“All`origine fu la macchina da cucire" Con Vittorio Marchis e Luca

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“All`origine fu la macchina da cucire" Con Vittorio Marchis e Luca
Poesia in Progress
Kore Multimedia
Arshile Edizioni
“All'origine fu la macchina da cucire"
Con Vittorio Marchis
e Luca Guglielminetti
Letture di Francesca Rizzotti
Circolo dei lettori: incontro del 24 gennaio 2008
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Poesia in Progress
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Arshile Edizioni
da “PONTI SULL’OCEANO” (1914) di Luciano
Folgore
Da ITALY di Giovanni Pascoli
[…]
Magnesio
Italy allora s’adirò davvero!
Piovve; e la pioggia cancellò dal tetto
quel po’ di bianco, e fece tutto nero.
Il cielo, parve che si fosse stretto,
e rovesciava acquate sopra acquate!
155
Stecchita la vita da un inverno notturno di magnesio
Porcellana della dura elettricità che comprime faccie e spigoli sulla ghisa nera della notte
Nicchie di bar d'alluminio
Crudo bianco dei caffè di smalto
Una donna di maiolica
Un cavallo di cristallo
Lastroni di palazzi induriti a
p
i
o
m
b
o
O ferraietto, corto e maledetto!
Ghita diceva: "Mamma, a che filate?
Nessuna fila in Mèrica. Son usi
d’una volta, del tempo delle fate.
Oh yes! Filare! Assai mi ci confusi
160
da bimba. Or c’è la macchina che scocca
d’un frullo solo centomila fusi.
Oh yes! Ben altro che la vostra ròcca!
E fila unito. E duole poi la vita
e ci si sente prosciugar la bocca!"
sui pavimenti a
cera delle strade
Lineamenti dì ferro
contorni a sbarre nette
figurazioni di marmo durissimo
smorfia
della città serrata nei cilindri della tramontana
Sorpresa dei nottambuli coi visi incro
stati nel ghiaccio della luce elettrica
Certo al
di là dei muri :
ANIME DI PIETRA
CERVELLI DI PIOMBO
e nelle bische la vita con
tratta in uno spasimo dal magnesio del vizioTutto preciso
tutto rigido nelle linee violente del
freddo anche il sonno: MISERABILE DI BRONZO
addormentato sotto l'arco dì granito di un portone
165
La mamma allora con le magre dita
le sue gugliate traea giù più rare,
perché ciascuna fosse bella unita.
Vedea le fate, le vedea scoccare
fusi a migliaia, e s’indugiava a lungo
170
nel suo cantuccio presso il focolare.
Diceva: "Andate a letto, io vi raggiungo"
Vedea le mille fate nelle grotte
illuminate. A lei faceva il fungo
la lucernina nell’oscura notte.
175
[…]
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Poesia in Progress
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Danilo Dolci
Nel paese tanto ricco di tecnica
che puoi bere latte e ruttare petrolio,
tra scienziati così sapienti da saper inventare
bombe capaci di far scricchiolare
tutta la terra;
nel paese tanto ricco
che la gente vi perde le mani
ma vi trova la droga
(e la gente spia
l'attimo in cui finalmente
può rilassarsi a ridere);
nel paese tanto ricco d'invenzioni
che ormai vi è inutile pensare
o pericoloso
(il suo uomo più buono
lavora a organizzare i miserabili
per conquistare il pane e una baracca per
ambulatorio,
tenendosi sul tavolo l'effige
del ricco più potente);
nel paese tanto ricco di democrazia
che metà del suo popolo
stima inutile andare a votare
(e chi vota, come vota? );
mentre fioriscono lager
per la gente di pelle più oscura
i ragazzi irrequieti, i grandi
irrequieti che non vogliono essere assassini;
in questo paese tanto ricco - si sa,
consuma più del 50 per cento
delle risorse del mondo,
col 6 per cento di popolazione - :
Urge imparare
dal trovarsi davanti realizzati
sogni prima creduti troppo belli
per esser veri,
a immaginare l'alto bosco mentre
pianti eucalipti nella terra arsigna;
e dal geranio :
se gli spacchi le braccia in monconi
infilando ogni stocco nella terra –
ricresce tenero il cespuglio padre,
si radicano i figli acri inverdendo.
