoca al contrario come il
dolce simbolo del mortale errore erotico che lì si sconta per
l’eternità. Dall’altro passo virgiliano (En. V 213-217) Dante ha
preso il «dolce nido» e «l’ali... ferme» («dulces... nidi», «...
neque commovet alas»). In Pd XXV 19-24 un’altra similitudine
fondata sull’atteggiamento affettuoso dei colombi; che l’Ottimo
commenta con questa etimologia: «colombo, quasi ’celeris
lumbo’ [cioè ’svelto con i lombi’, la parte del corpo sede
dell’istinto sessuale], è uccello molto amorevole». La triplice
similitudine su cui Dante costruisce la rappresentazione dei
lussuriosi - storni, gru, colombe - ha probabilmente la sua fonte
nella triplice trasformazione in uccelli - rondine, usignolo,
upupa - che conclude il mito ovidiano di Progne e Filomela,
mito della lussuria violenta e mortale: cfr. n. a If VI 1.
88-93. se fosse amico... perverso: l’anima che ha preso la
parola manifesta sùbito gentilezza di cuore (quasi ottemperando
al v. 100), educazione e tratto cortese: nella sua condizione
disperata - è assurdo che preghiere di dannati possano avere
alcuna udienza presso Dio - intende comunque augurare a
Dante «pace», cioè l’opposto della tormenta che affligge lei, per
ricambiare la pietà che lui ha avuto di essa; e verso Dio la sua
pulsione sarebbe, sorprendentemente per un dannato, quella di
pregarlo (la disposizione generale di queste anime è per contro
qualificata dal v. 36: «bestemmian quivi la virtù divina»).
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94-96. Di quel... ci tace: l’impronta cortese del discorso
comincia a specificarsi in ornato retorico, con l’iterazione di
«udire... parlar... udiremo... parleremo». Quest’anima è
caratterizzata da «perizia suprema nella perifrasi, copia e agilità
di simmetrie, obbedienza del discorso alle norme dell’ars
dictandi» (Contini 1970, p. 43). Il momentaneo tacere della
bufera richiama in rima il motivo della «pace» (v. 92), parola del
desiderio ridetta al v. 99.
97-99. Siede... sui: Ravenna, del cui signore Guido il
Vecchio da Polenta fu figlia l’anima che sta parlando:
Francesca, andata sposa nel 1275 al signore di Rimini
Gianciotto Malatesta (così soprannominato perché «ciotto»,
cioè ’zoppo, sciancato’). S’innamorò, ricambiata, del fratello di
lui Paolo (detto il Bello, anch’egli sposato, dal 1269, e noto a
Firenze e dunque a Dante perché nel 1282 vi era stato capitano
del popolo); il marito, scoperti gli amanti, li uccise,
probabilmente nel 1283 o 1284. Stranamente, questa di Dante è
l’unica testimonianza storica pervenutaci di questo fatto, che
pure dovette essere clamoroso. Paolo e Francesca
rappresentano agli occhi del Dante della Commedia la tragica
negatività di una concezione laica dell’amore che aveva nutrito
la tradizione lirica e cavalleresca romanza. Il colloquio con
Francesca segna per Dante il rifiuto-superamento di quella parte
di sé che nelle rime giovanili, e fin dentro la Vita nuova, a quella
concezione filosofica e poetica aveva aderito.
100-108. Amor... fuor porte: queste tre terzine inizianti
con la parola-chiave «Amor», e da questa struttura anaforica
(cfr: Q. 16) nettamente rilevate, costituiscono un sintetico ma
compiuto manifesto di quella fallace teoria dell’amor cortese
che ha condotto Paolo e Francesca alla tragedia. Non è casuale,
anche qui, la triplice struttura ternaria, che allude per antitesi
alla Trinità («grido trino verso un amore che, ahimè, non potrà
salire fino spirare la processione trinitaria», Contini 1970, p. 43)
e alla Beatrice-9 (cfr. sopra la n. 52-69). Tutto il discorso è
intessuto di citazioni letterarie: Francesca è il prodotto della
letteratura di cui s’è nutrita.
