Giovanni Pampanini - Studio Interdisciplinare di Scienze Sociali e

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Giovanni Pampanini - Studio Interdisciplinare di Scienze Sociali e
GIOVANNI PAMPANINI
TEORIA DELLA DEMOCRAZIA GLOBALE
QUARTO VOLUME
Cent’anni di realizzazione della democrazia, in dettaglio.
3. La democrazia dal 1990 al 2000
Quarto volume: Cent’anni di realizzazione della democrazia, in dettaglio. 3. La democrazia dal
1990 al 2000.
Indice
Capitolo I. Lo sviluppo umano
Paragrafo 1: Storia
Paragrafo 2: Politica
Capitolo II. Globalizzazione vs. Interdipendenza
Paragrafo 1: Storia
Paragrafo 2: Politica
Capitolo III. L’intercultura
Paragrafo 1: Storia
Paragrafo 2: Politica
Conclusioni
Bibliografia
Introduzione
Rispetto alle tre precedenti parti, questo quarto volume della Teoria della democrazia
globale, non solo approfondisce la ricerca con una maggiore concentrazione su dieci
anni di storia soltanto (gli ultimi dieci del secolo e millennio scorsi), ma diversifica
anche l’esposizione seguendo uno schema di tre focus problematici, identificati in:
Sviluppo umano, Globalizzazione vs. Interdipendenza e Intercultura. Di conseguenza,
la consueta trattazione in due sezioni, storica e politica, si realizza adesso secondo tre
“passate”, per così dire, relativamente allo Sviluppo umano, alla Globalizzazione o
all’Interdipendenza,
e
all’Intercultura.
Vedremo:
1.
come
i
processi
di
democratizzazione siano stati resi possibili o bloccati, di volta in volta, e 2. le diverse
prospettive filosofico-politiche che si sono aperte in seguito al mutato quadro nazionale
ed internazionale post-Guerra Fredda.
Introduzione
Prima di cominciare un’analisi più specifica per ciascuna macro-regione, diamo uno
sguardo d’insieme.
Il decennio precedente è stato quello in cui le destre hanno governato nei paesi di
maggior peso internazionale, come gli USA (Ronald Reagan) e l’UK (Margaret
Thatcher),
e
le
Organizzazioni
finanziarie
internazionali,
Fondo
Monetario
Internazionale e Banca Mondiale, hanno curvato lo sviluppo dei paesi di minor forza
politica – in Africa, in Asia e in America Latina – in senso funzionale ai propri bisogni
di cassa.
Il decennio che si apre non promette orientamenti diversi (la destra ottiene nuovamente
la presidenza degli USA con George Bush padre, mentre in UK va al governo ancora
una volta il partito conservatore, con John Major come leader). – Anzi: la crisi
dell’URSS svela una voragine economica dei paesi dell’Est europeo che attirerà
l’attenzione della nuova Unione Europea – sicché la precedente propensione ad aiutare
l’Africa (con gli accordi Lomé IV-1989) va inesorabilmente a scemare (l’UE stabilisce
che gli accordi Lomé avranno termine nel 2000 quando dovranno “mescolarsi” con le
nuove agende delle istituzioni di Bretton Woods e del WTO: quindi, dovranno
sottomettersi alle politiche di aggiustamento strutturale, soprattutto nella sanità e
nell’educazione). Sfortunatamente, gli Europei non faranno sentire la loro voce nella
BM e nel FMI a favore dell’Africa – e avrebbero potuto. D’altronde, dopo il 1989, il
nuovo commissario europeo allo sviluppo, lo spagnolo Manuel Marin, non dimostra
alcuna sensibilità verso l’Africa – che è come se passasse di moda, a beneficio dell’Est
europeo o dell’America Latina. – Curiosamente, tutto ciò accade ora, negli anni ’90,
proprio quando l’Africa fa dei passi avanti verso la democratizzazione, cosa che è
sempre stata una clausola specificatamente richiesta dall’Europa perché essa si interessi
dell’Africa (nel caso del dossier dell’adesione della Turchia all’UE questa clausola è
ritenuta addirittura imprescindibile. Ma tant’è). Così, l’Ufficio europeo per le relazioni
con i paesi ACP, Africa-Caraibi-Pacifico, stabiliscono che il finanziamento-Lomé IV
per il periodo 1995-2000, in corrispondenza con l’ottavo FED, Fondo Europeo per lo
Sviluppo, andrà tutto a vantaggio dell’Europa dell’Est e del Mediterraneo, a discapito
dell’Africa (Mouradian, Avril 1995).
Una caratteristica del decennio entrante è l’attivismo del sistema delle Nazioni Unite
(Hobsbawm, 1994). A partire dal 1990 quattro grandi utopie sono portate avanti
autorevolmente dal sistema delle Nazioni Unite:
1. l’educazione per tutti (UNESCO);
2. la salute per tutti (OMS);
3. il lavoro decente per tutti (ILO);
4. lo sviluppo umano per tutti (UNDP).
I risultati non saranno sempre (anzi, quasi mai) all’altezza delle aspettative suscitate;
tuttavia, il tentativo viene fatto con una certa lena. Oltre ai proclami del 1990, nel 1992
a Rio de Janeiro l’ONU organizza un summit mondiale sulla Terra; dopo tre anni,
tuttavia, i risultati sul terreno saranno ancora scarsi, data la forte mentalità
produttivistica e anti-ambiente dei vari governi (De Brie, Juillet 1995). Nel marzo 1995
a Copenhagen l’ONU organizza un altro summit mondiale sullo sviluppo sociale.
Questo summit, come l’altro tenuto al Cairo (5-13 settembre 1995) sulla popolazione e
lo sviluppo mondiale, sono stati preceduti da uno sforzo personale del Segretario
generale delle Nazioni Unite per redigere agende per la pace e per lo sviluppo (ONU,
1994). L’invito è a riflettere sul modello di sviluppo, ormai unico e troppo sbilanciato a
favore dell’economicismo senza democrazia. Continua ad allargarsi sempre di più il
divario fra il Nord e il Sud, e accettare questo divario diventa una resa all’ingiustizia
planetaria. – Ma, si chiede Ignacy Sachs, si può dissociare la dimensione sociale dalla
base non-solidaristica di un sistema, che risulta fondato, più che altro, sui rapporti di
forza (Sachs, Janvier 1995)? Avanza la povertà nei paesi industrializzati e in quelli exsovietici. I regimi di Welfare vengono smantellati in vari stati sviluppati – è la fine
dell’impostazione di Keynes. Ci vorrebbero, al contrario, nuove regole del gioco per
integrare le dimensioni del sociale, dell’ecologico e dell’economico – arguisce Sachs,
che sostiene la necessità di facilitare l’integrazione del governo locale con quello
mondiale/globalizzato (attraverso il principio di sussidiarietà, stabilito dal Gruppo di
Lisbona riunito
dalla Fondazione Gulbenkian)
e di superare la dicotomia
pubblico/privato, stabilendo un partenariato fra stato, imprese e società civile.
- Tutto questo mentre l’UNDP ricorda nei suoi Rapporti (che vengono pubblicati
regolarmente, ogni anno, a partire dal 1990) che il quinto della popolazione mondiale
più povera riceve l’1,4% del PIL mondiale, mentre il quinto più ricco prende l’84,7%:
dappertutto ci si rende conto che il liberismo imperante va a detrimento della
democrazia (Paquet, 1994). Il fatto è che nel decennio ’90 la dimensione finanziaria del
capitalismo prende il sopravvento sulle altre dimensioni, rimodellando anche le
Relazioni Internazionali, che vengono subordinate alle politiche pattuite da FMI e BM
(la prima Organizzazione viene diretta, per consuetudine, da un Europeo, la seconda da
uno Statunitense: Mendez, 1992; George, Sabelli, 1994; Alcolea-Bureth, 1994; Jobert,
sous la dir de, 1994; Ramonet, Janvier 1995). Compaiono le agenzie di rating, come il
Moody’s Investors Service, che classificano i paesi in funzione dei rischi che corrono
gli investitori. Il potere di queste agenzie diventa enorme in questi anni, in quanto esse
dirigono e indirizzano le politiche finanziarie ed economiche del mondo – ben al di là
del potere di incidere di ogni singolo governo, o gruppo di governi. A metà decennio
Ignatio Ramonet sottolinea che ormai i valori sono cambiati: invece del progresso, c’è
la comunicazione; invece delle leggi della natura o della storia, ci sono quelle del
mercato, e quindi del denaro (Ramonet, October 1995).
Fra il 13 e il 17 novembre 1996, a Roma, la FAO tiene il primo summit mondiale
sull’alimentazione: 800.000.000 persone sono ancora “colpite” dalla fame; si prende
atto della grande pressione demografica della Cina, che preoccupa, dato il degrado
dell’ambiente, mentre vari governi, fra cui quelli delle Filippine e del Vietnam, pur che
diversi fra di loro, privilegiano politiche neoliberali che si dimostrano negative sotto
questo aspetto: in genere, lesinano scarsi investimenti all’agricoltura e danno corso a
quelli che hanno una resa immediata, spesso a discapito dell’ambiente.
Altri argomenti globali che in questo decennio diventano importanti sono quelli della
lotta al terrorismo e della giustizia internazionale, fronti sui quali i paesi più influenti
fanno dei passi avanti, ma con una prudenza che appare oppressivamente eccessiva (il
“G7 più Russia” si riunisce a Sharm el Chaik il 13 marzo 1996, poi a Lione il 26 giugno
dello stesso anno: Gresh, 1996; Guelke, 1996). Tuttavia, le questioni monetarie e
finanziarie, sullo sfondo della ricerca, sempre più spinta, di fonti energetiche per
sostenere la crescita economica, sono quelle che rubano la scena (Aechimann, Riché,
1996). Nel 1999 il prezzo del petrolio è triplicato, ciò che si spiega con l’aumento del
bisogno energetico indotto dalla crescita e con la limitazione della produzione da parte
dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEP). Il presidente USA Bill
Clinton minaccia questi ultimi paesi di fare ricorso alle riserve USA nel caso in cui essi
vorranno continuare nel loro atteggiamento negativo. Il non-accordo fra paesi
produttori e paesi consumatori rischia così di provocare un nuovo caos mondiale
(Sarkis, 2000).
A fine decennio, argomenti politici diversi vengono proposti per spiegare, riassumere o
prospettare le tendenze in corso. Come esempi della vasta letteratura cito solamente tre
volumi contemporanei: il primo, di orientamento liberale, fatto dallo storico della
Harvard University Landes, spiega la differenza di successo dei diversi paesi nello
sviluppo riferendosi al ruolo (aperto vs. chiuso) giocato dalla cultura (Landes, 2000). Di
orientamento completamente opposto, Negri e Hardt interpretano la situazione
mondiale corrente come il frutto del tentativo della parte padronale e capitalistica di
correre dietro ai movimenti antagonistici delle “moltitudini” che si ribellano al
comando del capitale costringondola a trovare sempre nuovi modi per ricucire le falle
che tali “moltitudini” aprono (Hardt, Negri, 2000). Una terza tendenza, che potremmo
chiamare social-liberale, è rappresentata da Michelangelo Bovero, allievo di Norberto
Bobbio, che lamenta il rischio che la democrazia si trasformi in kakistocrazia (il
governo dei peggiori): per frenare questa deriva l’autore redige una “grammatica della
democrazia”, con tanto di termini principali (eguaglianza e libertà), aggettivi
qualificativi (e alternativi: democrazia diretta o rappresentativa, formale o sostanziale,
liberale o sociale), verbi (eleggere, rappresentare, deliberare e decidere), etc., fino alla
discussione, appunto, sui diversi rischi di degenerazione (tra cui il presidenzialismo:
Bovero, 2000).
Capitolo I
Lo sviluppo umano
Le storie delle diverse macro-regioni mondiali e le proposte teoriche politiche
dell’ultimo decennio del secolo scorso descritte nel primo capitolo di questo quarto
volume terranno come criterio principale la questione del concetto di “sviluppo
umano”, cioè, l’evoluzione del concetto di “sviluppo” come presentato dall’UNDP,
United Nations Development Programme. Da questo punto di vista, questo concetto
orienterà sia la lettura dei fatti storici ricapitolati in questo capitolo, sia le opere dei
maggiori teorici di filosofia politica che hanno prodotto i loro libri in questo decennio,
cercando di rispondere alle sfide poste dallo sviluppo.
Paragrafo I
Storia
L’ASEAN, Association of South-East Asiatic Nations, raccoglie già dal 1965 Brunei,
Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Tailandia e, dal luglio 1995, il Vietnam. Dal
punto di vista dello sviluppo è importante notare che in questo decennio ‘90 a questo
gruppo dei paesi si associano ora anche quegli altri paesi, denominati Tigri asiatiche,
per via della rapida industrializzazione (NIE, o NIC: New Industrialized Economies o
New Industrialized Countries): Sud Corea, Taiwan e Hong Kong.
Come si evince dall’esame caso per caso, rimane controverso stabilire se questo
sviluppo, iniziato negli anni ’80 (a cui molto contribuirono i numerosi cittadini cinesi
espatriati dalla Mainland China e da Taiwan: Gentelle, 1994, pp. 101-105), possa aver
contribuito anche a stimolare la democrazia, o se non siano stati, piuttosto, questi paesi
– Taiwan, Filippine, Corea del Sud, Vietnam, Indonesia, Birmania – tutti degli
eloquenti casi di “passaggi irreversibili” verso la non-democratizzazione proprio a
causa di questo tipo di sviluppo (Filippine: Gaudard, 1996 e 1997; Vietnam: Nguyen,
1994, Winkle, 1995; Indonesia: Cayrac-Blanchard, 1995; Birmania: Boucaud A. et L.,
1994, Boucaud A. et L., 1995, Boucaud A. et L., 1996). Infatti, ad eccezione di Hong
Kong, a quest’epoca formalmente colonia del Regno Unito (passerà, come unità
amministrativa speciale, sotto la giurisdizione della Mainland China solo nel 1997), e
del Giappone, la democrazia praticamente non esiste in tutti questi paesi – e continua a
non esistere anche nei Nuovi Paesi Industrializzati (per Taiwan, almeno fino al 1996).
La crisi finanziaria del 1997, all’inizio limitata solo alla Thailandia, comportò un
importante intervento finanziario da parte del Giappone, mettendone a dura prova la
capacità di sviluppo (Sabouret, 1988; Bix, 2000, pp. 687-688). La fiducia dei
Giapponesi verso il loro governo venne meno anche per la politica estera che il governo
seguì: infatti, in occasione della prima guerra del Golfo (gennaio 1991) il Giappone
versò miliardi di dollari a favore della coalizione occidentale, anche se motivi
costituzionali impedivano una partecipazione o un supporto militare più diretto (da
questo punto di vista, si può dire che il periodo Heisei abbia segnato il riemergere del
Giappone come potenza militare mondiale, in un’atmosfera disinvolta a cui partecipò
anche il nuovo vertice dello Shakaito, il Partito socialista, leader Tanabe, che si era
pronunciato, peraltro, anche a favore sia del commercio internazionale – il GATT –, sia
dell’industria nucleare ad uso civile, si era addirittura dichiarato a favore anche della
ricostituzione di una forza armata nazionale di autodifesa).
In Cina negli anni Novanta gli abitanti delle città hanno un reddito pro capite doppio
rispetto a quello dei contadini, e alla fine del decennio arriva ad essere addirittura il
quadruplo, segno dell’incremento dello squilibrio causato dalle politiche di sviluppo
(Benson, 2013, p. 13). La crescita, in questo periodo, oscilla fra il 12% e il 14% annuo
(Watson, ed., 1992). Con il programma di sviluppo (rinforzato dal XIV Congresso del
Partito comunista cinese, ottobre 1992) e il “socialismo di mercato” inaugurato da Deng
si dà vita ad esperimenti di sviluppo capitalistico, diminuendo i controlli centrali.
Questo, se rende più facile l’impiego di capitale estero, d’altra parte, aumenta gli
elementi di caos del sistema generale (Gentelle, 1994, p. 107). Fra il 1988 e il 1992 le
spese militari cinesi raddoppiano (la Russia è un’importante fornitore). Questa corsa al
riarmo ha un suo risvolto in campo industriale, per sostenere il quale il governo
progetta una diga per chiudere le tre gole dello Yangtze – malgrado il parere negativo
degli esperti e perfino della Banca Mondiale (Béja, 1996 – anche se poi, nel 2002, la
Cina ratificherà il protocollo di Kyoto!?). Nel 1997 la Cina entra nell’area ASEAN
(Jiang Zemin, segretario generale del Partito comunista) e nel 2001 nel World Trade
Organization (premier Wen Jiabao) (cfr. Rocca, 1995 per il disordine, la corruzione e la
non-trasparenza; Lew, 1997 sul processo di privatizzazione; Golub, 2000 per
l’esperimento capitalistico a Shanghai). In un importante volume del 2001, che fa da
assessment del decennio trascorso e da ‘libro dei pronostici’ per quello subentrante,
Tony Saich fa il punto della situazione dello sviluppo della Cina, ruotando attorno a tre
nodi problematici preponderanti: 1. come gestire il prodigioso sviluppo economico
(soprattutto se confrontato con quello russo) in termini di consenso politico, considerato
che, dopo un decennio, i perdenti saranno per lo più quegli stessi cittadini cinesi già
marginali all’inizio del decennio precedente, e dato che questo non sarà più così nel
futuro, dato che l’espansione internazionale e nazionale dell’economia aumenterà nel
futuro prevedibile; 2. le politiche sociali – sistema pensionistico, ineguaglianze sociali e
rappresentanza politica delle donne; e 3. il necessario rinnovamento istituzionale
(Saich, 2001).
In India, sull’onda delle emozioni suscitate dall’omicidio del primo ministro Rajiv
Gandhi nel 1991, il Partito del Congresso, che alla fine degli anni ’80 non era più al
governo, ci rientra nel giugno del 1990 (primo ministro Narasimha Rao; ministro delle
finanze Manmohan Singh). Il governo adotta politiche neo-liberali e proglobalizzazione, che, come sostengono i critici, vanno, in definitiva, tutte a vantaggio
dei più ricchi – a parte i crescenti scandali di corruzione, che coinvolgono esponenti del
governo e del Congresso (Jaffrelot, Vaugier-Chatterjee, 1994, p. 154; VaugierChatterjee, 1996, p. 247).
In Russia, Gorbaciov era riuscito a promuovere un allargamento della democrazia
nell’URSS con le elezioni del marzo 1989 (Berstein, Milza, 1996, p. 209). Se, tuttavia,
questa politica di maggiore apertura democratica doveva portare il leader sovietico ad
una notevole affermazione sul piano internazionale, tanto da ottenere il Premio Nobel
per la pace nel 1990, all’interno risultò in una gravissima crisi politica, sociale ed
economica (Romano, 2003, p. 629). Burrascosamente, le varie repubbliche sovietiche si
dichiararono indipendenti, manifestando al contempo una forte spinta nazionalistica (in
alcuni casi, come la Georgia e la Cecenia soprattutto, con grande drammaticità). La
leadership sovietica, Gorbaciov incluso, fu scalzata dagli eventi e ne venne fuori
un’altra, guidata da Boris Eltsin, nuovo presidente della Russia non più sovietica, ma
anzi “democratica” e capitalistica, sostenuta dai prestiti del FMI, con una totale
riconversione dell’economia, dal piano al mercato (Cohen, 1994, p. 201; Berstein,
Milza, 1996, pp. 240-246). La crisi totale del sistema arriva nel 1998, spinta anche dalla
crisi economica thailandese. La corruzione dilaga: il ministero degli Interni calcola che
almeno il 40% dell’economia (per non parlare delle banche …) è sotto il controllo della
malavita organizzata (Di Nolfo, 2000, p. 1397). Eltsin cercherà di fronteggiare la
situazione sostituendo Cernomyrdin con Sergej Kirjenko, banchiere, e poi subito dopo
quest’ultimo con Evgenij Primakov, ex-funzionario del KGB; dopodiché, pur avendo
ottenuto (con alterne vicende) un prestito dal Fondo Monetario Internazionale di 11,2
miliardi dollari, lascia il governo nelle mani del suo vice, Vladimir Putin, anche lui un
ex-funzionario del KGB. È il 2000. La fortuna di quest’ultimo fu il rialzo del prezzo
del petrolio nel 1998 (Villari, 2000, p. 803; Romano, 2003, p. 636; sulla crisi russa del
1998, vedi Sapir, 1999).
Anche in Turchia, con Tansu Çiller, già ministro dell’economia, il governo assume un
programma di tipo liberista, dove il cimento più grande è ora la privatizzazione
dell’inefficiente industria pubblica, con l’assistenza del FMI (Yerasimos, 1994, p. 234;
Picard, sous la dir de, 1993; Huver, 1996, p. 327). Democrazia, islam e autoritarismo si
mescolano nel caso della cultura politica della Turchia (nel 1995 viene incarcerato un
certo numero di scrittori ed intellettuali progressisti, tra cui Yachar Kemal). Il conflitto
con i Curdi, maggiormente presenti nell’area sud-orientale del paese, ha comportato
peraltro un aumento della spesa militare (Huver, 1996, p. 330).
La struttura della proprietà terriera in Pakistan è di tipo feudale (nella regione del Sind,
per esempio, le famiglie sia di Mian Nawaz Sharif che di Benazir Bhutto, politicamente
amici-nemici, hanno gli stessi interessi fondiari) e questo si riflette sul parlamento.
L’esportazione del cotone è tale che questa voce viene a costituire da sola il 50% delle
entrate in valuta. Anche qui il paese riceve prestiti in denaro da alcuni paesi (USA,
Hong Kong e Corea del Sud), ma anche al FMI ed alla BM (per un totale di 3,2 miliardi
di dollari nel 1992, ai quali si sono aggiunti altri prestiti dalla banca asiatica e dalle
banche dei paesi del Golfo: Pochoy, 1994, p. 194). Questo fa sì che la differenza fra i
governi della Bhutto e di Nawaz Sharif ci siano poche differenze sostanziali – a
prescindere anche dal parallelo di fatti scandalistici (Abou Zahab, 1996, p. 293). Nella
seconda metà del decennio la situazione si complica notevolmente per via degli eventi
nel confinante Afghanistan, dove i talebani il 27 settembre 1996 prendono Kabul
(Allix, 1997 – lì si installa Osama Bin Laden, già nemico n. 1 di Washington). La CIA
“assiste”, così, il golpe del 12 ottobre 1999 che porta al governo del Pakistan Perez
Musharraf, già capo militare nominato da Nawaz Sharif (Racine, 1999).
L’Iran ha due presidenti moderati Ali Abkar Haschemi Rafsanjani e Sayyed
Mohammed Khatami che si susseguono in questo decennio (fino al 2004), la cui azione
politico-economica va in direzione liberista. L’inflazione cresce, l’industria nazionale è
in difficoltà e il malcontento cresce anche nella società civile e, soprattutto, fra le donne
(Guille, 1994, p. 161; Kian, 1996).