Costruendo, l'uomo si costruisce.
La città nuova inizia ove la terra respira,
ove ognuno respira
poesia - antenna miccia cantiere avvertito la terra può schiantarsi
invetrando cancrene.
Ti aspettavamo al tuo posto:
e all'estremo momento non c'eri.
Quando insieme si tenta di alzare
una trave pesante
pericoloso è fingere
di forzare con gli altri:
o ti impegni con tutti come puoi
o avvisi chiaramente e te ne vai.
Danilo Dolci, Poema umano, Torino : Einaudi, 1974,
pp. 162-163.e p.178
se chiedo a ciascuno di voi
amici capelloni semplici
o a voi capelloni di lusso,
quali sono gli sprechi più assurdi nel vostro paese,
siete sicuri di saper rispondere
esattamente?
Se chiedo a ciascuno di voi
che sogna di cambiare la vita sulla terra
come si forma il mostro del potere
lì, proprio lì, dove vivete,
siete sicuri di sapervi rispondere
esattamente?
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Poesia in Progress
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DA UNA STAZIONE ALL'ALTRA di
Attilio Lolini
Luigi Di Ruscio
Per colazione hanno acqua e pane
bevono molta acqua
il quintaelementare ingegnere onoriscausa
a saliva che hanno devono sputarla sulle mani
(che si è fatto da sé)
perché il martello non scivoli
(venuto su dal nulla)
a mezzogiorno mettono nel brodo d’erbe
apre la nuova fabbrica
il solito pane nero
elettrodomestica
al coprirsi del sole se io sono pieno di malinconia
per loro è bello tornarsene a casa ridendo
sedersi in famiglia giocare con i figli
dopo dieci ore di lavoro sulle pietre
per quel poco pane e perché la moglie
ministro in vista (moro)
per i cazzabubboli
di carosello
continui a fare per ultimo il piatto
e l'arcivescovo
perché a nessuno manchi la parte.
a benedire le macchine
acqua benedetta selz
Le ore sei sono l’inizio della nostra giornata
ti spruzza questo
noi siamo l’inizio di tutti i giorni
inizia il giro delle ore sulla trafilatrice
che mi aspetta con la bocca spalancata
operai tute bianche in vista
inizia la mia danza il mio spettacolo
il tricolore sta benissimo
in certe ore entra nel reparto una chiazza di sole
sulle buzze
e lo sporco nostro è schiarito come nelle immagini
dei sindaci di sinistra
dei santi
rubo il tempo per una fumata che raspa nella gola
discorso ufficiale
spio i minuti sul quadrante dal grande occhio
non va per niente male
e tutto ad un tratto ci scuote l’urlo della sirena
ci attende il riposo per la sveglia di domani
la suoneria che entra dentro i sogni esplodendoli
ed ecco un nuovo giorno della mia esistenza
con l’allegria fuori della mia ragione.
Luigi Di Ruscio Poesie operaie, Roma : Ediesse, 2007
rinfresco democratico
gli operai tute bianche
hanno un tavolo a parte
Attilio Lolini, Notizie dalla necropoli 1974-2004,
Torino : Einaudi, 2005.
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Cesare Pavese
La fabbrica illuminata
Questa città mi ha vinto, come un mare.
Musica di Luigi Nono, testo di Giuliano Scabia, e
un frammento da "Due poesie a. T" di Cesare
Pavese; dedicata agli operai della ItalsiderCornigliano
Non è più il cielo quel vuoto lontano
che appare tra le case,
ma il peso della pietra che strapiomba.
Le strade nere o piene di fragore,
dove la folla è forza che sommerge,
si aprono come abissi.
Io mai comprenderò
che sia questa torsione d'ogni spirito,
questa fatica folle,
che ogni giorno riprende sui miei passi
all'apparire delle case enormi
e al ruggito confuso, all'impazzire
di uomini e di luci nella notte.
Mai lo comprenderò,
se non forse sia il vano struggimento
di sentirmi nel petto
la stessa forza salda e irresistibile.
Se questo è il desiderio
mi son soltanto infranto,
ho combattuto solo per piegarmi
sopra il corpo distrutto.
