(Perchè e come l`uomo celebra)

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(Perchè e come l`uomo celebra)
ANSELMO MORANDI
PERCHE’ L’UOMO CELEBRA?
Premessa
Il nostro Corso Base di liturgia parte da un interrogativo assai pertinente per noi oggi, ma che
avrebbe fatto sorridere – in quanto sarebbe stato totalmente fuori luogo – se posto ai cristiani vissuti
fino all’incirca al 1800. Per costoro, infatti, era spontaneo ritualizzare la propria vita e la propria
fede; per costoro l’esperienza religiosa era “naturalmente” l’esperienza celebrativa (rituale). Fede e
celebrazione costituivano un tutt’uno indisgiungibile.
Con l’avvento della modernità (illuminismo), il tratto rituale della fede è stato, per così dire,
“rimosso”, perché ritenuto, dalla mentalità razionalistica, caratterizzata da un concezione
fortemente individualistica dell’uomo, il lato debole della fede. Fondamentalmente, in parole molto
semplici, si ragionava in questi termini: il culto rituale nella vita di fede e ancor più nella riflessione
teologica ha un valore molto secondario, marginale. Ciò che conta nella vita di fede è “il mio
rapporto spirituale con Dio” - dove lo “spirituale” stava per “mentale” -, unitamente al
comportamento morale. Ciò che conta nella teologia è il pensare. Romano Guardini nella sua opera
più famosa Lo spirito della liturgia descrive molto bene l’incapacità dell’uomo moderno di
accedere al senso del rito: “l’uomo moderno vuole che la preghiera sia espressione immediata del
suo stato d’animo…Specie all’uomo moderno, che è così sensibile a tutto ciò che riguarda la vita
individuale e che dovunque cerca il profumo della terra ed ogni cosa guarda con tono personale,
proprio all’uomo moderno queste forme limpide (i riti) susciteranno facilmente l’impressione del
gelo”.
Al rito, per lo più, si attribuiva una funzione di “protestatio fidei”, cioè di essere semplicemente
segno esteriore in cui la fede si esprime.
Un’altra causa dell’eclissi della dimensione celebrativa nella vita di fede fu costituito dal modo
con cui dopo il concilio di Trento venne progressivamente intesa e vissuta la liturgia (per questo
punto il rimando è alla relazione storica); in particolare, il fenomeno della clericalizzazione della
liturgia allontanò decisamente il popolo di Dio dal culto ufficiale della Chiesa, il quale non costituì
più una dimensione cardine della sua esperienza di fede.
Il Movimento liturgico (il grande movimento di azione e di pensiero sviluppatesi dalla metà del
1800 dapprima nei grandi monasteri benedettini d’Europa e poi via via in altri ambienti vitali della
Chiesa che ha rilanciato la questione liturgica e ha preparato la riforma liturgica operata dal
Vaticano II) ha il grande merito di aver rilanciato la questione liturgica, cioè il senso e il valore
della liturgia nella vita di fede e nella teologia. Esso ha “reintegrato il rito” nell’esperienza di fede e
nella riflessione teologica. Del Movimento liturgico si parlerà nelle lezioni di storia della liturgia.
Qui mi limito a citare una frase di Odo Casel che per la sua chiarezza mi pare dica eloquentemente
come i grandi personaggi del Movimento liturgico intendessero la liturgia, il rito, in rapporto
all’esperienza di fede: “Una religione senza culto non è religione, ma solamente una visione del
mondo, uno stato d’animo”. Con la riforma liturgica promossa dal concilio Vaticano II, la
reintegrazione del rito nell’esperienza di fede è stata ulteriormente accelerata anche se, a giudizio
mio e soprattutto di molti esperti teologi della liturgia, il cammino da compiere per una piena e
condivisa reintegrazione della ritualità nella vita di fede e nella teologia è ancora lungo. Per questo
la domanda: “perché l’uomo celebra?” è del tutto pertinente e sta bene posta all’inizio di un Corso
di liturgia.