L’Iraq tenta di riprendere la marcia del suo sviluppo, dopo il decennio scorso passato in
guerra con l’Iran, e il suo leader Saddam Hussein decide di farlo con l’occupazione
manu militari del Kuwait, nell’agosto 1990. La guerra che ne discende peggiora la già
pesante situazione economica creatasi con la guerra contro l’Iran. Il mondo arabo si
divide: con Saddam si schiera il leader palestinese Yassin Arafat, insieme alla Libia, lo
Yemen, la Giordania e l’Algeria; l’Arabia Saudita, gli Emirati, l’Egitto, la Siria e il
Marocco si pongono sul fronte contrario (Boltanski, 1994, p. 512; Jabar, 1996; Luizard,
1996, p. 261; Rouleau, 1998).
La situazione per Beirut migliora (la guerra civile finisce nel 1990), anche se il Libano
rimane dominato dalla Siria (Kassir, 1995; Picard, 1994, p. 206). Colto il nuovo vento
liberista internazionale, al-Assad abbandona il pregresso orientamento politicoeconomico socialisteggiante (peraltro, abbastanza di facciata) e si volge a favore della
liberalizzazione. Rieletto al suo quarto mandato nel 1992, incrementa la politica di
libertà commerciale, favorendo sia le importazione che le esportazioni, il tutto a
sostanziale vantaggio degli uomini d’affari (Picard, 1996, p. 599). In Libano, dove ora
si apre il grande business della ricostruzione, al-Hassad lascia governare Rafic Hariri,
ma la situazione si va deteriorando: nel 1999 Hariri e i suoi ministri finiscono inquisiti
dalla giustizia per gli imbrogli sulla ricostruzione (Charara, 1999). Bashad el-Assad,
figlio di Hafez al-Assad, e Rafic Hariri (malgrado tutto) vengono eletti entrambi
presidenti, rispettivamente del Libano e della Siria, nel 2000.
Il conflitto fra Palestina e Israele sembra volgere verso una soluzione pacifica grazie
alla grande diplomazia svolta da Olaf Palme, abile diplomatico scandinavo. Nel
settembre 1993 avviene la famosa stretta di mano fra i due ex-nemici, Arafat e Rabin,
sotto l’occhio benevolo di Clinton, accompagnato dalla benedizione della comunità
internazionale (ai due leader viene attribuito il Nobel per la Pace). Ma l’idillio,
preannunciato da una conferenza per la pace nel Medio-Oriente tenuta nell’ottobre
1991 a Madrid, non dura più di un paio d’anni: un fanatico israeliano uccide Rabin nel
novembre 1995, e l’agognata stagione della ricostruzione e dello sviluppo si allontana
dall’orizzonte – lo sviluppo economico della Palestina e quello di Israele appaiono
essere, in buona parte, legati fra di loro (Abdel-Fadil, 1994; Haski, 1996, p. 269). La
situazione economica di Israele peggiora in questo decennio, e le ineguaglianze sociali
continuano a crescere, a prescindere dalla popolazione palestinese, e questo a causa di
un forte deficit commerciale (valutato, nel 1995, in 11 miliardi di dollari), e malgrado
Israele abbia continuato a ricevere aiuti e capitali stranieri.
In questo decennio, i rappresentanti dei quindici paesi che si affacciano sul Mare
Mediterraneo si incontrano a Barcellona il 27 e 28 novembre 1995 per pattuire
l’istituzione della zona di libero-scambio per il 2010 (Kébadjian, 1995; Bistolfi, 1995).
In Algeria a partire dal maggio-giugno 1991 il FIS, Fronte Islamico di Salvezza tenta
uno sciopero illimitato per protestare contro gli aumenti del prezzo dei beni di prima
necessità (sale, pane, etc.). Le elezioni, libere e pluraliste, vengono vinte dal FIS con
l’esplicito e paradossale programma di abolire la democrazia una volta conquistato il
potere. I convulsi avvicendamenti al governo da parte di esponenti dell’esercito, che
blocca il processo elettorale sospendendo la democrazia, riflettono i vari passaggi della
guerra civile che si innesca nel paese (Si Zoubir, 1994; Harbi, 1994; Si Zoubir, 1995;
vedi anche il dossier in Le Monde diplomatique, Mars 1996). L’Algeria sprofonda nel
terrore (Addi, 1998; Karabadj, 1998). Alla fine del decennio la guerra civile avrà fatto
60.000 morti. Alle elezioni del 15 aprile 1999 vince Abdelaziz Bouteflika, appoggiato
dall’esercito (Addi, 1999).
In Tunisia, è la Banca Mondiale che aiuta il regime il presidente Ben Ali, che pure
esercita impunità e repressione anti-democratica senza precedenti (Boucher, 1996;
Amnesty International, 1996; Hamid Ibrahimi, pseudonyme, 1997; Labidi, 2000).
Mentre l’Europa occidentale procede verso il Trattato di Maastricht per l’unificazione
economica (e contemporaneamente si costituisce l’ASEAN in Asia, si rinnova l’Unione
Africana, nasce la NAFTA nel Nord America e il MERCOSUR in America Latina), nei
Balcani scoppia la guerra civile. La guerra civile tocca il suo picco col cruento assedio
di Sarajevo dal 1992 al 1995, e si ferma nel 1996 dopo la pace di Dayton (Guytisolo,
1996). Queste circostanze, unite a quelle della riunificazione problematica delle due
Germanie dopo la cadura del muro di Berlino, smorzano l’entusiasmo per il battesimo
dell’Unione Europea – peraltro, la Danimarca vota no all’adesione nel 1992 (Hveem,
1994). Alla fine del 1995 movimenti di protesta contro il Trattato di Maastricht si
levano in tutta Europa: la gente si preoccupa per l’aumento della disoccupazione e
dell’insicurezza sociale – mentre i bilanci militari aumentano in Inghilterra e in Francia
(Carroué, 1994; altri osservatori notano che questa Unione Europa si realizza insieme
ad uno spogliamento del settore pubblico a favore delle corporazioni private: Halimi,
1994; Le Goff, 1994; Le Paige, sous la dir de, 1995; De Brie, 1996; Ramonet, 1996;
Bourdieu, 1997; sulla crisi della democrazia in questo momento di avanzamento della
monetarizzazione, vedi Ramonet, 1997).
Per far fronte all’intervento della Serbia sul Kossovo, dichiaratosi indipendente (sotto la
benevolenza dell’Unione Europea – dove dal 16 marzo 1999 è Commissario Romano
Prodi), Clinton chiede al Congresso l’aumento di 112 miliardi di dollari per l’esercito
(Klare, 1999).
Forse, il discorso di Mitterand nel 1990 a La Baule può essere stato utile come
detonatore della stagione, breve, della democrazia in Africa. Tuttavia, la svalutazione
del franco CFA del 1994, imposta dal Fondo Monetario Internazionale, ha abbassato il
livello di vita degli Africani. La partecipazione della Francia allo sviluppo e al
mantenimento dell’“ordine” in Africa, rimane una questione controversa e dibattuta
(Montbrial, Jacquet, sous la dir de, 1994). Dal punto di vista economico, le condizioni
imposte dal FMI hanno fatto sì che in Africa lo stato abbia perso ulteriormente il
controllo sulla sua economia. La proprietà delle campagne si è concentrata in poche
mani e i contadini poveri sono andati ad ingrossare il sottoproletariato urbano –
sbilanciando la presenza antropica generale del continente. Negli anni ’90 si ha un
rallentamento della crescita demografica in Africa, fra le cause delle quali si possono
considerare sia l’accresciuto tasso di scolarizzazione, sia le nuove condizioni di vita
delle famiglie (diffusione della contraccezione e pianificazione familiare), sia il flusso
emigratorio, sia la mortalità per AIDS (Speitkamp, 2010, p. 326; statisticamente l’attesa
di vita alla nascita in Africa diminuisce drasticamente nell’ultimo decennio del XX
secolo: Izenzama Mafouta, 2000). A complicare il quadro, una nuova ondata di guerre
civili si abbatte sull’Africa in questo decennio: Liberia 1989; Sierra Leone 1991; la
regione dei Grandi Laghi, dal 1993; Etiopia/Eritrea 1998. Il motivo, in generale, è stato
invariabilmente l’accaparramento di risorse e guadagni. Alcuni stati collassano:
Somalia (Prunier, 1997 e 2000), Ruanda (Prunier, 1995), Congo; altri, che prima erano
auto-sufficienti, sono ora nell’instabilità, come la Costa d’Avorio, la Sierra Leone
(Pérez, 2000; Blunt, 1999) e la Guinea.
Un caso a parte è il Sud Africa, dove nel 1990, dopo 27 anni di carcere (era detenuto
dal 1964), viene liberato Nelson Mandela, leader dell’African National Congress.
Tuttavia, dopo la fine dell’apartheid, il Premio Nobel per la Pace al nuovo presidente
Mandela e le prime libere elezioni nel 1994, l’aspetto economico del nuovo regime
limiterà l’opera di democratizzazione del governo Mandela (Harris, 1994). Il problema
è costituito dal fatto che Mandela stesso ha dovuto fare delle promesse e concessioni
alle parti padronali (anche in materia costituzionale) e alle agenzie finanziarie
internazionali prima ancora di essere eletto presidente. Questo fa sì che, come
sostengono Beaudet e Marais, l’ANC abbia sì, vinto le elezioni di aprile 1994, ma non è
andato effettivamente al potere (Beaudet, Marais, 1995; sulla Commissione per la verità
e la riconciliazione, guidata da Desmond Tutu, vedi Feuillatre, Bris, 1996). Alle nuove
elezioni presidenziali del maggio 1999, Mandela non si presenta, e vince Thabo Mbeki,
sostenitore della “rinascita africana” (Wauthier, 1999).
Dopo Reagan e l’entusiasmo per la sua politica economica di tipo militarista, gli USA
hanno un periodo di flessione economica e produttiva. Così, per mettere riparo alla
situazione di incipiente crisi, all’inizio del nuovo decennio gli economisti in auge
(impiegati alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale) propongono un
pacchetto di misure politico-economiche a favore della parte padronale (Krugman,
1991; Smith, 1993; Halimi, 1995). Un tale pacchetto di misure “anti-crisi” è stato
ritenuto utile, non solo per il caso degli USA ma per tutti i paesi in fase di declino o di
crisi – e per questo lo si è chiamato (e come tale è passato alla storia) Washington
Consensus (o anche “piano Brady”, come abbiamo già visto, dal nome del banchiere
che l’ideò, insieme al direttore esecutivo del FMI di quel tempo, Michel Camdessus). In
base a questo modo di pensare, le economie dei paesi in crisi (non importa se per motivi
propri o se causata a bella posta da alri paesi o gruppi di potere con politiche di
indebitamento) devono essere curate tutte alla stessa maniera, cioè, con politiche di
austerità e di cosiddetto “aggiustamento strutturale”, in pratica, riducendo il potere di
controllo dello stato sull’economia (per evitare la corruzione o i danni da incompetenza
dei politici). Il Washington Consensus è giustamente considerato come il modello di
politica economica internazionale voluta dai poteri finanziari internazionali, per
definizione stranieri ad ogni paese, e dunque opachi agli stessi parlamenti, che
intendono prestare il loro denaro solo a condizione di determinare direttamente o
indirettamente le politiche nazionali di un determinato stato. In molti casi,
l’indebitamento di un dato paese (complice la sua classe governante) è stato creato
appositamente, sicché la popolazione viene poi chiamata ad onorare il debito contratto
dalla sua classe politica dirigente, ciò che può fare solo assumendo nuovi prestiti, il
tutto innescando così un circolo vizioso, una spirale discendente ed infernale – debito
che chiama nuovo debito, e così via, all’infinito. Il “piano Brady” segna pertanto,
l’inizio della storia dei capitali internazionali volatili, che vanno e vengono da un paese
solo in funzione della possibile speculazione (eclatanti sono i casi del Messico, del
Brasile e dell’Argentina, come vedremo più sotto), in altri termini, di capitali stranieri o
internazionali attirati in un dato paese dagli alti tassi di interesse, ma che non si
radicano in questo paese, e che tanto meno possono essere controllati da un potere
politico democraticamente eletto – lasciando da parte la questione della frequente e
sistematica corruzione (Toinet, 1994 e 1995).
È in questo contesto che nasce la “finanza creativa” statunitense, grazie a Gerald
Corrigan, dirigente della Goldman Sachs ed ex-direttore della Federal Reserve, che
inventa nuove tecniche finanziarie, cioè, i “prodotti derivati”, per evitare “una violenta
dislocazione sistemica” dei mercati. Si tratta di prodotti finanziari di difficile
comprensione per i normali cittadini, ma la cui pericolosità per la loro vita diventerà
evidente nel decennio successivo – in pratica, titoli rischiosi e mascherati, vuoti di
contenuto.
Salvataggi di banche fallite e credito limitato alle imprese fanno sì che, nei fatti, si
allarghi il divario fra ricchi e poveri in ogni singolo paese – per non parlare del divario
fra paesi ricchi e paesi poveri nel mondo (Gitlin, 1995; Petras, Cavaluzzi, 1996;
Halimi, 1996; per la politica estera USA di questo decennio, vedi Alterman, 1999 e
Goodwin, 2001).
In Messico, e malgrado gli accordi NAFTA (o forse a causa di essi), il malcontento
sale a livelli da guerra civile. In effetti, la crisi finanziaria (a seguito dell’intervento di
Moody’s, che fa scappare gli investitori) scoppia nel 1994, in coincidenza con
l’insorgere dell’esercito zapatista nel Chiapas (è difficile stabilire cosa fu la causa e
cosa l’effetto, probabilmente i due eventi furono solo contemporanei). Ma il FMI
interviene con il più grosso prestato mai elargito nella storia: 50 miliardi di dollari
(Ramonet, 1995). Il paradosso, ovviamente, è che il Messico cade nella crisi malgrado
abbia obbedito alle regole imposte dal Washington Consensus e sia stato il paradiso
degli speculatori internazionali e dei capitalisti locali (Sachs, 1995). In Brasile il
governo del presidente Collor si rivela incompetente dal punto di vista sia politico, sia
economico e lo stesso Collor, travolto dagli scandali e dal processo di impeachement, è
costretto a dimettersi. Il vicepresidente, Itamar Franco, prende il suo posto; ministro
dell’Economia è ora Fernando Henrique Cardoso. Questi, che pure era stato critico di
Collor, ricostruì lo stesso partito dell’ex-presidente come base per la sua candidatura a
presidente, viene eletto presidente nel 1994, e rieletto nel 1998, alleandosi pian piano
con le stesse forze conservatrici e finanziarie, nazionali ed internazionali, che
precedentemente avevano sostenuto la dittatura e Collor. Cardoso fu artefice del Piano
Reale, con il quale il Brasile cambiò la sua moneta, dal cruzeiro al reais. Con Cardoso,
il Brasile si indebitò con i grandi investitori, finendo nella spirale del Washington
Consensus (Aquino et al., 2002, p. 861; Gabetta, 1998).
Anche l’Argentina, successivamente a Raúl Alfonsín, è in preda alla grave crisi
economica e inflazionistica (iperinflazione, superiore al 750% nel luglio 1989). Il
nuovo presidente, Carlos Saúl Menem, peronista, eletto nel 1989, riesce ad attirare
molti nuovi capitali stranieri nel paese, col rilancio del consumo e una forte crescita, ma
senza un’adeguata pacificazione sociale rispetto al passato della dittatura (anzi, quando
nel 1995 uscì il libro di Horacio Verbitsky El Vuelo, dove si racconta di come, con la
complicità della Chiesa cattolica, i prigionieri politici venissero lanciati in mare dagli
aerei dell’esercito, Menem si rifiutò di aprire la questione della dittatura). La situazione
precipitò quando il ministro dell’Economia Domingo Cavallo presentò la Ley de
convertibilidad, che aveva l’obiettivo di sancire l’equivalenza tra dollaro statunitense e
peso argentino – né il MERCOSUR, con Brasile, Uruguay e Paraguay, riuscì a fare da
paracadute. Il paese cominciò ad indebitarsi col FMI (6,7 miliardi di dollari USA), con
il seguito di politiche di aggiustamento strutturale e l’alto tasso di interesse per i capitali
prestati. Menem venne nuovamente rieletto nel 1995 mentre gli indici economici
(disoccupazione, povertà, lavoro nero, debito estero) peggiovano (Gabetta, 1995).
In Cile, la nuova classe politica democratica, guidata dal presidente Patricio Aylwin
(eletto presidente il 14 dicembre 1989 come candidato del PDC Partito Democratico
Cristiano ed esponente della coalizione detta Concertacion, che raccoglieva 17
formazioni politiche) e poi da Eduardo Frei, nuovo presidente dall’11 marzo 1994, non
solo mantiene Augusto Pinochet come Comandante dell’Esercito di terra fino al 1997
(e futuro “eroe della patria”), e trascurano il dibattito sulla giustizia dovuta alle vittime
della dittatura (la Commissione per la verità e la riconciliazione sembra avere avuto qui
solo un valore di testimonianza), ma portano il paese nell’economia mondiale in un
quadro neo-liberista, dunque con politiche economiche assolutamente in linea con
quelle della precedente dittatura (Jouineau, 1998). Da questo punto di vista, pare di
potere affermare che anche i maggiori paesi dell’America del Sud costituiscono degli
importanti esempi di “passaggi irreversibili” verso la non-democratizzazione in questo
decennio.
Paragrafo II
Politica
Sviluppo umano
A Davos, cittadina svizzera, è dal 1970 che ogni anno capi di stato, banchieri e uomini
importanti (VIP) si ritrovano per fare il punto della situazione dell’avanzata del libero
scambio e la de-regolamentazione nel mondo (l’insieme delle raccomandazioni
comprende: la riduzione dell’inflazione e dei deficit budgetari, il perseguimento di una
politica monetaria restrittiva, l’incoraggiare la flessibilità del lavoro, lo smantellamento
dello stato-provvidenza e lo stimolo al libero-scambio): si tratta del Forum Economico
Mondiale, fondato da Klaus Schwab (Toinet, 1994).
Indubbiamente, l’argomento dello sviluppo è complesso e, come arguisce Sen, non si
tratta solo di una questione di denaro. Pur con tutte le perplessità che una larga corrente
di studiosi aveva manifestato a proposito della problematicità dello sviluppo in quanto
tale, dal punto di vista sociale ed ambientale soprattutto (Serge Latouche per tutti:
Latouche, 1992, ed. or. 1989), mentre altri economisti si erano rivolti già criticamente
agli aspetti più tecnici (di macro- e micro-economia) delle politiche di sviluppo
(Krugman, 1990), Sen aderisce all’invito di Mahbud Ul Haq a partecipare allo sforzo
dell’UNDP di concepire un nuovo Indice dello Sviluppo Umano (UNDP, 1990). In
questo indice il reddito pro capite si somma al numero di anni di vita che ci si attende di
vivere alla nascita e al numero di persone adulte alfabetizzate di un paese – dunque:
reddito, salute e istruzione. Facendo una comparazione fra i tre tipi di statistiche
presentati dai diversi paesi si può capire quale paese, utilizzando le proprie risorse, stia
effettivamente promuovendo politiche per la salute e per l’educazione, e quali no. In
effetti, quel che si è visto da questi studi è che le due curve, quella del Prodotto Interno
Lordo (in inglese GNP, Gross National Product) e quella dello “sviluppo umano” (in
inglese HD, Human Development), non necessariamente coincidono: “There is no
automatic link between economic growth and human development […] high levels of
human development can be achieved even at modest income levels. It is a matter of
how resources are used, of putting people first”. Il Rapporto mette così a nudo il ruolo
politico del governo e degli altri fattori economici nella promozione dello sviluppo
umano – sicché la responsabilità per il cattivo uso delle risorse disponibili diventa un
fatto collettivo, considerando che sono per lo più le popolazioni che votano ed eleggono
i loro rappresentanti politici. Un paradosso che viene notato è che proprio i paesi più
poveri spendono di più per gli eserciti, piuttosto che per gli ospedali o le scuole.
Grazie a questo meccanismo di ricerca e di comparazione, gli annuali Rapporti
dell’UNDP sono diventati un faro per illuminare le misure politiche utili e consigliabili
in diversi campi (i Rapporti sono spesso in sintonia con gli eventi mondiali organizzati
sui vari temi dell’agenda globale dalle Nazioni Unite – i vari summit sull’ambiente, la
questione delle donne, lo sviluppo, etc.): su come riformare la spesa sociale (1991), su
come ridurre le diseguaglianze mondiali (1992), la decentralizzazione (1993), la
sicurezza (1994), la partecipazione delle donne (1995), la crescita economica (1996), lo
sradicamento della povertà (1997), i consumi (1998), la globalizzazione (1999), i diritti
umani (2000), e poi, nel nuovo decennio: la revisione e il finanziamento dei Millennium
Development Goals e le nuove tecnologie (2001). In tutti i Rapporti vediamo
riecheggiare, perentoria, la definizione di sviluppo umano: “Lo sviluppo umano è un
processo di ampliamento della gamma di scelte della gente, una vasta gamma di
opzioni le più importanti delle quali sono una vita lunga e sana, la possibilità di studiare
e di accedere alle risorse necessarie per uno standard di vita dignitoso, a cui vanno
aggiunte la libertà politica, la garanzia dei diritti umani e il rispetto di se stessi”
(UNDP, 1990, Sintesi, p. 11). La libertà, dunque, è essenziale, sia nell’ambito del
mercato che nell’arena politica (Sen, 2000; ed. or. 1991, 1994, 1997; 2000; ed. or.
1999; Sen, 2002; sul concetto-base di “qualità della vita”, vedi Nussbaum, Sen, eds.,
1993).
Nei fatti, le politiche sul terreno sono state spesso di segno opposto a quelle auspicate
dall’UNDP. Per esempio, il principio democratico, solidale e nazionale del pagamento
delle tasse in maniera equa e proporzionale è stato stravolto: in Europa i governi
praticano una riduzione dell’imposta sul reddito, quindi chi guadagna di più, paga di
meno (così fa il governo di Alain Juppé in Francia nel 1996). Per aumentare l’impiego,
al contrario, lo stato dovrebbe usare cinque leve: la politica monetaria, la politica
budgetaria, i salari, il tempo di lavoro, e i servizi pubblici (Hoang-Ngoc, Imbert, 1996).
I beni pubblici vengono minacciati dalla privatizzazione galoppante, e lo stato sembra
ritirarsi proprio dal governo di quei beni che non dovrebbero mai essere
commercializzati, dall’acqua all’educazione, dalle sementi alla salute (sulla “fine dello
stato”, vedi Ohmae, 1996; per quanto riguarda il ruolo dell’Organizzazione mondiale
del Commercio, vedi Michie, Grieve, eds. 1998; sull’acqua, vedi Petrella, 1998;
Petrella, 1999). Peraltro, si comincia a vedere come questo sviluppo uccida il lavoro,
generando reddito solo per i più ricchi (in Spagna, per esempio, fra il 1980 e il 1992, il
reddito raddoppia, ma l’occupazione diminuisce dello 0,3% (Bourdieu, 1993; Ruffolo,
1994; Julien, 1994 e 1995; Rifkin, 1995; sull’opportunità della diminuzione dela
tassazione sul lavoro, vedi De Brie, 1995; sul passaggio dal taylorismo al toyotismo,
vedi Martin, 1994; Revelli, 1999).