E sulla mia sconfitta
contemplo uscire un gran combattimento,
due forze sovrumane.
Per le alte strade,
all'ora del crepuscolo giù dal cielo infiammato,
un vento che discende sulle luci
già accese, e le tormenta e trasfigura
coi vetri, colle pietre.
Come raffiche in mare, su uno scoglio.
[28 aprile 1929]
II fango è nell'aria di pioggia
come tra l'erba del fiume.
Nella penembra le finestre velano
le luci trepidanti d'umidità.
Anche i camini delle fabbriche
ne sono impregnati e sporchi.
L'unico brivido puro
è la freschezza del vento
dalle bagnate lontananze.
[9 marzo 1928]
1. fabbrica dei morti la chiamavano
esposizione operaia
a ustioni
a esalazioni nocive
a gran masse di acciaio fuso
esposizione operaia
a elevatissime temperature
su otto ore solo due ne intasca l'operaio
esposizione operaia
a materiali proiettati
relazioni umane per accelerare i tempi
esposizione operaia
a cadute
a luci abbaglianti
a corrente ad alta tensione
quanti MINUTI-UOMO per morire?
2. e non si fermano MANI di aggredire
ININTERROTTI che vuota le ore
al CORPO nuda afferrano
quadranti, visi: e non si fermano
guardano GUARDANO occhi fissi : occhi
mani
sera giro del letto
tutte le mie notti ma aridi orgasmi
TUTTA la citta dai morti VIVI
noi continuamente PROTESTE
la folla cresce parla del MORTO
la cabina detta TOMBA
tagliano i tempi
fabbrica come lager
UCCISI
3. passeranno i mattini
passeranno le angosce
non sarà così sempre
ritroverai qualcosa
(Testo reperito in Internet:
Cesare Pavese, Le poesie, Torino : Einaudi, 1998.
http://www.cini.it/italiano/04attivita/laportasulretro/porta43.html)
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Sergio Solmi
Giovanni Giudici
« Dal balcone »
INVERNO A TORINO
Letteratura e industria
III.
Per pochi mesi, nel cinquantotto.
Avevo casa verso Mirafìori:
mi dava la sveglia al mattino
sotto le mie finestre l'assalto dei motori.
In quell'inverno m'incontrò uno sguardo
severo e cittadino:
con vergogna scoprii ch'ero in ritardo,
a capo chino
- e nitide tutte le cose,
nere le fabbriche, assenti
i lamenti, le rondini, le rose...
Ansioso ogni volta
a spiarla, a sorprenderla,
dall'auto, dal treno, dal pullmann,
l'apparizione notturna,
le elitre crudeli d'insetto gigante,
picchiettate di luci
multicolori, trasvolate
da globi di fumo, irte
di bandiere di fiamma
della « Condor ».
Ci vedo come un simbolo
ambiguo
di questa età convulsa:
altri mi dica se indizio
di sconfinato avvenire o di fine, di vita
o di morte per l'uomo. Ma al solo
insorgere improvviso sulla piana
oscurata dei suoi
incandescenti scheletri in travaglio,
al pungermi le nari
il suo tanfo di elettrica putredine,
più vivace sobbalza il mio cuore che a vista
di odorate colline, di beati
specchi d'acqua tra boschi.
Un emblema
del paesaggio mio, del paesaggio
che ha cominciato a crescere
con me dentro i miei anni, in cui vivo,
in cui muoio
IV.
Le guide turistiche non parlano
dell'O ESSE ERRE di corso Peschiera:
fra tante nere fabbriche la più nera,
mi disse un vecchio riformista.
«In altri modi si manda in galera
chi è troppo comunista:
l'Officina Speciale Ricambi è uno.
Non si può visitare. Non insista».
Giovanni Giudici, Prove del teatro, 1953-1988, Torino
: Einaudi, 1989
(1962)
Sergio Solmi, Poesie, Milano . Mondadori, 1978, pp.
87-88
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Luciano Cecchinel
Da VIRTÙ VIZIOSE (2003) di Raffaele Crovi
BLUES
IX
vecchio dell'acciaio
È razionale ti chiedi,
il rispetto del reale
o la proiezione
di uno schema mentale ?
