Può un dialetto essere standard?

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Può un dialetto essere standard?
Può un dialetto essere standard?
Abstract: Is a standard dialect possible? It is not an easy question. The relationship between
the notions of «standard» and «dialect» is controversial; the same is true for such a label as
«standard dialect», especially if considered from an Italian perspective. The matter will be addressed referring to an Italo-Romance variety spoken in North-Western Italy, i. e. Piedmontese; the outcomes of codification and elaboration of Piedmontese carried out since the 18th
century will be presented and discussed in detail. At the same time, some notions variously
related to the concepts of «standard» and «dialect», such as «roofing language» and «autonomy»/«heteronomy», will be looked at.
Parole chiave: standard, dialetto, elaborazione, codificazione, piemontese, lingua tetto, autonomia, eteronomia
Keywords: Standard, dialect, elaboration, codification, Piedmontese, roofing language, autonomy, heteronomy
1. Ausbaudialekte
A seconda della tradizione di studi a cui ci si riferisce, l’accostamento tra dialetto
e standard potrà apparire, a un tempo, del tutto normale oppure una contradictio
in adiecto difficilmente sanabile. Dialetto è del resto una parola notoriamente polisemica, i significati della quale, nella letteratura sociolinguistica contemporanea,
sono venuti focalizzandosi intorno a due poli: 1) il dialetto come varietà (geografica o sociale) di lingua; 2) il dialetto come sistema linguistico a sé stante, sociofunzionalmente subordinato ad una lingua standard che abbia con esso una parentela genetica. Quanto all’altro termine della questione, standard, impiegherò
per il momento una definizione operativa il più possibile neutra: «modello linguistico di prestigio, codificato e adottato quale mezzo di comunicazione dagli organi di informazione e dalle istituzioni educative» (DISC, s.v.)1.
Quali rapporti possono dunque intercorrere fra dialetto e standard? In base
all’accezione riportata in 1), diffusa negli studi di scuola anglosassone, lo standard
viene inglobato nel dialetto, essendo lo standard medesimo un dialetto; è evidente che, in questo caso, dialetto non ha valore relazionale, perché la lingua non è il
sistema al quale il dialetto deve rapportarsi, ma un’unità astratta costituita da un
insieme di dialetti: «Dialects, that is, can be regarded as a subdivision of a particular language» (Chambers/Trudgill 1998: 3)2. L’accezione 2), che bene si attaglia
alla situazione italiana di lingua cum dialectis, è invece, per quanto concerne il
Per una rassegna critica del concetto di standard, cf. Berruto 2007a.
È un uso che si confà, peraltro, a quello dell’antica Grecia, dove non esisteva alcuna contrapposizione tra διάλεκτος e γλσσα ‘lingua’; le varietà di greco erano tutte, indifferentemente,
dei διάλεκτοι.
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legame con lo standard, più problematica (cf. Berruto 2010: 230-32). Il dialetto
possiede qui una dimensione pienamente relazionale; esso esiste in quanto subordinato ad una lingua standard, alla quale saranno delegate le funzioni «alte»,
«formali». Donde la communis opinio che un dialetto, una volta che si sia dotato
di uno standard, debba inevitabilmente trasformarsi in lingua3. La stessa metafora
del tetto o della copertura linguistica (Überdachung in Kloss 1978), per la quale
«la lingua standard . . . ha sotto di sé, nello stesso paese in cui è la lingua scritta e
dell’istruzione scolastica, i dialetti con essa strettamente imparentati e che ad essa
si riconducono» (Berruto 2001: 24-25)4, sembra accordarsi poco o male con l’ipotesi che un idioma possa essere nel contempo a) dialetto e b) standard.
Ci sono tuttavia alcuni dialetti italo-romanzi i quali, nonostante aderiscano
perfettamente alla definizione sub 2) e abbiano come Dachsprache (o lingua tetto)
l’italiano, manifestano delle vicende storico-culturali che rendono non del tutto peregrino l’accostamento tra standard (o un grado piuttosto elevato di elaborazione)
e dialetto. Esistono in effetti dei dialetti con «mire elaborazionistiche» (MuljaČiĆ
1983: 75), che cioè manifestano una certa capacità di Ausbau e una tendenza ad occupare alcuni domini d’uso propri delle Aubausprachen ‘lingue per elaborazione’; è
per queste varietà che Kloss 1978: 55-60 ha coniato il termine di Ausbaudialekt ‘dialetto per elaborazione’. Profondo conoscitore del mondo germanofono, Kloss 1978:
58 cita come caso esemplare lo Schwyzertütsch, a partire dal quale egli delinea i tratti diagnostici di un «dialetto elaborato»5; il fatto per noi degno di attenzione è però
che, nel paragrafo dedicato agli Ausbaudialekte, trovi spazio anche il piemontese, varietà italo-romanza parlata nel Nord-Ovest d’Italia. Piemontese Ausbaudialekt,
quindi? Difficile a dirsi, perché la caratterizzazione che ne offre Kloss nel suo scritto rivela più di un’ambiguità. Inizialmente, il piemontese sembrerebbe esulare dalla qualifica di dialetto stricto sensu (Normaldialekt) non per meriti di elaborazione
(Ausbau) ma di distanza strutturale (Abstand) rispetto all’italiano («wegen des
sprachlichen Abstandes zur soziologisch übergeordneten Hochsprache», 55); più
avanti nel testo (333-34), esso viene menzionato tra gli idiomi romanzi («romanische
Idiome»: non «Sprachen», si noti) per i quali alcuni gruppi (talvolta molto ristretti)
3 Su un automatismo di tal fatta paiono fondarsi le proposte dei numerosi movimenti (politici e culturali) che invocano «miracolose» trasformazioni da dialetto a lingua: una ragione in più
per discutere, in questa sede, il rapporto tra dialetto e standard.
4 Nelle parole di Kloss 1987: 305, che a mia conoscenza non offre mai una definizione di tetto,
ma descrive soltanto il ruolo del tetto dal punto di vista dei dialetti «non coperti»: «Für Dialekte,
deren Sprecher in Schule und Verwaltung nicht mittels der dem Dialekt linguistisch zugeordneten Hochsprache angeredet werden, die also . . . des schützenden Daches ihrer ‹eigentlichen
Hochsprache› entbehren, wird zuweilen die Benennung ‹dachlose Außenmundarten› verwendet». Si tornerà più avanti (§2.2.) sul concetto di tetto, e in modo particolare sulla distinzione, proposta da Berruto 2001, tra tetto socio-culturale e tetto linguistico.
5 È bene sottolineare che Schwyzertütsch è una scorciatoia glottonimica con la quale Kloss indica l’insieme dei dialetti della Svizzera cosiddetta tedesca, che manifestano però, com’è ovvio,
gradi diversi di elaborazione.
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di parlanti hanno coltivato o stanno coltivando una lingua letteraria («Literatursprache»). Ma, com’è noto, Kloss dà soverchia importanza alla Sachprosa, meno agli
usi letterari; ciò che lo induce ad esempio a puntualizzare che, a fare la differenza tra
catalano e occitano, è l’impiego del primo nella prosa scientifica, benché la Catalogna non disponga di un poeta premio Nobel come Mistral (Kloss 1978: 29).
