Teste esplose. Il teatro dei Masque tra Francis Bacon e Gilles Deleuze

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Teste esplose. Il teatro dei Masque tra Francis Bacon e Gilles Deleuze
Teste esplose. Il teatro dei Masque tra Francis Bacon e Gilles Deleuze
«Head VI», ovvero benvenuti nella ricostruzione (quasi) fotografica dell'atelier-museo al 7 di Reece
Mews, South Kensington, Londra. All’inizio, dal buio, emerge un ghigno bianco spalancato, una
mascella che si serra al massimo del suo angolo di contrazione verso l'alto; è la firma della terribile
precisione da anatomo patologo di Francis Bacon. Come il loro artista di riferimento – e come il
filosofo che ne ha analizzato la crudele sincerità, Gilles Deleuze – i Masque Teatro dipingono sulla
scena il grido più che l'orrore che lo provoca; per questo non ci sono dialoghi e non ci sono parole,
non c'è nessun contesto esplicativo, nessuna prefazione e nessuna postfazione in scena. Per gridare
servono solo teste ghignanti che, nella visione ideata da Lorenzo Bazzocchi, sembrano far esplodere
le ossa della faccia, ognuna ordinatamente chiusa nella sua gabbia portatile, e ancorata a una
poltrona da dentista.
Per questo la scena iniziale viene ripetuta mille volte; prima il personaggio-manichino è intabarrato
in un cappotto nero consunto, poi i polpacci arrossati dal freddo iniziano a torcersi sulla sedia,
diventano grottesche chele di granchio che cercano di arpionare il cielo; quando cammina le luci
disegnano calzini ridicoli appena sopra le caviglie, la valigia lascia dietro di sé una striscia di
sangue. Solo carne, mattatoi e carne macellata, pronta per mangiare o essere mangiata, la stessa
fredda cronaca della decomposizione che si può trovare nei film di Greenaway, con l’allucinata
metamorfosi di una notte al museo, in cui le figure bidimensionali dei quadri si animano, grazie a
un sistema di giochi di luce fedele al “coefficiente di deformazione” teorizzato da Bacon, a metà tra
un esperimento scientifico e una visione notturna dell’“arena da circo” del reale, in cui il Bacon
pittore ruba qualcosa al suo omonimo filosofo vissuto qualche secolo prima, sempre in Inghilterra.
D’altra parte, il feeling per il noir elisabettiano è segnalato perfino nel nome della compagnia. Per
“masque” (come conferma perfino Wikipedia) s'intende una forma di rappresentazione teatrale in
voga nell'Inghilterra del XVI e XVII secolo, nata nel tardo medioevo ma rilanciata in Inghilterra dal
drammaturgo Ben Jonson, essenzialmente un corteo di maschere che suonano, ballano e invitano gli
astanti a partecipare a danze e giochi. In questo caso si tratta di mettere a contatto Bacon con il
reagente della filosofia di Gilles Deleuze e “discutere” con le immagini sulla possibilità o meno di
raffigurare l'esistenza, la domanda di senso, il morso del nulla che assedia l'uomo contemporaneo e
della sua realtà, anche e soprattutto negli aspetti più banali e apparentemente futili.
La figura è a volte seduta sulla sedia, a volte coricata sul letto. Sembra che stia attendendo che
qualcosa possa accadere. Si contorce sulla sedia, cerca di uscire da sé, non si sopporta. Come
esprimere questo fastidio di sé? Utilizzando quello che i Masque chiamano “il cosiddetto
coefficiente di deformazione dei corpi”. “Abbiamo seguito l'indicazione che il pittore ritiene
necessaria – scrivono – affinché la pittura possa strappare la Figura al figurativo: isolare la figura.
Tre sono le opere prese in considerazione – Head VI del 1949, Study for a bullfight N. 1 del 1969,
Painting del 1978 – e tre gli accadimenti realizzati lavorando su procedimenti di isolamento. Lo
sforzo del corpo si compie su di sé. Un quadro ci può fare da guida. Figure standing at a washbasin
del 1976: aggrappato all’ovale del lavandino, incollato con le mani ai rubinetti, il corpo-figura si
costringe ad un intenso sforzo immobile per poter fuggire, passando tutto intero attraverso il tubo di
scarico”.
Gui D’Alvisia