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Perché l’uomo celebra?
Questa domanda, pur pertinente, la trasformeremo via via in un’altra. Perché il cristiano celebra?
Questo passaggio da un soggetto a un altro lo facciamo fondamentalmente per ragioni di tempo. Il
soggetto “uomo” è molto più ampio rispetto al soggetto “cristiano” e ciò ci porterebbe molto
lontano nella riflessione, con il rischio, tra l’altro, di non aver poi più tempo per parlare
specificatamente del celebrare di noi cristiani. In ogni caso, la domanda “perché l’uomo celebra ?”
la terremo sullo sfondo della nostra riflessione.
Per rispondere alla domanda sopra ricordata dobbiamo anzitutto intenderci sul cosa è il celebrare.
Ai nostri giorni, le parole “celebrare” o “celebrazione” fanno parte di un linguaggio condiviso.
Vengono utilizzate tanto in ambito sportivo quanto in contesti politici, socioculturali ecc. Trovano il
loro pieno significato, tuttavia, in ambito religioso.
L’etimologia della parola “celebrare” rimanda al latino celebrare che significa “riunire molte
persone”. Indica, in senso proprio, l’atto di visitare spesso in folla un dato luogo, di andare
numerosi in un posto determinato.
Tale riunione di molte persone in un determinato posto avviene perché c’è un qualcosa che si vuole,
appunto, celebrare. Si può celebrare qualcuno: colui che per es. ha superato brillantemente un
esame o i membri di una squadra di calcio che hanno vinto un torneo. Si può celebrare un
avvenimento: per es. una ricorrenza storica, pensiamo alla solenne celebrazione per la ratifica della
Costituzione Europea, ma anche avvenimenti più modesti, come l’inaugurazione di una nuova
attività commerciale ecc. Celebrare dunque è onorare, glorificare, esaltare, o anche ripetere,
annunciare. Soprattutto celebrare è l’atto con cui l’uomo sottrae un evento al puro accadere
per attribuirgli un significato. Un evento non solo “è”, ma “significa” qualcosa.
In buona sostanza, si può dire che celebrare è un “linguaggio” proprio dell’uomo, una dimensione
in cui da sempre si esprime la sua umanità.
Ancora. Il celebrare rimanda immediatamente all’atto del “fare festa”. L’uomo ha bisogno di feste.
L’uomo cerca di superare il quotidiano della vita con un momento in cui esprime l’aspirazione più
profonda a “qualcosa d’altro”, in cui da voce agli interrogativi su ciò che lo oltrepassa e sfugge alla
sua comprensione. Ora, la festa è il momento in cui i nostri limiti sono sorpassati. Le regole
ordinarie sono volontariamente trasgredite, anche se ne intervengono altre; l’utopia e l’incoscienza
sono esaltate, anche se la realtà è sempre presente. La festa ci fa accedere a un altrove promesso,
sognato: la festa esprime l’aspirazione più profonda dell’uomo. In una parola, celebrando l’uomo
diventa protagonista, signore del suo tempo.
La celebrazione cristiana ha un po’ di tutto questo: noi, in un determinato giorno, ci riuniamo
numerosi, in un dato luogo. Questo aspetto del “riunirsi insieme” così fondamentale ha assunto
grande rilevanza soprattutto dopo il concilio Vaticano II, che nella liturgia ha dato risolutamente il
primo posto all’assemblea, all’ecclesia, soggetto integrale dell’azione liturgica ( a questo tema sarà
dedicata una lezione specifica). Questo riunirsi avviene per un motivo: Gesù Cristo. Nelle
celebrazioni cristiane ci si riunisce in nome di Gesù Cristo e si celebra Gesù Cristo. Più
precisamente celebriamo l’alleanza che Dio stringe oggi con il suo popolo, facendo memoria di un
avvenimento passato: la Pasqua (morte e risurrezione di Cristo). Per questo la celebrazione cristiana
è una festa, è la festa della perenne alleanza tra Dio e l’uomo sancita in Gesù Cristo. Per i cristiani,
celebrare non è più un atto mediante il quale l’uomo vuole ottenere i favori della divinità, come nei
culti pagani. E’ invece un atto nel quale Dio stesso si fa incontro al suo popolo. Per questo si dice
che la liturgia è azione di Cristo nell’azione della Chiesa.