Come che sia, il caso del piemontese merita di essere discusso con un certo
dettaglio, perché anche Muljačić, nella sua opera di divulgazione e (parziale) riformulazione del modello klossiano, vi fa frequente ricorso (cf. MuljaČiĆ 1982,
1983, 1984, 1985, 1986, 1994, 1997, 2011). L’interesse speculativo del piemontese
risiede, in primo luogo, nel suo rapporto con il tetto italiano. Se, nella prospettiva
di Kloss 1978, i più inclini all’elaborazione sono i dialetti senza tetto (dachlose
Mundarten o wilde Mundarten ‘dialetti selvaggi’ o ungehagte Mundarten ‘dialetti
privi di recinto’; ingl. roofless dialects; fr. dialectes exposés), i dialetti con tetto
(überdachte Mundarten ‘dialetti coperti’, o anche gehagte Mundarten ‘dialetti recintati’; ingl. roofed dialects; fr. dialectes couverts) manifestano la tendenza ad essere oppressi dalla lingua socio-culturalmente sovraordinata. MuljaČiĆ 1984: 8889 (cf. anche 1985: 47) avalla la tesi di Kloss, e anzi la corrobora con un’evidenza
etimologica, ricordando che una delle possibili origini del fr. tuer ‘spegnere, uccidere’ è il lat. popolare *tutare ‘proteggere’: «la protezione, il tetto in senso traslato, può diventare anche micidiale» (MuljaČiĆ 1986: 47). In realtà, è poi lo stesso
MuljaČiĆ 1984: 79 a concedere che alcuni dialetti con tetto, come il piemontese,
possano registrare «dei piccoli successi nella loro ‹lotta› contro la LE [lingue per
elaborazione] italiana», sebbene «simili ascese» siano «per un DCT [dialetto con
tetto] qualcosa di straordinario, per un DST [dialetto senza tetto] invece qualcosa
che è più o meno normale». Il piemontese rappresenta, dunque, un’eccezione nel
panorama dei dialetti coperti? Così parrebbe, se non fosse che Muljačić menziona
il piemontese, in diverse occasioni (cf. 1982: 169; 1984: 81; 1985: 47; 1986: 56), come
esempio prototipico di idioma coperto; e un idioma coperto prototipico dovrebbe
essere, in base al modello klossiano, poco propenso ad emanciparsi.
Si colgono insomma segnali discordanti, quando non contraddittori, sulla posizione del piemontese, e si resta in dubbio circa la qualità della sua elaborazione;
nel prosieguo, mi proporrò di esaminare le vicende «elaborative» del piemontese
in chiave essenzialmente storica, cercando, infine e più in generale, di rispondere
alla domanda che dà il titolo al contributo.
2. Studio di un caso: il piemontese
2.1 Settecento, Ottocento, Primo Novecento
Sin dal Settecento, la varietà di Torino, capitale prima del ducato (1563), poi del regno di Savoia (1713), tende ad imporsi sulle varietà del contado, per azione diretta
e a distanza; i mezzi classici di diffusione del torinese sono l’amministrazione, l’eser-
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cito e il basso clero (cf. Clivio 2002a: 154). Si delinea un processo di sineddoche (Joseph 1982, 1987) pars pro toto, in base al quale la varietà del centro egemone finisce per indicare l’insieme delle varietà regionali. Nel corso del XVIII sec., torinese
e piemontese vengono a coincidere: è infatti in questo periodo che il torinese è eletto a varietà di koinè (Regis 2012b: 11-15), ovvero a varietà di riferimento comune
per l’intera regione. In una situazione di questo tipo, non ci si deve dunque attendere, se non marginalmente, i fenomeni di livellamento che interessano la formazione di una koinè dialettale («koinizzazione primaria» in Regis 2012b: 10-11; cf.
Siegel 1985), quanto la semplice selezione di una varietà di prestigio che assurge a
«guida» (= varietà di koinè) per le varietà rustiche («koinizzazione secondaria» o
«diffusione» in Regis 2012b: 10-11; cf. Kerswill 2003).
Il piemontese conosce del resto una precoce codificazione: grafica, grammaticale e lessicale. La grafia del piemontese manifesta caratteristiche comuni proprio
a partire dal Settecento; e seppure sia velleitario parlare di una grafia unitaria già
a quell’altezza temporale, è senz’altro agli usi settecenteschi che guarderà Giuseppe Pacotto 1930 nel dare una forma ortografica coerente al piemontese. La
stagione inaugurata da Maurizio Pipino 1783a, b, al quale si devono la prima grammatica e il primo dizionario del piemontese, proseguirà nell’opera dei lessicografi
dell’Ottocento (Capello 1814, Zalli 1815, Ponza 1830, Sant’Albino 1859, Gavuzzi 1891). Benché i codices (Ammon 1989: 87) citati rechino tutti sul frontespizio un richiamo al piemontese (senza ulteriori precisazioni), per nulla sorprendentemente essi descrivono la sola varietà urbana di Torino (e in particolar modo
la varietà usata alla corte sabauda). La sineddoche cui si accennava poco sopra corrisponde ormai ad una situazione sociolinguistica stabile e consolidata; e già lo era
con ogni probabilità all’inizio del XVIII sec., se l’autore de L’arpa discordata definisce la propria lingua piemonteis (pur impiegando sostanzialmente il torinese:
cf. Tarizzo 1969: 19).
Due fatti possono aiutare a rifinire il quadro appena descritto. In primis, l’affermarsi, tra il Settecento e l’Ottocento, di una letteratura di buon livello, che presenta una serie di autori significativi anche al di fuori dell’àmbito strettamente
locale (cf. Clivio 2002b). Il secondo aspetto che vorrei qui affrontare concerne un
capitolo forse non troppo conosciuto delle vicende linguistiche regionali: le testimonianze di impiego del piemontese presso il ceto aristocratico. Pipino 1783a: 134
narra dell’apprendimento del piemontese da parte di Maria Clotilde di Francia
(1759-1802), sorella di Luigi XVI e sposa di Carlo Emanuele IV di Savoia:
s’ l’è faslo mostré dai sö prinsìpi, e l’ha ‘nparàlo tut-ant-un-nen, d’ manèra, ch’a sę spiega così
ben, com i pēūsso spieghèsse noi, e a lo parla con piasì
‘Se l’è fatto insegnare dai suoi princìpi, e l’ha imparato in fretta, di modo che si spiega così
bene come ci spieghiamo noi, e lo parla con piacere’.
Ricaviamo inoltre da Clivio 1984: 272 che la principessa adopera il piemontese,
almeno qualche volta, nei rapporti epistolari col re Carlo Felice. Racconta Co-
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gnasso 1969: 272 che nel 1788, «preparandosi le nozze del duca d’Aosta Vittorio
Emanuele, si inviò a Milano l’abate Draghetti perché insegnasse alla sposa Maria Teresa la lingua piemontese»; e che, pochi mesi dopo, il marchese Cacciapiatti «aveva fatto i complimenti di capo d’anno in piemontese e la principessa aveva
risposto ‹dans cette langue avec beaucoup de facilité et de grace›» (si noti però
che il commento di Cacciapiatti è in francese). E non sarà privo di interesse che
lo storico inglese Edward Gibbon, in una lettera del 1764 a John Holroyd, biasimi l’uso del piemontese nei salotti nobiliari di Torino: «and a poor Englishman,
who can neither talk Piedmontois nor play at Faro, stands by himself without one
of their haughty nobility doing him the honour of speaking to him» (Gibbon
1840: 126).