Il problema dell’ambiente; si è notato che il non-governo dei processi globalizzati di
produzione comporta che i paesi industrializzati finiscono per danneggiare l’ambiente
dei paesi non-industrializzati, politicamente più deboli e ricattabili (sulla questione del
riciclo dei rifiuti in questi primi anni ’90, vedi Sachs, 1993; Rich, 1994; sui costi
imposti all’ambiente, vedi Dasgupta, 2005). Peraltro, dopo la caduta del Muro di
Berlino, il capitalismo giunge nelle aree una volta comuniste con una fortissima grinta
ed implicita legittimazione, il che ha significato un’aggressione dei gruppi di potere
industriale e politico dei paesi del Primo Mondo anche sui paesi ex-comunisti, Russia,
Cina e Vietnam inclusi (Kolko, 1995; Smil, 1993; Blasi, Kroumova, Kruse, 1997).
Contro il capitalismo rampante si levano voci sia da parte di religiosi, come il famoso
padre Joseph Lebret, figura importantissima del cattolicesimo francese, sia da parte
laica (una delle iniziative più coinvolgenti è stata quella di Riccardo Petrella e
del Gruppo di Lisbona: Groupe de Lisbonne, 1995, che individua nella Banca Mondiale
e nel FMI i maggiori responsabili del degrado civile e sociale del decennio. Sul
fondamentalismo economico, vedi Ramonet, Janvier 1995. Per alcune analisi mirate:
sull’India, vedi Sen & Drèze, 1998; per la Francia, vedi Cassen, Septembre 1996;
sull’ambigua politica di Clinton, vedi Luttwak, 1995; Wacquant, 1996; sui paesi arabi,
in cerca di un nuovo equilibrio fra sviluppo e democrazia, vedi Brynen, Korany, Noble,
eds., 1995; per quanto riguarda l’Irak fra il periodo della guerra con l’Iran e
l’aggressione al Kuwait, vedi Jabar, 1992; sulla Tunisia, Guelmani, 1996; sull’Algeria,
vedi Goumeziane, 1994 e 1996; sull’Egitto e le elezioni legislative del 1995, vedi
Gamblin, 1997; sull’Africa, vedi Monga, 1994; Wauthier, 1995 e 1996; Engelhard,
1998).
Neanche le celebrazioni per il cinquantenario della Seconda guerra mondiale sono
sfuggite all’ambiguità politica propria di questo decennio e alla “confusione” fra
politiche di destra e di sinistra (Dahrendorf, 1995, parla di fare Quadrare il cerchio;
Benasyag, 1998; Joel, 1998; Boltanski, Chiappello, 1999; si comincia ora a parlare
anche di “qualità della democrazia”: Ramonet, Mai 1995; Felden, 1996; Rist, 1997).
Sulla crisi economica globale scatenata dalla Thailandia, estesasi subito in tutta l’Asia,
gli osservatori sono concordi nell’addebitarne la colpa alle cattive politiche delle
Organizzazioni finanziarie internazionali (Ramonet, Mars 1999; vedi il numero
speciale, intitolato Peut-on réguler le capitalisme? di Esprit del novembre 1998;
AA.VV., 1998; George, 1999 ; sulla tassa Tobin, vedi Cassen, 1999).
Nella crisi della sinistra, che si rialzerà solo nel successivo decennio con l’iniziativa dei
World Social Forum sull’alter-mondializzazione, partita da Porto Alegre nel 2001 (ma
già iniziata con le prime proteste No Global di Seattle del 1999), in questo decennio
abbiamo solo un eccentrico approccio alla povertà da parte dell’economista peruviano
Hernando de Soto, per il quale il problema maggiore dei poveri consiste nel fatto che
tra l’economia sviluppata dai poveri e la legalità esiste uno iato che si può colmare solo
con la “rappresentazione legale”, cioè, con la prezzizzazione delle mille attività che i
poveri fanno (De Soto, 2001).
L’approccio delle capacità è patrocinato da Amartya Sen (Sen, 2000). Per lui scopo del
governo è quello di implementare le libertà degli individui, in modo tale che questi
sappiano, forti delle loro capacità sviluppate grazie ad istituzioni pubbliche funzionanti,
scegliere il loro modo proprio di migliorare la loro vita (è brillante, in particolare, la sua
argomentazione sulla riconcettualizzazione della “povertà come incapacitazione”,
pressando tutti i governi, anche quelli democratici e liberali, ad intervenire attivamente
per attuare politiche sanitarie e educative che aiutino tutti a superare i propri limiti
personali a “funzionare”, sviluppata da Sen, 2000, capitolo IV).
Per quanto riguarda l’America Latina, qui gli autori cominciano a parlare della
“conjuntura”, cioè, della fase di trapasso economico da un’epoca all’altra dal punto di
vista latino-americano, che rende problematico il ritorno alla democrazia piena (c’è qui
il riflesso problematico della crisi del Chiapas del 1994: Sous-commandant Marcos,
1994 e 1997; per quanto riguarda il caso cileno, in particolare, vedi Matus, 1999; per
quanto riguarda l’Argentina: Gabetta 1997).
Capitolo II
Globalizzazione vs. Interdipendenza
In questo secondo capitolo verranno trattate le diverse storie macro-regionali
dell’ultimo decennio del secolo scorso, insieme alle proposte teoriche politiche,
tenendo conto dell’opposizione concettuale (oltre che concreta) Globalizzazione vs.
Interdipendenza.
Se nel primo capitolo ci ha guidato il concetto, più o meno contestato o aggiustato, di
sviluppo, qui è la dimensione più propriamente internazionale delle politiche statali o
sovra-statali che orienterà la lettura dei fatti storici ricapitolati, così come delle opere
dei maggiori teorici di filosofia politica del decennio. Da questo punto di vista, ha
un’enorma importanza il rinsaldarsi o il costituirsi delle entità sovra-statali – ASEAN,
Unione Europea, Unione Africana, NAFTA, MERCOSUR, al di là dei più tradizionali
OECD, Lega Araba, OPEC, etc.
E la domanda specifica sarà: sono queste stesse entità sovra-statuali degli altrettanti
“passaggi irreversibili” di non-democratizzazione globale?
Paragrafo 1
Storia
Globalizzazione vs. Interdipendenza
Facciamo prima una rapida panoramica generale. La crisi e poi la definitiva scomparsa
dell’URSS ha tolto ipso facto qualsiasi base alla proposta di Gorbaciov
dell’interdipendenza planetaria. Questa idea, che il leader sovietico aveva cominciato a
fare filtrare al livello di politica estera, mentre che procedeva alla perestrojka e alla
glasnost in politica interna, si collocava in una visione unitaria e socialista del genere
umano.
La globalizzazione ebbe, dunque, facile gioco ad imporsi su qualsiasi ipotesi politica ed
economica alternativa. Dietro La globalizzazione agiscono i poteri finanziari nazionali
ed internazionali e le potenze politiche occidentali più forti; il loro scenario è quello
della loro imposizione come frame of mind dominante, come norma per tutto il mondo.
La stessa Cina, che ha i numeri per aspirare al posto di super-potenza alternativa agli
USA, posto che era già stato dell’URSS, deve adottare lo stesso linguaggio economico
dell’Occidente, entrando nelle Organizzazioni internazionali economiche, finanziarie e
di commercio, per poter fare competizione da lì (“socialismo di mercato”).
Da questo momento, tutti i problemi maggiori dell’umanità si uniformano allo standard
della globalizzazione. Anche se ogni civiltà ha già conosciuto i problemi ora
globalizzati – dalla pace e la giustizia sociale alla divisione del lavoro e la protezione
dell’ambiente e della salute –, adesso questi stessi vecchi problemi ridiventano nuovi
semplicemente perché vanno ad inquadrarsi nella globalizzazione. Con alcuni
paradossi.
La lotta alla droga e al terrorismo sono due fra i casi più interessanti e problematici. Gli
USA, da una parte, si fanno paladini della guerra ad entrambi, essendo essi stessi i
maggiori consumatori di droga al mondo e i maggiori esportatori di armi (che si
possono anche vendere ed usare liberamente all’interno del loro territorio nazionale).
Gli USA accuseranno il Messico, durante il decennio ‘90, di essere troppo debole con i
narco-trafficanti e, quindi, applicheranno una risoluzione di sanzioni contro il loro
partner NAFTA (13 marzo 1997), che giustamente, da parte sua, il Messico prenderà
come un’intrusione indebita e una minaccia alla propria sovranità nazionale (Aguirre,
1997). Peraltro, quando si creerà la Corte internazionale penale, a Roma nel luglio
1998, gli USA, come altri stati sovrani, decideranno di non supportarla (ChemillierGendreau, 1996; Chemillier-Gendreau, 1998).
Gli USA, inoltre, non digeriscono la presenza forte del segretario generale dell’ONU
Boutros-Ghali, che pure vuole imporsi come grande figura internazionale di paciere
(Rouleau, 1996).
Nella storia globale della droga e del narco-traffico, tutti gli stati sono ormai sotto
l’influenza del denaro sporco, che gira in tutto il mondo. Paradossalmente, malgrado
tutte le evidenze dicano che le politiche proibizioniste non proteggono la salute
pubblica, tutti i governi si ostinano ad usarle come rimedio (improbabile) contro il
traffico di droga – ciò che, in realtà, permette ad inconfessabili interessi geopolitici e
militari di continuare a proliferare all’ombra di “plausibili” giustificazioni (De Brie,
1996).
L’economia e la finanza sono le prime sfere che si globalizzano. – Tanto questo è vero,
che si capisce da subito che non più gli stati, ma le multinazionali guidano ora le
politiche economiche e produttive in tutto il mondo, con grave danno per il significato
stesso di democrazia (Goldsmith, 1996, parla delle grandi ditte che dislocano i loro
processi di produzione, dando, per esempio, lavoro a donne in Bangladesh, che hanno
sì, una scarsa formazione, ma che possono essere a fortiori mal-pagate. Su bilanci
generali, ma provvisori, della globalizzazione, vedi il dossier Mythes et réalités de la
mondialisation, di Esprit, Novembre 1996. Per una prospettiva critica, vedi il dossier
Misère de la mondialisation, Agone, n. 16, 1996, con interventi di Noam Chomski,
Immanuel Wallerstein, Samir Amin, François Chesnaus, fra gli altri. Anche la finanza
islamica si è dovuta adattare al nuovo capitalismo maturo: Warde, 2000).
Qui, il grande paradosso si manifesta nel 1997 quando la Thailandia, che pure era stato
un paese ligio ai dettami del FMI, inizia un crac delle Borse (malgrado il soccorso di 17
miliardi dello stesso FMI) che si estende rapidamente a tutta l’Asia ASEAN
(Clairmont, 1997. Per quanto riguarda l’ultra-difficile passaggio di Hong Kong alla
Cina proprio nel 1997, vedi Lew, 1997; sulla crisi del Sud-est asiatico e il riflesso sul
Giappone, vedi Golub, Juillet 1998, e su tutto il sistema mondiale Golub, Janvier 1998).
Con ragione, a questo punto, Ignacio Ramonet reclama un nuovo “contratto sociale” su
scala mondiale (Ramonet, 1997).
Per quanto riguarda lo sviluppo delle grandi città, l’ONU pubblica un prospetto ad
inizio decennio, a cui seguono critiche soprattutto al degrado comportato dalle politiche
promosse dalla stessa Banca Mondiale (UN, 1991; Annik Osmont, 1995). A metà del
decennio l’ONU organizza a Istanbul una nuova conferenza mondiale su questo tema
nel 1996, la conferenza Habitat II.
Come si globalizza la ricchezza, altrettanto accade alla povertà, a partire dalla macroregione più povera del mondo, l’Africa, la cui agricoltura, un tempo capace di
garantirle la sussistenza, adesso è in piena crisi (Le Monde diplomatique, Mars 2000, vi
dedica un intero dossier; vedi anche Moises Naim, redattore-capo di Foreign Policy
(Washington), a proposito del Washington Consensus: Naim, 2000).
Lo sviluppo selvaggio della globalizzazione minaccia seriamente l’ambiente,
soprattutto quello dei paesi più impoveriti e meno capaci di reagire adeguatamente a
soprusi dovuti ad inique politiche dei rifiuti industriali. Così, malgrado le iniziative
delle Nazioni Unite per la protezione dell’ambiente e della salute – tra cui il
famoso “protocollo di Kyoto” sulla limitazione delle emissioni di CO2, del dicembre
1996, che gli USA non sottoscrivono – la situazione globale del problema
dell’ambiente continua a peggiorare (Chemillier-Gendreau, 1998; sul problema delle
scorie nucleari, che non si sa dove mettere, vedi Boilley, 1998).
In questo decennio comincia, così, a comparire il fenomeno dell’alterazione del clima e
dei rifugiati per motivi ambientali, che vanno ad aggiungersi alle masse di persone che,
a causa della povertà e dell’insicurezza, decidono sempre più spesso e in maggior
quantità di spostarsi dal Sud al Nord del mondo. Il Nord del mondo, in genere retto da
democrazie e “democrazie”, viene così messo fortemente a dura prova – la democrazia
stessa è ora messa alla prova dell’intercultura (Blanchard, sous la dir de, 1996).
A questo proposito, molti si chiedono se veramente la dimensione nazionale stia
tramontando – anche per via del sorgere delle nuove alleanze fra stati (Unione Europea,
Unione Africana, NAFTA, ASEAN, MERCOSUR, al di là delle più vecchie alleanze –
come la Lega Araba, l’OECD, etc.) – a favore di una sorta di costellazione postnazionale, oppure no (così Habermas, 1991; vedi anche Fitoussi, 1995; Keohane,
Milner, 1996; Sassen, 1996. Nel 1998 l’OECD elabora un testo, l’Accordo multilaterale
sugli investimenti a favore delle multinazionali, che tutti i governi sottoscrivono:
Wallach, 1998).
Per finire con questa panoramica generale di problematiche globalizzate, accenniamo
adesso alla questione della guerra. La prima del decennio, del gennaio 1991, è quella
del Golfo (che si lascia dietro uno strascico di morti civili per le armi radioattive – con
uranio impoverito – ivi utilizzate: Lefkir-Laffitte, Laffitte, 1995).
Anche le altre guerre del decennio – Somalia, Bosnia, Ruanda, Congo, Kossovo –
acquisiranno un carattere globale per via dell’intervento di coalizioni militari
internazionali (in genere, la NATO e i caschi blu dell’ONU). Tra il 1990 e il 1999 sono
quattro i milioni di morti per causa delle armi leggere, il cui traffico internazionale è ai
massimi livelli, e tutti i paesi, anche sviluppati, vi sono inclusi (per quanto riguarda la
supremazia USA nel mercato globale delle armi, vedi Hébert, 1995; Wright, 2001).
Il Giappone ha sempre ritenuto di possedere una posizione speciale, a parte, nel
mondo, assegnatale dalla natura, in quanto arcipelago. Questa insularità ha fornito nei
secoli la legittimazione al potere imperiale, in quanto ha favorito la creazione di una
sorta di eccezionalità della popolazione giapponese. Tuttavia, nel nuovo decennio una
serie di fattori interni ed internazionali, spesso anche di tipo meramente economico, ha
influito nel rendere caduca questa ideologia di identità a parte del popolo giapponese
(Postel-Vinay, 1994). Tuttavia, militarmente il Giappone rimane succube degli USA
(Harrison, 1995 e 1997; dossier in Le Monde diplomatique, Mai 1994).
La globalizzazione è una questione soprattutto di ordine economico e finanziario. Così,
in occasione della crisi finanziaria della Thailandia del 1997 l’unificazione dei mercati
finanziari, tipica della globalizzazione, ha implicato la sua propagazione in altri paesi
vicini, fra cui Sud Corea, Indonesia e lo stesso Giappone. Per riuscire a mettere a posto
i conti, l’ex “impero galleggiante” ha dovuto impiegare ben 30 miliardi dei suoi yen
(Dourille-Feer, 1998).
In Cina, la politica della riforma e di apertura è già stata lanciata nel decennio
precedente, anche se la “Teoria di Deng Xiaoping” verrà inserita nello Statuto del PCC,
accanto al marxismo-leninismo-maoismo, solo nel 1997 in occasione del quindicesimo
Congresso (Ticozzi, 1998, II appendice).
La politica di apertura della Cina causa una forte avvicinamento della Cina stessa al
resto dell’Asia (Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Singapore, Thailandia), sia dal
punto di vista economico che militare, senza per questo mettere in discussione il regime
comunista, dotato di una forte impronta autoritaria, quasi imperiale (Gentelle, 1994, p.
111; Lew, 1999).
Il Fondo Monetario Internazionale è impegnato fortemente in Indonesia, ma l’esito di
tale impegno è molto controverso: secondo alcuni osservatori, l’effetto sarebbe letale
per l’economia del paese (Evans, 1998). Nei fatti, Suharto si deve dimettere (21 maggio
1998) per non essere capace di gestire la transizione imposta dal FMI (Chomski, 1998).
Anche in India, le politiche neo-liberiste attirano molte critiche, anche se queste riforme
economiche sembrano aver innalzato gli standard economici del paese nel 1993 (Zins,
1992; Landy, 1994; Landy, 1995; Racine, sous la dir de, 1994). L’adesione dell’India al
mercato mondiale è rimasto, tuttavia, parziale (Vaugier-Chatterjee, 1996, p. 250). Nel
gennaio 1995 i ministri del lavoro dei paesi non-allineati si riuniscono (l’India tra
questi) e ribadiscono di non accettare la clausola relativa alle condizioni di lavoro da
realizzare nei loro paesi al fine di integrarsi nel commercio internazionale. Gli
investimenti stranieri in India sono continuati in misura considerevole in questo
decennio, partecipando all’aumento dell’inflazione. Questi investimenti provengono
soprattutto dall’Europa (segnatamente Inghilterra e Francia) e dagli USA. Gli USA,
addirittura, per voce dello stesso Clinton, auspicano di diventare il primo partner
commerciale dell’India e il principale paese straniero investitore, tendendo così a
ricoprire il ruolo che fino a quel momento aveva giocato il Giappone.
Probabilmente, la perdurante tensione con il Pakistan trattiene l’India dall’aderire, nel
1996, al trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, pur che sostenuto dagli USA
(Saksena, 1996). In un volume che cerca di trarre il bilancio di 50 anni di indipendenza
dell’India lo storico Partha Chattarjee e i suoi collaboratori centrano quello che sembra
essere il problema più importante dell’India di questo periodo: cercare di ricollocarsi
nel mondo unipolare barcamenandosi fra spinte identitarie di tipo anche religioso e
motivazioni economiche tese alla crescita e all’auto-promozione macro-regionale e
asiatica (Chatterjee, 1997; vedi anche Saksena, 1997; per quanto riguarda l’insorgere
del nazionalismo indu, vedi Jaffrelot, 1998).
Come abbiamo visto nel primo capitolo, nel corso del 1990 la maggior parte delle
repubbliche ex-sovietiche si dichiara indipendenti dall’URSS. Per quello che riguarda
la politica estera dell’ex-gigante sovietico, fu a Shevarnadze, ex-ministro degli Esteri,
che venne addebitata la politica dismissiva nei confronti del Patto di Varsavia,
considerato come un atteggiamento troppo obbediente nei confronti dell’ONU e,
soprattutto, in merito alla questione dell’Iraq, deludente rispetto alle richieste dei paesi
amici arabi. Gli venne rimproverato anche di avere smobilitato l’Armata Rossa in
Europa centrale, ciò che un tempo conferiva prestigio internazionale all’URSS.
In effetti, tolto di mezzo Shevarnadze, l’URSS dell’inizio del 1991, in mano ancora ai
conservatori, tentò di impedire alle repubbliche baltiche di perseguire il loro distacco da
Mosca (Cheterian, 1994). Successivamente, però, la disgregazione dell’URSS stessa, a
partire dal suo centro moscovita eltseniano, minò alla base ogni ulteriore tentativo di
dominio centralistico. Si pose, piuttosto, e soprattutto per gli USA e l’Europa, una
questione di segno opposto, e cioè, il controllo dell’arsenale militare (Romano, 2003, p.
625) e la protezione dell’ambiente, dopo l’incidente di Cernobyl, 1985 (Bartak, 1996;
altri disastri ecologici sono quelli del Lago Bajkal, su cui vedi il servizio in Sources
UNESCO, n. 83, 1996; Sapir, 1996).
Malgrado il successo elettorale di Eltsin, la situazione in Cecenia si inasprisce. Eltsin
riesce ad ottenere da Michel Camdessus, direttore generale del FMI, un prestito storico
di circa dieci miliardi di dollari nel gennaio 1996; ad aprile la Russia ottiene dal Club di
Parigi una dilazione di 25 anni per rimborsare altri 4 miliardi di dollari di debito
esterno. Anche la Banca Mondiale annuncia un prestito di 200 milioni di dollari
destinati a sostenere i servizi sociali russi. Il successo di Eltsin è ora assicurato, ma a
condizione di indebitare il paese fino al collo. Questo indebitamento della Russia non
poteva essere altro che la premessa di una successiva mossa geo-strategica, che adesso
avanza la NATO: l’impianto di nuove basi militari in alcuni paesi dell’ex-Patto di
Varsavia. Giustamente Eltsin interpretò questo come l’espressione della volontà
imperialistica delle potenze occidentali, ma riuscì, tuttavia, a reagire con moderazione,
firmando a Parigi, il 27 maggio 1997, un’entente cordiale con la NATO, denominato
“Atto fondatore delle relazioni reciproche e della collaborazione e sicurezza fra la
NATO e la Federazione russa”, riuscendo a ritardare l’adesione della Polonia alla
NATO fino al 1999, quando, però, venne a coincidere con la guerra del Kossovo: in
quest’occasione la NATO stava bombardò la Serbia, con disappunto di una Russia
risentita ma impotente (ministro degli Esteri Primakov: De la Gorce, 1997).
La crisi economico-finanziaria, ma anche politica ed etica in cui si dibatte la Russia
nella seconda metà del decennio, e che viene ad incrociarsi con quella che proviene
dalla Thailandia, non può non riflettersi su tutto lo scacchiere dell’ex-Patto di Varsavia.
