di Massimo Paradiso 1. Introduzione.

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di Massimo Paradiso 1. Introduzione.
La Sicilia euroregione del Mediterraneo
(profili istituzionali)
di Massimo Paradiso
1. Introduzione. – Credo opportuno chiarire anzitutto che il termine «euroregione», ormai
corrente nell’ambito dell’Unione europea e ben noto tra i Lions, non indica una specifica forma
organizzativa, dotata di caratteri tipici e titolare di funzioni univoche. Col termine «euroregione»,
piuttosto, si designano genericamente alcune forme di cooperazione tra enti territoriali e locali
europei, appartenenti a Stati diversi e costituite per favorire la coesione economica e sociale delle
comunità locali. Può trattarsi, per esemplificare con riferimento all’Italia, di regioni, comuni,
consorzi di comuni e comunità montare, enti di sviluppo turistico, e così via.
Ebbene, nonostante la varietà delle forme e delle tipologie delle euroregioni, gli obiettivi e le
iniziative che ruotano attorno alla tematica della cooperazione locale sono divenute fondamentali
nel processo di integrazione europea: il processo di integrazione infatti va
progressivamente
concentrando il proprio fulcro proprio attorno al ‘fenomeno’ della collaborazione tra autorità locali
appartenenti a Stati diversi. La dimensione regionale, cioè, sembra divenire il nuovo volano
dell’integrazione europea: sia perché può superare le resistenze dovute alle forti differenze, culturali
economiche e sociali, che si riscontrano da un capo all’altro d’Europa, sia perché è ormai acquisita
l’esigenza di concentrare le spese e reindirizzare i flussi finanziari in base alle esigenze concrete
delle diverse collettività. Si abbandona progressivamente, così, quell’approccio centralista e
burocratico che per certi versi ha potuto ricordare la pianificazione economica e sociale di altre
strutture politiche e che non è l’ultimo responsabile della diffidenza popolare verso le istituzioni
europee.
Al contempo, il fenomeno si presenta complesso dal punto di vista istituzionale, perché alla
disciplina giuridica di queste forme di cooperazione concorrono fonti normative diverse e
disomogenee. Non voglio annoiare l’uditorio, ma devo almeno ricordare tra le fonti della
regolamentazione la Convenzione-quadro di Madrid sulla cooperazione transfrontaliera (del 1980) e
i 3 successivi Protocolli aggiuntivi (del 1995, del 1998 e del 2009), la normativa del Consiglio
d’Europa (Regolamento CE n. 1082 del 2006), gli accordi tra gli Stati e gli accordi quadro
bilaterali; e ancora, gli strumenti di promozione e sostegno finanziario sviluppati dal diritto
comunitario, in particolare col programma Interreg; e infine, la disciplina propria dei singoli Stati
che regola, per molti aspetti, la vita degli organismi di cooperazione. In particolare, per quanto
riguarda specificamente l’Italia, occorre tener presenti alcune leggi ordinarie (la n. 948 del 1984 e la
n. 88 del 2009 che recepiscono e attuano, rispettivamente, la Convenzione di Madrid e il
Regolamento CE), le novità introdotte con la riforma del Titolo V della Costituzione e le ambiguità
lasciate dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 in ordine alla facoltà delle Regioni a statuto speciale
di stipulare accordi con gli Stati esteri: facoltà, ormai concessa alle regioni ordinarie.
2. Le forme della cooperazione territoriale. – La cooperazione territoriale ha preso avvio in
anni ormai lontani, sulla base di spontanei accordi bilaterali tra Stati confinanti: risale infatti al 1958
la prima euroregione, denominata “Euroregio”, istituita tra Germania e Paesi Bassi e poi estesa ad
altri Stati. Oggi, sono almeno 35 le forme istituzionalizzate di cooperazione, favorite da una
disciplina europea che ha via via ampliato le facoltà degli enti locali, restringendo parallelamente il
potere di interferenza delle autorità statali: va rilevata anzi la netta tendenza della disciplina di fonte
comunitaria a restringere i poteri degli Stati in ordine all’indirizzo e al controllo di tali forme di
cooperazione, così superando le resistenze nazionali, all’inizio piuttosto marcate: si temeva infatti
che tali intese, stipulate direttamente tra enti territoriali di paesi diversi, potessero ledere, e
comunque porre in discussione, la sovranità dello Stato in ordine alla tenuta dei rapporti
internazionali. Ed è anche per questo, come vedremo, che – con una scelta singolare rispetto alla
logica decentrata sottesa al fenomeno – il Regolamento Ce del 2006 ha previsto tra i possibili
membri delle euroregioni anche gli Stati.
