F. Gros, Marcher, une philosophie, Carnets Nord, Paris, 2009, pp.302

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F. Gros, Marcher, une philosophie, Carnets Nord, Paris, 2009, pp.302
Cqia Rivista
Educazione fisica e sportiva ed educazione integrale della persona
Ottobre 2011
F. Gros, Marcher, une philosophie, Carnets Nord, Paris, 2009, pp.302
Le parole d’apertura del testo di Gros sono emblematiche: “Camminare non è uno
sport”, ossia non ha a che fare con la competizione, con tecniche e regole complesse, con
tempi e risultati, con record, non richiede attrezzature sofisticate… Per camminare
occorrono due gambe e porre con costanza, come imparano perlopiù gli uomini nei primi
due anni di vita, i passi l’uno dietro all’altro. Eppure Gros riesce a evidenziare come ciò
che ognuno di noi può fare del cammino è qualcosa che ci differenzia profondamente, che
mostra quali diverse attese e possibilità sono racchiuse in una delle pratiche più comuni
dell’uomo e – ciò che preme al filosofo - quali relazioni importanti si possano intrecciare tra
camminare e creare pensiero.
Gros costruisce il suo lavoro alternando capitoli dedicati a un poeta o un pensatore
- la cui pratica di creazione è connessa al cammino - a capitoli incentrati su un elemento o
una modalità fondamentale del cammino – lentezza, libertà, energia, pellegrinaggio…, che
Gros va a analizzare costruendo così una sua personale filosofia del camminare. Si
incontrano lungo le pagine di questo testo diverse tipologie di camminatori – in ordine:
Nietzsche, Rimbaud, Rousseau, Thoreau, Nerval, Kant e Gandhi, considerati per quel che
la pratica del camminare ha significato in relazione alla loro produzione di pensiero e
poesia.
Andiamo a considerare – per cenni sintetici – come è presentato nel testo ognuno
dei diversi cammini. Gros legge il cammino – lungo, quotidiano, spesso ascensionale praticato da Nietzsche come un “elemento” della sua opera, come la sua stessa
condizione. Il filosofo – a partire dal 1879 quando lascia l’università per condurre una vita
da fugitivus errans - non cammina per distrarsi dal lavoro bensì per pensare camminando
e per camminare pensando laddove lo slancio del corpo in movimento ritmico e continuo
trascina con sé il pensiero. Certo Nietzsche è, nel testo, colui in cui si lega maggiormente
l’esercizio del cammino e la pratica del pensiero.
Il cammino forsennato di Rimbaud ha invece i caratteri della fuga, della ricerca di
una fatica che, estenuando il corpo, porti all’oblio di sé e del mondo.
Rousseau è un passeggiatore convinto, che pure ha riflettuto sull’ispirazione
profonda procuratagli dal cammino: egli stesso dichiara che mai ha pensato, sentito,
vissuto così fortemente se non camminando. Nell’homo viator egli vuole ritrovare l’uomo
naturale, prima d’ogni cultura, d’ogni legge, d’ogni legame: questo è il sogno, la rêverie del
passeggiatore solitario Rousseau.
Thoreau cerca nel cammino – un cammino nei boschi, nelle fitte foreste del
Massachusetts - la wilderness che l’America dei suoi tempi andava perdendo e insieme
andava mitizzando. Ma riflettere sul proprio camminare serve anche a Thoreau per
contrapporre il profitto, fine ultimo di ogni fare per la società capitalistica, al beneficio che è
un fare, come il camminare, senza profitto, una fatica apparentemente inutile, sterile, che
però è in grado di migliorarti la vita, di dare felicità.
In Gerard de Nerval la pratica del camminare assume i caratteri dell’erranza
melanconica, ma è una melanconia attiva che - come in un processo alchemico - viene a
trasformarsi nel corso del cammino in pensieri, ricordi d’infanzia, sogni.
La camminata giornaliera, famosa in tutta Königsberg, di Immanuel Kant è divenuta
simbolo della organizzazione quasi ossessiva della giornata del filosofo: immancabile ogni
giorno, alla stessa ora, della stessa durata…E’ un cammino che in apparenza non ha il
carattere di elemento necessario al pensiero - come invece risulta evidente in Nietzsche è piuttosto un momento di interruzione del lavoro, di ricerca di svago e di igiene del corpo
e della mente. Gros sottolinea un carattere della passeggiata di Kant che meritava di
essere meglio approfondito in quanto è comune a tutti i cammini qui considerati: l’aspetto
dell’esercizio, della disciplina , del dressage del corpo, che Gros giustamente nega sia
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solo un’abitudine passiva in quanto è proprio attraverso la regolarità dell’esercizio, il suo
imporsi al corpo, che progettiamo noi stessi, il nostro destino.
Proprio in questo carattere di imposizione al corpo il cammino presenta un legame
col la produzione del pensiero. Osserva Gros: “ Questa costrizione monotona del corpo
libera il pensiero. Camminando, non si è obbligati a pensare, a pensare così o colà, in
questo o in quest’altro modo. Lo spirito è consegnato, attraverso lo sforzo continuo e
automatico del corpo, alla sua disponibilità. È allora che i pensieri possono venire,
sopravvenire, avvenire.”1
Infine nelle famose marce di Gandhi attraverso l’India per chiederne l’indipendenza
Gros trova esaltati gli aspetti spirituali e politici che la marcia può assumere come pratica
di protesta e di dimostrazione non violenta.
Per quanto concerne i concetti legati al cammino che vengono considerati da Gros,
mi limito qui ad un accenno ai primi due che s’incontrano nella lettura del testo. Il primo è
quello di libertà, declinato al plurale perché sono di diverso tipo le libertà dispiegate là
dove ci si mette in marcia: c’è una libertà sospensiva della cura che consiste nell’oblio
degli affanni quotidiani ma anche una libertà trasgressiva dei confini e delle convenzioni
sociali, una sorta di risposta all’appello del mondo selvaggio della natura e di rifiuto degli
aspetti alienanti e degradati della civiltà e infine una libertà di rinunciare – tipica delle
lunghe marce, dei pellegrinaggi – che è la più alta di tutte perché in essa balugina, oltre il
nome, l’età, la professione, la carriera, il nostro sé più vero.
La seconda cifra concettuale evocata dal cammino è quella di “fuori” in quanto
camminare mette l’uomo in rapporto al fuori, lo fa riflettere sul suo stesso abitare fino a
operare un rovesciamento delle categoria di “dentro” e “fuori” perché “entrare dentro” le
case, gli ostelli, i rifugi dopo ore di cammino spesso finisce per voler dire “uscire fuori” da
un paesaggio che il camminatore ha lungamente abitato, ha fatto suo, dove egli ha preso
faticosamente dimora.
Cristina Zaltieri
Scuola Internazionale di Dottorato in
Formazione della Persona e Mercato del Lavoro
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F.Gros, Marcher, une philosophie, Carnets Nord, Paris, 2009, pag. 215. Traduzione mia.
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