Gli ex-gerarchi della nomenklatura sovietica sono ora diventati grandi proprietari e
detentori di capitali (e si parla appunto di “capitalismo mafioso”: Karol, 1997)
La politica estera della Turchia nel decennio ’90 è ricchissima. Il quadro macroregionale è enormemente dinamico – gli equilibri fra ex-URSS, USA e Unione Europea
stressano notevolmente il tradizionale ruolo di cerniera che Istanbul (“la Porta”) ha
sempre giocato fra l’Occidente europeo e l’Asia. Inevitabilmente, dopo la caduta
dell’URSS, la Turchia si trova a parteggiare sempre di più per gli USA. Gli osservatori
internazionali mettono ora la Turchia al centro di quello che chiamano il “cerchio di
fuoco”, la zona fra i Balcani, il Caucaso e la Mesopotamia (Fumagalli, 2002). Quando
la Russia, negli anni ‘94-96, ha intensificato il suo attacco contro la Cecenia (a
maggioranza musulmana), la Turchia, prudentemente, non ha protestato più di quanto
non abbiano fatto altri paesi (Huver, 1996, p. 331). I motivi di così tanta prudenza,
ovviamente, vanno ricercati nella questione del trasporto del petrolio e del gas dal
Caucaso e dagli altri paesi centro-asiatici verso l’Occidente – le scelte avrebbero potuto
privilegiare, alternativamente, o la Russia (e l’Iran), o gli USA (Ferrari, 2002, p. 58). La
prima via avrebbe fatto giungere le risorse energetiche al porto russo di Novorossisjsk,
sul Mar Nero, passando anche per Mosca; l’altra sarebbe passata per l’Azerbaigian
(Baku) e la Georgia, escludendo ogni coinvolgimento (e vantaggio) della Russia. In
questo quadro complesso, l’attivo ed intraprendente presidente Oezal promuove nel
1992 l’area ovest-asiatica di cooperazione, denominata Cooperazione Economica del
Mar Nero (CEMN), unendo undici paesi: Albania, Armenia, Azerbaigian, Bulgaria,
Georgia, Grecia, Moldavia, Romania, Russia, Turchia e Ucraina (al potere c’è in questa
fase la coalizione del Partito della Giusta Via, che esprime la premier Çiller, e il Partito
della Madre-patria, leader Mesut Yilmaz). Da semplice forum, questa “area di
cooperazione” si trasforma nel 1998 in una vera e propria organizzazione regionale,
dotata di una propria banca di sviluppo e commercio (Fumagalli, 2002, pp. 131-136;
Ferrari, 2002, pp. 66-67). Nel 1997 la Turchia apre un rapporto preferenziale con gli
USA per il trasporto del gas naturale e del petrolio caspico – è il progetto Blue Stream,
con un consorzio Lukoil e Gazprom, a cui partecipa anche l’italiana ENI-Saipem
(Fumagalli, 2002, pp. 143-145; Ferrari, 2002, p. 95), e stringe rapporti strategicomilitari con Israele.
L’Asia occidentale costituisce una riserva petrolifera di notevoli dimensioni ed è,
quindi, di interesse mondiale. Per questo motivo, già dall’inizio del XX secolo le grandi
potenze dell’epoca, segnatamente Francia, Inghilterra, Russia e poi, sempre di più, Stati
Uniti, vi hanno giocato, e vi continuano a giocare ancora oggi, quello che in gergo
strategico-militare internazionale viene chiamato il “Grande Gioco”. Per via dei forti
problemi interni, la Russia deve cessare ogni aiuto militare al Pakistan (cosa
estremamente gradita all’India, ovviamente). – Ma i rifornimenti al Pakistan
diminuiscono drasticamente anche da parte degli USA (presidente Bill Clinton), che,
tuttavia, si riavvicinano all’India: i rapporti fra i due paesi, pur che riaffermati dalla
visita di Clinton a Delhi nel 1995, rimangono problematici a causa dei due punti della
non-proliferazione delle armi nucleari e dei diritti umani (il Pakistan sviluppa una
cooperazione economica più importante, invece, con l’Iran, soprattutto per iniziativa
del ministro degli Esteri iraniano Ali Akbar Velayati, nel campo commerciale e del
turismo: Vaugier-Chatterjee, 1996, p. 247).
L’asse della politica estera del Pakistan rimane, dunque, caratterizzata, in primo luogo,
dal confronto militare con l’India per la regione del Kashmir, per la cui soluzione
diplomatica, ancora a inizio del decennio in esame, non si vedono prospettive. La
situazione si complica, tuttavia, a causa della contemporanea crisi afghana (la lotta,
dopo la caduta del regime filo-sovietico, fra Sibghatullah Modjaddedi, Burhanuddin
Rabbani e Gulbuddin Hekmatyar), destinata a durare e anzi a inasprirsi durante tutto il
decennio. Per diversi motivi, la Bhutto si trova ad appoggiare i talibani, che giungono al
potere nel settembre 1996 (Abou Zahab, 1996, p. 295; Dastarac, Levent, 1996; Rashid,
2000).
L’Iran, sotto i presidenti moderati del quindicennio 1990-2005 (Ali Abkar Haschemi
Rafsanjani dal 1990 al 1997, e Sayyed Mohammed Khatami dal 1997 al 2005),
migliora le sue relazioni con l’estero, soprattutto con l’Occidente (Kian-Thiébaut,
1998). Ma le prime misure liberiste del governo Rafsanjani, come abbiamo già visto nel
precedente capitolo, causano una crisi economica che porta il regime ad accentuare la
sua tendenza al sospetto e alla chiusura nei confronti dell’estero. Questa tendenza
all’introversione del regime si manifestò, a fine 1994, con l’approvazione di una legge
che vietava le antenne paraboliche – una legge, ovviamente, dall’applicazione quanto
mai problematica (Adelkhah, 1996, p. 257). Il caso dello scrittore Salman Rushdie,
anglo-iraniano, condannato a morte dall’ayatollah per il suo romanzo, considerato
blasfemo, Versetti satanici, peggiorò notevolmente i rapporti dell’Iran con l’Europa. A
peggiorare, invece, i rapporti con gli USA, servirono i progetti di proliferazione
nucleare. In particolare, alla compagnia petrolifera USA Conoco venne vietato di
operare in Iran – d’altra parte, gli USA fecero in modo da escludere l’iraniana NIOC
dallo sfruttamento dei giacimenti dell’Azerbaigian, a favore della società turca TPAO e
della multinazionale statunitense Exxon. Questo quadro di sfiducia, reciproca fra l’Iran
e l’Occidente (Europa e USA) convinse il regime sciita a rivolgere la propria attenzione
dalla parte delle repubbliche musulmane ex-sovietiche dell’Asia centrale – vero nuovo
polo di attrazione di politica estera del decennio –, ma anche con l’India e il Pakistan
(Adelkhah, 1996, p. 261).
Come abbiamo già visto, la politica estera dell’Iraq, guidato da Saddam Hussein, è di
tipo aggressivo (invasione del Kuwait: 2 agosto del 1990). Fallita la soluzione interna
alla Lega Araba, l’opzione militare al problema Irak-Kuweit rimase l’unica sul tavolo, e
fu materializzata dalla risoluzione ONU n. 660 del 2 agosto stesso (Di Nolfo, 2000, p.
1351). La guerra fu rapidamente vinta dalla coalizione anti-Saddam – tuttavia, sia Bush
che Clinton non hanno potuto impedire al dittatore iraqeno di continuare a minacciare il
piccolo stato petrolifero e di conservare una certa forza militare (Luizard, 1996, p. 265).
Nel sistema delle relazioni internazionali l’Arabia Saudita è una “stretta amica”
dell’Occidente; per questa “amicizia” l’Occidente continua a non vedere le violazioni
dei diritti umani che in questo paese, di proprietà privata della famiglia Saoud, sono
ormai una tradizione (sul caso dello scrittore e docente universitario di Ryad Abdallah
Hamid el-Hamid, autore di Ils ont interdit la parole, costretto al silenzio per poter
uscire dal carcere nel 1993, vedi Gresh, 1995. Vedi anche Abir, 1993; sulla ribellione
dei giovani, vedi Foulquier, 1995).
La pace fra Israele e Palestina è nell’impasse; nel 1996 Benjamin Netanyahou, leader
israeliano della destra (Likud), sale al potere con un programma “falco” contro la pace,
di grande avvicinamento agli USA, e di estremo isolazionismo nell’area medioorientale (Said, 1995; Gresh, 1996; Kristianasen Levitt, 1996; dossier su Le Monde
diplomatique, Février 2000).
Fra i paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo, l’unico che sviluppa una politica
estera importante è la Libia di Gheddafi. Questa politica si esprime, intanto, in un nonriconoscimento degli attentati terroristici compiuti alla fine del decennio precedente –
ciò che la giustizia internazionale condanna comunque (l’ONU combina le sanzioni
contro la Libia in aprile 1992 e novembre 1993 per gli attentati aerei – caso Lockerbie
in Scozia: 272 morti, dicembre 1988, e il caso di Ténéré in Niger: 171 morti, nel
settembre 1989). Il dittatore libico, benché tenti di destreggiarsi con progetti dedicati
all’Africa, si trova ora a fronteggiare, per la prima volta, un’opposizione islamica
interna, dovuta al fatto che i proventi del petrolio non bastano più a coprire i suoi
faraonici progetti interni (Callier de Salies, 1995). In realtà, tutto il mondo arabo è in
deficit di democrazia, ma questo deficit ha un grande alleato: proprio l’Occidente
democratico (Achcar, 1997). D’altronde, questa mancanza di democrazia si rispecchia
anche all’interno dell’Europa. Vediamo qualche particolare.
Come abbiamo visto, la creazione di nuove entità super-statuali – l’UE, l’UA, NAFTA,
MERCOSUR, ASEAN – ha fatto nascere una nuova mappa geo-politica internazionale.
La nascita dell’UE viene a ridosso della controversa fine dell’URSS e della rinata
questione balcanica. Abbiamo già visto la situazione della Polonia. Ora, alle elezioni
del 1992 anche in Cecoslovacchia ottengono la vittoria gli indipendentisti slovacchi, e
si va velocemente verso la separazione della nuova repubblica slovacca, che si separa
dalla parte ceca già nel dicembre 1992. Ma fra tutti gli stati europei una volta comunisti
quello che di più risente della fine dell’URSS è certamente la Jugoslavia – prima la
Bosnia, poi il Kosovo.
L’UE nasce con dodici paesi nel 1992; al primo gennaio 1995 si allarga a quindici
membri – perplessità sull’adesione provengono però da diverse parti, soprattutto dalla
Scandinavia: abbiamo già visto il no della Danimarca, a cui segue anche quello della
Norvegia (7 e 28 novembre 1994). L’allargamento avviene invece a est – Polonia,
Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania e Bulgaria – ma dilazionata nel
tempo. Per quanto riguarda l’economia, osservatori notano che la disoccupazione,
esclusione e ineguaglianze sono fenomeni crescenti (Cassen, 1995). L’indirizzo
neoliberale (più de-regolamentazione economica e sociale, e meno spese pubbliche)
della Commissione europea è rappresentato dal tedesco Martin Bangemann e
dall’inglese Leon Brittan (l’OECD fa da cassa di risonanza a questo indirizzo). Jacques
Delors avanza la proposta di istituire una commissione di esperti per vedere la capacità
dell’Europa di resistere alla concorrenze delle altre aree del mondo. A Essen, l’UE
decide un piano di quattordici grandi infrastrutture (che avrebbero dovuto essere
finanziate in parte da privati, tra cui Barclays Bank, IBM Europe, Imperial Chemical
Industries (ICI), Mercedes-Benz, Olivetti) per combattere la disoccupazione
(ufficialmente sono diciotto i milioni di disoccupati nei quindici paesi dell’UE). Per
quanto concerne la sicurezza, il problema principale è l’ex-Jugoslavia – e l’idea è di
creare una forza militare europea comune (gli eserciti nazionali europei si stanno
trasformando ora in professionali, con un costo maggiore: Dufour, 1996; sui rischi di
terrorismo, vedi Laidi, 1994 e Wieviorka, 1995).
Per quanto riguarda le banche si va verso la loro indipendenza dal potere politico (la
Banque de France, governatore Jean-Claude Trichet, è ormai indipendente). Per quanto
riguarda, invece, l’aspetto sociale, il malcontento va aumentando durante il decennio –
e questo si fa sentire sulla “qualità della democrazia” (Julien, 1996; Thibaud, 1996). Ma
gli affari, invece, vanno avanti: nel dicembre 1995 a Madrid Julio Maria Sanguinetti,
presidente dell’Uruguay, e presidente di turno del MERCOSUR (che riunisce Uruguay,
Paraguay, Brasile e Argentina, e che è entrato in vigore nel 1995), firma un accordo con
l’Europa dei Quindici per scambi politici regolari e soprattutto per l’istituzione di una
zona di libero scambio nel 2005 – d’altra parte, anche con l’Africa, malgrado
l’affossamento degli accordi di Lomé, ci sono margini per impiantere un commercio
equo e solidale (Decornoy, 1996). L’1 e 2 marzo 1996 i rappresentanti dei quindici
paesi europei vanno a Bangkok per un incontro con dieci rappresentanti dell’Asia
(Cina, Taiwan, Giappone, Corea del Sud, ANSEA, più Birmania, Laos e Cambogia) per
cercare di convincere questi paesi ad aprire i loro confini alle merci europee. Ma il
punto di vista dei governi asiatici è esattamente opposto a quello dell’UE: per loro,
l’esigenza del “rispetto dei diritti dell’uomo” è una copertura del protezionismo
europeo (Fabre, 1996).
I rapporti fra l’Europa e il resto del mondo restano, dunque, problematici, in termini di
sicurezza e commerciali. I problemi sono esterni e interni: all’esterno, il modo di
muoversi dell’Europa è ambiguo, per esempio, per quanto riguarda i problemi
ambientali, in quanto tenta di scaricare all’esterno (cioè, sugli altri paesi e soprattutto
sui più deboli) i guasti ambientali prodotti come effetto secondario dai suoi processi
produttivi (soprattutto, le scorie radioattive. A questo proposito, non si deve
sottostimare il problema dello scarico delle scorie nucleari in Islanda o nella
Scandinavia: Erlends, 1996). All’interno, l’impatto della globalizzazione, cioè, le
misure di liberalizzazione che rendono disponibili fondi propri di ciascuno stato che un
tempo sarebbe stato impensabile mobilizzare, come i fondi-pensioni, è importante,
soprattutto nel campo sociale, economico e ideologico (Chesnais, 1997). Questa
questione si associa ai diritti fondamentali dei cittadini, in particolare, alla loro
sicurezza sociale. Per questo, nel 1999 l’Unione Europea approva una sua Carta dei
diritti. Per finire, come si verifica alle due conferenze dei ministri degli Esteri di
Barcellona del 1995 e di Marsiglia del 14 novembre 2000, la corruzione e il
clientelismo, che spesso si associano alle politiche di aggiustamento strutturale,
rimangono due mali endemici in Europa (Ghilès, 2000).
La globalizzazione in Africa è come se proseguisse la colonizzazione dei secoli passati.
È come se la fine della Guerra Fredda, fra il 1989 e il 1991, abbia facilitato in Africa
l’espandersi della democrazia, quasi la sua globalizzazione; d’altra parte, il
rinnovamento dell’Unione Africana, parallelo a quello dell’Unione Europea e al
costituirsi degli altri sistemi nazionali macro-regionali, sembra aver rinforzato, al tempo
stesso, l’interdipendenza intra-continentale. In genere, sono gli studenti le avanguardie
delle lotte per la democrazia in Africa. Tuttavia, la Francia e il FMI, come abbiamo già
visto, impongono la svalutazione del franco africano, il CFA – che dal 1945 fino all’11
gennaio 1994 è valso 1 FF = 50 CFA, e che passa ora a 100 CFA – il che rende questi
paesi più dipendenti sia da Parigi che da Washington (Mbaye, 1995). Purtroppo,
raramente i paesi africani camminano insieme, tanto gli appetiti individuali dei singoli
uomini politici e dei loro partiti (o clan) rendono l’intero Continente facilmente
ricattabile – infatti, dal punto di vista politico qualcuno suggerisce che bisognerebbe
abolire l’elezione presidenziale in Africa, un trucco troppo buono per i dittatori
(Michalon, 1998).
Tuttavia, il movimento democratico segna dei punti a suo vantaggio: in Mali, per
esempio, il movimento studentesco, prima nel maggio 1992, poi nel 1994, contesta
fortemente il potere della Banca Mondiale e della Caisse française de développement.
Un’altra ondata di democratizzazione, anche se controversa, si ha in Tanzania. Qui, il
suffragio universale era già stato introdotto nel 1985, e il multi-partitismo nel 1992. Nel
dicembre 1992 viene scoperto un accordo, rimasto segreto, fra la Tanzania e
l’Organizzazione dell’Islam in Africa (OIA), da una parte, e, dall’altra, con
l’Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI), con sede a Jeddah, Arabia Saudita
(in effetti, ricchi uomini degli Emirati Arabi hanno avuto dei facili permessi di caccia,
ci sono stati favoritismi, etc.). Le proteste della popolazione, una volta che questi
accordi sono stati resi noti, hanno costretto il potere a fare marcia indietro. Intanto, con
il multi-partitismo entra il nuovo corso economico internazionale – nascono le imprese
alberghiere, arrivano l’UNESCO e la Fondazione Aga Khan, si sviluppano la
coltivazione e lo sfruttamento delle alghe marine, quasi in competizione con il settore
alberghiero tradizionale, si diffonde un certo benessere, anche se la caduta del prezzo
del petrolio affievolisce l’immagine di una indipendenza ricca sognata da alcuni uomini
politici (i petro-dollari degli anni ’80). Anche nel Ghana arriva il multi-partitismo: dopo
il golpe del 1979 e del 1981 del capitano Jerry Rawlings, le elezioni del 1992
consacrano presidente lo stesso Rawlings, che si auto-proclama erede del
panafricanismo e progressista. Da ubbidiente seguace delle ricette del FMI, tuttavia,
Rawlings reprime le manifestazioni anti-aggiustamento strutturale (Verlet, 1996).
Ma altri paesi non si rinnovano affatto, classico lo Zimbabwe, dove governa dal 1980
Robert Mugabe, ormai un dittatore. Il paese è ostaggio dai suoi creditori, ma alle
elezioni del 17 marzo 1996, anche se in maniera assai controversia, Mugabe viene
rieletto (Brittain, 1997). La repressione è lo strumento privilegiato anche dal presidente
del Kenya Daniel arap Moi, nei confronti del proprio movimento studentesco nel
dicembre 1996 (Prunier, 1997).
La divisione del Sudan fra un nord musulmano, al potere, e un sud cristiano, molto
povero (confinante con la regione del Darfur), impedisce al paese, guidato dalla giunta
militare di Omar el-Bachir, di sfruttare i propri giacimenti di petrolio (Peninou, 1997;
Vescovacci, 2000). La situazione è tesa in Niger come in Eritrea/Etiopia dove, dopo il
referendum del 25 aprile 1993 che legittima l’indipendenza del nuovo piccolo paese
sulla costa la situazione, tuttavia, non si fa per questo più tranquilla, e anzi la guerra si
fa più vicina a fine decennio (Péninou, 1998). È qui che il Sud Africa vuole fare la parte
di mediatore, ma anch’esso ha i suoi conflitti da curare, soprattutto da quando i nuovi
padroni del settore minerario sono diventati ora gli stessi Neri (Secrétan, 1998).
L’ultimo caso con cui chiudiamo questa breve rassegna africana è l’Angola, che
rappresenta una sconfitta per l’ONU. L’Organizzazione internazionale aveva concluso
gli accordi di pace a Lusaka nel 1994, ma l’opposizione è rimasta armata, sicché la
guerra riprende, fra penuria e fame, alla fine del decennio (Conchiglia, 1999).
Nel 1992 il Canada entra a far parte della NAFTA, Nord Atlantic Free Trade
Agreement, insieme agli USA e il Messico. Gli USA, da parte loro, fanno parte anche
dell’APEC Asean and Pacific Economic Cooperation, e dell’ALCA, American Free
Trade Agreement – tutti macchinismi con i quali essi possono esercitare la loro
leadership economica mondiale – anche se, nell’immediato, queste politiche possono
portare ad una perdita di lavoro nel mercato del lavoro interno (per effetto della
NAFTA 10.000 posti di lavoro, già precario, si perdono negli USA). Anche dal punto
di vista geo-strategico e militare gli USA sono presenti in tutto il mondo. Bush si
impegna nella prima guerra globale del decennio a nome di tutto il mondo civile e
occidentale, contro Saddam Hussein, per contrastare l’occupazione del Kuwait da parte
dell’Iraq (Gherari, Delorme, sous la dir de, 1993). La versione dei fatti,
l’understanding, che sembra imporsi è quella di una guerra globale fra civiltà diverse
(Huntington, 1993). Gli USA riaffermano ancora una volta la loro leadership mondiale,
portando le controparti ex-jugoslave al tavolo di negoziato a Dayton. Infatti, al di là
delle apparenze, la NATO è sempre di più gli USA soltanto (Aguirre, 1996). Nel 1994
gli USA annunciano che il loro budget militare sarà aumentato di 25 miliardi di dollari
entro il 2000.
Per quanto riguarda il global business, gli accordi di Marrakesh dell’aprile 1994
concludono l’Uruguay Round (chiamato così, perché cominciato a Punta de l’Este, in
Uruguay, nel 1986) che già nel dicembre 1993 avevano visto l’UE e gli USA accordarsi
preventivamente (Planchou, 1995). In generale, si chiude la fase GATT (che risale al
1947) e, al loro posto, nasce ora il WTO World Trade Organization. Gli USA ratificano
questo passaggio il primo dicembre 1994 – con grande soddisfazione delle lobbies:
tutto questo processo si sta facendo, infatti, all’insegna della deregulation. Clinton,
tuttavia, malgrado l’appoggio a questo global business, non riesce ad avere approvato
dal Congresso il suo disegno di riforma del sistema sanitario. Il blocco soldi-politicapotere rimane, dunque, saldo – né i democratici sembrano interessati o capaci di
scalfirlo. Nei fatti, il risultato dell’accordo di Marrakech dell’aprile 1994 è che le
piccole imprese, per poter sopravvivere alla concorrenza delle grandi, devono abbassare
i salari e tagliare la protezione sociale. Inoltre, gli accordi prevedono che gli USA,
accusando i concorrenti stranieri di dumping, abbiano sempre la possibilità di
proteggere le proprie imprese. Altri risultati sono nel settore dell’agricoltura, che è
quello più direttamente minacciato: gli aiuti diretti dovranno sparire. Inoltre, ci sarà una
maggiore apertura del mercato – anche se il GATT favorirà l’apertura dei mercati in
quelle aree in cui gli USA già eccellono, come i servizi commerciali, per esempio. I
sindacati sono sempre più deboli. Inoltre, il WTO permette agli USA di contestare che
l’UE, in base agli accordi di Lomé, si rifiuti di importare le banane USA, e di
minacciare ritorsioni commerciali contro l’UE. Si tratta, evidentemente, di una
governance conservatrice e imperialista dell’economia globale da parte degli USA, dato
che, in realtà, la forza agricola USA è direttamente collegata con l’indebolimento e
l’impoverimento dell’agricoltura nei paesi del Terzo Mondo (Planchou fa notare,
peraltro, come la risalita dell’Asia del Sud-Est e dell’America Latina, a partire dal
1985, abbia giovato all’Europa, che ha potuto esportare di più). Come delucida
Benjamin Barber nel suo saggio su questa fase della politica statunitense e mondiale,
dunque, sembra che l’economia e la leadership geo-strategica e militare siano i due
maggiori cimenti degli USA in questo decennio (Barber, 2001. Per un’analisi in tune
sul diritto penale internazionale nella prospettiva conservatrice statunitense, vedi Henry
Kissinger su Foreign Affairs, 2000,vol. 80, n. 4).
