Un ponte tra culture e religioni - Fondazione per la Sussidiarietà

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Un ponte tra culture e religioni - Fondazione per la Sussidiarietà
Un ponte tra culture e
religioni
di Salih Mahmoud Osman*
Allargare l’orizzonte della ragione
Nel suo acclamato discorso alla Università di Ratisbona, il Papa ha parlato del bisogno di unire la ragione e la fede secondo nuovi modi, così da permettere una maggiore comprensione dell’universo e un comportamento più etico. Nelle parole del Papa, solo con questa fusione «diventeremo capaci di quel genuino dialogo di culture e religioni così urgentemente necessario oggi».
Come avvocato e attivista dei diritti umani, ho tentato di negoziare una equa e giusta
relazione tra i vari gruppi etnici nel Sudan. Nel mio tentativo di mobilitare il supporto internazionale per la gente del Darfur, ho anche tentato di colmare le divisioni culturali e religiose, in modo da creare un movimento comune basato su una comune preoccupazione
umana per il benessere della gente del Darfur. Sebbene ci siano state delle differenze lungo
il cammino, l’esistenza di una estesa coalizione per il Darfur mostra la possibilità di successo nel dialogo. L’invito del Papa ad allargare l’orizzonte della ragione mira ad applicare
la ragione in tutti i campi della vita, così da guidare le nostre vite in modo coerente sia con
gli insegnamenti religiosi che con i valori umani. Nel suo discorso, il Papa ha espresso l’idea che agire senza ragione sarebbe anche contrario alla natura di Dio come mezzo per temperare l’estremismo, che potrebbe essere legato agli insegnamenti religiosi. E realmente,
valori che possono sconfiggere l’odio e porre fine alle sofferenze umane sono più che necessari nel Darfur e in tutto il mondo.
Nella mia vita, ho cercato di fondare le mie scelte su un insieme di valori che realizzassero quegli obiettivi e ho tentato di fare ciò che avrebbe portato più beneficio alla mia
famiglia, alla mia comunità e agli altri esseri umani.
*Salih Mahmoud
Osman è avvocato
sudanese, Premio
Sacharov 2007.
L’educazione alla responsabilità
Vengo da una famiglia che ha una lunga storia nel prendersi cura di altre persone. Io
sono stato uno dei primi bambini nella mia famiglia ad essere educato proprio in questa concezione della responsabilità. A quel tempo, la maggior parte delle famiglie in vista del Darfur
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evitavano il sistema di educazione formale, in quanto era considerato uno strumento del
potere imperiale britannico. La mia famiglia, tuttavia, aveva capito che il bene della comunità richiedeva l’acquisizione della conoscenza moderna e, perciò, investì nella mia educazione come mezzo per migliorare non solo il mio personale futuro, ma anche quello della mia
comunità.
Da studente, fui così fortunato che mi furono affidate, da parte dei miei insegnanti,
diverse responsabilità nei confronti dei miei compagni e, in questi incarichi, ho imparato e
sviluppato abilità nell’assistere gli altri.
Fui poi ammesso all’università di Khartoum dove ho studiato legge. Completati gli
studi, ho cominciato a esercitare come avvocato nel 1982, quando mi sono trasferito a Wad
Medani. Lì, tra i primi casi seguiti come avvocato, ho accettato la difesa di persone perseguite semplicemente perchè chiedevano maggiore giustizia e servizi sociali. Benché abbia
mantenuto clienti a pagamento per sostenere me e la mia famiglia, fin dall’inizio ho preso
l’abitudine di difendere gratuitamente chi sentivo più bisognoso del mio aiuto.
Nel 1983 sono tornato nel Darfur, prima a Zalingei, e poi a Nyala. A quel tempo il
Darfur stava sopportando una seria carestia e la regione veniva aiutata dagli Stati Uniti,
dall’Europa e da tanti benefattori da tutto il mondo. Fu un disastro naturale, causato dalla
siccità e da altri elementi naturali, ma le difficoltà per gli insufficienti approvvigionamenti
di cibo furono accresciute dall’insorgere di conflitti, come attorno a Jebel Marra, la mia
regione natale nel Darfur. La regione, storicamente abitata da una popolazione sedentaria, i
Fur, era però attraversata da tribù nomadi. Quando le risorse incominciarono a scarseggiare
queste comunità cominciarono a combattere tra loro, in una specie di anteprima della violenza attuale. Sebbene la mancanza di risorse fosse la scintilla del conflitto, tuttavia, sarebbe un serio errore ridurre il conflitto a questo solo elemento.