100. Amor... s’apprende: primo concetto fondamentale:
l’amore è prerogativa dell’uomo nobile (gentile significa
’nobile’: v. n. ling.-filol. 100). Francesca lo esprime con le
parole di Guido Guinizzelli, il fondatore del cosiddetto stilnovo,
ricalcando l’incipit della sua famosa e programmatica canzone
IV: «Al cor gentil rempaira sempre amore», e sovrapponendovi
il v. 23 della stessa: «Foco d’amore in gentil cor s’apprende».
Dietro queste parole di Guinizzelli c’è la teorizzazione di
Andrea Cappellano, il cui trattato De Amore, composto alla
corte di Francia tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, è la
summa di quella concezione dell’amor cortese che aveva
improntato così la lirica trovadorica in lingua d’oc come i
romanzi cavallereschi in lingua d’oïl: il trattato, condannato dal
vescovo di Parigi nel 1277, era ben noto in Italia. Il De Amore
sostiene la teoria borghese che la vera nobiltà non è quella del
sangue, ma quella dell’animo (teoria condivisa così dal
Guinizzelli come dal Dante del IV libro del Convivio), e che
solo il nobile in questo senso rifulge di bellezza e merita
l’amore: «Nam quum omnes homines uno sumus ab initio stipite
derivati unamque secundum naturam originem traximus omnes,
non forma, non corporis cultus, non etiam opulentia rerum, sed
sola fuit morum probitas, quae primitus nobilitate distinxit
homines ac generis induxit differentiam... Sola ergo probitas
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amoris est digna corona» (De Amore, I X. Un volgarizzamento
trecentesco traduce: «Dunque, il senno è quello che fa l’uomo
gentile [si noti: gentile per nobilis] e bello, però ch’a la prima,
quando noi fummo tutti d’un uomo, né bellezza né bene
adornarsi né ricchezza non ci fé gentili, ma solo li buoni
costumi... Dunque, solo il senno è degno di corona d’amore»).
E la regola XVIII: «Probitas sola quemque dignum facit amore»
(‘solo la rettitudine rende degni d’amore’, De Amore, II XXXII).
Ma le parole del Guinizzelli le aveva fatte proprie Dante nella
Vita nuova: «Amore e ’l cor gentil sono una cosa [cioè: ’sono
una cosa sola’] / sì come il saggio in suo dittare pone [‘come
afferma il poeta - Guinizzelli appunto - nei suoi versi» (XX, vv.
1-2; e cfr. anche III, v. 1: «A ciascun’alma presa e gentil core»,
dove l’«alma presa» [Francesca dice «s’apprende»] e il «gentil
core» fanno tutt’uno).
103. Amor... perdona: altro concetto topico della
concezione cortese: cfr. Andrea Cappellano, De amore II XXXII,
Reg. IX: «Amare nemo potest, nisi qui amoris suasione
compellitur» (‘Nessuno può amare, se non chi viene costretto
dal potere di persuasione dell’amore’); Reg. XXVI: «Amor nil
posset amori denegari» (‘Non si può in alcun modo negare
amore all’amore’). La terzina precedente illustrava
l’innamoramento dell’uomo d’animo nobile, che innesca la
vicenda - in tutta la lirica cortese è l’uomo innamorato che tenta
di persuadere ed eventualmente persuade la donna, non
viceversa -; questa terzina illustra il conseguente
innamoramento, per empatia, della donna. Si notino gli insistiti
parallelismi fra le due terzine: «Amor» + relativa introdotta da
«che»; «prese costui de...» variato in «mi prese del costui...»,
«bella persona» variato in «piacer»; terzo verso iniziante per
«che», relativo nella prima terzina, consecutivo nella seconda.
Francesca si conferma buona allieva di ciò che ha letto, perita
nell’ars dictandi.
106. Amor... morte: terza e ultima ripresa anaforica di
«Amor...». La prima diceva l’operazione di amore su Paolo, la
seconda su Francesca, questa sui due amanti insieme. A
differenza delle due precedenti, che includevano ciascuna una
massima teorica, questa enuncia solo il tragico esito biografico.