La situazione non muterà di segno fino alla metà dell’Ottocento. Negli ambienti torinesi continua ad essere dominante l’uso del piemontese, con l’aristocrazia
che passa spesso, in modo del tutto naturale, dal piemontese al francese (Cognasso 1930: 278). Anche in questo caso, appare significativa la testimonianza di un
osservatore straniero, Sir Horace Rumbold, legato inglese a Torino fra il 1849 e
il 1851, il quale osserva ironicamente che, ai suoi occhi, «the Piedmontese ladies
would have attained perfection but for two failings – their love for their native dialect and their passion for that indigenous fungus the white truffle» (Rumbold 1902:
125). L’ambasciatore si riferisce evidentemente, come già Gibbon, agli usi linguistici del ceto patrizio, da lui abitualmente frequentato.
Insomma, l’insieme dei dati sopra esposti lascia intuire che, tra il Settecento e
l’Ottocento, il piemontese abbia raggiunto la massa critica per approdare ad uno
standard endoglossico, ovvero «based upon models of usage native to that country» (Stewart 1968: 534; cf. anche Auer 2005, 2011); puntano in questa direzione
sia il livello di codificazione ed elaborazione della varietà cortigiana sia il prestigio sociale ad essa riconosciuto dalla comunità parlante (ma non, si direbbe, dai
visitatori stranieri Gibbon e, soprattutto, Rumbold). Lo standard endoglossico non
procede disgiunto da una consapevolezza diffusa delle potenzialità del piemontese. Pipino 1783a: viii si dichiara convinto che «[c]oll’idioma Piemontese ogni cosa,
che ad uso possa servire, agevolmente, ed in brieve spiegar possiamo, comunicarci
le idee, e ragionare sopra qualunque soggetto, ed al vivo delinearlo». Gli fa eco
Casimiro Zalli 1815: 1-2, che si stupisce di come «ęl dialèt piemontèis» non sia
tenuto in gran conto all’estero e in Italia:
la nostra lingua a l’è così rica e abondant d’ termin, ch’i podomo esprime tut’ nöstri sentiment
con facilità, con naturalessa, con förza, e con grasia
‘la nostra lingua è così ricca e abbondante di termini che possiamo esprimere tutti i nostri
sentimenti con facilità, con naturalezza, con forza, e con grazia’.
Un poeta anonimo, in un sonetto genericamente indirizzato «ai Piemontesi», sprona i compatrioti ad utilizzare per iscritto la lingua locale, così come già si fa in altre
piccole Nazioni europee:
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Le Nassiòn colte a scrivo ‘l sö parlè / (Lasso j’atre) goardòma i Portogheis: / La Svessia scriv:
a scrivo j’Olandeis. / Tanti scrivo; e noi nen! Chi sa pęrchè? (Pipino 1873c: 177).
‘Le Nazioni colte scrivono la loro parlata / (Tralascio le altre) guardiamo i Portoghesi: / La Svezia scrive: scrivono gli Olandesi. / Tanti scrivono; e noi no! Chissà perché?’
Fa già però capolino, talvolta, il rimpianto di una stagione di fasti che avrebbe
potuto essere e forse non sarà più:
[S]i le dialecte Piémontais eût été cultivé du temps du premier Duc Amédée VIII ou seulement d’Emmanuel Philibert, il serait devenu dans ce moment une langue illustre, au moins
autant que le sont le Portugaise et la Hollandaise, dont l’une est à l’Espagnole, l’autre à l’Allemande ce que la Piémontaise est à l’Italienne (Capello 1814: ix-x).
Tre aspetti vanno debitamente evidenziati. In primo luogo, Pipino e Capello parlano del piemontese utilizzando, rispettivamente, l’italiano e il francese (e si noti che,
anche sulla prosa piemontese di Zalli citata poc’anzi, agisce un forte superstrato
italiano6). In secondo luogo, l’etichetta di dialetto viene attribuita al piemontese
non soltanto da Capello, il che non stupirebbe più di tanto, ma anche da Zalli (e così
pure da Pipino 1783a, in diversi passi della sua grammatica: «Dialetto Piemontese»,
nella dedica a Maria Clotilde; «un dialetto cotanto gentile», p. ix; «il nostro dialetto», p. xi, etc.); eccetto che in Capello, però, il termine non allude ancora, come
vorrebbe il senso moderno, ad una subordinazione funzionale del piemontese nei
confronti dell’italiano o del francese, ma all’erronea convinzione di una subordinazione genetica: il piemontese è un dialetto perché discende, «deriva», principalmente da due lingue, l’italiano e il francese (cf. Pipino 1783a: 86). In terzo ed ultimo
luogo, nessuno dei codices finora considerati è, come si sarà intuito, monolingue.
La grammatica di Pipino è scritta in italiano (con un’appendice di lettere talvolta
vergate in piemontese); i dizionari, a lemmi piemontesi, fanno corrispondere definizioni in italiano, francese e latino (Pipino 1783b, Zalli 1815), soltanto in italiano
(Sant’Albino 1859, Gavuzzi 1891) o soltanto in francese (Capello 1814).
Viene a questo punto delineandosi il problema del rapporto tra standard endoglossico ed (eventuali) modelli di prestigio «esterni». Spesse volte la nozione di
standard endoglossico viene fatta correlare con la nozione di autonomia; a me parrebbe invece più opportuno tenere separati i due concetti, valutando caso per caso
la dipendenza ovvero l’indipendenza da modelli esterni. Il piemontese sette-ottocentesco rappresenta un buon esempio di varietà dotata di uno standard interno
(codificato, o in fase avanzata di codificazione, e ragionevolmente elaborato) che
si appoggia ad un modello esterno, rappresentato prevalentemente dall’italiano7.
6 Cf. ad esempio l’uso del determinante prima del possessivo – la nostra lingua anziché nostra
lingua – e la scelta delle varianti fonetiche più vicine ai termini italiani corrispondenti – nostra al
posto di nosta, lingua invece di lenga.
7 Costituisce un’eccezione Capello, che però pubblica il dizionario durante l’annessione napoleonica (cf. oltre).
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Si tratta, nella terminologia di Ammon 1989: 90-91 di una esonormatività predominante, in cui i codices (grammatiche, vocabolari), sebbene prodotti all’interno
della comunità alla quale sono destinati, provengono dall’esterno (l’italiano), mentre i modelli di riferimento sono ancora misti, interni (il torinese) ed esterni (l’italiano).
L’eteronomia del piemontese non è una novità settecentesca. La svolta filo-italiana del ducato di Savoia risale infatti alla seconda metà del XVI sec.; e si manifesta, da un lato, con gli editti di Emanuele Filiberto (1560, 1561) e l’emanazione
degli Ordini nuovi (1561), che sanciscono l’uso dell’italiano nei documenti ufficiali dei territori cisalpini (esclusa la Valle d’Aosta), dall’altro lato, con il pressoché
contestuale spostamento della capitale da Chambéry a Torino (1563). Il «nuovo
corso», linguistico e politico, di Emanuele Filiberto nasce in risposta alla recente
occupazione francese (1536-59); il duca non attua una politica linguistica in senso
moderno, ma una scelta politica che ha ripercussioni linguistiche.