Dopo aver a grandi linee tratteggiato “cosa è il celebrare”, torniamo alla domanda “Perché il
cristiano celebra?”. Cerchiamo la risposta a questa domanda dalla Bibbia, dalla Tradizione.
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1. Dalla Bibbia
Dobbiamo ammettere che la Bibbia, a tutta prima, non sembra aver nulla da dirci sul perché i
cristiani celebrano, poiché essa parla completamente immersa nell’orizzonte di una esperienza
ordinariamente e ovviamente cultuale. Per la sacra Scrittura è “ovvio” che il rapporto con il Dio di
Abramo, di Isacco e di Giacobbe, con il Dio di Mosè e con il Dio di Gesù Cristo debba passare
necessariamente attraverso il culto rituale. In altre parole potremmo anche dire così: per la Bibbia la
salvezza che viene da Dio non è mai solo annunciata e vissuta, ma anche sempre celebrata. Nei
confronti del nostro interrogativo, pertanto, l’approccio alla Bibbia non può essere quello alla
stregua di un dizionario e di un prontuario, proprio perché è essa stessa celebrazione.
Un solo fondamentale esempio. La Pasqua ebraica e la Pasqua cristiana.
L’uscita dall’Egitto è senza dubbio l’evento che predomina tra le pagine dell’AT, così da doversi
considerare il fulcro di tutta la prima economia salvifica. Infatti tale uscita segna la nascita dei figli
di Israele come popolo del Signore. Ora, l’evento dell’uscita dall’Egitto è presentato nella
narrazione dell’Esodo (12,1-14 leggere) sotto tre modalità, secondo un prima, un durante e un poi:
1. il momento rituale anticipatore: l’ultima cena in Egitto
2. gli atti storici del passaggio del Mar Rosso e dell’Alleanza al Sinai
3. questi eventi unici e irripetibili verranno riprodotti ritualmente ogni anno nella cena
pasquale
La domanda che sorge spontanea è questa: in che rapporto stanno l’ ultima cena con il passaggio del
Mare da parte degli israeliti e il rito memoriale? Guardiamo il testo. Il contesto dell’ultima cena in
Egitto rivela che l’espressione “il sangue sarà per voi quale segno” (Es 12,13) va riferita
all’efficacia del sangue inteso come segno di alleanza, e perciò come segno di appartenenza e di
protezione. Attraverso il sangue dell’agnello Israele viene dichiarato non più appartenente al
Faraone, cosicché, vedendo il segno del sangue, lo Sterminatore sarà costretto a “saltare sopra”
dalle case contrassegnate. Spargendo il sangue dell’agnello pasquale sulle porte delle case Israele,
anche se fisicamente si trova ancora in Egitto, nella mediazione profetica del segno realmente già ne
è uscito. Possiamo dire che nel segno dell’agnello pasquale Israele ha già passato il mare e dunque
che l’ultima cena in Egitto e il passaggio del mare sono congiunti a formare, pur nel rispetto della
peculiarità di ogni singolo momento, un unico e indivisibile intervento salvifico. Inoltre, attraverso
la ripetizione del rito memoriale (l’iterazione del segno dell’agnello) gli israeliti di ogni tempo
possono accedere all’evento fondatore (il passaggio del Mar Rosso) che rimane unico e irripetibile.
La stessa dinamica la troviamo nella Pasqua cristiana.