In ogni caso, va evidenziato che, se la convenzione-quadro si limitava a prevedere un
semplice e generico impegno degli Stati contraenti ad «agevolare e promuovere la cooperazione
transfrontaliera», già il 1° Protocollo addizionale sanciva un vero e proprio diritto di «collettività e
autorità locali… di concludere accordi di cooperazione» con enti omologhi di altri Stati.
Ma devo sintetizzare il discorso: oggi, le forme di collaborazione prefigurate nella
normativa vigente si strutturano secondo due modelli fondamentali: la cooperazione transfrontaliera
e quella interterritoriale (o interregionale).
La cooperazione transfrontaliera è quella che si realizza tra enti e autorità, appartenenti a
Stati diversi, che siano confinanti l’uno con l’altro; e se questo è stato il primo passo (non a caso
sancito nella Convenzione di Madrid), va anche detto che si tratta della forma di cooperazione più
coerente con la logica ispiratrice del fenomeno: solo tra regioni finitime infatti possono realmente
riscontrarsi quella omogeneità di problemi economici e sociali, quelle esigenze di scambio e di
coordinamento delle attività e degli interventi sul territorio – dalle infrastrutture alla politica
ambientale – che hanno evidenziato l’esigenza e suggerito l’opportunità di tali forme di
collaborazione.
Per contro, la cooperazione interterritoriale è quella che si instaura con «le collettività
estere non limitrofe che presentino una comunanza di interessi» (3° Considerando del Protocollo n.
2 alla convenzione-quadro europea).
Comune a entrambe, comunque, rimane l’obiettivo di «facilitare e promuovere la
cooperazione territoriale… al fine esclusivo di rafforzare la coesione economica e sociale» (art. 1
del Regolamento CE n. 1082/2006); obiettivo, per il quale sono state previste forme
istituzionalizzate, munite di una struttura che si è cercato di rendere uniforme.
3. La struttura giuridica delle «euroregioni». – In breve, la struttura giuridica fondamentale
prevista per le «euroregioni» è costituita dal cd. GECT, acronimo di «Gruppo europeo di
cooperazione territoriale»: si tratta di un ente giuridico, costituito su base volontaria da autorità ed
enti di Stati diversi e dotato sia di vera e propria personalità giuridica (di diritto privato o di diritto
pubblico), sia della più ampia capacità giuridica», potendo tra l’altro «acquistare e alienare
immobili, assumere personale e stare in giudizio (art. 1 Reg. cit.). Membri dei Gect possono essere
gli Stati, le autorità regionali e locali, altri organismi di diritto pubblico e associazioni di organismi
che appartengano a tali categorie. Si tratta comunque di enti strumentali, che devono agire nei limiti
dei compiti affidatigli dai suoi membri e nel rispetto delle competenze che spettano a questi ultimi
in base alle rispettive legislazioni nazionali: in ogni caso è escluso che possano esercitare poteri
delle pubbliche autorità che tutelano interessi generali dello Stato (art. 7 del reg. CE), ed è
espressamente escluso altresì che possano incidere sui diritti e sulle libertà dei singoli (art. 4 del 1°
Protocollo addizionale). L’ente ha almeno due organi, l’assemblea dei partecipanti e il direttore, è
tenuto a redigere un bilancio annuale e a ‘certificarlo’ secondo specifiche modalità e garanzie.
Gli ambiti elettivi di attività sono indicati nella Convenzione-quadro di Madrid, che fa
riferimento alla cooperazione in materie quali lo sviluppo regionale, la protezione dell’ambiente, le
infrastrutture e i servizi, l’aiuto reciproco in caso di sinistri; ma si tratta di mera elencazione
esemplificativa e l’esperienza di questi anni ha visto svilupparsi la collaborazione nei settori più
diversi: fermo pesca e orari dei mezzi di trasporto, sistema intermodale dei trasporti e mobilità di
persone e merci, ecoturismo e destagionalizzazione dei flussi turistici, manifestazioni culturali e
sistema di istruzione.
Elemento decisivo comunque, che dà ragione del moltiplicarsi delle iniziative, è stato il fatto
che il GECT può essere incaricato di attuare programmi cofinanziati dalla Comunità. Ma degli
aspetti operativi ed economico sociali si occuperanno, con ben altra competenza, le altre relazioni.