Tuttavia, questa netta sterzata verso l’italiano è più istituzionale e ideologica
che non reale. Il francese resterà, per tutto il Settecento e per una buona parte
dell’Ottocento, la lingua dell’aristocrazia, accanto al piemontese. Come osserva
Clivio 1984: 270, «italiano» è, nel Piemonte del XVIII sec., sinonimo di straniero;
in due commedie che godono nel Settecento di vasta popolarità, il Cont Piolèt di
Giambattista Tana e il Nodar Onorà di Pegemade, «l’italiano viene esplicitamente equiparato ad una lingua straniera incomprensibile» (Clivio 1984: 274). È del
resto noto il faticoso apprendistato di Vittorio Alfieri (1749-1803), «che si era
circondato di servi toscani ed aveva annotato voci toscane a fianco di parole francesi e piemontesi, con lo scopo di impratichirsi dei termini comuni d’uso» (Marazzini 1984: 198). Ancora nel 1835, Camillo Benso di Cavour si vede costretto, a
séguito delle rampogne di Cesare Balbo, a dover compiere (in francese) «l’humiliant aveu que la langue italienne m’est restée jusqu’à présent tout à fait étrangère» (Cavour 1962: 189); oltre al francese e al piemontese, si badi, il conte padroneggia assai bene l’inglese.
Ci troviamo dunque in un contesto geografico e politico e in una temperie storico-culturale in cui due prestigiose lingue di cultura, il francese e l’italiano, per ragioni diverse, si fronteggiano. Con il francese, la nobiltà di Torino mostra di avere
un rapporto ambivalente: è la lingua da cui vorrebbe prendere le distanze, per via
dell’incombere politico e militare della vicina Francia, ma è anche la lingua a cui
più naturalmente ricorre. Con l’italiano, il ceto aristocratico locale ha invece relazioni scarse ed episodiche: è una lingua quasi soltanto istituzionale, poco o punto
usata nella quotidianità. In tale frangente, dunque, la scelta dell’italiano come modello linguistico del codificando piemontese può apparire controcorrente; in realtà, è forse proprio la vistosa assenza dell’italiano dalla vita piemontese a renderlo,
agli occhi dei compilatori di grammatiche e dizionari, preferibile al francese.
Mi sembra che sia molto vero, nelle dinamiche che si instaurano tra italiano e
piemontese nel Settecento e nel primo Ottocento, quanto osserva MuljaČiĆ 1989
circa il rapporto tra il latino e le nascenti lingue romanze. Siccome il latino, dopo
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la riforma carolingia, diventa «una lingua diversa dai vari [idiomi] neolatini emergenti», esso esercita «con il proprio ‹tetto› un influsso benefico, diverso da quello
soffocatore e assimilatore che i futuri ‹tetti› romanzi avrebbero esercitato sulla
forma e le strutture delle lingue sorelle» (MuljaČiĆ 1989: 15-16); in altre parole, a
causa della sua collocazione sociolinguistica «altra», il latino non è, per gli idiomi
romanzi, un concorrente da cui guardarsi, ma un modello a cui guardare nella fase
di codificazione, alto-medievale e poi quattro-cinquecentesca.
Mutatis mutandis, l’italiano svolge, nel Piemonte del Settecento, lo stesso ruolo
svolto dal latino nell’Europa post-carolingia: esso rappresenta uno stimolo, e non
un impaccio, alla standardizzazione del piemontese. Abbiamo una élite (ciò che
Joseph 1984: 87 chiama «cultural avant-garde») che parla il piemontese come lingua primaria ma che ha anche accesso ad una lingua di cultura «alta», l’italiano;
questa lingua alta, a cui è riconosciuto un notevole prestigio perché, a differenza
del francese, di uso raro, viene eletta a modello: d’altronde, «[t]he basic source of
prestige is scarsity», osserva non senza ragione Joseph 1985: 39 (corsivo e grassetto dell’autore). Il piemontese/torinese si delocalizza, lima i tratti fono-morfologici
più marcati, in direzione dell’italiano8.
Il livello di oppressione di un tetto non è però stabilito una volta per tutte, ma
muta col variare del quadro sociolinguistico; certamente, sono cambiamenti che
non intervengono ex abrupto, ma per gradi, in un lasso di tempo in genere non brevissimo. Gli ideali filo-italiani (in senso culturale e linguistico) che si affermano in
Piemonte all’indomani della breve parentesi napoleonica (1799-1814) causano un
primo cambio di passo nei rapporti tra italiano e piemontese. Già nel Settecento e
nel primo Ottocento, il dizionario piemontese/italiano è un modo per apprendere
o perfezionare una lingua ignota o poco nota (l’italiano) a partire da una lingua
ampiamente praticata (il piemontese); il dizionario è però anche la sede in cui,
come abbiamo visto, si manifesta la consapevolezza della piena dignità funzionale
ed espressiva del piemontese. Gli sviluppi ottocenteschi, invece, segneranno un
netto prevalere del primo aspetto (il dizionario come mezzo per apprendere l’italiano) sul secondo (il dizionario come testimonianza della ricchezza lessicale del
8 La varietà cittadina popolare documentata nelle cosiddette Canzoni torinesi (metà del Seicento; edizione critica in Clivio 1974) manifesta tratti fonetici e morfologici che non si troveranno più nel torinese, parimenti popolare, di Ignazio Isler (1702-1788): cf., ad esempio, i plurali
metafonetici del tipo cast ([kast]) ‘questo’ / chist ([kist]) ‘questi’ (cf. Clivio 1974: 27, 33), ormai
passati in Isler a cost ([kust]) / costi ([ˈkusti]) (cf. Isler 1968: 61, 128 e passim). Allo stesso modo,
non c’è più traccia nel piemontese del XVIII sec. dei plurali marcati mediante palatalizzazione
della consonante finale: il tipo mul ([myl]) ‘mulo’ / mugl ([myʎ]) ‘muli’ attestato nelle canzoni del
Seicento (cf. Clivio 1974: 30, 42) ha ceduto il passo, in Pipino 1783a: 20, al tipo cardinal ‘cardinale’ ([kardiˈnal]) / cardinai ‘cardinali’ ([kardiˈnaj]). Si può certamente attribuire tutto ciò ad una
tendenza interna al piemontese, ma è più probabile che, nella fase di codificazione settecentesca,
il piemontese si sia orientato, sempre più spesso, verso il modello offerto dall’italiano (che non
possiede, ovviamente, né plurali metafonetici né plurali con palatalizzazione della consonante
finale).