La morte di Gesù in croce e la sua risurrezione sono certamente l’evento centrale, costitutivo per la
Chiesa, il nuovo popolo di Israele. Ora, anche tale evento è presentato sotto tre modalità, secondo
un prima, un durante, un poi:
1. il momento rituale anticipatore: l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli
2. gli atti storici della morte e risurrezione di Cristo
3. questi eventi unici e irripetibili verranno riprodotti ritualmente ogni domenica nella
celebrazione eucaristica.
E’ chiaro che l’ultima cena pridie quam pateretur non può essere ridotta a un preliminare
cronachistico della morte-risurrezione. E’ anch’essa segno profetico legato indissolubilmente
all’evento fondatore. La morte e risurrezione di Gesù è teologicamente inconcepibile senza l’ultima
cena, così come il passaggio del mare rimane teologicamente inconcepibile senza l’ultima cena
della vigilia in Egitto. La celebrazione eucaristica, analogamente alla cena pasquale annuale
ebraica, è il modo con cui i cristiani di tutte le generazioni possono ritornare all’evento fondatore,
cioè la morte e risurrezione di Gesù. Essa è il rito memoriale con cui i cristiani possono immergersi
salvificamente nella pasqua di Cristo.
Conclusione: il rito è costitutivamente, intrinsecamente presente nella storia della salvezza della
antica e nuova alleanza.
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2. Dalla Tradizione
Questa domanda ci riporta a quanto dicevamo all’inizio sulla pertinenza dell’interrogativo: “perché
il cristiano celebra?”. Al di là delle diverse accentuazioni che hanno caratterizzato le diverse epoche
storiche, a cui abbiamo sopra accennato, la Tradizione ci consegna un dato incontrovertibile: fin
dalle origini la Chiesa ha sempre celebrato i sacramenti, ha sempre compiuto delle celebrazioni e,
proprio tramite queste celebrazioni, è stata posta in essere l’identità cristiana. Di più: si può dire che
la Chiesa stessa è nata dai sacramenti, e dunque questi ultimi sono in un certo qual modo
antecedenti la Chiesa. Ciò che di essenziale i cristiani hanno creduto è sempre stato nello stesso
tempo anche da loro celebrato. La salvezza non è mai solo stata creduta ma anche sempre celebrata.
In questa prospettiva, particolarmente significativo è il famoso adagio formulato da Prospero di
Aquitania, segretario di Papa Leone, a metà del V secolo e tramandato dalla tradizione liturgica: lex
orandi, lex credendi, che si traduce, letteralmente: la legge della preghiera è la legge della fede.
Per il modo di intendere la fede, questo discorso è fondamentale. Ci fa dire infatti che c’è una
inseparabilità tra “forma” cristiana e “contenuto” cristiano; c’è una cooriginarietà tra ciò che è
creduto e ciò che è celebrato. Se è vero questo, allora significa che la fede non può viversi in altro
modo, neppure in ciò che ha di più spirituale, se non nella mediazione della liturgia.
Tra la fede e il sacramento non c’è dicotomia, anzi c’è un legame originario: potremmo dire che il
sacramento è la modalità con cui la fede si compie, si attua, perché la fede non è semplicemente
convinzione di coscienza ma atto libero.
3. Conclusione
“Perché i cristiani celebrano?”. Perché è il modo concreto e reale con il quale quanti credono
possono appropriarsi del dono di Gesù Cristo. La Pasqua, “contenuto” fondamentale della fede, è
raggiungibile oggi nella “forma” delle diverse esperienze rituali, da quella cardine dell’eucaristia
domenicale, fino agli altri sacramenti. Anche nelle altre religioni, l’incontro tra Dio e l’uomo
avviene mediante dei riti, delle celebrazioni. Sotto questo profilo, il celebrare appartiene
all’esperienza religiosa umana tout court. La fede in Cristo non elimina l’esperienza religiosa
umana, né quella del rito e dell’azione celebrativa, piuttosto l’evento cristologico è la realtà che
svela e rende pienamente vera l’esperienza religiosa. Ciò che distingue la liturgia cristiana da ogni
altro culto non sono tanto le sue forme, quanto il suo contenuto.