Quanto al diritto applicabile, un Gect è disciplinato anzitutto dal citato Regolamento CE,
dall’atto costitutivo e dallo statuto; ma altresì, dal diritto dello Stato membro in cui l’ente ha la sua
sede sociale: si tratta di una scelta che si è rivelata in qualche modo obbligata, stante la riscontrata
diversità delle legislazioni dei diversi paesi che, nell’esperienza di questi anni, ha limitato di molto
l’operatività dei Gruppi.
Questa e altre difficoltà applicative, che hanno finora limitato il funzionamento dei Gect,
hanno evidenziato l’esigenza di una modifica della disciplina, in particolare in vista della
programmazione degli interventi strutturali comunitari per il 2014-2020. Ma di queste modifiche
diremo in seguito. Intanto, basti ricordare che la maggior parte degli stati europei ha provveduto alla
recezione del Regolamento e, a dispetto delle difficoltà incontrate nell’applicazione, nell’UE a 28
membri il numero complessivo dei Gect, tra quelli costituiti e quelli in via di costituzione, ammonta
oggi a circa 45, con la partecipazione di oltre 350 organismi regionali e locali.
Accanto al Gect v’è poi un’altra struttura di cooperazione: il GEC, acronimo di Gruppo euro
regionale di cooperazione, che però è rimasto finora sulla carta. Soltanto 3 Stati infatti hanno
provveduto alla ratifica del Protocollo di Utrecht che lo prevede: esso pertanto non è ancora entrato
in vigore e vi dedicherò soltanto un cenno. Il Protocollo, nato con l’obiettivo specifico di fornire un
più preciso quadro giuridico per le euroregioni, prevede uno sviluppo ulteriore della cooperazione
tramite il Gec, appunto, destinato ad affiancare e in prospettiva a sostituire i Gect. Le funzioni sono
le stesse, ma si prevede la partecipazione di enti e associazioni private che non abbiano scopo di
lucro e, inoltre, di comunità e autorità territoriali appartenenti a Stati confinanti non firmatari del
Protocollo.
4. L’esperienza siciliana nei Gect. – Ebbene, fra le molte euro regioni di cui s’è detto, ve n’è
una alla quale partecipa, in posizione di prima fila, la Regione Siciliana: in essa infatti ha la sede
legale Archimed, il Gruppo di cooperazione territoriale dell’arcipelago Mediterraneo, costituito tra
la Regione Siciliana, il Governo delle isole Baleari e l’Agenzia cipriota di sviluppo di Larnaca
(Cipro). Obiettivi di Archimed sono la creazione di uno spazio stabile di cooperazione, la
promozione di interessi comuni e lo sviluppo degli scambi, in particolare negli ambiti delle risorse
naturali, dello sviluppo rurale e della pesca, della migrazione, di trasporti, turismo e cultura.
La convenzione istitutiva porta la data del 7 luglio 2009, ma l’iniziativa risale a diversi anni
addietro e prevedeva originariamente la partecipazione di numerosi altri membri: partecipazione poi
sfumata per ragioni politiche, ma che proprio in questo torno di tempo sembra giungere in porto e
che dovrebbe annoverare anche Sardegna, Corsica, Malta e Creta, così divenendo nei fatti, e non
solo nel nome, il Gruppo di cooperazione territoriale di tutto l’“arcipelago mediterraneo”. È una
esperienza che va valorizzata, anche perché Archimed è presieduto da un nostro conterraneo,
Francesco Attaguile, che tutti conosciamo come funzionario europeo di primo livello e che è stato
uno dei protagonisti dell’iniziativa e già della stessa progettazione normativa dei Gect a livello
europeo. È d’altra parte uno degli artefici più attivi nelle intese tra i paesi mediterranei e posso
anticipare che si è detto ben disposto a collaborare con i Lions nelle iniziative che vorremo prendere
in questo ambito.
Ma tra i protagonisti siciliani della cooperazione tra le sponde del mare nostrum devo
almeno ricordare il prof. Leonardo Urbani e le sue iniziative, condotte in collaborazione con il
collegio universitario Arces, che hanno al centro un’idea fondante: il turismo come spinta alla
crescita relazionale e motore dello sviluppo regionale nel Mediterraneo. È questo il tema al centro
di “Motris”, una ricerca scientifica finanziata dalla Regione siciliana avente ad oggetto la
Mappatura dell’offerta di turismo relazionale integrato in Sicilia e che muove da una rivisitazione
del concetto di turismo, inteso quale promotore di relazioni interpersonali e occasione di sviluppo
delle realtà territoriali, e in particolare di quelle agricole e agrituristiche. Una forma di turismo,
perciò, profondamente diversa dalla formula corrente del “mordi e fuggi” e dei villaggi turistici,
perché offre occasioni di scambio culturale e di conoscenza personale tra il viaggiatore e le persone
che lo ospitano. E voglio poi ricordare, tra le iniziative assunte nell’ambito di questo progetto di
ricerca, anche i programmi di formazione, e in particolare il Master di II livello organizzato tra
l’Università di Palermo e l’Università del Cairo.