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piemontese); è un tipo di sviluppo connaturato all’impostazione dei vocabolari
medesimi, la direzionalità dei quali è invariabilmente dal piemontese all’italiano,
mai viceversa. Rientra in un clima già pienamente risorgimentale, e quindi di marcato patriottismo filo-italiano, la premessa di Michele Ponza 1830: iii al proprio dizionario: «Egli è fuor d’ogni dubbio, che fra le cagioni, per cui la lingua italiana non
solo non fiorisce, ma è, per così dire, strapazzata in alcuni paesi, ove non è succhiata
col latte della nutrice, né parlata, voglionsi annoverare i Dizionarii di dialetto i cui
vocaboli, e modi proverbiali o non vi sono, o sono male definiti». Se ne ricava che
un buon vocabolario dialettale è un buon mezzo per apprendere l’italiano, e nulla
di più; il focus si è totalmente spostato verso la lingua target. L’approccio «strumentale» va accentuandosi alla vigilia dell’Unità d’Italia, quando Sant’Albino
1859: x-xi quasi si scuserà di aver compilato un dizionario piemontese, chiarendone immediatamente la funzione di supporto alla «conquista», non più differibile,
dell’italiano:
Ma se i miei voti non possono giungere a tanto da farmi gridar l’ostracismo contro il dialetto,
non si dovrà inferirne che io ne ami la coltivazione in detrimento della lingua universale d’Italia, questo vero patrimonio comune, troppo caro e sacro tesoro, per non amarlo quanto si conviene, per non cercare con ogni studio di farlo fruttificare quanto più si può e come strumento potentissimo di unità, e come mezzo efficacissimo di progresso. Dirò anzi importare assai
che la nazione possa rivelarsi interamente al paese, e il paese possa assolutamente aprirsi alla
nazione: che l’uomo di mezza istruzione, l’uomo che vive alla giornata, possa, quando il bisogno lo richieggia, avere tra le mani una guida facile e sicura, onde potere a un tratto, e senza
affaticarsi in lunghe ricerche ottenere la esatta e schietta versione di que’ vocaboli e modi di
dire, che per avventura possono riuscirgli incompresi; quello che importa è in somma che il
Piemontese possa conoscere nel suo vero e reale valore la lingua sua nazionale, che egli possa impararla senza lunghi e perdurati studj, ch’egli possa conoscerla e impadronirsene nelle
più minute sue particolarità, ch’egli abbia ove trovar tosto il più certo equivalente a ciascun
vocabolo del suo dialetto.
L’Unificazione porta ad aderire entusiasticamente alla lingua nazionale, ma i riscontri d’uso restano modesti: nella quotidianità, il dominio del piemontese rimane incontrastato. Negli usi linguistici della famiglia della borghesia torinese descritti da De Amicis 1905, ad esempio, l’italiano è stato introdotto di recente ed è
ancora un italiano zoppicante, infarcito di piemontesismi e francesismi. Un quadro
non molto dissimile sembra potersi ricavare dalla precisazione di Benvenuto Terracini 1924: 3 a margine degli Esercizi di traduzione dai dialetti del Piemonte da lui
curati seguendo i principi pedagogici di Giuseppe Lombardo Radice: «Il maestro
tenga presente che questi manualetti devono servire non ad insegnare il dialetto,
che gli scolari conoscono già perfettamente, ma ad insegnare la lingua per mezzo di
esso» (corsivo mio).
160
Riccardo Regis
2.1 Sviluppi del Secondo Novecento (e oltre)
A far data dagli anni Cinquanta/Sessanta del Novecento, i classici mezzi di diffusione ed unificazione della lingua italiana (servizio militare, scuola, stampa, radio,
televisione, etc.: si veda De Mauro 1970) palesano i propri effetti anche sulle realtà urbane del Piemonte, e su Torino in particolare; la crescita vertiginosa del
settore secondario attira poi nel Nord-Ovest (dove si trova il cosiddetto triangolo
industriale Torino-Milano-Genova) un numero elevatissimo di immigrati, soprattutto dal Meridione e dal Triveneto9. Sono due fattori (la diffusione e l’unificazione della lingua italiana, da un lato, l’immigrazione, dall’altro) che, seppur non
confrontabili dal punto di vista sociologico, contribuiscono a ridurre drasticamente gli àmbiti di impiego del piemontese. È a questa altezza temporale che il tetto
dell’italiano, nell’ottica dei nuovi codificatori, passa da benefico ad opprimente. La
lingua nazionale non è più un modello, ma una presenza che incombe sul piemontese, snaturandolo e impoverendolo; per conseguenza, il dizionario piemontese/
italiano e la grammatica del piemontese non sono più visti come una chiave di accesso all’italiano, che comincia ad essere patrimonio diffuso, ma come un modo per
preservare la lingua locale, possibilmente nella sua forma più arcaica e pura. Non
è un caso che proprio alla fine degli anni Sessanta venga pubblicata la prima grammatica del piemontese in piemontese (Brero 1967): l’autonomia a livello di codex
viene conseguita fuori tempo massimo, nel momento in cui l’uso del piemontese
sta progressivamente scemando.
Quanto più il piemontese si indebolisce, tanto più l’accoglimento di italianismi
viene evitato e criticato; ciò che, durante il Settecento e l’Ottocento, era un momento di nobilitazione del piemontese è ora oggetto di accurata censura. Così Gribaudo 1996: xx, nelle Avvertenze al suo dizionario, si esprime riguardo agli italianismi: «Ne sono stati inclusi alcuni, fra i più largamente e inutilmente diffusi, allo
scopo di condannarne l’uso».
I «controllori» (controllers: cf. Joseph 1987: 110-15) del piemontese stanno, in
qualche modo, serrando le file. C’è un solo modo per far conseguire al piemontese un certo livello di Abstand rispetto all’italiano e, nel contempo, sfuggire alla
copertura oppressiva di quest’ultimo: cambiare il tetto di riferimento. È un passaggio senza dubbio forte, per metter in atto il quale è necessario modificare la
definizione klossiana di tetto su cui già all’inizio si rifletteva. Nell’ottica di Kloss,
come abbiamo visto, il tetto sussume due valenze, linguistica e socio-culturale. Con
lo scopo di bilanciare gli usi troppo laschi che la nozione di tetto ha conosciuto in
letteratura, Berruto 2001: 34-36 propone di considerare separatamente il tetto linguistico dal tetto socio-culturale; per riprendere un esempio dello stesso Berruto,
i dialetti walser dell’Italia del Nord avranno come tetto linguistico (esterno) il te-
9 Torino passa, nel decennio 1951-61, da 720.729 a 1.033.870 abitanti, con un apporto di immigrati che varia da 20.663 (1951) a 75.920 unità (1961) (Levi 1999: 163).
Può un dialetto essere standard?
161
desco ma come tetto socio-culturale l’italiano (cf. la distinzione tra dialetti omoetnici e eteroetnici già in MuljaČiĆ 1994). Il primo tetto non obbedisce a criteri territoriali (il tedesco copre linguisticamente tutti i dialetti tedeschi, quale che sia lo
Stato in cui essi sono parlati), il secondo tetto ne è invece dipendente (spetta all’italiano il compito di coprire socio-culturalmente tutti i dialetti parlati sul territorio della Penisola). Soltanto quando tetto linguistico e tetto socio-culturale coincidono, la nozione di tetto potrà dirsi usata nel significato klossiano.
Per dare conto della complessità della situazione italiana e di alcuni suoi orientamenti recenti, riterrei opportuno bipartire ulteriormente il tetto socio-culturale
in tetto sociale e tetto culturale: mentre il tetto sociale corrisponderà al tetto socioculturale di Berruto, il tetto culturale individuerà il modello ideologico (Wunschsprache: Dal Negro/Iannàccaro 2003) adottato per attenuare la pressione dei tetti
linguistico e sociale. Mette conto osservare che, se i tetti linguistico e sociale sono
un prodotto storico, il tetto culturale, ove presente, è il frutto di una scelta, libera
entro certi vincoli (la Wunschsprache è in genere una lingua che appartiene alla
stessa famiglia dei dialetti «coperti»: un dialetto italo-romanzo può eleggere a guida una lingua gallo-romanza, ma difficilmente ricorrerà ad una lingua germanica;
interessanti eccezioni sono il romancio e il ladino dolomitico atesino, varietà neolatine che hanno ormai da tempo scelto come tetto culturale il tedesco).