Per te, in ogni caso, è ragionevole
quel che ti serve
e, in quanto tale,
è buono e utile
anche se contro le regole.
Attribuisci la razionalità,
meccanica perfezione,
alle macchine:
all'uomo riservi il diritto
di onorare il superfluo
e ciò che è futile.
(nell'afa di luglio)
via, via dallo stridore
della fucina di cicale !
poter sputare
il frastuono dell'acciaio come bile
in un giorno rovente come inferno...
ma sopra lo stomaco il cuore
acceso assordante altoforno
ah, via dalle cicale
in gran stridore,
tornati da ogni suolo,
sono gli andati compagni dell'acciaio
che hanno preso a fondere, a colare
su nelle fucine del ciclo
scoperchiato dell'Ohio
Raffaele Crovi, La vita sopravvissuta, Torino :
Einaudi, 2007, p. 121
Luciano Cecchinel, Lungo la traccia, Torino : Einaudi,
2005, p.23
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Inediti
Domenico Diaferia
Luca Guglielminetti
Le morti bianche
PROPOSITI (CHEZ VAN GOGH)
Le chiamano “morti bianche”
quelle dei caduti sui campi
di battaglia dei padroni
(hanno ancora questo nome?)
bell’eufemismo ad addolcire
lo strazio della morte sorellastra
non invitata alla festa di famiglia
bianche come camicie linde
nei lindi uffici della competizione
e dello sfruttamento terracqueo
degli schiavi nuovi
bianche come le coscienze anonime
riciclate e ripulite nelle
banche insieme ai soldi sporchi
bianche come i candidati
candidi delegati in Parlamento
castellani impotenti o conniventi,
a difesa di chi?
Ma rosso è il sangue
di chi versa sulla terra
indifferente, qualunque sia
il colore della pelle
Rossa è la rabbia di chi
non ha più bandiere per marciare
- era rossa una tempo, ricordi? -
Elemosinando
Erti bordeggiamo
Vicoli dismessi e
Vivi di rifiuti
Per bonifica da oblio.
Con lingua caprina
A carponi in terra
Scaviamo sub archeologie
D’industrie pese
Per individuare che?
O non alternative,
Ossa parentali
Sotto dinosauri
Di cemento verde rivestiti:
Che il ponte d’Arles risorga
Chetando quesiti d’ossimoro
D’affrontare con perizia
D’una sol’ vita!
Prima dell’immersione
Nell’eco artificiale
D’una morte biancastra,
Vorremmo intravedere
Almeno ancora Vincent:
Il fremito dei semi
Intatti di lillà
E girasoli gialli.
[MARZO 2004 - GENNAIO 2008]
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LA POESIA SOSPESA TRA LA CITTA’FABBRICA E LA FABBRICA DELLA
CULTURA
di Alessandro Novellini
Letteratura e Industria
Non sono molte le opere in prosa o in poesia che
abbiano come tema o come sfondo il lavoro e la realtà
industriale.
Un tentativo interessante lo aveva fatto Elio Vittorini
con la rivista Il Politecnico e, più tardi, nel 1961, con Il
Menabò, edito da Einaudi, che ospitava una serie di
racconti, poesie, saggi per lo più inediti aventi per tema
Letteratura e Industria, i cui autori più significativi
erano (cito dal n. 4 del Menabò):
Ottiero Ottieri, con Taccuino industriale: esperienza
diaristica in prosa di una realtà industriale in
Lombardia. Altre opere di Ottieni, sempre sul tema,
sono state: Tempi stretti, sulla Milano industriale del
secondo dopoguerra e Donnarumma all’assalto, che
narra la sua esperienza come dirigente del personale
alla Olivetti di Pozzuoli, con la descrizione della prima
calata al Sud delle industrie del Nord;
Lamberto Pignotti con L’uomo di qualità (forse in
riferimento letterario all’opera ben nota di Musil,
L’uomo senza qualità): 31 composizioni poetiche di
stile ermetico-realista (cito alcuni titoli: Gli interessi
del capitale, Il supersfruttamento, La religione della
tecnica, Il presente futuro) in cui l’organizzazione
industriale è trattata in sottordine all’espressione
letterario-esistenziale;
Vittorio Sereni che, con Una visita in fabbrica,
racconta con una lunga poesia prosastico-discorsiva la
sua visita guidata allo stabilimento Pirelli-Bicocca di
Milano;
Luigi Davì, con Il capolavoro, un lungo racconto
autobiografico (Davì è stato in gioventù operaio
tornitore) sull’esecuzione del capolavoro di
aggiustaggio in una grande fabbrica ci dà una
descrizione realistica della situazione politica e
sociologica dell’ambiente operaio torinese. Davì, edito
da Einaudi, ha pubblicato anche altro racconti di
carattere industriale, raccolti in 3 volumi: Gimkana
Cross, L’aria che respiri, Il vello d’oro;
Vittorini, sul n. 5 del Menabò, continuò il dibattito su
letteratura e industria con interventi di G. Bragantin,
Italo Calvino, Giansiro Ferrata, Marco Forti, Franco
Fortini.