Di questa esperienza credo che potremo e dovremo far tesoro per le nostre iniziative, proprio
perché nasce dalla società civile, secondo un approccio che il Lions ha cercato di coltivare in questi
ultimi anni.
5. Scenari della cooperazione mediterranea. – Quali scenari si aprono allora perché la nostra
Regione possa assumere il compito e svolgere il ruolo di una “euroregione” nel bacino del
Mediterraneo?
Anzitutto, dobbiamo acquisire consapevolezza che si tratta di una prospettiva, e prima
ancora di una esigenza, che non è esagerato definire fondamentale per lo sviluppo e la stessa
identità della nostra isola. Nessuno, e tanto meno chi vi parla, vuole rifiutare l’identità europea e la
nostra collocazione nella civiltà occidentale; ma dobbiamo al contempo prendere atto di una
perdurante situazione di stallo nello sviluppo sociale ed economico e di una condizione di
sostanziale emarginazione rispetto ai flussi economici e agli scambi culturali dell’UE. Più questa si
allarga ad altre realtà territoriali e culturali, e maggiore diviene la sensazione di marginalità,
geografica e politica. Troppo grandi sono le differenze economiche e sociali da un capo all’altro del
continente europeo, mentre la stessa posizione geografica della nostra isola, alla periferia del
continente europeo, esclude quei flussi e quegli scambi imposti o favoriti dalla comunanza delle
frontiere con altri paesi. Se non fosse per lo straordinario patrimonio culturale che ci hanno lasciato
le generazioni passate, la nostra emarginazione sarebbe totale.
D’altra parte, per un verso non si può vivere di solo turismo (pur con tutte le pecche che
presenta la nostra offerta turistica), per l’altro è obiettivamente improbo competere con lo sviluppo
industriale e tecnologico dei colossi europei, mentre ulteriori fattori di emarginazione ci derivano
dalla globalizzazione dell’economia: nel campo manifatturiero siamo schiacciati dalla produzione
asiatica, nel settore agricolo solo con la qualità dei prodotti ci difendiamo dalla concorrenza
nordafricana.
Un ruolo non marginale, invece, può svolgere la nostra terra nella cooperazione e negli
scambi con i paesi extraeuropei del Mediterraneo, sia per la collocazione geografica, sia per la
storia e le tradizioni che ci accomunano almeno ad alcuni di tali paesi; ...per non dire naturalmente
dei problemi comuni, e in primo luogo del dramma dell’immigrazione che riversa sulle nostre
spiagge tanti disperati. Personalmente, sono convinto che, alla lunga distanza, l’immigrazione si
rivelerà un fattore positivo per tutta l’Europa, demograficamente in declino, culturalmente
denervata e spiritualmente decadente; ma non è meno vero che pace potrà aversi solo con una vera
cooperazione, che porti sviluppo a tutti e rispetto dei diritti umani in paesi che le cronache recenti ci
dipingono squassati da tensioni e rivolte sociali senza precedenti.
È perciò una esigenza etica, ma anche una necessità pratica perché, mentre non possiamo
illuderci di rimanere indenni da tali sconvolgimenti, uno sviluppo condiviso può contribuire alla
stabilità politica di un’area strategica per tutta l’Europa. In poche parole, l’interesse preminente
della Sicilia deve essere rivolto ai paesi della sponda sud-orientale del Mediterraneo, mentre la
prospettiva politica deve abbandonare quell’ottica rivendicazionista e piagnona che ha connotato la
nostra azione negli anni passati e che certo non è estranea allo stesso Statuto siciliano.
6. Prospettive di sviluppo nella cooperazione euro mediterranea. – Quali prospettive di
sviluppo, allora, si offrono nell’immediato futuro? Ci sono luci ed ombre, come si usa dire.
Dirò anzitutto di queste ultime. Le ombre sono rappresentate anzitutto dalla struttura attuale
delle “euroregioni”. Per non annoiare l’uditorio, mi limiterò a dire che, se nei Gect è oggi ammessa
la partecipazione di Stati e comunità non facenti parte dell’UE, non è prevista invece la
partecipazione di Paesi extraeuropei. Come ho ricordato, sembrerebbe esserci una timida apertura
nel 16° Considerando del Regolamento CE 1082 che, testualmente, «non esclude la partecipazione
di paesi terzi»: ma quali siano tali paesi non è chiarito in nessun documento, mentre nessuno dei
Gect finora costituiti li annovera tra i suoi membri.