Il modello appena proposto risulta particolarmente spendibile per le cosiddette lingue di minoranza: l’occitano, ad esempio, avrebbe come tetto linguistico o il
francese o il catalano10; come tetto sociale, in Francia, il francese, in Italia, l’italiano, in Spagna, lo spagnolo e il catalano; come tetto culturale, prevalentemente, il
catalano, che, essendo uno standard di recente introduzione, si tramuta anche in
un modello operativo per l’Occitan Estandard (varietà sovralocale, a base linguadociana, comune all’intero dominio dei dialetti d’oc, dai Pirenei alle Alpi)11.
Accanto ai tetti linguistico e sociale, che restano prerogativa dell’italiano, il
piemontese scritto sta indirizzandosi, sempre più spesso, verso il tetto culturale
francese, che finisce, in qualche misura, per esautorare ogni altra copertura. Il
francese manifesta oggi, apparentemente, gli stessi vantaggi dell’italiano setteottocentesco: si tratta di una lingua, nel contempo, prestigiosa e poco presente sul
territorio. La varietà su cui questi interventi «francesizzanti» si realizzano è sempre quella del capoluogo regionale.
10 A seconda che si consideri l’occitano come appartenente allo stesso sottogruppo neolatino
del francese («gallo-romanzo») ovvero del catalano («occitano-romanzo» in Bec 1970-71, vol. 1:
2-3). Cf. da ultimo Sumien 2012: 21, che individua un diasistema occitano-catalano.
11 Nella prospettiva adottata da Sumien 2006, l’occitano standard manifesta come «langues
exemples» (= lingue modello scelte dalla cultura subordinata) il catalano, il francese e l’occitano;
delle tre, tuttavia, è il catalano a rivestire il ruolo di primus inter pares, «parce qu’il est une partie intégrante de notre diasystème [i. e. il diasistama occitano-catalano: cf. N10] et donc une référence incontournable» (Sumien 2006: 215; integrazione fra parentesi quadre mia). Una discussione dei rapporti tra catalano e occitano standard è ora in Cerruti/Regis in stampa.
162
Riccardo Regis
Qualche esempio tratto da saggi e periodici:
(1) L’arvirament dij valor colturaj binelà a l’usagi dle lenghe regionaj da l’Eutsent al di d’ancheuj . . ., e ‘l cangiament ancreus e lest dij valor psicoambientaj tacà al fenòmen ëd le
«rèis», a l’han pijà a la dësprovista tuta na generassion dë studios, dont j’utiss crìtich a
sont ëstàit concepì për d’operassion tradissionaj. (Girardin 1991: 13)
‘Lo sconvolgimento dei valori culturali abbinato all’uso delle lingue regionali dall’Ottocento al giorno d’oggi . . ., e il cambiamento profondo e veloce dei valori psicoambientali legato al fenomeno delle «radici», hanno colto alla sprovvista tutta una generazione di
critici, gli strumenti critici della quale sono stati concepiti per delle operazioni tradizionali’.
(2) La strategìa ëd survivensa ëd Ki-Jong II (é!, n. 7, maggio-giugno 2005, p. 9)
‘La strategia di sopravvivenza di Ki-Jong II’.
(3) Washington a l’avìa . . . bolversà sinquant’agn ëd relassion transatlàntiche (ibidem)
‘Washington aveva sconvolto cinquant’anni di relazioni transatlantiche’.
(4) ij mojen për frapé l’America e ij so aleà (ibidem)
‘i mezzi per colpire l’America e i suoi alleati’.
(5) A l’ham ciamà l’aeropòrt an disand che a-i era na bomba ansima n’avion (è!, n. 10, novembre-dicembre 2005, p. 8)
‘Hanno chiamato l’aeroporto dicendo che c’era una bomba su un aereo’.
(6) Viagé a lë strangé (é!, n. 13, maggio-giugno 2006, p. 8)
‘Viaggiare all’estero’.
(7) ël model ëd dësanvlopament sernù da Roma per ës pais a l ‘ha pì nen fonsionà (é!, n. 14,
luglio-agosto 2006, p. 6)
‘il modello di sviluppo scelto da Roma per questo paese non ha più funzionato’.
(8) A l’era anandiasse quasi për azar ant lë dzèmber dël 1998 (Torinosette, 17 dicembre aprile 2010, p. 48)
‘Si era avviato quasi per caso nel dicembre del 1998’.
(9) compagnà da document soasì tirà fòra da j’archivi dle Comun-e ‘d Susa e dë Vijan-a
(Torinosette, 9 marzo 2012, p. 51)
‘accompagnata da documenti scelti tirati fuori dagli archivi dei Comuni di Susa e di Avigliana’.
(10) portà sl’abim dl’ànima (Torinosette, 18 maggio 2012, p. 51)
‘portato sull’abisso dell’anima’.
Dalla lista appena riportata, è possibile estrapolare una serie di scelte lessicali
(evidenziate in corsivo) e strategie morfologiche (evidenziate in maiuscoletto) che
avvicinano il piemontese al francese, aumentandone la distanza rispetto al tetto
linguistico e sociale italiano (sulla questione, cf. Tosco 2008: 7-13; 2012); e se è vero
che non è sempre facile stabilire dove finisca la parola derivata senza soluzione di
continuità dal latino e dove inizi il gallicismo, è altrettanto vero che gli autori delle frasi (1)-(10), messi di fronte a due soluzioni, una più vicina all’italiano e l’altra
più vicina al francese, hanno sempre optato per la seconda. Usagi (fr. usage) è stato dunque preferito a us, uso o impiegh (it. uso, impiego), cangiament (fr. changement) a cambiament (it. cambiamento), ancreus (fr. creux) a profond o përfond (it.
Può un dialetto essere standard?
163
profondo), utiss (fr. outil, pl. outils) a strument (it. strumento) (1); survivensa (fr. survivance) a sopravivensa (it. sopravvivenza) e addirittura al più genuinamente piemontese dzorvivensa (cf. piem. dzora ‘sopra’) (2); bolversé (fr. bouleverser) a sconvòlge (it. sconvolgere) (3); mojen (fr. moyen) a mes (it. mezzo), frapé (fr. frapper)
a colpì (it. colpire) (4); avion (fr. avion) a aéreo o areoplan (it. aeroplano) (5); strangé (fr. étranger) a éster o éstero (it. estero) (6); dësanvlopament (fr. développement)
a svilup o dësvilup (it. sviluppo) (7); azar (fr. hazard) a cas (it. caso) (8); soasì
(fr. choisi) a selt (it. scelto) e persino a sernì (it. cernito), il sostantivo femminile
Comun-a (fr. Commune, di genere femminile) al sostantivo maschile Comun (it.
Comune, di genere maschile) (9); abim (fr. abîme) a abiss (it. abisso) (10).
Due osservazioni. L’intervento francesizzante riguarda anche il lessico comune,
non soltanto, come ci si sarebbe potuti attendere, la neologia (cf. avion e dësanvlopament, che sono dei chiari esempi di modernizzazione via prestito culturale).