Più precisamente, i motivi per cui i cristiani celebrano sono tre, che esprimono al tempo stesso tre
dimensioni: memoria, presenza, attesa.
Celebrando noi facciamo sempre memoria di quanto Dio ha fatto per noi mediante la pasqua di
Cristo; siamo cioè sempre rimandati al fondamento della nostra fede e ne viviamo l’attualità
significativa. Attraverso la celebrazione ci proiettiamo anche in avanti, verso il futuro, che
attendiamo con fiducia. La speranza con cui i credenti vivono l’attesa non è un alienante proiezione
nel vuoto, ma la sicura certezza che la promessa contenuta nel mistero che essi celebrano sarà
mantenuta. E’ questa la dinamica dell’Eucaristia, e di ogni celebrazione sacramentale:
“Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”.
SC 6: “Pertanto, come il Cristo fu inviato dal Padre, così anch’egli ha inviato gli apostoli, ripieni di Spirito Santo.
Essi, predicando il vangelo a tutti gli uomini, non dovevano limitarsi ad annunciare che il Figlio di Dio con la sua
morte e risurrezione ci ha liberati dal potere di Satana e dalla morte e ci ha trasferiti nel regno del Padre, bensì
dovevano anche attuare l’opera di salvezza che annunciavano, mediante il sacrificio e i sacramenti attorno ai quali
gravita tutta la vita liturgica”.
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COME L’UOMO CELEBRA?
Alcune premesse
•
Dal perché l’uomo, il cristiano celebra, al come l’uomo, il cristiano celebra. A dire il vero,
mancherebbe un terzo punto: “che cosa il cristiano celebra?” Quest’ultima domanda ci
rimanda al contenuto (oggetto) della celebrazione. Non affrontiamo questo terzo punto,
anche se, per il vero, nel rispondere alla domanda “perché il cristiano celebra?” in qualche
modo abbiamo risposto anche all’interrogativo che verte sul contenuto della celebrazione.
• Questo secondo intervento trova il suo necessario completamento nel Laboratorio del
pomeriggio.
• La domanda: “come l’uomo-il cristiano celebra”? spalanca davanti a noi un discorso molto
ampio, la cui risposta può essere data imboccando percorsi che, se non sono contrapposti,
sono tuttavia differenti. Per es. la risposta alla domanda potrebbe portarci nella direzione di
un discorso prettamente di “fede”, per cui il primo criterio sul “come celebrare” deriva dalla
professione di fede nell’azione di Dio che si attua nella liturgia, nel lasciare il dovuto spazio
all’atto di Dio. In questa direzione capiamo perché SC indichi le “disposizioni personali”
(11-12) e le “caratteristiche ecclesiali”(26-32) quali fattori che incidono sulla limpidezza e
plausibilità delle celebrazioni liturgiche.
Faccio un esempio.
Il cristiano (e l’uomo) celebra anzitutto radunandosi in assemblea. Abbiamo già detto nella
lezione precedente che presupposto fondamentale per il celebrare, qualunque celebrare, non
è solo l’aver un “contenuto” appunto da celebrare, ma anche il ritrovarsi insieme, in uno
stesso luogo. Non si celebra da soli. Celebrare è sempre una esperienza di comunione. L’
“assemblea” è la prima parola del vocabolario liturgico: “Quando vi radunate in assemblea”,
scrive san Paolo (1 Cor 11,18).
La Costituzione liturgica SC dichiara esplicitamente, con un linguaggio teologico, quanto
affermato sopra: “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della
Chiesa, che è sacramento di unità…Perciò appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo
manifestano e lo implicano…” (n. 26).
La fatica di celebrare nelle nostre comunità è probabilmente causata, in gran parte, dalla
mancata sensibilità ecclesiale. In forza di tale lacuna, si fa fatica a celebrare nell’ottica dei
libri liturgici attuali, dove soggetto della celebrazione non è il sacerdote, ma l’assemblea.