La battaglia in difesa dei diritti
Mentre i negoziati intercomunitari erano in corso a El Fashir, fui scelto come rappresentante della mia comunità in questi colloqui. Sfortunatamente non fui in grado di vedere
la conclusione dei negoziati nel 1989, perché in quell’anno l’attuale governo prese prima il
potere con un colpo di Stato.
Il governo si schierò in favore degli arabi e degli islamici e, nel Darfur, gli appartenenti a tribù non arabe furono automaticamente visti come potenziali oppositori del nuovo
regime. Come leader dichiarato della mia comunità, fui visto come una particolare minaccia, fui arrestato e trascorsi quattro mesi in prigione. Dopo sei mesi, fui arrestato nuovamente e trasferito numerose volte, a El Fashir, a Port Sudan, a Khartoum. Rimasi anche per
tre mesi in una delle tristemente famose case fantasma del governo (luoghi segreti di detenzione, dove si pratica la tortura e spesso i detenuti spariscono). Finalmente fui rilasciato
come risultato dello sforzo degli anziani della mia tribù che fecero personalmente un esposto a Omar el Bashir (a capo del colpo di Stato e attuale presidente).
Nonostante quanto avevo sofferto durante la prigionia, sentivo che non potevo abbandonare la lotta per i diritti umani, perché vedevo l’ingiustizia e dovevo agire. A quel tempo,
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il governo in Darfur era coinvolto pesantemente in un’ampia campagna diretta ad imporre il
loro credo, cercando di creare una nuova identità per la regione fondata sulla loro interpretazione ristretta della tradizione islamica. Questa nuova identità era minacciata dalle consolidate tradizioni culturali del Darfur. Il nuovo governo non era in grado di incorporare queste culture, né il Darfur in generale, dentro la sua concezione di futuro Stato sudanese; di
conseguenza, fu intensificato il modello di marginalizzazione che risaliva al periodo coloniale
inglese. Vidi perciò come mia responsabilità difendere i dirItti del mio popolo e sfidare questa emarginazione. Non fui da solo in questi sforzi. Ebbi molti alleati in altre persone provenienti da tribù di origine africana e altri gruppi nel Sudan. Questa sfida fu vista sempre
più come una opposizione, benché noi la vedessimo semplicemente come un tentativo di
negoziare il riconoscimento dei diritti umani fondamentali della nostra gente.
Come avvocato che già assisteva le persone più deboli, le mie responsabilità aumentavano all’aumentare degli abusi. Quando nel 2003 esplose il conflitto nel Darfur, intensificai i miei sforzi per difendere i diritti dei suoi abitanti, e di nuovo fui ricompensato con la
prigionia. In tutte queste detenzioni, non fui mai accusato di nessun crimine.
Dopo che fui rilasciato, nell’ottobre del 2004 partecipai alla fondazione del Centro
Amal (in arabo “ speranza”). Il Centro reclutava una rete di avvocati e medici disposti a contribuire ai suoi progetti di aiuto psicologico e legale. Iniziato con un piccolo numero di avvocati, alla fine il Centro arrivò a trenta avvocati, coprendo tutto il Darfur.
La nuova fase parlamentare
Nel 2005, fui invitato dal mio partito ad entrare in Parlamento. L’Alleanza
Democratica Nazionale, della quale faccio parte, aveva ottenuto un certo numero di seggi
nella legislatura in conseguenza del Comprehensive Peace Agreement (Accordo di Pace
Globale), che pose fine alla guerra civile tra il nord e il sud del Sudan. Sebbene fosse una
decisione difficile per me accettare questa posizione, mi sentii in dovere di rispondere positivamente, perchè capii che le riforme giuridiche erano assolutamente essenziali per una
reale transizione del Sudan verso la democrazia. Le nostre leggi dovevano essere conformate agli standard internazionali ed essere formulate secondo un approccio rispettoso dei diritti. Ora sono membro della Commissione legge e giustizia e sono stato nominato tra i tredici
esperti chiamati a rivedere la carta dei diritti nella costituzione provvisoria del Sudan.
Fin dalla mia infanzia, ho accettato delle responsabilità per la mia comunità e queste
responsabilità sono aumentate insieme alla mia posizione. Da avvocato, ero responsabile dell’uso delle mie capacità per assistere le persone. Come membro del Parlamento, ho accettato la responsabilità di promuovere leggi per il bene dell’intero Paese, a prescindere da religione, etnia o colore.
Non posso fornire tutta l’assistenza necessaria da solo, ovviamente, ma ho alleati sia
nel Paese che nel mondo. Il riconoscimento che ho ricevuto a livello mondiale, più recentemente con il Premio Sacharov, assegnato dal Parlamento Europeo lo scorso anno, mi incoraggia e mi dà forza e determinazione per continuare a fare il bene, anche se a costo della
mia persona.
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