In seconda istanza, tutti i termini scartati perché troppo vicini agli equivalenti della lingua nazionale compaiono nella sezione piemontese/italiano di Brero 2001,
ma non sempre nella sezione italiano/piemontese; segno che il lessicografo ritiene
che essi si possano incontrare in piemontese (e così è, nel piemontese che si sente
parlare ed usare quotidianamente), ma anche che, a quanti compulsino il dizionario a partire dalla sezione italiano/piemontese, sia consigliabile fornire soltanto le
opzioni meno prossime alla lingua nazionale. Ad esempio, alla voce sconvolgere
troviamo bolversé, buté sot dzora (lett. ‘mettere sottosopra’), dësquinterné, ravagé,
tarabasché ma non sconvòlge, che compare invece regolarmente nella sezione piemontese/italiano del dizionario; nella stessa sezione, viene garantita un’entrata a
selt, mentre alla voce scelto si suggeriscono come corrispettivi piemontesi soltanto
sernù e soasì.
Restano poi da commentare due fatti di pertinenza morfo-sintattica. In (1) incontriamo il pronome relativo dont ‘di cui’ (fr. dont ‘id.’) al posto del cosiddetto
che polivalente, l’unico ad essere normalmente usato in piemontese. In (5) occorre la costruzione preposizione + gerundio an disand, che, rimandando ad una costruzione comune in francese (en disant), viene privilegiata rispetto al gerundio
semplice (piem. disand; it. dicendo).
Qualora dalla carta stampata passassimo all’informatica e al web, il clima di
francofilia sarebbe il medesimo. Tosco 2012: 260-61 cita gli esempi di claviera ‘tastiera’ (fr. clavier) e ordinator ‘computer’ (fr. ordinateur), insieme con altri casi di
calco traduzione, aventi come modello presunto il francese (ma distinguere l’influsso del francese dagli atteggiamenti puristici è spesso impresa ardua): anliura
‘link’ (fr. lien), giari ‘mouse’ (fr. souris), ragnà ‘web’ (fr. toile).
Il piemontese dell’informatica introduce ad un aspetto su cui non ho ancora posto l’accento, ovvero lo spettro diafasico del piemontese scritto contemporaneo. A
quanto pare, in piemontese si può discutere di cultura e di letteratura (1), di politica estera (2-4) o di attualità (5, 7); e, a quanto pare e più in generale, esistono delle riviste che si occupano di argomenti molto vari e che sono scritte, dalla prima all’ultima pagina, in piemontese (è il caso di e!, bimestrale edito dal 2004 al 2006: es.
164
Riccardo Regis
2-7). C’è una rubrica su Torinosette, inserto settimanale del quotidiano torinese La
Stampa, che si chiama «An piemontèis» e si occupa, in piemontese appunto, di cultura e letteratura locali (es. 8-10); e c’è il piemontese usato in rete (che rispecchia
però una tendenza condivisa da altre varietà italo-romanze: cf. Berruto 2007b).
Il tentativo di dissimilare il piemontese dall’italiano ha dunque portato ad una
contestuale rimodulazione funzionale della lingua locale, che si è così conquistata
settori di impiego che vanno ben oltre il tradizionale uso belletteristico. Per completare la rassegna, ecco un testo scientifico (Sachprosa) che tratta, in piemontese,
della «meccanica razionale»:
Ij còrp an moviment a son arpresentà da dij sìngoj pont o da d’ansem continuà ëd pont mòbij
con o sensa vìncoj ant lë spassi afin tridimensional euclideo o ant un particolar ëspassi afin a
quatr dimension: lë spassi-temp ëd Newton.
L’utiss matemàtich prinsipal a l’é ël càlcol vetorial ant jë spassi afin. J’oget cinemàtich ch’a descrivo ël moviment dij còrp e ij posson ch’a lo pròvoco a son arpresentà da ’d vetor o, dzortut
ant la mecànica dij continuo, da ’d tensor·
(fonte: http://pms.wikipedia.org/wiki/Mec%C3%A0nica_rassional, 12.07.12)
‘I corpi in movimento sono rappresentati da singoli punti o da un insieme di punti mobili o
senza vincoli nello spazio affine tridimensionale euclideo o in un particolare spazio affine a
quattro dimensioni: lo spazio-tempo di Newton.
Lo strumento matematico principale è il calcolo vettoriale negli spazi affini. Gli oggetti cinematici che descrivono il movimento dei corpi e le spinte che lo provocano sono rappresentati da vettori o, soprattutto nella meccanica dei continui, da un tensore’.
3. Dialetto e/è standard
A questo punto, esposte per sommi capi le vicende storico-culturali del piemontese, appare opportuno domandarsi se le nozioni di standard e dialetto siano o meno
conciliabili. Come osserva Ammon 2003: 73, l’etichetta di lingua standard («standard language») può essere impiegata per indicare una lingua nella sua interezza
(«entire language»: l’italiano è una lingua standard) oppure solo una parte di essa
(«part of a language»: la lingua standard è più prestigiosa delle varietà non standard); nella seconda accezione, lingua standard è evidentemente sinonimo di varietà standard («standard variety»). Il piemontese ha conosciuto, nel corso dei
secoli e fino ai giorni nostri, un’ingente opera di codificazione ed elaborazione,
sfociata in una varietà standard a base torinese; è d’altro canto innegabile che il
piemontese sia rimasto un dialetto, tendenzialmente escluso dagli impieghi istituzionali e tecnico-scientifici: non, quindi, un codice standard nel suo insieme (prima
accezione di lingua standard), ma un codice dotato di una varietà standard (seconda accezione di lingua standard). Non ingannino gli esempi poco sopra citati,
che sono da considerarsi eccezionali rispetto al quadro attuale del piemontese: chi
oggi scrive in piemontese, e cerca di scrivere in piemontese di qualsiasi argomento, rappresenta una sparuta minoranza, una élite militante. La ricerca delle varianti
Può un dialetto essere standard?
165
lessicali e morfologiche meno comuni, per un verso, la conquista di nuovi domini
d’uso, per l’altro, costituiscono la reazione di quanti non si arrendono alla crisi del
piemontese. L’impressione è che ci si preoccupi molto di operare degli interventi
simbolici sul sistema linguistico minacciato, ma che si continui a trascurare il nodo,
davvero imprescindibile, della trasmissione intergenerazionale (il gradino 6. nel
processo di rivitalizzazione à la Fishman 1991). È così che spesso càpita di cogliere affermazioni trionfalistiche («in piemontese si può parlare e scrivere di qualsiasi
cosa»12), che valutano soltanto, per così dire, la forma fisica esteriore del piemontese, non il quadro clinico complessivo, tutt’altro che esaltante. Ricordo infatti che,
utilizzando i parametri UNESCO, Berruto 2007b: 139 attribuisce al piemontese
un indice di vitalità sociolinguistica di 2.4/2.8 (0 = lingua estinta; 5 = lingua pienamente vitale), Salminen 2007: 224 una qualifica di tipo b (= «definitely endangered»); quanto al numero di parlanti, è credibile una stima di circa 700 mila unità,
drasticamente più bassa delle cifre (1,5/2 milioni) che vengono in genere divulgate (per una discussione, cf. Regis 2012a: 90-96).