Ma il dibattito si sfilacciò in seguito su questioni
letterarie , con gli autori bene assestati nelle loro idee e
nei loro corporativismi, cosicché tutto si esaurì presto
in fumosità specialistiche e le buone intenzioni di
Vittorini, che era un po’ un fuorilegge nel panorama
letterario italiano, vennero presto ridimensionate.
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Il mondo letterario ufficiale italiano era troppo
impregnato di letteratura classica e umanistica per
poter rivolgere ai rapporti fra Letteratura e Industria
l’attenzione che meritavano. Chiaramente, questa non
era cosa per loro.
Dopo il tentativo, comunque meritorio, di Vittorini, la
questione Letteratura e Industria venne rapidamente
chiusa e i successivi Menabò (ne escono altri cinque) si
occuparono di ricerche poetiche, di letteratura come
storiografia o di sociologia nella letteratura.
I letterati ritornarono ai loro prediletti giardini del
Parnaso e i tornitori a fare il loro mestiere, certamente
più utile.
2.
Ci vorranno successivamente altri scrittori, come
Giovanni Arpino, Primo Levi, Paolo Volponi, per
mettere in auge con le loro opere i rapporti tra
Letteratura e Industria.
Arpino tentò con il romanzo Una nuvola d’ira, edito da
Mondatori nel 1962, di darci un quadro della vita
operaia torinese attraverso il dramma antico
dell’amore-gelosia, con i personaggi emblematici, tutti
operai, di Matteo, Angelo e Sperata,una Dona Flor di
periferia con i suoi “due mariti”, che si esprimono in un
linguaggio tecnico-popolare-gergale, immersi in un
contesto politico-ideologico di sinistra, con la tragedia
finale del suicidio dell’uomo più anziano, l’operaio
Matteo, che si butta con la moto giù da una scarpata
sulle colline delle Langhe.
Primo Levi, da autore individualista fuori dagli
ancoraggi letterari, chimico-industriale, come si
definiva, secondo la sua prima e più importante
professione, ci ha dato, con La chiave a stella, la storia
di Tino Faussone, operaio artigiano di ceppo
piemontese, libero e sicuro della propria esperienza e
capacità di lavoro, che se ne va per il mondo ad
eseguire montaggi di tralicci industriali. Faussone (e
per lui Primo Levi) vede e sa riconoscere la realtà, il
conflitto fra chi comanda e chi esegue, ma come un
arcangelo operoso si innalza tra i suoi tubi metallici,
fissa putrelle, serra dadi e bulloni, salda lamiere e
longaroni, effettua giunzioni e collegamenti, prova e
collauda valvole e tenute. Il suo linguaggio italo-anglopiemontese si fa capire grazie alla meticolosità e
all’intelligenza dell’operatore anche nei Paesi più
lontani Il libro di Levi, come scrive nella prefazione
Corrado Stajano, è una sorta di odissea contemporanea
e il protagonista è una specie di Ulisse che dall’India
alla Russia, dall’Alaska all’Africa, gira con la sua
chiave a stella ad alzare con i suoi tralicci un altro
monumento, quello della moralità del lavoro.
Paolo Volponi ci ha dato con il suo romanzo
Memoriale, edito da Garzanti, ambientato tra le colline
del Canavese, di carattere prettamente industriale
moderno, un capolavoro anche letterario.
