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Omelia di Mons. Alceste Catella
Vescovo di Casale Monferrato (AL)
per la Solennità del SS.mo Corpo e Sangue di Cristo
26 maggio 2016
“Smettere di fare calcoli e tornare a fare Eucaristia”: è la felice espressione posta a titolo
dell’ultimo paragrafo della lettera di invito al quinto Convegno Ecclesiale Nazionale che si è svolto
a Firenze nel novembre del 2015. Si direbbe che quel “nuovo umanesimo in Gesù Cristo” su cui
riflettere onde proporlo qual progetto di vita alle sorelle e ai fratelli in ricerca di senso per la loro
vita, consista esattamente nell’accedere di nuovo e sempre alla “logica del dono” lasciando quella
del “fare calcoli”. E non è propriamente la natura di dono a identificare la celebrazione eucaristica?
E la misericordia non è esattamente il donarsi di Dio in Gesù Cristo? E la partecipazione a questo
dono non esige quotidiana conversione dal “far calcoli” all’amore, al dono, alla misericordia?
Il secolo che sta alle nostre spalle è stato sotto molti aspetti un secolo terribile, colmo di guerre,
sopraffazioni, violenze, stermini, tragedie…; di fronte a tutto questo a molti riesce difficile parlare
di un Dio onnipotente e nello stesso tempo giusto e misericordioso. Dov’era e dov’è Dio, quando
tutte queste cose succedevano e succedono? Perché permette tutto questo? Tutta l’ingiusta
sofferenza – così ci si domanda – non è l’argomento più forte contro un Dio che è onnipotente e
misericordioso?; l’unica scusante per Dio sarebbe il fatto – così è stato detto – che egli non esiste
(così si esprime Stendhal)1.
Eppure – proprio questa situazione – esige di riflettere non solo sull’interrogativo “esiste Dio?”, per
quanto importante esso sia, ma sul Dio benigno, sul Dio “ricco di misericordia (Ef 2,4), sul Dio che
ci consola affinché possiamo a nostra volta consolare altri (2Cor 1,3s.)2.
Non vi sembra che Papa Francesco – nel suo magistero e con il suo stile pastorale – abbia assunto
proprio questo impegno come cifra sintetica del suo pontificato?
Riascoltiamo le sue parole:
«La Chiesa “in uscita” è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle
periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte
è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o
rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte è come il
padre del figlio prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando ritornerà possa entrare senza
difficoltà.
La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre. Uno dei segni concreti di questa
apertura è avere dappertutto chiese con le porte aperte. […] Ma ci sono altre porte che neppure si
devono chiudere. Tutti possono partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, tutti possono far
parte della comunità, e nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione
qualsiasi. Questo vale soprattutto quando si tratta del sacramento che è la “porta”, il Battesimo.
L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti
ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli». (Evangelii Gaudium, Esortazione Apostolica
del Santo Padre Francesco; nn. 46-47).
E come dimenticare, il magistero di papa Benedetto XVI:
«Sacramento della carità, la Santissima Eucaristia è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso,
rivelandoci l'amore infinito di Dio per ogni uomo. In questo mirabile Sacramento si manifesta
l'amore «più grande», quello che spinge a «dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Gesù, infatti,
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Walter Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana (= Giornale di
teologia, 361) Editrice Queriniana, Brescia 2013, pp. 7-8.
Walter Kasper, Misericordia, cit. pp. 12-14
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«li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Con questa espressione, l’Evangelista introduce il gesto di infinita
umiltà da Lui compiuto: prima di morire sulla croce per noi, messosi un asciugatoio attorno ai
fianchi, Egli lava i piedi ai suoi discepoli. Allo stesso modo, Gesù nel Sacramento eucaristico
continua ad amarci «fino alla fine», fino al dono del suo corpo e del suo sangue. Quale stupore deve
aver preso il cuore degli Apostoli di fronte ai gesti e alle parole del Signore durante quella Cena!
Quale meraviglia deve suscitare anche nel nostro cuore il Mistero eucaristico!...
La prima realtà della fede eucaristica è il mistero stesso di Dio, amore trinitario. Nel dialogo di
Gesù con Nicodemo, troviamo un’espressione illuminante a questo proposito: «Dio ha tanto amato
il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita
eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi
per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). Queste parole mostrano la radice ultima del dono di Dio. Gesù
nell’Eucaristia dà non «qualche cosa» ma se stesso; egli offre il suo corpo e versa il suo sangue. In
tal modo dona la totalità della propria esistenza, rivelando la fonte originaria di questo amore. Egli è
l’eterno Figlio dato per noi dal Padre. Nel Vangelo ascoltiamo ancora Gesù che, dopo aver sfamato
la moltitudine con la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ai suoi interlocutori che lo avevano
seguito fino alla sinagoga di Cafarnao, dice: «Il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il
pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv 6,32-33), ed arriva ad
identificare se stesso, la propria carne e il proprio sangue, con quel pane: «Io sono il pane vivo,
disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne
per la vita del mondo» (Gv 6,51). Gesù si manifesta così come il pane della vita, che l’eterno Padre
dona agli uomini». (Sacramentum Caritatis, Esortazione Apostolica del Santo Padre Benedetto
XVI, nn. 1.7).
