La miassa - "G. Cipriani" di Adria
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La miassa - "G. Cipriani" di Adria
La smeada Antica pinza di sangue di maiale e farina di miglio La vigilia di Natale, scriveva nel 1890 Pio Mazzucchi da Castelguglielmo, "non bisogna mancare d'imbandire pel desinare un singolare pasticcio composto di farina gialla e intrisa con acqua bollente, in cui gettansi in copia melassa, zucchero, pinocchi, uva passa, e cotto in padella a lento fuoco: pasticcio che, sotto forma di stiacciata fritta, assume il nome volgare di smegiaza e, riesce più o meno gustoso, a seconda della qualità degli ingredienti specie dell'olio usato nella cottura, che il più delle volte è quello dell'infimo prezzo. A tali ghiottonerie, che tutti i membri della famiglia si pappano in buona pace, con un'avidità degna dei Conte Ugolino, e che i fanciulli attendono da qualche tempo, e seguitano a parlarne per più giorni, dovrebbe succedere qualche pezzo di zucca, raccolto talvolta nel piccolo orticello di famiglia, regalo, tal'altra, del padrone di casa o di bottega, o d'un vicino benestante". 1 Dal Bassopolesine gli faceva eco Benedetto Morinelli: La vigilia di Natale, "come dolce veniva presentata la smegiassa, una torta preparata con polenta, zucca, pinoli e uva secca, cotta sotto la cenere; e poi come rarità venivano distribuiti i mandarini di Sicilia" . 2 La smeada (mlasso/meassa/miassa, smiaza/smiassa, smegiassa/smejassa, megiaza/meiaza) in ogni famiglia polesana, era il piatto rituale che faceva la sua comparsa nella cena pomeridiana della vigilia di Natale e nel periodo carnevalesco, come è documentato nel volume "Il piatto, il fuoco, la parola", in cui la pinza compare capillarmente presente, dal mare alla estremità occidentale del Polesine. Ma ancor prima della testimonianza del Mazzocchi, il nostro dolce risulta presente sulla tavola adriese nel Carnevale del 1607 quando, in seguito ad un fuggi fuggi generale per il timore di una incursione di soldati papalini, dall’abitazione del canonico Alfonso Bocca viene asportata “una mezza smeada per esser da Carnevale” 3 Naturalmente non è possibile codificare il piatto, mutevole e multiforme, come d'altra parte lo sono la tradizione e la cucina popolare, senza dubbia condizionata dalle risorse dell'ambiente, ma pure capace di accoglierle, di plasmarle, manipolarle e rielaborarle in modo del tutto autonomo e soggettivo secondo misteriose, secolari e instabili alchimie. 1 P. MAZZUCCHI, Usi e costumi del popolo dell’Alto Polesine, estr. da Archivio per le Tradizioni popolari, vol. IX, Palermo, 1890, pp. 17 - 18. 2 B. MORINELLI, Usanze del Delta Padano alla fine dell’Ottocento, Abano Terme Il Gerione 1972, p. 11. 3 “… mi fù robbata una padella, una camisa del Pan un tocco di formaglio salà, mezza smeada per esser da Carnevale fù una gran botta che hebbi”, A. BOCCA, Annali adriesi, a cura di A. Lodo, Rovigo Minelliana, 1985, p. 26. Nella smeada, come riferiscono gli informatori, la base era costituita da farina di mais, con l'aggiunta di zucca, patate dolci, castagnaccio, oppure pane posto a mollo o fior di farina per renderla meno rustica alla vista e al gusto. Vi era poi tutta una serie di ingredienti di contorno ad libitum, in relazione alle disponibilità: uvetta, pinoli, fichi secchi, canditi, scorza e succo di limone, pere o mele. Come dolcificante veniva impiegata dai più la melassa, mentre i benestanti potevano contare sullo zucchero ed eventualmente su aromi speziati, quali la cannella. La cottura avveniva sopra l’aròla del focolare, sotto il testo, il sole, il cuèrcio (luòra in Bassopolesine), opportunamente ricoperto da braci e cenere secondo una modalità antica quanto il mondo, come riferisce Catone nel De agri coltura, descrivendo alcune pinze quali la “placenta”, il “libum, la “spira” e la “scriblita”, da cuocersi “leniter”, lentamente sul focolare, al “foco caldo sub testu”, non senza aver accuratamente ricoperto di braci il testo, sopra e tutto attorno, “pruna insuper et circum”. 4 Impropriamente si ritiene che l’etimologia di miassa -tale è il termine correntemente usato- sia da melassa, il sottoprodotto della lavorazione della barbabietola. In realtà viene da migliaccio, una torta documentabile sin dal Medio Evo, con sangue di maiale e farina di miglio, da cui il nome, uno dei cosiddetti cereali minori che, assieme alla mélega, era ampiamente coltivato nelle campagne polesane, disponibile per il pane mòro non lievitato e per polente, consumate anche col latte, in in luogo del pane come fu poi per la pellagrosa polenta di mais. Un abbinamento, quello di latte e farina di miglio, così azzeccato e nutriente, da far meraviglia al medico Michele Savonarola, nonno del domenicano Gerolamo, incantato di fronte all’incarnato dei putti del contado che, grazie alla prodigiosa zuppa di miglio e latte, risultavano rosei e paffuti, bianchi e russi come ‘n pómo spessà avrebbe detto il nostro dialetto, tali da far invidia ai bamboli della nobiltà estense. E se lo diceva il famoso Michele, medico di corte, c’era da crederci, impegnato com’era notte e dì ad escogitare elisir afrodisiaci per rinforzare la vis generativa del marchese Nicolò III, il quale dalle pozioni riceveva possente giovamento dal momento che in tutti i paesi rivieraschi vigeva il detto che di qua e di là dal Po, siamo tutti figli di Nicolò. 