Un altro problema, sollevato anche di recente da un attento osservatore delle vicende
isolane, è rappresentato dalla legislazione nazionale. La normativa di trasposizione interna della
ricordata convenzione e quella di recepimento della disciplina comunitaria (rispettivamente, leggi n.
948/1984 e n. 88/2009) sono articolate e non posso esporle in dettaglio: mi limito solo a dire che
esse vincolano la stipulazione di accordi ‘transfrontalieri’ tra le autorità locali a una procedura che,
in pratica, li subordina al “gradimento” del governo centrale.
Per altro verso, la riforma del titolo V della Costituzione, e la relativa legge di attuazione,
hanno sancito quel che viene definito il “potere estero” delle regioni, statuendo che esse possono
concludere «accordi» con Stati stranieri e «intese» con enti territoriali interni a questi ultimi (artt.
117, c. 9, cost. e 6 legge n. 131/2003). A fronte di tale apertura, per molti aspetti rivoluzionaria, il
problema è costituito dal fatto che la Costituzione si riferisce chiaramente alle regioni a statuto
ordinario, sì che si è posto il problema per le regioni a statuto speciale, la cui potestà d’azione
risulterebbe ridotta rispetto alle altre. Tralascio qui le specifiche questioni giuridiche relative al
principio di specialità e mi limito a sottolineare che una parte consistente della dottrina ritiene
comunque applicabile la cd. “clausola di salvaguardia” contenuta nell’art. 10 della legge di
attuazione, a tenore della quale le modifiche introdotte nella Costituzione «si applicano anche alle
Regioni a statuto speciale, per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a
quelle già attribuite». Ben venga allora la modifica dello Statuto siciliano, da tante parti auspicata e
che dovrebbe tra l’altro disciplinare anche tale materia, ma credo che già allo stato attuale la nostra
Regione potrebbe procedere decisamente sulla strada degli accordi con altri paesi.
Ma luci si profilano anche a livello della normativa europea. È in dirittura d’arrivo, e
dovrebbe essere approvata entro l’anno, la modifica del Reg. CE sui Gect, che ne prevede proprio
l’estensione ai paesi extraeuropei; in secondo luogo, va coltivata la prospettiva delle cdd.
Macroregioni, già avviata nell’area baltica e in quella danubiana; infine, qualche residua speranza
può forse riporsi nel cd. “Processo di Barcellona”, che ha preso l’avvio con la ‘omonima’
Dichiarazione e che ha messo capo ad Euromed, la Euro-Mediterranean Partnership, che coinvolge
tutti i 28 Stati membri dell’UE e ben 16 paesi mediterranei: e cioè tutti i paesi rivieraschi. Ma su
tale progetto, che tante aspettative aveva suscitato, si è stesa l’ombra delle gelosie di alcuni paesi
nordici, timorosi di possibili accordi privilegiati con i paesi mediterranei: basti dire che, nella
prospettiva ‘regionalistica’ in cui si avvia l’UE, è una contraddizione in termini l’aver imposto
l’inclusione in una “macroregione” di tutti i paesi membri: serve soltanto ad annacquare il progetto
e a conservare posizioni di preminenza.
Anche di questo allora, oltre che delle resistenze centralistiche degli Stati, occorre tener
conto nel promuovere una euroregione mediterranea. Ma in Sicilia dobbiamo tener conto anche
dell’inerzia e della miopia di tanti responsabili della cosa pubblica: se aspettiamo che siano le
istituzioni a muoversi, aspetteremo per altri 100 anni.
Potrebbe essere questo, allora, pane per i nostri denti, pane per i denti dei Lions: la
dimensione internazionale del Lions, le conoscenze personali con tanti soci dei paesi mediterranei,
la vocazione del club, ribadita anche di recente, a farsi promotori dal basso dei cambiamenti,
sollecitando e incalzando la classe politica sui grandi temi dell’innovazione, possono sortire effetti
insperati, smentendo quel fatalismo che connota tanti siciliani. Dobbiamo soltanto credere che sia
pane per i nostri denti e impegnarci a fondo, se non vogliamo che qualche maligno dica che quel
leone che campeggia nel nostro logo è un leone sdentato.Un leone, che magari ruggisce, ma non
morde.