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E’ la storia di Albino Saluggia, un operaio dell’Olivetti
di Ivrea negli anni ’50-’60, al culmine del progresso
industriale, che nella sua qualità di uomo subalterno,
provato dalla guerra e dalla prigionia, incerto,
disadattato ed estraneo all’ambiente in cui opera,
rappresenta emblematicamente l’estraniamento della
classe operaia privata di ogni potere decisionale, anche
là dove le relazioni umane, come alla Olivetti,
sembrano essere più democratiche.
Ritornato dalla guerra e dalla prigionia in Germania e
residente con la madre a Candia, sulle rive del lago, a
pochi chilometri dalla grande fabbrica, viene assunto
come operaio generico dopo un breve tirocinio, aspetta
a lungo e invano l’aumento di qualifica e il passaggio
di categoria, comincia a credere di avere intorno a sé
solo nemici, si lascia andare a una crisi depressiva,
partecipa agli scioperi contro lo sfruttamento, rimedia
una sospensione dal lavoro e una lettera di
licenziamento. Quindi ritorna a casa, al suo orto, per
lasciarsi morire sulle colline intorno al lago. Ha capito
che nessuno lo può aiutare.
Volponi., come dirigente a Ivrea delle relazioni con il
personale, conosceva bene la realtà industriale
moderna, fatta di conflitti sociali e di sfruttamento,
anche se mascherata dalle tecniche più sofisticate
preparate dagli uffici Tempi e Metodi e volute dalla
Direzione. Più tardi, nominato direttore della
Fondazione Agnelli a Torino, cercò di far valere le sue
idee progressiste e di promozione sociale di fronte alla
legge del profitto instaurata dalla Fiat, idee bene
espresse nella sua raccolta poetica Con testo a fronte,
che non collimavano evidentemente con quelle della
Direzione della Fiat e della Fondazione, da cui fu
allontanato senza troppi riguardi.
Nella poesia La deviazione operaia, tratta dall’opera
Testo a fronte, Volponi bene definisce il concetto di “d
minuscola” intesa come deviazione dalla norma e come
forma di resistenza operaia allo sfruttamento scientifico
del lavoro:
3.
…
d compare sempre a lato
tremante su tutti i dati richiesti
come indice della deviazione
operaia dalla norma e dai testi;
d deviazione involontaria, fatica, disattenzione
e d deviazione volontaria: espedienti, pretesti
di conflitto, opposizione …
In fabbrica si definiscono, si incasellano, si schedano
e poi si ammoniscono e infine si licenziano gli elementi
operai K1, K2, K3, ciascuno con le sue peculiarità.
…
Non sia mai
che un K3 abbia la libertà
di circolare fra molti operai …
Volponi ha creato le sue poesie sulla fabbrica traendole
principalmente come ispirazione dall’opera dello
psicologo Cesare Musatti Ricerche sui temi
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dell’organizzazione del lavoro – Studio sui tempi di
cottimo di un’azienda metalmeccanica, frutto di una
ricerca condotta alla Olivetti per conto dell’Azienda.
Il capitolo II del lavoro di Musatti parla di tempo
minimo e tempo medio, mentre il capitolo III accenna
alla deviazione (d) e al coefficiente di correzione del
tempo minimo. Il capitolo VI parla della
determinazione del TC (tempo di cottimo) e del
sistema salariale. Musatti ha cura di affermare in una
nota che la sua ricerca si è svolta nell’estate del ’43,
durante la guerra, nel momento in cui le condizioni
generali del Paese stavano diventando particolarmente
critiche. Per tale motivo il progetto, presentato alla
Direzione generale dell’Ufficio Tempi e Metodi per
una riduzione del numero delle ore lavorative,
congiunta a un ritocco della curva dei cottimi elevante
la percentuale remunerativa, non ebbe possibilità di
successo. Più tardi, alla Olivetti, la retribuzione
aumentò progressivamente con l’aumento del numero
di macchine da scrivere che uscivano dalla linea. La
consuetudine comportava il raggiungimento del 96%
della produzione. La Commissione interna ottenne un
più forte incremento del premio di uniformità per i
punti di cottimo a partire dal 92%.