La fede, carissimi, intesa in senso pieno ed ampio, come dono di Dio all’uomo che lo accoglie,
dono di Dio attraverso il quale l’uomo diventa in grado di acquisire una rinnovata visione del
mondo, apre l’orizzonte degli spazi specifici di quella carità che poi la liturgia celebra.
Quando noi comprendiamo bene che cos’è la fede, ci accorgiamo che la fede è appunto quel dono di
Dio che, accolto, deve rendere l’uomo capace di aprire il suo mondo, la sua mente, la sua visione, i
propri spazi concreti di esistenza, a vivere una dimensione che si chiama la carità e che questa
dimensione di vita originata dalla fede, non è una cosa a parte da ciò che la liturgia dichiara e
professa; in altri termini: se la fede è visione nuova e diversa del mondo, come spazio entro cui
amare, se questa fede si professa amando, questa fede in un Dio che è amore, e che ci impegna ad
amare, questa medesima fede io la professo anche quando celebro, celebrare non è “spazio fra
parentesi”, spazio a parte, universo a parte, è modalità speciale, specifica, di “dire la fede”.
Quale Dio ci propone a credere il cristianesimo? Di quale Dio la fede cristiana è testimone e
pubblica confessione? Perché la fede per sua natura non è qualcosa di intimo, di interiore; è
adesione al dono di Dio di tutta la persona, questa fede esige di essere testimonianza e di essere
pubblicamente confessata. Ma, dobbiamo anche chiederci: e la liturgia cristiana, a quale Dio
rimanda, a quale realtà divina rimanda? È proprio qui che la carità viene ad assumere il suo posto:
quello centrale.
La fede da credersi, da viversi e da celebrare, è unica e unitaria: credere in Dio che è amore,
significa vivere e celebrare (modalità diverse di testimonianza e di pubblica professione di fede in
Dio) Dio che è sempre uno, è sempre il medesimo; e se il Dio cristiano, il Dio che Cristo ci ha fatto
conoscere, ci ha rivelato, è questo Dio- Amore, anche nel celebrare occorre celebrare un Dio che è
amore. La liturgia -lo sappiamo- è specificatamente un celebrare; non è un puro pregare solitario e
privato, non è neppure un semplice pregare corale ad alta voce fatto di iniziativa umana; la liturgia è
presenza vera di Cristo, è memoriale, è il suo agire, il suo farsi presente; la sua grandezza e unicità
viene proprio da questa presenza reale di Lui, del suo Spirito che la liturgia diviene un vero e
proprio evento storico, pubblico, integrale, diventa una vera e propria manifestazione di Dio, un
vero e proprio proporsi di Dio alla nostra fede, un vero e proprio professare la fede da parte di
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quanti celebrano, di quanti partecipano alla liturgia.
Se davvero pensassimo che ogni atto celebrativo è rendere gloria, rendere grazie, e celebrare questo
Amore primo, questo Dio Padre da cui noi traiamo il nostro essere e il senso del nostro essere! Se
Lui è Padre noi siamo figli: allora siamo in una situazione di “relazionalità”, non siamo un oggetto,
siamo originati da un amore e dunque noi non siamo capibili come persone, se non nella luce della
relazione, della comunione, del rapporto, dell’amore, insomma.
Se la liturgia è professare un Dio che è amore, che ama, è professare la fede in un Dio che ci chiama
a essere totalmente in comunione di amore con Lui, allora la liturgia celebra l’impegno a lasciarci
coinvolgere nel grande processo dell’amore, in questa storia dell’amore. E la conclusione non può
che essere questa: se la liturgia è la convocazione dei cristiani, entro la quale e tramite la quale
“accadde” l’amore, se la liturgia è il dono, l’amare e il donarsi di Dio, essa non può non essere
anche convocazione dentro la quale e attraverso la quale si deve esprimere e attuare una risposta di
amore, da parte dei celebranti, perché essere là e celebrare un Dio che è Padre, un Dio che è amore,
cosa vuol dire?
Se professiamo il nostro essere figli amati dal Padre, dobbiamo anche professare e dichiarare di
essere figli che amano il Padre, nell’autenticità e concretezza dell’amore, e del servizio ai fratelli.
La liturgia, celebrando un Dio-Amore, non può non orientare, non ricondurre tutto l’universo
morale al suo centro, ma questo centro non è altro che il centro stesso di tutta la storia della
salvezza, l’amore divino. La liturgia, mentre celebra il nostro essere figli amati, deve anche
celebrare (= mostrare, dichiarare) il nostro essere figli che amano.
La “storia della salvezza” è la storia del “Dio in uscita”, del “Dio per”, del “Dio con”; la storia del
Dio che non fa calcoli, ma si fa “dono”; potremmo dire del “Dio che si pone a mensa, mangia con
l’uomo”. Se la Chiesa è, nella sua qualità di “corpo di Cristo”, sacramento della permanente
presenza efficace di Cristo nel mondo, essa è – come tale – “sacramento della misericordia”; e tutto
questo è possibile dirlo anche dell’Eucaristia che la Chiesa celebra in fedeltà al mandato del suo
Signore.
Dio, la tua misericordia è infinita,
senza limite la tua tenerezza:
accresci benigno la fede del popolo a te consacrato,
affinché tutti comprendano, con sapienza,
quale amore li ha creati,
quale sangue li ha redenti,
quale Spirito li ha rigenerati”.
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