R. Guardini: “Un comportamento veramente liturgico è possibile solo se si possiede una
conoscenza vigile e piena della Chiesa, e sfuma non appena il concetto di Chiesa si dissolve
nell’individualismo oppure decade a formazione con finalità pedagogiche”.
Mi fermo qui, perché ci sarà una lezione specificamente dedicata all’assemblea liturgica.
Il linguaggio simbolico
Un altro percorso, ed è quello che ho scelto, per tentare di rispondere alla domanda “come
celebrare?” è quello di considerare il linguaggio1 tipico del culto in generale e della liturgia in
particolare. In altre parole, la domanda “come il cristiano celebra?” implica tutto il discorso sul
linguaggio e sulle forme di comunicazione che stanno alla base dell’azione cultuale - liturgica. Una
delle condizioni per poter celebrare è quella di avere la consapevolezza che la liturgia ha un suo
linguaggio e conseguentemente acquisire una competenza in ordine a far si che questo linguaggio
sia da un lato rispettato e dall’altro valorizzato.
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“Linguaggio” viene qui assunto non solo come espressione verbale (es la parola), ma anche come universo relazionale
della comunicazione umana (es gesti e impiego di oggetti come veicolo di messaggi)
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Se noi osserviamo l’attività cultuale dell’uomo, presso ogni cultura, questa appare fondata sul
simbolo e sul suo linguaggio. Il linguaggio proprio del culto (liturgia) è quello simbolico. Perché
proprio questo linguaggio? Perché, come vedremo, è proprio questo linguaggio quello che ci
immette nell’esperienza religiosa, nell’esperienza di Dio. E’ proprio questo linguaggio il linguaggio
dell’incontro tra Dio e l’uomo.
1. Il simbolo
Ci domandiamo: cos’è il linguaggio simbolico? Per prima cosa vediamo di intenderci sul termine
simbolo.
Etimologicamente “simbolo” deriva da “sunballo” (sun=insieme + ballein=mettere) quindi: gettare
insieme, riunire, connettere, mettere in comune. In antico il “simbolo” era un bastoncino, anello,
moneta ecc. che, spezzato in due parti, era conservato dai partner come segno di riconoscimento, o
di un impegno comune. Ognuno dei due pezzi aveva un valore di simbolo nella misura in cui
consentiva al portatore di caratterizzare la propria identità; esso acquistava il suo pieno significato
nel momento in cui veniva unito alla sua metà e i patners si riconoscevano l’un l’altro. Nella sacra
Scrittura c’è un breve episodio in cui troviamo precisamente quanto appena detto.2
Questo significato è entrato a pieno titolo nel linguaggio della Chiesa per designare la comune
professione di fede ( cfr il simbolo apostolico o quello niceno-costantinopolitano), come elemento
distintivo dei cristiani ed espressione impegnativa dell’appartenenza alla comunità di Cristo. Per
questo esso veniva consegnato ai catecumeni ad una fase già avanzata del loro cammino (traditio
simboli) con l’impegno di restituirlo sia nel dialogo battesimale che in forma di vita vissuta
(redditio simboli). La categoria di “simbolo” viene ad assumere, in tale ottica, una triplice funzione
semantica:
• È mediazione di identità/mutuo riconoscimento
• È mediazione di incontro/comunicazione
• È mediazione attuativa di un impegno assunto, come un patto o una testimonianza
In questo ambito una prima caratteristica fondamentale del simbolo è di essere manifestazione
visibile di un’esperienza interiore che impegna ad una risposta di vita; esso è espressione di un
vissuto altrimenti indicibile. Il simbolo ha la funzione di assumere le esperienze più profonde
dell’esistenza umana ( si pensi all’esperienza dell’amore), inesprimibili a livello solo concettuale,
per tradurre, manifestare e porre in comunicazione le persone nel loro vissuto con gli altri. Es. Se io
provo un sentimento di amore per una persona e intendo manifestarglielo, lo farò non tanto
offrendogli una definizione concettuale di cosa è l’amore ma per es. regalandogli un mazzo di rose.