4 CATONE, De agri cultura, Milano Notari, 1929, pp. 123 – 127. In seguito all'introduzione del mais e alla sua rapidissima diffusione, miglio e mélega quasi scomparvero, tanto che il migliaccio finì per accogliere la farina di granturco, integrata dalle zucche, dalla farina di castagna, da mele, pere o patate, comunque da prodotti divenuti complementari o succedanei ai grani minori. In Polesine con l’arrivo del mais si era verificata una vera e propria corsa al nuovo cereale aveva trovato fertile terreno come in nessun altro luogo a scapito delle farine secolarmente impiegate nell’alimentazione popolare. 5 Ma seguendo un destino comune a tante altre vivande, il migliaccio, con opportuna e qualificata aggiunta di spezie e soprattutto la sostituzione dei miglio coi bianco frumento, poteva salire alla mensa aristocratica. Compare infatti nel Libro novo di Cristoforo Messi Sbugo 6 e nella Opera di Bartolomeo Scappi, che esplicitamente titola "Per fare una torta di sangue di Porco, domestico, dal vulgo detta migliaccio". Da come viene descritto, ne risulta un composto, per noi ora immangiabile, nel quale sangue e fior di farina erano misticati con formaggio, lardo, latte, uvetta, noce moscata, cannella, pepe, zenzero, zucchero, semi di finocchio, anici, mandorle e altro ancora. Nella cucina borghese dell’Ottocento, il migliaccio, travolto da nuovi gusti, mutò la propria essenza originaria perdendo per strada miglio e sangue di maiale, così come risulta nel ricettario rodigino dei cuoco Giacomo Basso: "Per fare una smiazza di Farina Gialla P. Torta - Pigliate due mezzetti di farina Gialla che sia tamisatta con tamiso finissimo; ponetevi sale fino, e frutti cioè peri e pomi tagliati in fette passatti al forno con buttiro Libre 6 in cazzarolla, e si impasta la farina con latte fresco che venga teneretta e ponetevi Zuchero, e vaniglia e Cedrini tridi, e cosinatela in ontiano, e pontevi pegnolli tridi finissimi ò sia pasta di mandorle uva spagna bulita, e ben suta Invece, nella cucina popolare, che tutto, è aproposito per farla milliore." 7 5 La corsa al mais aveva accomunato latifondisti e piccoli proprietari che destinavano alla nuova coltura ogni fazzoletto di terra disponibile, a scapito dell’orto stesso così importante per il fabbisogno alimentare. Lamenta, infatti, un parroco rurale che: “tutte queste case coloniche hanno rimpetto ad esse a mezzogiorno, in buona situazione aperta, una capace ortaglia, che si circonda di sufficiente siepe, ma quando, vi credereste trovarvi entro erbaggi e produzioni di orto, eccoti che vi si trova sorgoturco. Io credo che ne seminerebbero anche nelle stanze, se mai potessero dove dormono”, I dialoghi rusticali di Lorenzo Crico, a cura di E. De Matté, Cultura popolare veneta, VII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1990. Riediz, de Il contadino istruito dal suo parroco, Venezia 1817-1818, p. 416. 6 “Piglia tre scutelle di sangue di porco colato, e tre uova, e libra uno di formaggio grasso, e oncie tre d’uva passa monda, e oncie meza di canella pista, e un quarto di pevere, e libra meza di zuccaro, e un picico di finochi, overo anesi crusi, e incorpora bene ogni cosa insieme, senza il sangue. Poi habbi una tiella con grasso nel fondo, e fa una spoglia con farina biancha, e butiro, e zuccaro, e acqua tepida, e ponila nel fondo di detta tiella, e buttali sopra detta compositione, e distesa che l’haverai, ponerai ogni cosa insieme a cuocere, e come haverà avuto una calda, segnalo di sopra a mandole, e gettali un poco di grasso disfatto, e lo finarai di cuocere e come è cotto, li ponerai zuccaro, e canella di sopra” CHRISTOFARO DI MESSISBUGO, Libro novo, Per gli Heredi de Gioanne Padoano MDLVII in Vinegia, (ristampa anastatica Bologna Forni, 1982) ff. 58 – 59. 7 Accademia dei Concordi di Rovigo, G. BASSO, Libro di cuciniere di Giacomo Basso – Domestico delli Sig.ri Frattelli Cezza S. Rocco, Ricavato dal Sandonatti coco alle due Attori, 1829, Ricetta 1, p. 3, Fondo non catalogato. notoriamente conservativa, il sangue di maiale della smeada ha resistito almeno sino alla metà del ‘900: “Si prende il sangue di maiale, si mescola con fichi secchi tagliati a pezzetti, uvetta noci e cacao secondo il sangue che si ha. [..] Una volta la facevano tutti e se la scambiavano uno con l’altro e chi l’aveva ne portava a chi era senza…” 8 Paolo Rigoni (Grafica:Giorgia Stocco) 8 C. CREPALDI – P. RIGONI, Il piatto, il fuoco, la parola. Cultura alimentare e tradizione popolare nel Polesine, Rovigo Minelliana, 1991, p. 513.