Il MERCOSUR viene creato col Trattato di Asuncion il 26 marzo 1991 fra Uruguay,
Argentina, Paraguay e Brasile, quasi in contrasto con la volontà di Washington
(Seitenfus, 1998). Questo non toglie, peraltro, che i legami fra l’Europa e l’America del
Sud restino sempre molto forti. Nel 1996 Spagna e Portogallo siglano accordi
commerciali con l’America Latina a Vigna del Mar, in Cile, nel nome della
democrazia, stato di diritto e pluralismo politico, rispetto dei diritti dell’uomo e delle
Nazioni Unite (Luneau, 1997).
Il governo messicano fa due mosse globali con successo all’inizio di questo decennio:
entra nella NAFTA, con Canada e USA, ed entra nell’OCDE – è il primo paese del Sud
ad integrarsi nel “club dei paesi sviluppati”. Tuttavia, durante la campagna elettorale
per le elezioni del 1994 viene ucciso il candidato del PRI Luis Donaldo Colosio, già
presidente del PRI, che aveva promesso un processo di democratizzazione, con la
separazione del partito dallo stato e la possibilità di osservatori stranieri alle elezioni.
La spiegazione più accredita di questo assassinio indica la pista interna al partito stesso,
impaurito dalla possibilità di perdere le elezioni (perdendo le elezioni molti membri del
partito, non protetti più dall’impunità parlamentare, sarebbero finiti in carcere: Pisani,
1994). Il nuovo leader del partito, Salinas, designa come candidato Ernesto Zedillo
Ponce de Leon, economista (ha studiato a Yale), e ministro dell’Educazione dal 1988 al
1992, che, però, non ha la stessa esperienza del tecnocrate Colosio ucciso. Appena
eletto presidente, malgrado la crisi finanziaria e la guerriglia nel Chiapas, Zedillo
chiede un prestito agli USA, che glielo concedono ad un alto tasso di interesse – tasso
che, evidentemente, deve essere fatto pagare al popolo – il che pone al presidente dei
notevoli problemi di consenso (si tratta di sette miliardi di dollari da restituire entro
giugno 1995: Pisani, 1995). In questo modo, il petrolio messicano è praticamente
ipotecato per il prossimo futuro (dei 50 miliardi di dollari ottenuti già dalla “comunità
internazionale”, 20 vengono dagli USA). Malgrado questo assecondare la politica
economica da fuori, gli investitori non sembrano particolarmente attratti dal Messico
(Lemoine, 1995). La crisi e l’esasperazione della situazione socio-economica fa venire
a galla molti episodi di corruzione – il che fa sì che la gente guardi sempre con più
simpatia all’iniziativa del sub-comandante Marcos nel Chiapas (Avilés, 1996).
In Argentina le elezioni dell’ottobre 1999 sono vinte da Fernando de la Rúa, che
conduce la sua campagna nel nome della lotta alla disoccupazione, la purificazione
della corrotta struttura politica argentina, e la continuità dell’azione economica di
equivalenza del peso al dollaro (nella garanzia). Questa politica, tuttavia, implica
l’aumento delle tasse e riforme statali per ridurre il lavoro, mentre che la
disoccupazione è già al 15% e il debito estero enorme. Così, il ministro dell’Economia
cerca di ottenere un nuovo prestito dal FMI, il che avrebbe innescato successivamente
una dinamica recessiva che sarebbe poi scoppiata all’inizio del decennio successivo.
In conclusione, in tutto il Sud America vediamo in questo decennio più movimenti
armati che tentano di combattere il potere legale, ispirandosi ad ideologie diverse o
anche soltanto al fine di trarre un vantaggio proprio. Il movimento zapatista del
Chiapas, Messico, si caratterizza per la sua portata democratica, i Tupac Amaru in Peru
esercitano un terrorismo a-ideologico, così come in Colombia la violenza, dovuta al
traffico di droga, continua. Al contrario, in Guatemala e Salvador sembra che governo e
guerilla stiano facendo la pace dopo trent’anni di guerra civile e 100.000 morti (Loewy,
1998).
Paragrafo 2
Politica
Globalizzazione/Interdipendenza
Alla fine della Guerra Fredda Michail Gorbaciov pone con molta lucidità il bivio di
fronte al quale si trova l’umanità: da una parte, c’è la prospettiva, che lui sostiene,
dell’interdipendenza planetaria (che espone nel suo libro La casa comune europea);
dall’altra, c’è la prospettiva di un prorompere della forza bruta del denaro e del
conseguente regno dell’“homo hominis lupus” – la globalizzazione economicofinanziaria. I fatti, che sono scorsi velocissimamente dalla caduta del Muro di Berlino
in poi – quindi, soprattutto, con la caduta della stessa URSS – hanno trascinato di fatto
l’umanità nella seconda direzione. La mancanza reale di qualsiasi contrappeso alla
globalizzazione ha tolto ogni freno allo sviluppo incontrollato dell’idea base del
capitalismo – il profitto – e, anzi, l’ha moltiplicato in dimensione mondiale. Già negli
anni ’80 Norberto Bobbio aveva additato il rischio che il matrimonio fra la democrazia
e il capitalismo si rivelasse un abbraccio mortale per la democrazia; sfortunatamente, la
maniera in cui si sono messe le cose nell’ultimo decennio del XX secolo ha
slatentizzato il desiderio di accumulo di denaro non solo dei capitalisti già operanti nei
regimi democratici, ma anche in tutti i soggetti economici dei paesi “in via di
sviluppo”, che giustamente aspiravano alla ricchezza materiale. La democrazia, sia a
livello nazionale sia a livello internazionale, è certamente stata la più illustre vittima di
questo processo che stiamo esaminando. Come ho cercato di argomentare nella sezione
storica di questo capitolo, si può sostenere che bisognerebbe vedere questo passaggio
storico fondamentale – la caduta di Gorbaciov e la sopravvivenza di Bush – come il
“passaggio irreversibile” mondiale anti-democratico per eccellenza che ha portato
all’arresto della democratizzazione globale negli ultimi due decenni.
Tutti i problemi precedenti sono aumentati di intensità e sono diventati a poco a poco
internazionali: l’ambiente (acqua e terra), bene comune a tutta l’umanità, è sempre più
minacciato (Petretta et al., 2000; Kaul, Stern, 1999; Kaul, 2000; Hermet, 2000);
l’ineguaglianza di genere si è fatta più aspra (Sen, 2000); le minacce alla pace più forti
(Mehdi, 1999); la “volatilità” dei capitali, e con essa, dello sviluppo stesso più evidenti
(Chesnais, 1994); e soprattutto, il risorgere dei localismi in forma gretta e integralista
stanno segnando il nostro tempo (per quanto riguarda l’islam, vedi Abou Zayd, 1992;
al-Ashmawi, 1989; sulla risorgenza del fenomeno dei Fratelli musulmani e la loro
ideologia, vedi Aouattah, 1995 e estensivamente le opere di Gilles Kepel, Olivier Roy;
sull’ascesi dell’islamismo, vedi Nair, 1997; sul rapporto fra islam e legge, vedi
Benkheira, 1997 e Marzouki, 1996); la manipolazione o la parzialità dell’informazione
stanno raggiungendo picchi molto pericolosi (sulla libertà dell’informazione e
dell’opinione pubblica, un punto sensibilissimo nel mondo arabo, vedi Derradji, 1995.
Sul rapporto in generale fra globalizzazione e fondamentalismo islamico, che
paradossalmente collaborano contro la democrazia, resta geniale Barber, 1995).
Tutto questo depone per il bisogno, sempre più accentuato, come sosterrò nella mia
Teoria della democrazia globale esposta nel sesto volume, che l’Educazione,
adeguatamente sostenuta dalle Nazioni Unite, dia a tutta l’umanità la possibilità
effettiva di farsi un’idea precisa di ciò che accade in tutto il mondo, traendo vantaggio
dalla qualificata letteratura esistente per ogni specifico problema (per esempio, per
quanto riguarda i conflitti nel mondo e il diritto/dovere degli enti internazionali di
intervenirvi, vedi Aguirre, 1995; per quanto riguarda il tema della “bomba
demografica”, spesso usata dall’establishment in modo allarmistico, vedi Sen, 1995; per
quanto riguarda il dibattito su cibernetica e democrazia: Lévy, 1995. Infine, per ciò che
concerne l’immigrazione e i connessi problemi filosofici e politici – argomento che
affronteremo meglio nel prossimo capitolo – vedi il dossier di Esprit mars-avril 1997:
Le philosophe, la morale et le citoyen, con interventi di Charles Taylor, Michael
Walzer e altri).
Nei fatti, a gestire la crisi sociale avanzante in tutto il mondo è lo stesso capitalismo, i
cui rappresentanti raggiungono in questi anni un potere inaudito, sia diretto – nelle
organizzazioni internazionali (FMI, BM e OECD in testa) e nelle banche centrali –, sia
indiretto, attraverso il potere di influenza sui governi (Amin, 1995). L’idea di Amin è
che il nuovo corso capitalistico degli anni ’90, tramontata la bipolarizzazione
internazionale assoluta, si giochi ormai nelle mani della Triade: USA, Europa e
Giappone. Davanti a questa situazione si nota come i governi, e talvolta perfino le
organizzazioni internazionali politiche (segnatamente le Nazioni Unite), abbiano
abdicato al loro naturale compito di formazione della volontà pubblica rispetto ai loro
cittadini (su linee analoghe, ma in riferimento all’Asia solamente, vedi Frank, 1998.
Vedi anche Boniface, 1996). Ben al di là dell’osanna di alcuni autori, come Francis
Fukuyama, che ritengono che ormai, caduto il totalitarismo sovietico, il capitalismo
democratico occidentale consegua il giusto riconoscimento a livello mondiale, altri
ricercatori hanno documentato come i correnti disastri ambientali (da Cernobyl in poi),
bellici (le guerre del Golfo) e nazionali (il fallimento di stati come la Somalia, il
Ruanda, il Congo, etc.), siano riconducibili a politiche incapaci di contrastare o di
controbilanciare lo strapotere dei gruppi finanziari, capaci di influenzare le politiche di
intere macro-regioni, determinando qui il successo e lì l’insuccesso di “attori” politici
nazionali ridotti a marionette (Clairmont, 1997). È questa – argomenta giustamente
Ramonet – la “democrazia” che, da dopo la caduta del Muro di Berlino – quando tutti si
sono ricordati a bella posta dell’arguzia di Winston Churchill quando diceva che la
democrazia è il sistema più brutto che ci sia ad eccezione di tutti gli altri – si è estesa
all’Est europeo, come anche in America Latina, Asia e Africa, ad eccezione del mondo
arabo (Ramonet, Octobre 1996). Questa “democrazia” è talmente un’impostura che
perfino la Banca Mondiale denuncia le enormi ineguaglianze che si sono create nel
Regno Unito, paragonabili a quelle della Nigeria, e peggiori di quelle della Giamaica,
dell’Etiopia o dello Sri Lanka. Si parla di “terzo-mondializzazione” anche dell’Europa.
Guardando le cose, però, dalla parte del capitale, si nota come le cose non vadano poi
così male: crescono le transazioni finanziarie, che sono cinquanta volte superiori a
quelle concrete di beni e servizi – il che fa sì che i mercati finanziari impongano ormai
la loro volontà ai dirigenti politici dei vari paesi. È a questo proposito che si apprezza di
più il fenomeno della volonté d’impuissance di cui parla Boniface: gli stati, infatti, o da
soli (per convenienza/corruzione dei suoi dirigenti), o per influenza implicita o esplicita
da parte del mondo della finanza, negano, sopprimono o rinunciano al loro potere di
controllo sugli scambi, così che i flussi di capitale possono scorrere liberamente, con
scarsa o nulla tassazione, il che permette l’evasione fiscale più facile e assoluta. Le
banche centrali sono rese indipendenti dai poteri politici – d’altronde, spesso corrotti,
collusi o incompetenti. La nuova situazione che si viene a creare negli anni ’90 è tale
per cui gli stessi governi non possono rispondere ai cittadini di ciò che decidono le
banche sulle loro teste. Ramonet sostiene che è proprio questa “democrazia”, così
svuotata e non più pericolosa per i ricchi, che si estende ora, innocua, su tutto il Pianeta.
Questo non vuol dire, al contrario, che le cose vadano sempre bene ai governi neoliberisti, anzi. Dopo il movimento dell’Esercito zapatista del Chiapas del 1994 e i moti
di dicembre 1995 in Francia, in gennaio 1996 si ribellano gli operai della Corea del
Sud. Come dice Carroué, l’unico paese dove il modello neo-liberista sembra andar bene
è quello nel Regno Unito, dove ci sono buoni indici macro-economici … ma la società
completamente spezzata in due! (Carroué, 1997).
In effetti, il tema della globalizzazione, impostato nella maniera capitalistica e neoliberista, richiama alla mente uuna concezione prettamente imperialista dell’ordine
mondiale (o del “disordine mondiale”, per richiamare un titolo evocativo di George
Corm). In effetti, prima di Tony Negri e Michael Hardt, parlava di Impero americano
già Claude Julien nel suo famoso volume del 1968 (Julien, 1968). E si moltiplicano ora
i libri che, da qualunque angolo del mondo, dunque da qualunque prospettiva, guardano
alla situazione giungendo alla stessa conclusione: il mondo del dopo-Guerra Fredda sta
andando avanti senza alcun progetto comune, senza alcun indirizzo comune, senza
alcuna prospettiva che vada appena al di là della lotta di tutti contro tutti (dall’America
Latina: Lanus, 1996; Joaquin, 1996; De Rivero, 1998; dal Canada: Chossudovski, 1996
e 1998; dall’Europa: Hirst, Thompson, 1996; Vargara, 1996; Chesnais, 1997; Bourdieu,
1998; dall’Africa: Amin, 1996; in particolare, per quanto riguarda i rapporti
commerciali fra Europa e Africa – cioè, la Convenzione di Lomé – e i rischi di un loro
allentamento, vedi Mouradian, 1998; sulla questione del debito in Africa: De Brie,
1997). Ramonet, chiedendo di rilanciare un nuovo contratto sociale a livello mondiale
(senza per questo aderire alla filosofia politica di John Rawls), chiede che la comunità
internazionale promuova una sorta di Piano Marshall per l’Africa (Ramonet, Mai
1997).
Mentre il mondo continua nella sua corsa ormai chiaramente irrazionale, “guidato” da
un dissennato progetto di mercantilizzazione e militarizzazione totali, dove la fanno da
padroni l’Organizzazione mondiale del commercio (all’epoca guidata dall’efficiente
economista napoletano Renato Ruggiero, autore del documento denominato Accordo
multilaterale sull’investimento, base dell’Organizzazione stessa), con crisi finanziarie
che si ripercuotono da una parte all’altra del pianeta, dal Messico alla Thailandia, dal
Giappone al Brasile, alcuni autori cercano di fare appello all’autorità giurisprudenziale
delle Nazioni Unite, cercando in essa una sponda per arginare la sopraffazione della
finanza nei confronti dell’economia reale (sui difficili processi di transizione
democratica in questi anni vedi Hurbon, sous la dir de, 1996; sul documento-base
dell’OMC, vedi Albala, 1998; sulla NATO, sempre più dominante militarmente il
mondo, vedi Chomski, 1999; sul rischio di internazionalizzazione delle mafie vedi
Ziegler, 1998; sulle difficoltà delle statistiche economiche globali, vedi Bihr,
Pfefferkorn,
1999;
per
un
appello
a
“disarmare
i
mercati”
per
evitare
l’inselvatichimento dell’ambiente economico-finanziario-politico internazionale, vedi
Ramonet, Décembre 1997; per un progetto di Diritto costituzionale mondiale, vedi
Fromont, 1996; infine, per una nuova visione d’insieme delle Relazioni Internazionali,
vedi Chauprade, Thual, 1998).
Il discorso condotto fin qui in questo capitolo sulla globalizzazione, le reazioni
localistiche e i contraccolpi in alcune macro-regioni, dall’inizio del decennio fino alla
crisi delle Tigri asiatiche, trova dei riscontri in alcune analisi e ricerche parziali relative
alle varie singole macro-regioni.
Così, per quanto riguarda gli effetti economici della globalizzazione, a parte le potenze
già forti all’inizio del decennio – che costituiscono quella che Amin chiama la Triade
costituita da USA, Europa e Giappone – la grande novità è senza dubbio rappresentata
dalla Cina, il cui sviluppo economico prosegue impetuoso durante tutto il decennio con
una percentuale annua che raggiunge le due cifre percentuali (Feuerwerker, 1994). Il
cammino del gigante asiatico è veramente eccezionale sotto diversi aspetti, mentre il
suo avvicinamento alle istituzioni finanziarie internazionali (alla fine del decennio la
Cina aderisce anche al WTO) mostra un grande dinamismo, pur con moltissime ombre
relativamente all’equità sociale, al controllo ideologico della popolazione e alla
protezione dell’ambiente.
Per quanto riguarda la Russia, gli autori si cimentano ora in un bilancio dell’utopia
incarnata dall’Unione Sovietica (più o meno benevolo, Werth, 1995, o disincantato,
Furet, 1995), mentre i rapporti documentaristici più interessanti e realistici sono senza
dubbio quelli raccolti dal giornalista polacco Rydiard Kapuscinski (Kapuscinski, 1994),
e l’impietoso sguardo sulle condizioni attuali di una ex-potenza, di Moshé Lewin
(Lewin, 1998).
Per quanto riguarda l’Africa, malgrado gli intenti proclamati dagli altri continenti siano
quelli di lasciarle recuperare lo svantaggio accumulato nei secoli, l’Africa in realtà,
viene da subito penalizzata dal nuovo corso del mondo di questo decennio. Come
abbiamo già visto, i nuovi accordi commerciali che si vanno realizzando all’insegna
dell’implementata OMC mettono in secondo piano gli accordi di Lomé, che
privilegiavano l’Africa come partner commericale dell’Europa (D’Almeida, Topor,
1994; El-Alaoui, 1994). In effetti, il punto di svolta nei rapporti fra l’Europa e l’Africa
nel suo complesso è determinato dalla svalutazione del franco CFA, imposta l’11
gennaio 1994 dal FMI (Godeau, 1996; Cabannes, Copans, Selim, 1995; Moffa, 1995;
De Brie, 1996).
In Sud Africa, contemporaneamente, aumenta lo scontento per come si sta realizzando
il processo di rinnovamento democrarico del paese, essendo forte il sospetto che al di là
delle opposizioni di superficie si stia creando sotterraneamente un’alleanza capitalistica
bianco-nera contro il lavoro, che si compie all’ombra dell’anziano leader, il carismatico
Nelson Mandela, e del suo successore Mbeki (Mbembe, 2000; sullo stato in Africa,
vedi Olivier de Sardan, 2000).
Sul ruolo di “gendarme globale”, esercitato ora senza copertura dalla NATO o
dall’ONU in questo primo decennio di post-Guerra Fredda, la mente corre all’evidente
esempio dell’Irak. Come ha dimostrato la giurista francese Monica ChemillierGendreau, in questo caso è avvenuta una stortura del diritto internazionale (ChemillierGendreau, 1995). Da un punto di vista politico più generale, è chiaro che la volontà
“democratica” degli USA di ripristinare il legittimo governo del Kuwait – uno dei
governi meno democratici del mondo – è stata solo una facciata dietro la quale gli USA
hanno nascosto, servendosi del paravento dell’ONU, la pura e semplice protezione
degli interessi petroliferi in Kuwait minacciati dall’improvvida mossa del dittatore
irakeno.
Mentre l’intervento militare ONU-NATO-USA nell’Occidente asiatico disintegra quel
poco di integrazione che vi esisteva, per quanto riguarda l’area del Mediterraneo la
globalizzazione e la macro-regionalizzazione proseguono con vitalità, non senza la
vistosa eccezione della Bosnia (sulle varie incapacità euro-americane nel caso di
Sarajevo vedi Julien, 1995; vedi anche Matevejevic, 1991). Edgar Morin e Jacques
Derrida si cimentano, da parte loro, in un’elaborazione filosofica originale, il primo più
sui compiti democratici e progressisti dell’Europa di fronte al mondo, il secondo dando
l’immagine di una filiazione/perfezionamento dell’Europa nei confronti dell’Asia (la
“testa dell’elefante”) (Morin, 1990; Derrida, 1991).
Al di là di queste interessanti elaborazioni di pensiero, non sfugge agli osservatori
politici che il modo in cui si sta organizzando l’Unione Europea, col Trattato di
Maastricht, presenta un grave deficit di democrazia – per non parlare della debolezza di
intervento non solo in aree distanti dall’Europa, ma perfino in quelle che sono proprio
ai suoi margini, com’è il caso dell’ex-Yugoslavia. Il Mare Mediterraneo, infatti, sta
diventando sempre di più, dato l’allargamento del gap fra paesi ricchi (quelli europei) e
paesi poveri (quelli arabi), un muro invalicabile, capace di cingere la Fortezza Europea
con una “protezione” giustamente sospetta di anti-democraticità e dunque altamente
contraddittoria: la democrazia che si sta formando in Europa è, da un punto di vista di
democrazia globale, una nuova, grande democrazia etnica, riproduzione in grande scala
della vecchia democrazia ateniese, schiavista al suo interno e imperialista nei confronti
del resto del mondo.
Il problema, dunque, che si pone è paradossale: il deficit di democrazia all’interno
dell’Europa si manifesta proprio nel momento della sua unificazione, insieme a quello
della sua inefficacia (più o meno interessata) al fine di proteggere i diritti di tutti i suoi
cittadini (inclusi quelli della Bosnia: Ramonet, 1994; Boeckenfoerde, 2010, pp. 177201, fa una disamina dei problemi europei ed economici maggiori per l’Unione
Europea; sull’operato di Jacques Delors come responsabile della Commissione Europea
– dieci anni di governo, dal 1985 al 1995 – vedi Pisani, 1996; sulle difficoltà della
Costituzione unica europea a farsi accettare dai popoli europei, vedi Minc, 1992 e
Cassen, 1996; sul tenore di vita in Europa in questo decennio, vedi Madelin, Toscer,
1994; per una revisione complessiva dei modelli democratici di governance, vedi
Lijphart, 1996).