Potremmo dire, con una formula, che il piemontese risponde positivamente ad
una serie di language standards, cioè ad una serie di tratti diagnostici che caratterizzano le varietà standard, senza tuttavia essere uno standard language; ha le carte in regole per assolvere le funzioni «alte» tipiche di uno standard, ma queste funzioni non risultano praticate, se non in modo episodico ed ideologico.
L’eteronomia, nei confronti dell’italiano soprattutto, è un’altra spia del fatto che
il piemontese non sia riuscito ad elevarsi al rango di lingua (nel senso di full-fledged language: cf. Kloss 1968: 36); il cambio di tetto culturale testé descritto segna
d’altronde solo un passaggio di «tutela», dall’italiano al francese, non un’emancipazione. Se poi il tetto culturale fornito dal francese sia davvero benefico, come di
primo acchito sembrerebbe, è tutto da verificare; esso offre una protezione sicura
dalla lingua nazionale, ma conduce ad un piemontese molto distante dal piemontese della quotidianità, causando una potenziale alienazione nel parlante comune
(cf. Tosco 2008: 12). Mentre il piemontese con tetto italiano dei secoli passati coinvolgeva l’intero asse diamesico (scrittura e oralità), il piemontese con tetto francese è una varietà esclusivamente scritta; un rischio che vedo abbastanza prossimo
è la creazione di una diglossia mediale che allarghi vieppiù la forbice tra piemontese scritto e piemontese parlato: il primo lanciato nella sua corsa verso il francese, il secondo naturalmente attratto dal polo dell’italiano. Perché, anche mutando
artatamente il tetto culturale, resta l’italiano la lingua della quale il piemontese di
tutti i giorni subisce l’influsso.
A partire dall’esempio del piemontese, è lecito sostenere che ogni dialetto è in
grado di coltivare una varietà standard? La standardizzazione è, sulla carta, un
processo che può interessare ogni dialetto; esistono tuttavia delle condizioni faci-
12 Cf. http://www.gioventurapiemonteisa.net/wp-content/uploads/docs/chi_ha_paura.pdf (12.07.
2012), p. 11 del documento.
166
Riccardo Regis
litanti. Il piemontese dispone di uno standard che Joseph 1984: 88-90 definirebbe
circumstantial, ovvero sorto a causa del prestigio di una certa varietà e/o classe
di utenti; di là dai più recenti sviluppi francesizzanti (che però, come abbiamo
evidenziato, si applicano pur sempre alla varietà di prestigio «circostanziale», il
torinese), lo standard piemontese è venuto configurandosi senza una politica di
deliberata pianificazione. Si tratta di una situazione, in Italia, non diffusissima, in
diacronia come in sincronia13.
È il problema delle lingue medie, di cui si è occupato Muljačić nei suoi ultimi
scritti (cf. 1997, 2011): varietà che si pongono, appunto, ad un livello intermedio tra
una varietà alta (l’italiano) e una serie di varietà basse (i dialetti locali subordinati). La lingua media è il prodotto di una sineddoche, ovvero della selezione di un
dialetto che, per prestigio culturale o letterario oppure per la riconosciuta superiorità del centro in cui è parlato, guida i dialetti rustici di una certa area. MuljaČiĆ
(2011) presume che, fra il Cinquecento e il Secondo Ottocento, le più notevoli lingue medie in Italia siano state sei: il piemontese (o torinese illustre), il genovese, il
milanese, il veneto (o veneziano illustre), il napoletano e il siciliano. Tra queste,
Muljačić giudica «più persistenti nel loro ‹indipendentismo›» (p. 184) il piemontese, il genovese e il veneto, per le vicende storiche che hanno caratterizzato i rispettivi territori; da parte mia, proporrei di limitare la qualifica al piemontese e al
veneto, che sono del resto le uniche due lingue medie a godere di un glottonimo
di tipo regionale e a consentire un’identificazione tra dialetto regionale e varietà
del centro egemone (cosa che non avviene, ad esempio, col siciliano: cf. Ruffino
2001: 30). Piemonte e Veneto sono stati teatro di entità politiche indipendenti,
che hanno avuto in Torino e rispettivamente in Venezia i poli culturali e linguistici. Del veneziano abbiamo numerose testimonianze scritte non letterarie già nei
sec. XIII-XIV (Marcato 2002: 317-20), e gli avvocati della Serenissima avrebbero
utilizzato, ben oltre il XVII sec., il veneziano nelle loro arringhe (Cortelazzo
1994: 558). Come il piemontese del Settecento, anche il veneto/veneziano dei sec.
XIV-XV elimina i tratti diatopicamente più marcati assumendo a modello l’italiano (Ferguson 2003: 461).
Mi sembra quindi che le «piccole Nazioni» creino una situazione sociolinguistica che è molto compatibile con la formazione di varietà codificate ed elaborate;
in esse si riproducono, in scala minore, le dinamiche di sineddoche che hanno in
genere portato alla formazione delle grandi lingue nazionali (talvolta anche in
assenza di un’unità statale: cf. l’esempio di italiano e tedesco). Abbiamo a che fare,
nel caso specifico, con una doppia sineddoche: sul terreno già dissodato di una sineddoche «nazionale» fiorentino ⬎ italiano (basata sul prestigio letterario delle
13 Negli ultimi anni specialmente, numerose varietà dialettali sono state oggetto di standardizzazione pianificata («engineered emergence» in Joseph 1984: 90-91): cf., inter alios, Coluzzi
2007 e Regis 2012a. Una riflessione su «naturalezza» e «artificialità» dello standard si trova in
Berruto 2007a: 26-36.
Può un dialetto essere standard?
167
Tre Corone e avvenuta a partire dal XIV sec.) viene ad innestarsi una sineddoche
«regionale» torinese ⬎ piemontese (o veneziano ⬎ veneto), la prima sineddoche
essendo un modello per la seconda. Non so se, come sostengono Trumper/Maddalon 1988: 240, la presenza di una varietà di koinè sia un argine alla diffusione
dell’italiano (considerazione che può d’altronde valere per il veneto, da cui Trumper e Maddalon muovono, non per il piemontese); senza dubbio, esso diventa un
ponte tra la lingua nazionale e i dialetti rustici. Si crea una catena in cui le varietà
rustiche guardano alla varietà di koinè e la varietà di koinè guarda all’italiano; alla
fine del processo, per proprietà transitiva, anche le varietà rustiche saranno un po’
più prossime alla lingua nazionale.
Credo, da ultimo, che il concetto klossiano di Ausbaudialekt sia un buon modo
per dare conto dello status sociolinguistico del piemontese e di altre «lingue medie». Nonostante che lo stesso Kloss 1987: 307 preferisca ricorrere, nell’ultima versione del suo modello, alla più neutra perifrasi «inzipiente oder wenig entwickelte Au[sbau]S[prache]», la nozione di Ausbaudialekt ha il merito di farci capire, più
o meno esplicitamente, almeno due cose: che ci troviamo di fronte ad un idioma
che è elaborato ma che resta, dal punto di vista sociolinguistico, un dialetto; che
questo dialetto elaborato è in grado di «innalzarsi», ma, a causa di condizionamenti
storici e culturali, soltanto in modo o parziale o occasionale o eccezionale, talché
lo status di lingua risulta fuori portata.
Torino
Riccardo Regis
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