Con ciò ha un effetto di svelamento della ben diversa realtà
mistificata da quel codice ingannevole: l’uccisione certo non era
previsto nella teoria del Cappellano (era però rappresentata nei
romanzi: Tristano e Lancillotto). Eppure anche qui il dettato
echeggia una massima del codice amoroso, quella secondo la
quale Amore «fai de dos cors un» (verso di un trovatore
provenzale cit. da Contini 1970, p. 46), «de dui cori fa uno»
(Guittone); ovvero «a costui [Amore, fu dato] di due potere un
fare» (Dante stesso, nella canzone Doglia mi reca, v. 14).
107. Caina: la zona del profondo inferno, nono cerchio,
riservata ai traditori dei parenti, quale è Gianciotto, che uccise a
tradimento fratello e cognata, come verrà chiarito all’inizio del
canto successivo (alla n. a VI 1 anche una fonte ovidiana che
surdetermina questo aspetto della consanguineità)
112. Quando risposi: denota che la risposta non è
immediata: Dante non trova subito la forza di riemergere dal
suo stato di prostrazione.
120. i dubbiosi disiri: questo «è Cappellano puro» (Contini
1970, p. 47): «antequam amor sit ex utraque parte libratus,
nulla est angustia maior, quia sempre timet amans, ne amor
optatum capere non possit effectum, nec in vanum suos labores
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emittat» (De amore, I III; e il cit. volgarizzamento trecentesco:
«anzi che ll’amore tocchi ambendue le parti, niuna è magiore
angoscia, perciò che l’amante sempre teme che l’amore suo non
vegna a compimento e che non lavori invano»).
123. e ciò sa ’l tuo dottore: non Virgilio (i riscontri
proposti, come Eneide II 3-4 e IV 647-705, non sono
stringenti), ma Boezio, De consolatione philosophiae, II pro. 4:
«Sed hoc est, quod recolentem vehementius coquit; nam in
omni adversitate fortunae infelicissimum est genus infortunii
fuisse felicem» (‘Ma è questo che brucia di più nel ricordo;
infatti sempre, nell’avversa fortuna, la sfortuna che rende più
infelici è l’essere stati felici’; cit. in Contini 1970, p. 43).
Francesca, con quest’altra citazione, continua a sollecitare la
complicità letteraria dell’interlocutore.
124-126. Ma... dirò: riprende l’attacco della risposta di
Enea a Didone: «Infandum, regina, iubes renovare dolorem /... /
Sed si tantus amor casus cognoscere nostros /... / Incipiam»
(‘Dolore indicibile tu vuoi ch’io rinnovi, o regina / ... / Ma se
tanto è l’amore d’apprender le nostre vicende / ... / comincerò’,
En. II 3-13). Identica ripresa in If XXXIII 4-9.
127-129. Noi... sospetto: ecco il punto di svolta, dalla
letteratura alla vita. Il Lancelot, il più famoso dei romanzi
arturiani, narrava l’amore tra il cavaliere Lancillotto e Ginevra
moglie di re Artù. Stesso schema narrativo - tragico amore del
cavaliere per la moglie del suo re - che nel Tristano di cui sopra
al v. 67: e stesso schema che in Paolo e Francesca, anche lei
moglie del signore di entrambi. La lettura a due del romanzo,
proponendo ai potenziali amanti una simultanea, irresistibile
identificazione coi protagonisti, fa inesorabilmente precipitare
l’adulterio. C’è tutta una sociologia cortese della letteratura
cavalleresca in questa scena: la donna di corte in compagnia del
cavalier servente, il legittimo sposo e signore emarginato dalla
loro conversazione, il libro cavalleresco come genere
particolarmente destinato alle donne, il consumo sociale della
letteratura d’intrattenimento a corte, il codice cavalleresco
come modello di comportamento.
131. scolorocci il viso: Ovidio, Ars amatoria, I 729:
«palleat omnis amans: hic est color aptus amanti» (‘impallidisca
ogni amante: questo è il colore adatto a chi ama; Andrea
Cappellano, De amore, II VIII, Reg. XV: «Omnis consuevit
amans in coamantis aspectu pallescere» (‘ogni amante, al
cospetto dell’amata o dell’amato, suole impallidire’); e Dante
stesso, Vita nuova XVI 4: «io mi movea quasi discolorito tutto
per vedere questa donna».