In Francia, alcuni critici radicali, come Alain Badiou, propongono soluzioni marxiste
più decise, ma spesso rimangono in un ambito critico e le loro proposte non si
traducono in programmi politici perseguiti dai partiti. Altri intellettuali propongono una
visione più generale della situazione – come Alain Touraine, che nel 1992, pubblica un
ampio saggio sulla modernità in quanto tale, in cui riecheggia anche il pensiero di altri
intellettuali come Gianni Vattimo sullo stesso tema (Touraine, 1997; ed or 1992). Una
visione molto diversa da quella politica consueta si afferma in questo decennio con
l’affermarsi sul piano internazionale del pensiero dello psicoanalista lacaniano e
filosofo marxista slovacco Slavoj Zizek (Zizek, 2004; ed or. 1997; Zizek, 2003). Qui,
facendo uso delle categorie lacaniane, Zizek mostra con una brillante retorica come il
potere si sia ammalato dappertutto di protagonismo e di spettacolarizzazione, a tal
punto che le mosse politiche dei vari partiti vengono decise facendo finta di essere state
previamente considerate in maniera coerente con l’ideologia di riferimento, invece, esse
sono ormai rette da un ordine immaginario che più nulla ha a che fare con le retoriche
pronunciate, ma che abilmente nascondono interessi economici e di potentato non
confessati e non confessabili (su questa scia il filosofo nel decennio successivo fa un
esame della situazione che si viene a creare in Iraq: Zizek, 2004).
George Corm, il cui punto di riferimento rimane Carl Polanij, fa un’analisi critica degli
avanzamenti dello sviluppo capitalistico, ma anche dei suoi fallimenti, e dunque la crisi
della disciplina stessa dell’Economia politica. La povertà non viene vinta malgrado le
promesse, mentre l’economista deve cedere il passo ai tecnici, statistici e ingegneri, che
portano avanti false ricette di modernità sostenuti da politici corrotti e banchieri
interessati all’utile immediato – sicché la corruzione diventa una parte “normale” di
questa visione economica distorta (Corm, 1994). Queste riflessioni problematiche sono
importanti – e soprattutto sono in sintonia con il dibattito che si sta sviluppando in
questi anni in tutta Europa – e vanno bel al di là delle posizioni di alcuni filosofi ed
intellettuali, il cui atteggiamento si mostra spesso opportunista (sempre in Francia, per
esempio, Alain Minc pubblica nel 1997 una sorta di difesa della globalizzazione, in cui
sostiene che essa è inevitabile, inarrestabile e irreversibile, perfino felice: Minc, 1997.
Altri, come Bernard-Henry Lévy, Philippe Sollers e Daniel Cohn-Bendit, evitano di
prendere una posizione netta, e in questo modo possono attribuire, proprio come fanno i
politici di professione, la colpa della crisi ora alle condizioni “imposte” dalle istituzioni
monetarie internazionali, ora ai vincoli dell’Europa: e questo, malgrado a fine decennio
anche gli attori finanziari internazionali, come il direttore generale del FMI Stanley
Fischer, o l’editorialista del Times, Michael Kinsley, ferventi sostenitori del WTO,
ammettano che gli attacchi contro la globalizzazione sono giustificati; o addirittura,
malgrado la stessa Banca Mondiale, nel suo Rapporto sullo sviluppo mondiale del
2000, ammetta lo scacco dei programmi di aggiustamento strutturale, che non hanno
curato la povertà). Alla fine del decennio, in pratica, si comincia a riconoscere da più
parti che il Washington Consensus, che ha funzionato da cassa di risonanza del
capitalismo mondiale, è lungi dall’aver risolto il problema della povertà nel mondo,
piuttosto ha esportato le sue ricette neo-liberiste, per non dire che le ha imposte, a tanti
stati le cui sole elites se ne sono potute avvantaggiare in modi poco trasparenti, se non
francamente illeciti. Il grande meccanismo del Washington Consensus ha funzionato
così in Europa: nel 1988, dopo l’apri-pista della Tatcher e il “franco forte”, l’Europa ha
ammesso la libera circolazione dei capitali; poi, nel 1991 si è avuto il Trattato di
Maastricht. Nel 1997 l’Unione Europea ha imposto il patto di stabilità, sorvegliato
dalla Commissione, come condizione sine qua non dell’adesione a tutti i paesi che
hanno espresso la volontà di farne parte – in questo modo, entrare in Europa ha
corrisposto ipso facto ad accettare il Washington Consensus (Toussaint, 1999;
Bourdieu, 1999).
Jurgen Habermas, all’insegna del motto “completare il progetto del moderno, fino alla
democrazia”, prosegue il suo discorso costruttivo della democrazia deliberativa,
pubblicando una serie importanti di volumi lungo tutto il decennio (il più importante
dei quali rimane Fatti e norme del 1992, con successive integrazioni). Qui il filosofo
tedesco prosegue il suo discorso sulla Teoria dell’agire comunicativo, proclamata nel
1981, quindi l’altalena fra i fatti e le pretese di legalità e del diritto. Habermas istituisce
una complementarità funzionale fra morale di ragione e diritto positivo, in cui era
giunto, fino a disciorglivisi, la sostanza etica delle società tradizionali. Habermas vuole
salvare il concetto di politico mantenendosi fedele al pluralismo dei discorsi etici,
morali e pragmatici, senza mai cedere alla possibilità che il diritto giustifichi fatti di
sopraffazione, ovvero fatti di disquilibrio eccessivo di potere o di minaccia. Al tempo
stesso, al pluralismo (e al compromesso) Habermas associa la cittadinanza, che intende
come intreccio cooriginario dei diritti umani alla sovranità popolare. Per Habermas
rispetto alla negozialità, però, vince la razionalità della democrazia: in altri, termini, per
Habermas non è solo importante il saper giungere ad un compromesso, ma è ancora più
decisivo il sapersi mantenere fedeli al proprio impianto razionale, laddove ragione vuol
dire razionale processo di auto-tematizzazione e di auto-trasformazione sociale.
Per Habermas la “democrazia procedurale” è un sistema di chiuse idrauliche, capace di
trasformare il potere comunicativo in potere amministrativo. Funziona così: in un
sistema democratico le istituzioni sono porose rispetto alla volontà informale agitata
dalla periferia sociale e dalla sfera pubblica. Poco per volta (come l’acqua nel sistema
delle chiuse), quesa volontà giunge, e si formalizza, nel parlamento. Da questo punto di
vista, i diritti sono sempre insaturi; al contrario, i diritti in un’ottica liberale finiscono
per cristallizzarsi in quelli dell’utente di mercato, e i diritti sociali diventano i diritti del
cliente di burocrazie assistenziali.
Ci sono tre dimensioni della validità – cognitiva, valutativa e normativa – attraverso cui
il moderno si è auto-compreso (Habermas rifugge sia da soluzioni alla Derrida e Rorty,
peggio à la Nozick, sia da neutralismi à la Luhmann). Questo, perché è sempre la
ragione che può fare il processo a se stessa (il “doppio senso” kantiano).
Indubbiamente, è una lezione importante questa di Habermas, in un tempo in cui, come
avverte Hespanha, “l’idea di rigorosa separazione (Trennungsdenken) tra i fatti (Sein) e
le norme (Sollen), proveniente dalla teoria giuridica del Novecento, continua a formare
il nucleo dell’ideologia spontanea dei giuristi [e dunque] l’intromissione del sapere
sociale empirico nel mondo dei valori giuridici è ancora largamente considerata
inaccettabile” (Hespanha, 2003, p. 12). Ancora oggi la storia del diritto nella
formazione dei giuristi europei ha il compito apologetico e legittimante, giusto secondo
il discorso di Weber sui tipi di discorsi – tradizione, carisma o razionalizzazione – che
possono ottenere obbedienza. Perché il potere è legittimo? Habermas, come ricorda
Hespanha, ha certamente ragione quando invita alla cautela quando si gioca a
giustificare l’esistente (anche quando le ragioni per giustificare cambiano): “Ciò che
sfugge è la nozione di quanto, a causa del progresso, non ha avuto la possibilità di
svilupparsi, o di quanto si è smarrito. Per esempio: l’equilibrio dell’ambiente e i
sentimenti di solidarietà sociale” (Hespanha, 2003, p. 17).
Per quanto riguarda la globalizzazione, il sociologo Ulrich Beck sviluppa e aggiorna il
suo discorso della “società del rischio” degli anni ’80: la perdita di sovranità degli stati
all’epoca della globalizzazione, i rischi per la democrazia, il formarsi di una società
transnazionale, le aperture al e del cosmopolitismo, l’invocazione di un’Europa che, in
questo contesto allargato, dovrebbe costituirsi come il paladino della democrazia (Beck,
2006).
Sono vicine a queste idee quelle che provengono dalla Gran Bretagna di Blair, dove il
mentore ideologico, Anthony Giddens, si è fatto promotore di una nuova “terza via” fra
sinistra e destra – che non ha convinto del tutto (Mouffe, 2012 ; ed or 2000). Altri
autori, come Cristopher Lasch, Richard Sennett, Timoty Ash Garton, Ian Buruma e
soprattutto Zygmut Bauman, hanno avuto più successo nel puntualizzare alcuni tratti
caratteristici della globalizzazione. Verso metà decennio compaiono delle opere di
autori che, in occasione del festeggiamento dei cinquant’anni della Dichiarazione
universale dei diritti umani, rinverdiscono la tradizione kantiana del cosmopolitismo –
come David Beetham, David Held e Daniele Archibugi.
Al contrario di questi autori “otimisti”, Angelo Panebianco, appartenente alla scuola del
realismo delle Relazioni Innternazionali, ne propone solo un aggiustamento per tenere
conto di come l’essere democratici faccia la differenza, un ambito di politiche estere
rispetto a quei governi che democratici non sono (Panebianco, 1997; altri studi sulle
Relazioni Internazionali in questi anni sono quelli di Ennio Di Nolfo, Fulvio Attinà e
Luciano Benadusi: Attinà, 1999)
Per quanto riguarda il Nord America, la globalizzazione qui si manifesta con il
processo di macro-regionalizzazione, che porta all’integrazione di Canada, USA e
Messico nella NAFTA, Nord Atlantic Free Trade Area, che presenta molte difficoltà
soprattutto per la povertà che sembra accrescere (in Canada Michel Chossudovsky
conduce una lunga e dettagliata analisi delle politiche di “riforma” del Fondo
Monetario Internazionale e della Banca Mondiale per valutarne l’effetto durante gli
anni ’80 (Chossudovsky, 1998: come ricorda l’autore, la missione delle istituzioni di
Bretton Wood è ormai cambiata da quella originaria: adesso, la ricostruzione del dopo-
guerra è finita e queste istituzioni si dedicano all’espansione del sistema capitalistico,
che si traduce in un enorme accrescimento del potere del grande capitale, ciò che Carl
Polanyi chiamava la haute finance).
Relativamente all’euforia e allo sconforto degli Statunitensi rispetto all’andamento
della loro economia, sono illuminanti le considerazioni esposte da Krugman, 1994. Il
punto è che gli Statunitensi vogliono “essere ubriachi e avere le mogli ubriache” –
attaccano Keynes e le tasse, ma poi cercano i maghi che mettano a posto le cose –
questo, in sintesi, la visione dei conservatori al potere. Praticamente, Krugman traccia
un’impietosa storia di come, da dopo il 1973, la politica economica ultra-liberale sia
salita al potere.
Mentre autori del mainstream come lo storico Francis Fukuyama celebrano la fine della
Guerra Fredda, “vinta” dalla democrazia statunitense (addirittura Fukuyama parla di
Fine della storia: Fukuyama, 199999), altri, come Samuel Huntington, si pongono il
problema di come immaginare e riforgiare le Relazioni Internazionali dopo la “terza
ondata” delle democratizzazioni e, soprattutto, dopo il bipolarismo che fu del periodo
post-Seconda guerra mondiale, giungendo a conclusioni molto pessimistiche
(Huntington, 1991 e 1993-1996). La visione che si impone agli occhi di Huntington è
quella per cui, lungi dall’aver risolto tutti i problemi del mondo, gli USA ora hanno il
problema di come “convincere” le altre civiltà (e ne propone una sua lista) della
superiorità del loro sistema politico – la democrazia associata al capitalismo. Altri
autori, come Robert Kagan, contrappongono quella che loro avvertono come una
decadenza dell’American Dream (ovviamente, fanno discutere i fatti che accadono in
politica interna ed internazionale, a cominciare dagli scandali dei contras, finanziati
illegalmente da Ronald Reagan) alla più solida democrazia del Vecchio Continente
(Kagan, 2000). Questo, naturalmente, è il problema di un più giusto liberalismo politico
– ciò che forma l’oggetto del libro, fondamentale in questo campo, di John Rawls del
1993 (Rawls, 1993). Ovviamente, il dibattito a cui ha dato vita l’opera di Rawls è stato
di tipo eminentemente filosofico, e ha interessato non solo l’ambito statunitense (Sen,
Nozick, Scanlon, Pogge, Benhabib, Walzer, Rorty, Nussbaum). Al di fuori dell’area
filosofica, con gli occhi puntati ai fatti, altri autori, più legati all’approccio scientifico,
si sono cimentati nell’esercizio della comprensione dei meccanismi democratici del
potere e della governance (come Tilly, Lipset, March e Olson – che aprono ora il nuovo
tema della governance della democrazia, che Zbigniew Brzezinski estende al livello
internazionale: Brzezinski, 1993).
È vero che da questi anni è come se il campo delle teorie delle Relazioni Internazionali
si allargasse – da Kissinger a Chomski, Wallerstein e Arrighi. Paolo Rosa riporta il
dibattito negli USA e in Europa sul campo delle Relazioni Internazionali negli anni ’90
dal punto di vista della scuola del realismo – da Gaddis a Keohane, da Zakaria a Waltz
(Rosa, cur., 2003). Da questo punto di vista, vale la pena nota che anche il Rapporto
Galbunksein sulle scienze sociale del 1996, realizzato da un’equipe di specialisti
guidata da Immanuel Wallerstein (Wallerstein et al., 1996), ha dato l’occasione per
sviluppare un dibattito sulle Relazioni Internazionali, fra, da una parte, Wallerstein,
dall’altra, il filosofo argentino Enrique Dussel: il quale contestava a Wallerstein di aver
“fatto a meno” di riconoscere che lo sviluppo del mondo moderno ha fatto un
passaggio essenziale in America Latina, regione alla quale in effetti il Rapporto di
Wallerstein dedica una scarsa attenzione (e qui Dussel è in buona compagnia: Anibal
Quijano, Walter Minolo, Juan Carlos Scannone).
Un modo completamente diverso dalle due scuole di pensiero a cui ho fatto adesso
cenno, la realista e la centro-periferia, ma sempre dal punto di vista degli USA, lo
fornisce Barber, 2001 (ed or 1995), che conduce un’analisi dei due opposti, da un lato,
l’integralismo islamico deciso a fare la guerra all’Occidente, dall’altro, il
“fondamentalismo” economico liberista che intende imporsi in tutto il mondo con la
globalizzazione. I due nemici giurati hanno in comune l’uguale impegno a distruggere
la democrazia. L’interesse del libro consiste nel fatto che l’autore riesce a mostrare i
collegamenti sotterranei che legano i due nemici – per motivi diversi – della
democrazia, il fondamentalista passatista così come il capitalismo selvaggio.
Con l’occhio rivolto agli effetti della globalizzazione sugli USA la rivista World
Economic Affairs ha dedicato un numero speciale, quello dell’autunno 1995, a questo
tema con interventi di Jeffrey Sachs, Paul Volcker e Paul Kennedy. Fra questi effetti, si
è notato anche che spesso il giudice, negli USA, diventa un importante soggetto
“legiferante”, fino al limite del potere legislativo fondamentale, cioè, fino alla soglia
della Costituzione stessa (un importante autore, come Stephen Griffin, ha sentito
addirittura il bisogno di teorizzare tale cambiamento, giungendo alla proposta di una
“teoria del cambiamento costituzionale” (Griffin, 1996; vedi anche le fondamentali
opere di Bruce Ackerman sulla nuova divisione dei poteri e di Cass Sunstein 2009 sulle
funzioni della Costituzione: Sunstein, 2009).
Dal punto di vista politico, va notato che questo decennio è pieno di speranze di
rinnovamento in senso democratico per l’America del Sud, con i prestigiosi candidati
della sinistra, da Cardenas in Messico a Lula in Brasile (Cohen, Hirata, Gomez, sous la
dir de, 1994. E’ di quest’epoca l’opera anti-globalizzazione dell’economista
venezuelano Moises Naim). La critica economica al ruolo aggressivo assunto nel
mondo da FMI e BM è un leit-motiv che corre in diverse altre opere, come quella di
Juan Archibaldo Lanus, che costituisce anche un esempio di lavoro storico sulle
organizzazioni internazionali (Lanus, 1996).
Per quanto riguarda, per concludere, la globalizzazione e le sue reazioni, questo
decennio si chiude con delle nuove ricerche specifiche sulle questioni economiche
(Andréani, 2000 – una critica serrata dell’economia liberale da Adam Smith a Rawls e
Hayek), ambientali (come quella sull’uranio impoverito, di Messonnier, Loore, Trilling,
2001) e con riflessioni (in genere, di carattere pessimistico) di carattere generale (come
quelle di Edgar Pisani o di Guillebaud sulle minacce all’umanità intera rappresentate
dai cambiamenti economici, informatici e genetici: Pisani, 2001, Guillebaud, 2001).
Sotto le mentite spoglie della lotta dell’11 settembre, si perseguono le vecchie agende
del neo-liberismo in economia.
Fra le proposte alternative avanzate a fine decennio ne spiccano due, una di critica
radicale, di carattere politico, l’altra, di tipo giuridico, costituzionalista in particolare.
La prima proposta è avanzata da Tony Negri e Michael Hardt, ed è contenuta nella loro
controversa opera Impero (Negri, Hardt, 2000). Qui il mondo appare retto da
un’opposizione fra le forze economico-finanziarie del capitalismo e le forze, opposte,
del lavoro. A queste ultime viene assegnata la capacità di incalzare e costringere le
prime a trovare sempre nuove maniere per mantenere l’egemonia, sia a livello
nazionale che internazionale. Da questo punto di vista, la globalizzazione non sarebbe
che l’ultima “trovata” del capitale per mantenere il comando. Nella visione dei due
autori, le forze del lavoro, benché sottomesse al potere capitalistico (in particolare, alle
multinazionali), mantengono sempre all’erta la resistenza e l’opposizione in forme
antagoniste che vanno ben al di là del parlamentarismo. Negri e Hardt parlano di
moltitudini che si oppongono – e, benché qualche interprete abbia voluto vedere dietro
questo termine l’annuncio delle manifestazioni no global di Seattle, Genova, etc., in
realtà, rimane non chiaro che cosa i due autori abbiano voluto indicare con esso.
La seconda proposta appartiene al campo giuridico-costituzionale, ed è quella di
filosofia politica di Martha Nussbaum che si associa all’approccio delle capacità di Sen,
con riferimenti forti a Aristotele, Marx e Mill (Nussbaum, 2000). Infatti, Nussbaum
propone uno schema di costituzione-tipo che, a suo avviso, tutti gli stati dovrebbero
adottare per proteggere e sviluppare le capacità umane, in maniera tale che una vita sia
“una vita degna di essere vissuta” (Nussbaum, 2001). Ecco la lista delle capacità che
dovrebbero essere protette da qualunque costituzione: vita; salute fisica; integrità fisica;
sensi,
immaginazione e
pensiero
(qui la Nussbaum inserisce la
questione
dell’istruzione); sentimenti; ragion pratica; appartenenza (divisa in a. poter vivere con
altri, e b. avere le basi sociali per il rispetto di sé); altre specie (essere capace di vivere
in relazione con gli animali, piante, etc.); gioco; controllo del proprio ambiente (diviso
in a. politico e b. materiale) (Nussbaum, 2000, pp. 97-99). Queste capacità sono
strettamente relazionate con i diritti umani (idem, p. 115). La politica democratica
rimane il miglior mezzo per l’attuazione di questi diritti/capacità, e Nussbaum
immagina una sorta di “felice contaminazione” dagli stati già democratici a quelli non
ancora tali, via trattati, cooperazione e persuasione (idem, pp. 120-125).
Capitolo III
L’intercultura
In questo terzo capitolo le diverse storie dell’ultimo decennio del secolo scorso delle
macro-regioni mondiali, insieme alle proposte teoriche politiche, verranno affrontate
sotto l’aspetto dell’intercultura, un fenomeno sociale, culturale e anche politico
certamente non nuovo, ma che ora si presenta incrementato, globale, e caratterizzante il
decennio preso in esame. Così, dopo la questione dello sviluppo e quella
dell’opposizione fra globalizzazione e interdipendenza, entreremo adesso più
specificatamente all’interno dei contesti socio-culturali delle diverse macro-regioni
mondiali, vedendo il decennio 1990-2000 da questo complesso punto di vista sociale e
filosofico-politico.
Paragrafo 1
Storia
Intercultura
Com’è stato osservato, l’immediato contraccolpo del trend della globalizzazione è stato
l’aumento vertiginoso delle migrazioni. Anche il Giappone, tradizionalmente un mondo
che si auto-percepisce come a parte e chiuso, ha anch’esso scoperto di non essere
immune da questo problema. L’isola di Okinawa, per esempio, sede bistrattata ma
strategica degli interessi degli USA in Giappone, riscopre la propria tradizione
autoctona e, a fronte della sua importanza geo-strategica, rispolvera il proprio orgoglio
indigeno anche nei confronti dell’etnia giapponese predominante.
Un’analoga tendenza, anche se di minore forza, si può osservare anche a Taiwan, dove
il discorso, mutatis mutandis, si può fare nei confronti della Cina.
Dal punto di vista etnico e di gestione della popolazione, gli anni Ottanta furono
importanti per le proteste studentesche che si ebbero nelle zone occidentali dello
Xinjiang, dove vivevano le consistenti minoranze etniche dei Kazaki, Tagiki, Kirghisi e
Uiguri, di religione musulmana. Queste minoranze erano minacciate dalla politica
centrale che, da un lato, intendeva sfruttare le notevoli risorse petrolifere del loro
territorio, dall’altro, invogliava i Cinesi Han poveri ad andare a stabilirvisi. Non da
ultimo, va segnalato il problema dei test nucleari, che il governo centrale usava
svolgere nei pressi del lago Lop Nor, attualmente prosciugato. In Cina gli Han formano
il 92% del totale della popolazione. Le altre etnie (Tibetani, Uyguri e Miao) contano
100 milioni di persone negli anni ’80 ma in questo stesso decennio – non subendo le
stesse politiche demografiche restrittive riservate agli Han – esse hanno avuto una forte
crescita, fin dal 1978 (Tamburrino, 1993, p. 182; Saich, 2001, p. 4).
Nella regione autonoma di Xinjiang, la maggioranza della popolazione, di etnia uyguri,
è musulmana. La capitale Urumqi, per una sorta di tacita politica demografica,
cominciò ad essere maggiormente frequentata da Cinesi Han proprio a partire da questo
decennio. Il Tibet, da parte sua, gode di una limitata autonomia politica, ma
sostanzialmente il paese è sottomesso a Pechino (Tamburrino, 1993, p. 195; vedi anche
Broch, 1997).