Con Volponi si entra nel vivo e in modo coinvolgente
nei rapporti tra Letteratura e Industria, abbandonando
sofisticazioni letterarie e paraventi di comodo.
Il suo esempio di partecipazione civile e politica (fu
eletto come senatore per il Collegio di Macerata nelle
file del PCI) ci fa capire quanto siano vicini letteratura
e impegno sociale, senza afflati retorici, ma puntando
sul reale espresso in forma poetica.
Esempi di letteratura relativi all’industria sono i
reportages diretti degli operai della Fiat esiliati da
Valletta alla O.S.R. di Torino (Officina Sussidiaria
Ricambi), diventata poi nel linguaggio corrente
torinese Officina Stella Rossa, raccolti nel volume Fiat
Confino, a cura di Aris Accornero, edizioni Avanti
1959, che hanno dato un valido contributo alla
conoscenza della condizione operaia in Italia, dando
origine più tardi al documento legislativo conosciuto
come lo Statuto dei Lavoratori.
Un’altra voce che si può allineare a pieno diritto nei
rapporti tra letteratura e industria, non fosse altro che
per le posizioni rivestite nella società torinese, è quella
di Walter Mandelli, dapprima dirigente del PCI, poi
segretario della Federmeccanica, che ha pubblicato il
libro Ricordi di fonderia, edito da Marsilio. E’ un libro
autobiografico interessante e che bene rispecchia, per
l’ambigua personalità del protagonista, la vita operaia
torinese negli anni del secondo dopoguerra.
4.
Fa parte integrante del libro una memoria biografica
scritta da Mandelli su suo padre Giovanni, dirigente
Fiom negli anni del primo dopoguerra, e poi
imprenditore in proprio, che considero una
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delle più valide descrizioni del trapasso dal mondo
contadino del nord Italia alla società imprenditoriale
moderna.
Dopo Volponi, non vedo altri autori italiani di valore
impegnati particolarmente nel rapporto letteratura e
industria. Si può citare Aldo Busi con il suo romanzo
Diario di un venditore di collants, un quadro ironico e
veritiero del miracolo industriale nel nord-est d’Italia,
vero paradigma dell’attuale società italiana, arrivista e
senza scrupoli.
Ultimo, ma non minore, il romanzo allegorico di
Oddone Camerana Il Centenario (si riferisce al
Centenario della fondazione della Fiat – 1899-1999),
edito da Baldini e Castoldi che narra, come dice la
fascetta, una vicenda ambientata tra le macerie del
capitalismo, grottesca e corrosiva, nel linguaggio
stereotipato dei managers, che raggiunge
effetti
esilaranti degni di Carlo Emilio Gadda.
Come esempio di rapporto tra industria e letteratura
citerei ancora il libro dell’ing. Giorgio Garuzzo, Fiat,
i segreti di un’epoca - edito da Fazi Editore, con la
prefazione
di
Alain
Friedman,
giornalista
dell’Economist, che ci dà uno spaccato della storia
della Fiat dagli anni ’70 alla fine degli anni ’90, vista
da uno dei protagonisti. L’ing. Garuzzo, ricordiamolo,
è stato per un certo tempo il numero 4 della dirigenza
della Fiat.
E amerei ricordare, con riferimento alla letteratura in
lingua piemontese, un poeta-operaio, Luigi Valsoano,
nato a Pont Canavese nel 1862 e morto a Torino nel
1906, di professione meccanico.
Egli ci ha lasciato una piccola raccolta di rime
piemontesi intitolata Fior del pavé. L’autore lavorò in
Piemonte e poi emigrò in cerca di lavoro in Svizzera a
La-Chaux-de-Fonds e poi a Liegi. Una delle sue
poesie, pubblicate alla fine dell’800 sulla rivista
Birichin, dal titolo Ij ciminieje (Le ciminiere), che
ricorda i primi scioperi nelle industrie tessili, è
diventata una famosa canzone cantata nei cori dei
circoli operai:
Guarda giù, an cola pianura,
ij cimineje fan pa pì fum
ij padron dla gran paura
as fan goerné da coj die lum. *
* coj die lum: così erano chiamati i carabinieri per il
cappello a tricorno che ricordava un abatjour.