135. che mai da me non fia diviso: ribadisce «che... ancor
non m’abbandona» (v. 105).
136. tutto tremante: Andrea Cappellano, De amore, II VIII,
Reg. XVI: «In repentina coamantis visione cor contremescit
amantis» (‘alla visione improvvisa dell’amata o dell’amato, il
cuore dell’amante trema’); tremare in tale circostanza è infatti la
norma nella lirica (accade 8 volte in Cavalcanti, 3 nelle Rime di
Dante, 8 nella Vita nuova).
137. Galeotto... scrisse: Galehault è il personaggio che, nel
Lancelot, convince Ginevra a baciare per la prima volta
l’amante: nella storia di Paolo e Francesca il romanzo stesso ha
giocato il ruolo che entro il romanzo era giocato da Galehault.
Ipostasi della letteratura mediatrice di adulterio.
138. quel giorno... avante: il séguito è sfumato nella
tragica reticenza (come in If XXXIII 75 «Poscia, più che ’l
9
dolor, poté ’l digiuno» di Ugolino, o in Pd III 108 «Iddio si sa
qual poi mia vita fusi» di Piccarda): Contini (1970, p. 125) parla
di «un nodo di reticenza nella strozza, uno psicologico ’colpo di
glottide’».
141-142. io venni men... cade: la «pietade» («pietà» già ai
vv. 72 e 93, «tristo e pio» al v. 117: v. n. ling.-filol. a If VI 1-3)
sopraffà Dante, che, già «quasi smarrito» al v. 72, qui
finalmente sviene. È il secondo svenimento in fine di canto e in
corrispondenza di un passaggio al cerchio successivo, dopo
quello, fra III e IV canto, dal II al III cerchio.
If 6
1. Al tornar de la mente: è noto che l’espressione ricalca
l’ovidiano «ubi mens rediit» (Metamorfosi, VI 531). Si può
aggiungere che anche i due versi immediatamente precedenti
sembrano essere stati riusati da Dante: «Utque columba suo
madefactis sanguine plumis / Horret adhuc avidosque timet,
quibus haeserat, ungues. Mox ubi mens rediit... » (‘e come una
colomba, con le piume arrossate dal suo sangue, prova orrore e
terrore ancora degli avidi artigli che l’avevano afferrata.
Quando di lì a poco essa rinvenne...’) . Il personaggio in
questione è Filomela, testè violentata da Tereo, marito della
sorella Progne. «Utque columba...» - «Quali colombe...» (V
82); «Horret adhuc...» - «e ’l modo ancor m’offende» (V 102: il
che conferma che l’espressione si riferisce alla violenza subita,
in modo parimenti inatteso e proditorio). L’episodio ovidiano
ha forti analogie con quello di Paolo e Francesca: in entrambi i
casi si tratta di un adulterio aggravato dell’esser stato
perpetrato tra cognati (Tereo è marito della sorella di Filomela,
Paolo è fratello del marito di Francesca): non a caso, il fatto che
Paolo e Francesca sono cognati viene comunicato solo a questo
punto, in coincidenza con l’allusione ovidiana. Ma Filomela è
vittima innocente mentre Francesca è complice: la colombaFilomela, madida del sangue della violenza subita, include già in
sé la scena di violenza che anche la colomba-Francesca subirà.
In Ovidio vengono invocate le Furie (v. 662), a cui competeva
vendicare i delitti contro i consanguinei, e in Dante: «Caina
attende chi a vita ci spense» (V 107). I tre attori del mito
vengono tutti trasformati in uccelli (Progne e Filomela in
rondine e usignolo, Tereo in upupa), e Dante costruisce il canto
V sulla triplice assimilazione dei lussuriosi a storni, gru,
colombe (cfr. la n. a If V 82). Si rivela dunque che Dante ha
assunto il mito di Progne e Filomela, mito della violenza
scatenata dalla lussuria, come base della propria
rappresentazione dei morti uccisi per amore; e che ha
interpretato l’episodio di cronaca riminese sulla falsariga di quel
mito.