La Malesia è una federazione di tredici stati, di cui nove con un sultano ciascuno – tra i
quali, ogni cinque anni, viene scelto il re – e quattro con un governatore ciascuno:
Sabah, Sarawak, Penang e Malacca. Mohamad Mahathir bin Maohamad governa dal
1981 a capo di una coalizione di 14 partiti, il Fronte nazionale; il maggiore partito di
opposizione, il Partito d’azione democratico, forte soprattutto nello stato industriale del
Penang, è composto essenzialmente da Cinesi. Lo stato più povero, Kelantan, è nelle
mani del Partito islamico pan-malese, che vuole istallarvi la sharia – come spesso
accade, i più poveri subiscono il “fascino egalitario dell’islam”. In realtà, il modello
autoritario di Singapore qui fa scuola – e non solamente in materia economica. D’altra
parte, la crescita economica annua di questo periodo è dell’8%, dunque il regime non
ha nulla da temere dalle urne. Come al solito, il potere economico e finanziario (più
nazionale che estero) va a braccetto col potere politico (Camroux, 1999).
Il 1996 è un anno turbolento per l’Indonesia – le ribellioni contro il regime autoritario
di Suharto porteranno poco dopo alla sua caduta (1998). In questo contesto si inserisce
la questione della Papuasia e di Aceh, dove sono forti le locali comunità etniche, e
soprattutto del Timor Est, dove il popolo, in lotta per l’indipendenza dall’Indonesia,
otterrà la separazione nel 1999 (Stahl, 1994; sulla Papuasia, vedi Celerier, 1996; sul
Premio Nobel 1996 a monsignor Ximenes Belo, vescovo di Timor Est, vedi Catry,
1996; sull’autonomia concessa dal presidente Jusuf Habibie, successore di Suharto, a
Timor Est, vedi Catry, 1998; su Aceh, vedi Cayrac-Blanchard, 1999; infine, sulla piena
indipendenza concessa dal presidente Abdurrahman Wahid a Timor Est, vedi CayracBlanchard, 2000). Una questione etnica si pone anche all’interno della Birmania, dove
la giunta militare al governo si avvale, come anche per gli altri problemi, delle rendite
del narco-traffico per sostenere le spese della repressione militare (Boucaud A. et L.,
1998).
Le rivendicazioni nazionaliste e indù sono già una realtà importante in India negli anni
’80, soprattutto nello stato dell’Uttar Pradesh, dove esse portano ad un consolidamento
elettorale del BJP, Bharatiya Janata Party (e poi anche nel Rajastan, Himachal Pradesh
e Madhya Pradesh). Nel 1991 anche nello stato del Bihar, instabile a causa di
movimenti sociali violenti, giunge al potere un rappresentante delle caste inferiori, uno
yadav. Questo problema interno – etnico e religioso – ha anche un aspetto esterno, nel
senso che ad esso si aggiunge quello dell’immigrazione clandestina dal Bangladesh, al
confine nord-orientale, una situazione che mette in difficoltà le relazioni diplomatiche
fra i due paesi a partire dall’aprile 1992. A metà decennio, in Assam, stato nella parte
nord-orientale dell’Unione indiana, dunque vicina al confine (permeabile) con il
Bangladesh, si registrano molteplici attentati operati da movimenti insurrezionalisti,
segno evidente che le politiche di accoglienza degli immigrati non sono riuscite a
risolvere il puzzle interculturale (Vaugier-Chatterjee, 1996, p. 246). – Tanti sono
diventati gli immigrati bangladeshi in questa area del paese che parte addirittura da qui
una marcia musulmana su Nuova Delhi per la questione di Ayodhya, città santa sia ai
musulmani che agli indù. Gli scontri fra le due comunità sono stati notevoli e hanno
messo in serio rischio il governo centrale guidato dal premier Rao (Jaffrelot, VaugierChatterjee, 1994, p. 147).
Un secondo punto caldo in India è il Kashmir, a nord-ovest, conteso dal Pakistan e
diviso fra tre opposte tendenze: il Fronte di liberazione di Jammu e Kashmir (JKLF),
che mira all’indipendenza; il movimento pro-Pakistan (Hezb-ul Mujahidin), che si è
fatto molto forte in questo decennio, malgrado le politiche repressive del governo, che
chiede l’annessione del Kashmir al Pakistan; e la Conferenza nazionale, favorevole al
mantenimento dell’integrazione del Kashmir in India (Jaffrelot, Vaugier-Chattarjee,
1994, pp. 149-151).
Come abbiamo già visto, nel 1994-95 la fortuna di Manmohan Singh declina, insieme a
quella di Rao, e questi fattori etnici vi giocano il loro ruolo (Vaugier-Chatterjee, 1996,
p. 241; Brisset, 1995; Agrawal, 1999). Unica, ma importante differenza è quella
rappresentata dallo stato del Kerala, un povero stato del Sud che ha sempre sofferto di
emigrazione. Per decenni qui ha governato il Partito comunista, ma le sue conquiste sul
piano sociale (educazione e sanità) non sono più messe in discussione da nessuno e,
anzi, costituiscono un vanto per tutta la nazione.
Un fatto in una certa misura inatteso che si manifestò negli anni di Gorbaciov fu
l’affacciarsi sulla scena politica nazionale dei nazionalismi, del Caucaso e delle
repubbliche centro-asiatiche soprattutto (Nagorno-Karabach in Azerbaigian, Armenia,
Georgia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Kazakhstan, Crimea), ma anche delle
repubbliche del Baltico. L’URSS era stato un collage di diverse nazionalità, a cui poi si
sono aggiunti gli Ebrei ritornati dalla Russia e dal altrove, tenute insieme forzatamente
dal comunismo; una volta che questo “collante” si è sciolto, sono cominciate le guerre
civili (Berstein, Milza, 1996, p. 233; Romano, 2003, p. 637; Frederock, 1995; Urjewicz,
1996, p. 311; Saffrais, 1998; Cheterian, 1998; Cheterian, 1999; Bartak, 1995;
Radvanyi, 2000; Ramonet, 2000; Ferrari, 2002, p. 79; Sapir, ???).
A fine decennio si inserisce in questo contesto, pieno di tensioni, la questione del
Kossovo, piccola regione una volta appartenente all’ex-Jugoslavia e ora in cerca di
autonomia dalla Serbia. Nel 1999, la NATO interviene a favore del Kossovo, sottoposto
a dura pressione militare da parte della Serbia. Se la fortuna, così, sembra arridere al
piccolo paese in cerca di indipendenza, il prezzo che esso paga è, però, la perdita della
sua ricca natura multiculturale (Dérens, 2000).
Nel 1994 il governo turco decide per una soluzione meramente militare adel problema
curdo, la cui leadership è rappresentata dal PKK, Partito dei lavoratori del Kurdistan. In
questa soluzione entra a far parte anche l’esercito USA, dalla parte dei Curdi (Verrier,
1994; Huver, 1996, p. 330; Lee, 1997; Dolay, 1996), e perfino come mediatori fra
fazioni contrapposti di Curdi stessi (Luizard, 1996, p. 266; Nezan, 1996).
Anche il Pakistan ha un problema interculturale – Karachi, grande megalopoli nel Sind
pakistano (12 milioni di abitanti), è un miscuglio di Pakistani e di discendenti di
Indiani, trasferiti qui al tempo della partition fra il Pakistan e l’India. L’Afghanistan, la
cui storia ora si lega strettamente a quella del Pakistan, è il paese dove tradizionalmente
domina l’etnia pathan. Dalla resistenza all’occupazione sovietica (1979-1989)
usciranno vincitori Burhanuddin Rabbani (che diventerà il nuovo presidente
dell’Afghanistan) e Ahmed Shah Massoud, suo alleato. Le varie fazioni hanno una
componente etnica importante che conviene qui ricordare: Rabbani e Massoud, che
guidano il Partito degli islamici moderati, Jamiat-u Islami, sono etnicamente tagiki; gli
sciiti, che si riconoscono nel partito Hizb-i Wahdat, si raccolgono, invece, attorno allo
sceicco Ali Mazari e al generale Rashid Dostam. Essi sono appoggiati dall’Uzbekistan
e, essendo sciiti, ovviamente, anche dall’Iran. C’è, infine, una terza compagine di
muhajidin, rappresentata dal partito Hizb-i Islami, di etnia pathan, il cui capo è
Gulbuddin Hekmatyar. Quest’ultimo partito è sostenuto, nella prima metà del decennio,
dal Pakistan, dai cui servizi segreti (ISI), in particolare, Hekmatyar si era fatto aiutare in
funzione anti-sovietica. Questo combattente era stato così bravo e coraggioso che, per i
suoi meriti, il nuovo presidente Rabbani aveva dovuto riconoscerlo come premier. Le
resistenze a questo passaggio erano dovute al fatto che proprio questo partito pathan di
Hekmatyar si collocava vicino sia al presidente irakeno Saddam Hussein, sia al
terrorismo islamico internazionale, e al traffico di droga ad esso collegato. Per ultimo
va ricordato l’“emirato dell’occidente”, cioè, la regione occidentale del paese retta da
Ismail Khan, membro del Jamiat-i Islami, ma alquanto autonomo dal partito di Rabbani
e Massoud e dal resto del paese (da qui il suo appellativo). In questo puzzle l’intervento
dell’ONU, a fine 1994, non ha un grande successo, anzi diventa subito obsoleto, per via
dell’apparire sulla scena politico-militare dei talibani (Rashid, 1995; Roy, 1996, p.
145). I talibani afghani studiano in Pakistan nelle scuole coraniche deobandite (del
Deoband, nel Beluchistan, nel nord-ovest del Pakistan) della JUI, Jamiat-u Islami. La
JUI, guidata in Pakistan da Fazlur Rehman, partigiano della Bhutto e nemico del
generale Mohammad Zia ul-Haq, era stata avversaria del partito fondamentalista che
aveva goduto del favore di quest’ultimo, al potere dal 1977 al 1988. Alla Jamiat-u
Islami va ora la simpatia del nuovo governo pakistano, e da qui il sostegno ai talibani,
conditio sine qua non del loro ingresso al potere in Afghanistan. La storia del
cambiamento di orientamento del Pakistan nei confronti dell’Afghanistan talebano ha
anch’esso a che fare con l’aspetto inter-etnico: la Bhutto, salita al potere nel 1993,
vuole ridurre il potere dei suoi servizi segreti, l’ISI, che erano stati vicini a Hekmatyar,
dunque all’etnia pathan, in Afghanistan, perché il suo entourage vuole entrare nel
“gioco afghano”. In palio, infatti, c’è la credibilità e la legittimazione internazionale
attraverso la lotta al traffico internazionale della droga e al terrorismo – due capisaldi
della nuova retorica del prezioso alleato USA. Hekmatyar, al contrario, era legato sia a
Saddam Hussein, sia al terrorismo internazionale (anche l’Arabia Saudita, peraltro, non
gli aveva perdonato di essersi schierato pro-Saddam durante la prima guerra del Golfo).
Ecco come la Bhutto, con l’appoggio dell’Arabia Saudita, finisce per puntare sul nuovo
soggetto politico-militare,
i talebani anti-pathan di Rehman,
che
vengono
generosamente sostenuti, armati e finanziati (istituzionalmente, la Bhutto diminuisce il
potere dell’ISI aumentando quello del ministero dell’Interno).
Così, una volta preso il potere, i talebani sostengono gli Uzbeki, i Tagiki e gli Hazari
che, pur che divisi fra di loro, sono tutti uniti contro i Pathan (o Pashtun), di cui
vogliono evitare il ritorno al potere. Malgrado l’ampio consenso, palese e nascosto, di
cui essi godono al livello internazionale, la presa del potere da parte dei talebani non
fila liscia: i loro modi violenti di governo e bigotti in materia di religione e di
educazione e cultura attirano l’attenzione della comunità internazionale, e si temono
interventi dall’esterno. La macro-regione fa quadrato attorno all’Afghanistan (nel 1997
si forma il “gruppo dei sei”: Tagikistan, Iran, Uzbekistan, Turkmenistan, Cina e
Pakistan, più USA e Russia, per evitare infiltrazioni dall’esterno). Ma la situazione
precipita ugualmente, soprattutto perché, nella primavera del 1999, la tensione fra il
Pakistan e l’India per il Kashmir si accresce vieppiù, e questo fa scattare una crisi
internazionale. Il golpe di Musharaff (soprannominato Busharaff per la sua nota
simpatia per il presidente Bush), nell’ottobre 1999, rinvia la soluzione afghana alle
calende greche (Aubry, 1999).
Per quanto riguarda l’Iraq, qui, al problema etnico si aggiunge quello religioso. Al
potere, infatti, con Saddam Hussein, sono i rappresentati della fede sunnita, mentre gli
sciiti vengono mantenuti fuori dai circuiti del potere, anche in modo violento. Gli sciiti,
a loro volta, si organizzano militarmente e, nel sud, in zone paludose, hanno potuto
ingaggiare numerosi episodi militari contro l’esercito regolare.
Politica, etnia e religione si mescolano ancor di più nel contesto israeliano-palestinese.
Dopo la “stretta di mano” del 13 settembre 1993 fra Rabin e Arafat, auspice Clinton, a
Washington (Kapeliouk, 1994, p. 166) e il discorso memorabile di Rabin al parlamento
israeliano, il 18 aprile 1994, dove, nel bilancio della “rivolta delle pietre”, l’Intifada
(dal suo inizio, nel dicembre 1987), menziona non solo il numero dei morti e feriti
israeliani, ma che anche quello dei Palestinesi, gli accordi si arenano a causa della
pervicace volontà di Israele (sostenuto dagli USA di Bush, malgrado la risoluzione
dell’ONU, la 242, a favore dei Palestinesi: Rouleau, 2000) di non ritirarsi militarmente
e civilmente dai territori palestinesi (Rouleau, 1994; Gresh, 1995; Said, 1998). Gli
attentati ricominciano ad avere gli onori della cronaca, più della diplomazia (Charara,
Da Silva, 1999; Felner, 1999; Algazy, 2000; De la Gorce, 2001; Gresh, 2001).
Col tempo diventa sempre più importante la presenza araba e islamica in Europa, ciò
che sfida la presunta laicità dei vari governi (Geisser, 1996; Ramadan, 1998; le
proposte di Paul Balta su Recherches Internationales n. 62, 2000) – tanto che sempre
più si parla di islam europeo (Ramadan, 1998).
Nel 1996 si comincia a discutere dell’ingresso in Eurpa dei paesi dell’Est (il Mondo Ex, come lo chiama efficacemente Predrag Matvejevic), procrastinato al 2002. Nel
processo di disfacimento della Jugoslavia post-Tito, la situazione catastrofica è quella
della Bosnia, che si dichiara indipendente da Belgrado nel 1992, col conseguente
attacco della Serbia – dove, evidentemente, vigeva una democrazia etnica par
excellance (Finkielkraut, 1992; De la Gorge, 1994; Sanguinetti, 1995; Jaksic, 1995;
sugli accordi di pace, vedi Clark, 1995; sulla loro inefficacia, vedi Samary, 1996; per
un’analisi diplomatica degli accordi di Dayton, vedi Raffone, 1996; Samary, 2000;
Masson, 2002).
In realtà, il Mediterrano è pieno di punti etnicamente caldi (su Cipro, ancora contesa fra
Atene e Ankara, vedi Kadritzke, 1998; sul Regno Unito e l’Irlanda del Nord, vedi
Beaugé, 1995; sull’immigrazione di massa a Londra, soprannominata Londonstan, vedi
Noiriel, 2002; sulla Spagna e i Paesi Baschi, dov’è più forte l’immigrazione
marocchina, soprattutto in Andalusia, vedi Lluch, 2000; sull’Italia della Lega di Bossi e
i nuovi fenomeni di razzismo, vedi Stella, 1996; Nirenstein, 199999; Bocca, Italiani
brava gente ???????; sul successo del Partito della libertà di Jorg Haider alle elezioni
del 18 gennaio 1997 e poi a quelle del 3 febbraio 2000, in Austria, vedi Pasteur, 2000;
sul Belgio, diviso tradizionalmente fra le due comunità, la vallone e la fiamminga, vedi
Carrozzo, 1995 e 1998; sul “destino degli immigrati” in Francia e in Germania, vedi
Wieviorka, 1992; Weil, 1995; Todd, 1997; sugli Algerini, in particolare, in Francia,
vedi Badie, 1995; Bigo, 1996; sulle discriminazioni sul luogo di lavoro in Spagna, in
Italia e in Germania, vedi Walraff, 1985; Kurz, Lohoff, 1999; Negrouche, 2000). È
significativo che si torni sulla questione della schiavitù, abolita nelle colonie francesi
già da 150 anni, ma che alcuni osservatori continuano a ritenere di attualità (M’Bokolo,
1998; Leymarie, 1998).
In Africa, la questione etnica si mescola in molti modi con quella politico-partitico,
dunque, con la democrazia e il multi-partitismo (ma anche con quella inter-religiosa:
Bayart, sous la dir de, 1993). All’inizio del decennio, è da questo lato che sembra che
ci sia un avanzamento della democrazia nel Continente (anche perché gli aiuti dal
primo Mondo vengono promessi anche in ragione di questi cambiamenti politici) –
anche se, ovviamente (e forse a maggior ragione), le vecchie elite si industriano su
come svuotare le conquiste democratiche immediatamente dopo che vengono realizzate
(così, per esempio, nel 1990, sostenuto dai servizi segreti francesi, Idriss Déby prende il
potere: Couquet, 1996; il referendum del 12 luglio 1991 in Mauritania approva la nuova
costituzione che prevede il multipartitismo, ma le elezioni presidenziali del 19 gennaio
1992, vinte da Ould Taya, vengono contestate per brogli). Un’analisi caso per caso
mostrebbe chiaramente come l’inizio degli anni ’90 in Africa sia stato da questo punto
di vista un insieme di “passaggi irreversibili” di non-democratizzazione, dove perfino
l’“ingerenza umanitaria” assomiglia ancora alla missione civilizzatrice di altri tempi
(Brauman, 2005). In questo panorama anti-democratico, un fatto storico positivo
riguarda l’emancipazione delle donne, in particolare, la condanna dell’escissione, che
viene finalmente pronunciata in Burkina Faso nel 1998 (Stolz, 1998).
Senza dimenticare le questioni dei rifugiati tuareg in Niger, o la profonda divisione
politico-etnica del Kenya o del Sudan (Prunier, 1997), i casi più interessanti rimangono
il Ruanda, la Somalia e il Sud Africa. Nel primo – uno tra i paesi più poveri dell’Africa
– nei primi mesi del 1994, con tutta l’attenzione mondiale rivolta verso i Balcani,
accade il genocidio degli Hutu contro i Tutsi (Braeckman, Mai 1994; Braeckman, Mars
1995, dove mette in evidenza la responsabilità della Francia; Braekman, Juillet 1995,
dove evidenzia le responsabilità della Banca Mondiale). La questione si estende ai paesi
vicini, tutti in lotta fra di loro per l’accaparramento delle risorse del sottosuolo,
soprattutto nel Kiwu, e diventa una vera e proprio guerra mondiale africana,
coinvolgendo Zaire, Angola e tutta la regione dei Grandi Laghi (Braeckman, Juillet
1996; Conchiglia, 1997; Tshiyembé, 1999; Braekman, 1999).
La Somalia è l’altro grande caso dove la comunità internazionale registra un altro
grande fallimento: ONUSOM II, la missione dell’ONU per la crisi nel Corno d’Africa.
Malgrado l’intervento militare e l’altisonante titolo Restore Hope, la missione deve
lasciare Mogadiscio alla fine di marzo 1994 senza aver risolto alcun problema (l’Italia,
premier Carlo Azeglio Ciampi e ministro degli Esteri Nino Andreatta, che partecipa
pesantemente alla missione internazionale in quanto ex-potenza coloniale, lascia ma fa
presente che nel futuro continuerà ad aiutare il Corno d’Africa, ma solo come partner
della Banca Mondiale e delle Nazioni Unite …).
Nel Sud Africa, le elezioni libere e interculturali che si fanno in aprile 1994, vinte a
stragrande maggioranza dal Congresso di Nelson Mandela che diventa il primo
presidente nero del Sud Africa, mettono in soffitta l’apartheid, il regime più odioso di
separazione etnica (Gonidec, 1993; Beaudet, 1996; Leymarie, 1996; Conchiglia, 2000).
Alla fine del decennio in Africa compare il fenomeno della migrazione di massa fra gli
stessi stati africani (Pérouse de Montclos, 1999).
La questione interculturale in Canada, da cui sono nate le riflessioni comunitariste di
Will Kymlicka e Charles Taylor, si pone sotto due aspetti: la popolazione di origine
francese del Québec e quella dei Nativi (per quanto riguarda i primi, vedi Cassen, 1997;
Pisani, 1998; Fraser, 2000).
Negli USA le cose sono ancora più complesse, per via degli attacchi terroristici che vi
si susseguono: nel 1993 l’attacco al World Trade Center di New York, il 19 aprile 1995
l’attacco contro l’edificio federale di Oklahoma City. Nel paese scoppia la fobia per
l’islam, ai cui militanti fondamentalisti vengono attibuiti tutt’e due questi eventi, anche
se poi si viene a scoprire che almeno il secondo è opera di un veterano della guerra del
Golfo, appartenente all’estrema destra statunitense. Nel 1994 scoppiano a Los Angeles
dei movimenti di protesta sociale animati da giovani spesso appartenenti a minoranze
razziali. La risposta dello stato è più che altro di tipo repressivo e securitario (in questo
periodo le nuove tecnologie di controllo dei cittadini, come le telecamere, diventano di
massa; si diffondono anche le polizie private: Massey, Denton, 1993). Aumenta, in
generale, il senso di insicurezza sociale – immigrati, droga, violenza urbana, terrorismo:
tutto questo viene percepito come un mix esasperante (Venkatesh, 1994; sulla
repressione poliziesca fra i cittadini afro-americani, vedi Combesque, 1995). Alla
questione razziale e all’incrementata immigrazione dai paesi dell’America del Sud, gli
USA di Bush tentano di porre rimedio innalzando e serrando le loro frontiere con il
Messico (Weil, 1996; Habel, 1999; Halimi, Wacquant, 2000).
Il Sud America vanta la situazione interculturale può complessa del Pianeta, dato che
nei secoli della storia moderna qui sono venuti a sommarsi popolazioni native, coloniali
(europee e nord-americane) e africane – e questa nuova “sintesi sociale” è diventata
talvolta la bandiera di una nuova identità, come nel caso del Brasile.
Il Messico, come tutta l’America del Sud, ha una composizione sociale fortemente
mista ed interculturale. La popolazione nativa (gli Indios) è generalmente la sezione più
povera, ed è concentrata nello stato del Chiapas, dove infatti, nel gennaio 1994
comincia l’insurrezione zapatista del sub-comandante Marcos, con la richiesta di
maggiore autonomia, terra per i contadini, giustizia e libertà per tutti (Pisani, 1994;
Monsivais, 2000, sull’elezione di Vincente Fox alle elezioni del 2000).
Ugualmente conflittuale è la situazione interculturale in Guatemala: qui gli Indios
costituiscono la maggioranza, ma il loro peso politico è quasi nullo (Rigoberta Menchu,
Premio Nobel per la pace nel 1992, ha portato la problematica all’attenzione della
comunità internazionale). Qui dura da quaranta anni una sorta di guerra civile,
sostenuta dai proprietari terrieri, contro le comunità degli Indios, che ha causato
200.000 morti. Nel gennaio 1996 è presidente Alvaro Arzu, eletto col supporto di
diverse formazioni democratiche, e questo fa crescere le speranze di pace (Lemoine,
1996; Madelin, 1999).