Circolo dei lettori: incontro del 24 gennaio 2008
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Il sarto dimenticato
Era nato in campagna, a novembre, in un paese della Bassa
Langa e la sua mamma, che non poteva permetterselo, oltre ai cinque
che già aveva, dopo due anni di sofferenze lo affidò alla sorella
che viveva in città e faceva la modista.
Viveva questa in una camera che si affacciava su un balcone da
cui poteva contemplare il fiume e il gazometro. Il balcone era il
punto di incontro e di passaggio perché al fondo di esso, dentro
una specie di scatola di legno con le persiane sul cortile ci stava
il comodo. Sul balcone non si poteva giocare perché si dava
fastidio e allora ben presto ci fu il cortile e la strada. E a poco
a poco la strada divenne la sua vera casa. Senza un’idea di cosa
fosse una famiglia, e intorno a quella strada che costeggiava il
fiume, Giovanni passò tutti gli anni della sua fanciullezza
sognando una grande vita di fronte a sé, ma intorno c’era solo e
sempre un denso odore di cavoli che impregnava come una nebbia
feltri e chiffon, e per terra c’erano sempre spilli e fili
imbrogliati.
E proprio questi fili diventarono il suo modello di vita da
cui voleva sbrogliarsi. E sentiva sempre più orrore per quel lavoro
che la zia vedeva come un ideale. Un giorno la zia incontrò don
Mario, che ogni tanto passava per quei cortili ed ebbe l’offerta di
accogliere Giovanni nella scuola per sarti che avevano appena
aperto nel nuovo capannone della basse.
− Non si tratta di pregare e neppure di diventare prete,
vedrai che avrai tempo di giocare al pallone, con tanti amici. –
Ma Giovanni si vergognava di diventare anche lui un operaio
del ditale e non accettò. E continuò a sognare, a correre sul
balcone e ad azzuffarsi con gli amici. Ma la zia un giorno si
innamorò di unn carabiniere e lo seguì fino in Sicilia, senza
neppure sposarlo. Giovanni restò solo. A casa non poteva tornare e
lo prese una vita rude di strada e di portoni, finché fu estate.
In autunno, con i primi freddi riuscì a trovare un letto caldo
da Clotilde ma fu per poco perché anche quello presto fu occupato.
Gli parve così che gli anni gli sfuggissero di mano e in giorno,
imbattutosi in don Mario, si vide costretto ad accettare
l’umiliazione di quella scuola professionale che aveva come unico
pregio la partita di pallone al sabato pomeriggio, dopo il
catechismo e prima dei vespri.
Ago e filo tra i denti, un grembiule grigio rimboccato alla
vita, le ciabatte a terra vicino allo sgabello. Giovanni e i suoi
compagni lavoravano seduti, grignà, su dei tavoloni che li
sollevavano dall’umido pavimento, di un mezzo metro. Senza sedie,
senza deschetto. Nei primi mesi, poiché imparava anche un po’ a
scrivere e a far di conto, pensò di contare il numero di punti che
faceva e sfidava se stesso giorno dopo giorno a superarsi, in
quantità e in bravura. E vinceva sempre se stesso e gli altri
trovando nel lavoro quella felicità che aveva assaggiato soltanto
affondando la testa tra le lenzuola e i seni caldi e morbidi di
Clotilde.
Il diploma sarebbe arrivato a giugno e poi ci sarebbe stato il
punto di domanda di che cosa fare, di come strappare al suo futuro
un po’ di speranza. Ma era impotente e sembrava un rottame
dimenticato nella secca di un fiume. Già si sentivano i rumori di
guerra, già i preti che erano anche maestri avevano incominciato a
far cucire bandiere tricolori e coccarde. Ed era spossato da quella
infatuazione di amore di patria.
La guerra scoppiò troppo presto e Giovanni era troppo giovane
per essere chiamato. Fu così che venne costretto ad entrare come
operaio nell’Opificio, nel borgo del fumo. Là si cucivano le divise
dei soldati…
(Frammento ritrovato tra le carte consegnate da Cesare Pavese a
Francesco Barone assieme ai programmi di Italiano presso l’Istituto
Margara di Torino, dove entrambi insegnarono per qualche tempo, nella
seconda metà degli anni ’40.)