In Perù, malgrado ormai i dubbi sulla correttezza di Alberto Fujimori nei precedenti
periodi di amministrazioni siano ormai certezze (negative), alle elezioni di aprilemaggio 2000 lo stesso Fujimori vince le elezioni presidenziali contro il suo avversario
Alejandro Toledo. Malgrado vengano denunciate frodi elettorali, e la situazione
economica sia al tracollo (con l’iperinflazione) Fujimori gode ancora della fama di
essere stato colui che ha vinto i guerriglieri di Sendero luminoso (Bourtel, 2000).
In questi anni, in risposta a diversi episodi a carattere razzista, si affaccia in Brasile il
movimento afro-brasiliano – in effetti, con 70 milioni di Neri, il Brasile è il secondo
paese nero al mondo dopo la Nigeria (Hazard, Kali, 1996).
Paragrafo 2
Politica
Intercultura
Fra le grandi catastrofi sociali ingenerate dalla “globalizzazione forzata” del mondo una
delle peggiori è sicuramente la trasformazione dell’immigrazione in schiavitù (Parisot,
1998; Cassen, Clairmont, 2001; sul divenire interculturale di tutte le società del mondo,
vedi Pampanini, 2010).
Anche il Giappone e la Cina, che si credevano assolutamente o relativamente immuni
dall’intercultura (per non parlare di Singapore), si sono dovuti rendere conto che l’issue
interessava anche loro (per un quadro complessivo, politico, culturale e religioso
dell’Asia in questo decennio, vedi Roy, 1997). D’altra parte, malgrado le crisi
finanziario-economiche del decennio, sia la Cina sia il Giappone presentano delle
performances economiche prestigiose – soprattutto, se comparate con le contemporanee
performances dell’Europa. Questa grinta (per quanto costosa, in particolare, in termini
sociali – di equità – e di scarsa protezione dell’ambiente) viene addirittura esibita con
orgoglio dai politici asiatici, e ricondotta ad una presunta superiorità dei “valori
asiatici” rispetto ai valori occidentali, presuntuosamente presentati, d’altra parte, come
universali. Il punto, ovviamente, non è di poco conto – soprattutto se si considera che,
poco per volta, proprio la Cina, paese considerato ancora appartenente al Terzo Mondo,
sta cominciando a comprare il debito degli USA, implicitamente minandone la
sicurezza finanziaria.
Per quanto riguarda il sub-continente indiano, la causa Shah Bano della metà degli anni
‘80 – la donna musulmana lasciata dal marito, senza un equo trattamento economico –
suscita un dibattito politico nazionale destinato a durare nel tempo, ponendo al tempo
stesso un problema che si può definire di tipo interculturale (di cui si è occupata anche
Nussbaum, 1999). La donna ricorrente contro il marito si sarebbe dovuta accontentare,
secondo l’opinione pubblica tradizionalista (e la legge vigente nel 1986), di quanto le
dava già l’ex-marito. Sheyla Benhabib ha redatto un ottimo resoconto di tutta la
vicenda, concludendo così: “Benché le leggi che vietano la discriminazione basata sul
sistema delle caste siano state modificate e poste sotto la giurisdizione dei tribunali
indiani, la connotazione religiosa dello stato di diritto di famiglia che disciplina la sfera
privata è stata mantenuta. È questo compromesso politico e religioso al cuore dell’India
laica, democratica e multiculturale che il caso Shah Bano ha messo in evidenza con
tutte le sue contraddizioni” (Benhabib, 2005, pp. 127-131).
Il caso Shah Bano è interessante perché ha messo in rilievo le tensioni inter-etniche ed
inter-religiose che continuavano, e continuano a vivere sotto l’apparente pacificazione
sociale garantita dallo stato di diritto indiano. La guerra civile dello Sri Lanka, iniziata
nel 1983, fra Tamil e Singalesi, è un’altra prova dell’esistenza e dell’aggravarsi delle
questioni interculturali nell’area indiana. Perfino l’uccisione del premier dell’epoca,
Rajiv Gandhi, per mano di militanti tamil ha a che fare con esse. Alla luce di queste
considerazioni, si può apprezzare ancora di più quanto sia stata importante l’opera
interculturale di Raimund Panikkar.
Un grande nome del dialogo interculturale in Russia, Mehrab Mamardashvili,
scompare, invece, all’inizio di questo decennio (1990), ma la sua opera verrà ripresa e
portata avanti da altri intellettuali russi (fra cui lo psicologo vygotskiano Vladimir
Zinchenko). In effetti, qui, in questo decennio, mai come ora la voce del dialogo è stata
più necessaria: i conflitti in Cecenia, la questione musulmana mescolata con la corsa
all’accaparramento degli introiti del petrolio, la fine dell’occupazione dell’Afghanistan,
la difficile vicinanza con l’Iran degli ayatollah, l’antica rivalità con la Turchia – tutto
questo avrebbe ben meritato una presenza di alto profilo nel campo culturale e
filosofico che, tranne qualche eccezione, non c’è stata (per la guerra in Cecenia, vedi
Bartak, 1995; per quanto riguarda, in generale, la presenza musulmana in Russia, vedi
Dudoignon, Is’haqov, Mohammatshin, sous la dir de, 1997).
In Turchia il problema interculturale si è posto forte in questo decennio per via,
soprattutto, della reiterata richiesta, da parte della Turchia, di fare parte dell’Unione
Europea. Dato che la Turchia è un paese a stragrande maggioranza musulmana
(sunnita), il rifiuto opposto, il 16 febbraio 1995, dall’UE, ufficialmente per condannare
la repressione della Turchia in Kurdistan, è stata vista da alcuni osservatori come
l’espressione del pregiudizio cristiano contro un paese mulsulmano (Verrier, 1995; vedi
anche Elmas, 1998).
Ovviamente, il problema del rapporto fra islam e cristianesimo in termini politici – e
cioè, fra Asia centrale e Europa – va ben al di là delle questioni dottrinali e investe in
pieno la questione del flusso di petrolio che arriva al Vecchio Continente dal Caucaso e
il chi dovrebbe trarre profitto da questo immenso business (si consideri che l’Europa è
uno dei soggetti internazionali che consuma energia in una misura nettamente superiore
a quanto fa l’Asia, pur essendo di molto inferiore in termini demografici. Sul problema
etnico-politico in Pakistan e Afghanistan, vedi Artico, 1995).
Fra Iran, a larghissima maggioranza sciita, e Iraq, all’epoca a stretta maggioranza
sunnita, il problema interculturale si pone in senso soprattutto inter-religioso, in quanto
le due tradizionali scuole musulmane si contendono la palma del vincitore fin dai tempi
della fitna, la scissione, dunque dal secolo X (Kepel, ???????).
In Libano e in Israele, invece, il problema interculturale conosce uno dei suoi apici
mondiali (Kapeliouk, 1995). Eppure, alcuni ricercatori avevano auspicato un
incoraggiamento alla pacificazione nell’area mettendo in evidenza i ritorni, anche in
termini di benessere economico che la pace avrebbe avuto (così Rodrik, Tuma, 1993;
Blin, Fargues, sous la dir de, 1995). Queste prospettive svaniscono completamente nella
seconda metà del decennio, alla fine del quale, in seguito all’avanzamento delle colonie
israeliane, i Palestinesi daranno vita alla seconda “lotta delle pietre”, Intifada.
Il problema interculturale israeliano-palestinese connette la macro-regione asiaticooccidentale con quella mediterranea. – La parte araba della quale riceve in queste
decenni molta manodopera immigrata dall’Africa e dall’Asia, ma non nella stessa
misura in cui la riceve l’Europa nella sua totalità. Dunque, è qui che il problema
interculturale si pone, in questo decennio, con maggiore virulenza – tanto che l’Unione
Europea come tale viene chiamata in causa, e non soltanto i suoi singoli stati membri.
Ovviamente, la prima scienza umana che si sente chiamata in causa dal fenomeno
dell’immigrazione è la sociologia (Basteiner, Dassetto, 1993). Naturalmente, si cercano
precedenti negli USA, paese del “melting pot”, dunque dell’intercultura – almeno, così
si crede in Europa in questa fase – par excellence. E si nota come, in Europa (come già
negli USA, appunto), cresca la violenza urbana e l’insicurezza. I politici montano la
tigre e, anziché parlare delle cause economiche che sono alla base di questa percezione
sociale diffusa, preferiscono rinforzare i poteri della polizia. Uno studio critico su
questa situazione, con un occhio rivolto soprattutto alla Francia, ma anche agli USA, è
quello di Yasemin Soysal (Soysal, 1994). Lo studio è comparativo, e attenziona i
diversi modi di praticare l’accoglienza degli immigrati nei diversi paesi europei – la
Germania non distingue gli immigrati per provenienza, al contrario dell’Olanda che
invece riconosce le “minoranze ufficiali” dalle altre (1982), e a queste sono riconosciuti
i diritti di alloggio, istruzione, occupazione e altre forme di assistenza sociale – incluso
l’insegnamento di una seconda lingua nella propria lingua (cosa che, però, può
trasformare quella minoranza in una sorte di enclave, se non proprio in un ghetto).
Come si può vedere, in Europa, in questo decennio, si è ancora lontani dal percepire il
problema dell’immigrazione come un problema di politica culturale, cioè, come un
problema interculturale globale. Esso rimane per il momento appannaggio della
sociologia e, quando diventa politico, lo è nel senso deteriore del termine – per essere
manipolato (esagerato o sminuito) a fini di consenso elettorale. In una vita democratica
così soffocata e sincopata – ovvero, in una democrazia a prova di intercultura – non fa
meraviglia che anche la xenofobia cresca (De Brie, 1995). Sono pochi coloro che
parlano dell’immigrazione come di un problema interculturale, e dunque dell’urgenza
di una “comunità culturale mediterranea” (Jacquard, 1996).
Per quanto riguarda la Francia, in particolare, il tema assurge agli onori della cronaca
col famoso affaire foulard a scuola: accade nel 1989, infatti, quando in una scuola una
ragazza musulmana che indossava il foulard e rifiutava di toglierselo, viene esclusa
(Gaspard, Khosrokhavar, 1995; la storia è raccontata nel dettaglio da Benhabib, che
giustamente evidenzia tutte le ambiguità del caso: 2005, p. 133; le opere di Ricoeur e
della Kristeva di inizio decennio aiutarono a inquadrare meglio il problema dello
straniero dal punto di vista filosofico). L’opinione pubblica in Francia come in Europa
e in tutto il Mediterraneo si divide ora fra, da una parte, il senso laico dello stato
europeo – quello francese in primis – e il rispetto per la libertà, dall’altra. La
conciliazione culturale, ma anche politica, fra questi due corni della contraddizione
appare ardua – si consideri che, appunto, mentre questi ed altri analoghi fatti succedono
in Francia (ma anche in altri paesi europei), contemporaneamente l’Algeria crolla sotto
il peso dei conflitti innescati dalle elezioni democraticamente vinte dal partito antidemocratico del FIS, Fronte di Salvezza Islamico, con tutto il corteo di conflitti
laceranti che questo caso presentò, per l’Algeria come per tutta l’Europa. Sulla
possibilità, o meno, che l’islam riesca ad adire la strada della democrazia, cioè, se sia,
come dire? epistemologicamente capace di coniugarsi con la cultura della democrazia,
gli autori si dividono in tutto il bacino mediterraneo (ricordiamo solo le posizioni,
opposte, della famosa sociologa marocchina Fatima Mernissi, a favore della
democratizzazione dell’islam, e dell’altrettanto famosa giornalista italiana Oriana
Fallaci, assolutamente contraria all’idea di un islam democratico: Mernissi, 1992 e
2002; Fallaci, 1992; Baubérot, sous la dir de, 1994; Garoudy, 1995; Dijan, 1996).
Naturalmente, un aspetto centrale della questione interculturale, in un’Europa che,
come abbiamo già visto, è sottomessa ad una situazione di crisi economica e di
sviluppo, riguarda l’economia e il mondo del lavoro. L’approccio imposto all’Europa è
quello dell’OECD, particolarmente insensibile al fatto che l’ “approccio della
competitività” stia generando una forte disoccupazione (Chesnais, sous la dir de, 1996;
Wiewiorka, 1996; Fassin, Morice, Quiminal, sous la dir de, 1997 ; Miné, 2000; sul
successo di Le Pen, vedi Taguiff, 1996; van Buuren, 1999; sul dibattito a proposito di
ius solis e ius sanguinis, vedi Boeckenfoerde, 2010, p. 162).
Habermas sviluppa, o meglio applica la sua Teoria dell’agire comunicativo nel campo
giuridico e politico (Habermas, 1996), nella quale offre una ricostruzione del processo
di formazione della volontà a partire dall’ambito del mondo-della-vita, ovvero,
dall’ambito dell’informale, passando verso l’opinione pubblica (e i media), fino ad
arrivare alle sedi formali (parlamento), dove la comunità politica assume le sue
decisioni sotto forma di leggi. In tutto il volume, a colloquio con Weber, Parsons e
Dworkin, Habermas sviluppa la sua Teoria della democrazia deliberativa incentrata sul
parlamento come modello in cui discorsivamente i diversi interessi presenti nella
comunità nazionale giungono a compromesso. È significativo che Habermas includa tra
gli argomenti da portare dalla periferia al centro della sede decisionale politica anche la
questione dello straniero – cosa che poi approfondisce a colloquio con il filosofo del
comunitarismo Charles Taylor (Habermas, Taylor, 1998; Habermas, 1997; Habermas,
1998).
In effetti, a poco a poco il tema del riconoscimento si impone nel dibattito di filosofia
politica di questo decennio – di esso si occupa anche l’allievo di Habermas, Axel
Honneth, 1992; Amy Gutmann e altri, in Taylor, 1993; Fraser, Honneth, 1994; Parek,
2000).
Naturalmente, in Europa il tema diventa di importanza capitale quando si fa focus
sull’ex-Jugoslavia (Begic’, 1994; Halimi, 1995; AA.VV., 1997). Chandler, 1999
discute criticamente gli accordi Dayton del novembre 1995 nella prospettiva di postGuerra Fredda (quindi, di peace building e peace keeping) e della democratizzazione. Il
punto centrale è per l’autore lo scarso costume democratico posseduto dalla Bosnia
(così come dal Ruanda, etc.), il che, nei termini della teoria di Lipset e Almond (la
“cultura della democrazia”), aiuterebbe a spiegare le difficoltà ad instaurare e
consolidare la democrazia in questi paesi che escono dalle dittature.
Da un punto di vista globale, quel che appare è una scena nella quale il West (l’Europa,
come gli USA) discute se accettare (e quanto, e come) gli immigrati, e il Rest in cui le
condizioni di vita si fanno facendo sempre peggiori per le classi sociali più basse, senza
che il West si renda conto di quanto esso stesso sia causa dei mali che crea nel Rest (in
Africa l’AIDS raggiunge cifre eccezionali: Prolongeau, 1995, per non parlare
dell’inquinamento, delle guerre e dei rifugiati: Braeckman, 1999; Mbembe, 2000 e
2001; Cot, 2001).
Il lavoro critico di Todorov sulla “scoperta dell’America” in occasione del cinquecentenario dell’evento è servito per ricordare che in realtà si trattò di genocidio
(Todorov, 1992), ma non dissuade gli “scienziati politici” dall’affrontare la democrazia
nel mondo in un’ottica veramente più democratica, e cioè, in un’ottica non di
democrazia nazionale o etnica, ma globale. Così, Samuel Huntington parla di “terza
ondata” di democratizzazioni in senso tecnico, avvenute fra il 1974 e il 1990 (lui conta
29 paesi), dopo la “prima ondata” del 1828-1926, seguita dal riflusso 1922-1942, e la
“seconda ondata”, dal secondo dopo-guerra fino al 1962 – giusto per festeggiare la
caduta dell’URSS nel 1991 (Huntington, 1991, dove la schiera dei riferimenti è,
ovviamente, sempre la stessa: Schumpeter, Dahl, Sartori, la Freedom House).
Curiosamente, per lui la de-colonizzazione rientrerebbe nel secondo riflusso: 19581975 (idem, p. 38. In tutto il testo l’autore riesce a passare sotto silenzio casi
controversi come la “democrazia” di Israele e dell’Italia). Da qui allo “scontro fra
civiltà” il salto è stato breve: prima su Foreign Affairs, vol. 72, n. 3, estate 1993, poi nel
volume specifico Clash among Civilizations, Huntington pone la questione del postGuerra Fredda in termini di chock fra culture e civiltà (questo è il suo elenco di civiltà:
occidentale, confuciana, giapponese, islamica, induista, slavo-ortodossa, latinoamericana e africana), naturalmente, traendo spunto dall’attualità: Bosnia, Cecenia,
Algeria, Vicino Oriente, Sud Sudan, Kashmir, Sri Lanka, Chiapas e Ruanda, e
preconizzando che nel futuro le guerre saranno guerre fra civiltà (Huntington, 1997;
per una discussione critica, vedi Ramonet, Juin 1995). La leggerezza del punto di vista
“scientifico” di Huntington si accompagna a quella degli studi psicologici “scientifici”
di quel periodo, tesi a giustificare l’inferiorità sociale dei Neri negli USA (Murray,
Herrnstein, 1994; per una discussione più scaltrita sulla disparità sociale negli USA,
vedi Hollinger, 1995).
Conclusioni
Parte IV:
Las conclusiones de esta parte nos hacen comprender que:
- tiene gran importancia el fin de la URSS, la crisis del comunismo en Europa y la
reforma de Deng en China - el socialismo parece ser una perspectiva a ponerse
definitivamente en el sótano; hablamos ahora de “tercera vía” (Giddens);
- en todos los países avanzan los neo-liberalismo y la globalización (también en la
India y Rusia), con las contradicciones y la astucia;
- la macro-regionalización del mundo, que tiene lugar en esta década, no cambia
la naturaleza de la globalización neo-liberal, y parece tal vez organizar mejor su
instalación (la idea del “choque de civilizaciones” de Huntington puede ser
considerado como una “buena” racionalización de la macro-regionalización);
- Sen expresa el “enfoque de las capacidades”, acompañado de Martha Nussbaum
(que completa el aspecto de género), y introduce el enfoque comparativo para
medir la voluntad de cambio por parte de los países para resolver realmente la
pobreza;
- en Europa, como en los EE.UU., hay una crisis del estado de bienestar, que toma
a los ciudadanos la iniciativa; ya ellos estan dóciles y cobardes despues tres
décadas y media de subvenciones y ayudas (desde este punto de vista, tiene valor
la crítica al Welfare State de tipo asistencialista en Europa, pero en el lado de la
democracia, es decir: el Welfare State asistencialista quita a los pobres la
capacidad de pensar con la cabeza, los doma, y los aisla del resto del mundo;
- la educación nacional, incluso cuando es “democrática”, contribuye a la
“abstracción”, en el sentido que prepara para la guerra contra los “otros”, los
“enemigos” de “nuestro” nivel de vida. Así, la democracia étnica se renueva con
mayor énfasis que antes (movimientos de derecha, con slogan como “No hay
espacio para todos”, etc.);
- es el demócrata Bill Clinton que pide al Congreso de aumentar el presupuesto de
la defensa, en Italia es el politico de izquierda Massimo D’Alema que promueve
el ejercito de profesionales, etc. Ahora la Europa advierte una “proximidad
embarazosa” de Sarajevo y una “distancia tranquilizadora” de Kinshasa, etc.
- de hecho, ahora parece el debate sobre la “redistribución o reconocimiento”
(Honneth, Fraser, etc.);
- los acuerdos de Lomé entre África y Europa desaparecen y hay ahora el
“Consenso de Washington”. A pesar del interés en el fin del apartheid en
Sudáfrica o la hambruna en Somalia, la escena le roba la antigua URSS;
- la Europa ahora se preocupa sobre todo solamente de sus demos, y no más para
África;
- la alteridad parece ser ahora: el movimiento zapatista mexicano, todo el
movimiento de pueblos nativos en general (Evo Morales, etc.), y el islamismo;
- por el contrario, los movimientos de los países de África y de la India (olvídado
Gandhi) se duermen en el mismo sueño del bienestar de Occidente que nutre la
“ideologia” de las clases bajas, los demos internos de l’Occidente;
- todas la elaboraciones de Rawls o Habermas, o incluso las de Negri y Hardt,
sobre el “contrato social” o la “democracia fundada sobre la toma de resolución”,
no toquen el punto fundamental de la injusticia contenida en la nocion misma de
demos etnico;
- el tema del demos es también sensibles ahora en la nueva China, donde el poder
esta en el demos de los Han; pero el es comun aun a la India, donde hay el
problema de tener el control de los dalits; en Rusia, donde Gorbachov descuida
los grupos étnicos (malgré Mamardashvili y Zinchenko); este tema siempre vive
en los EE.UU. (se publica en 1994 el libro de C. Murray, R. Herrnstein The Bell
Curve, el de Huntington sobre el “choque de las civilizaciones”, etc.); es atávico
en Afganistán e Israel/Palestina; en África, donde es un elemento ancestral de la
cultura comunidaria; también es típico de los gitanos que en todo el mundo
“recuerdan” la cuestión; y es muy fuerte en Estados Unidos, donde los Nativos
están siempre ahí para recordar el genocidio que instituyó la “mayor democracia
étnica del mundo”; de este punto di vista, la “limpieza étnica” que pasa en Bosnia
está en la lógica de las cosas;
- incluso en la concepción de Sen y Nussbaum (por no hablar de Rawls o
Habermas), la educación es una parte de la historia de la “capacidad”, lo que
ayuda mucho para mistificar las apuestas reales de la función de la educación en
este tipo de democracia etnica, que es la de facilitar la separación entre el ganador
y el perdedor del demos, incluso la nueva esclavitud internacional. Es verdad que
la “capacidad” de Sen y Nussbaum nunca es la “capacidad democrática”, que no
está pensada para todo el período 1990-2000; el Índice Mundial de la Educación
de la OCDE, de la UNESCO y el PNUD también sirven precisamente a esto: para
medir el rendimiento de un sistema educativo, más allá o negligentemente del
problema de si el rendimiento de tal o cual escuela se mide en términos de
democracia internacional (por eso Silvio Berlusconi, premier italiano de este
periodo, habla de su educacion con tres i: Inglés – que, claro, no sirve para
promover la comunicación internacional, por el contrario, es sólo para ser capaz
de atraer capital para su empresa o para vender mejor sus productos; Impresa, y
Internet);
- aparece ahora la obra de Lê Thành Khôi, que se centra en la civilización tal
como la “unidad de análisis” y el diálogo entre civilizaciones - que él llama la
educación intercultural;
- los índices de l’educacion de l’OCDE apuntan a incluir a todos en el mismo
sueño productivista y de juventud perene de Occidente. Para l’autor de esta tesis
es aquí que haga la “paradoja de Mussolini en la educación” (inclusion “forzada y
feliz”), que es parte del proyecto de la autonomía y del rendimiento de las
escuelas.
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