Tutto questo porta con sé un secondo aspetto fondamentale del simbolo: il fatto che esso si ponga
essenzialmente come un linguaggio manifestativo e operativo di comunione. La funzione primaria
del simbolo infatti non è tanto ( o in primo luogo) quella di fornire messaggi e dunque una
conoscenza intellettuale, quanto piuttosto quella di stabilire una relazione che promuova un
incontro, un riconoscimento. Il simbolo ha una valenza radicalmente interpersonale: è un
testimonio di comunione e, nello stesso tempo, un operatore di comunione (es. la bandiera di una
nazione. Ciò che sta in primo piano è il legame che unisce gli uomini che vivono in quella
determinata nazione).
In questo il simbolo si distingue nettamente dal segno. Quest’ultimo si situa piuttosto sul piano
della conoscenza, della trasmissione di concetti o informazioni. ( es. il verde o il rosso del semaforo
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“Allora Tobia rispose al padre: quanto mi hai comandato lo farò, o padre. Ma come potrò riprendere la somma, dal
momento che lui (Gabael) non conosce me, né io conosco lui? Che segno posso dargli perché mi riconosca, mi creda e
mi consegni il denaro? Inoltre non sono pratico delle strade della Media per andarvi. Rispose Tobi al figlio: mi ha dato
un documento autografo e anch’io gli ho consegnato un documento scritto; li divisi in due parti e ne prendemmo
ciascuno una parte; l’altra parte la lasciai presso di lui con il denaro. Sono ora vent’anni da quando ho depositato quella
somma” (Tb 5,1-3).
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indicano un messaggio ben preciso: proseguire o fermarsi a un incrocio) Il porre in comunicazione
(proprio del simbolo) rimane secondario rispetto all’atto della conoscenza. La valenza del segno è
di ordine logico; la valenza del simbolo è di interpersonale-affettivo. Il segno si colloca sul versante
del dire qualcosa, cioè la trasmissione di informazione e di conoscenza; il simbolo sul versante del
dire a qualcuno, cioè della comunicazione con un soggetto. Questo però non significa affatto che il
simbolo veicola una conoscenza confusa, che attende di essere spiegata o decifrata. Purtroppo nella
nostra cultura occidentale il termine simbolo ha finito per designare ciò che è senza importanza o
ciò che è irreale, che non esiste “veramente”. In realtà il simbolo veicola un modo di
comunicazione pregnante, altamente significativo, del tutto reale, anche se di genere molto diverso
da quello tecnico-scientifico.
Ora, il culto in genere e la liturgia in specie, proprio in quanto vogliono essere un’esperienza di Dio,
un incontro tra Dio e l’uomo, hanno come linguaggio tipico quello simbolico. Lo specifico della
celebrazione liturgica non è tanto quello di fornire messaggi su Dio, di definire Dio, ma di favorire
un’esperienza di Dio (una comunicazione con Dio), e nello stesso tempo di favorire
un’esperienza di comunione tra quanti vi partecipano. Per questo la liturgia non sopporta il
linguaggio concettuale, che definisce, dà spiegazioni, e si avvale per lo più di un linguaggio
simbolico, fatto di parole, gesti e segni che orientano verso un riconoscimento (cfr l’esperienza dei
discepoli di Emmaus che riconosco il Risorto “allo spezzare del pane”)
Applicazione: accenno soltanto e rimando al Laboratorio di oggi pomeriggio. Il modo di usare la
parola nel contesto di una celebrazione liturgica non può essere il medesimo di quello di una
catechesi. Nella liturgia la parola dovrà per lo più accompagnare un gesto, non spiegarlo. La legge
prima della liturgia, non è dire ciò che si fa, ma di fare ciò che si dice.
2. Il rito
Abbiamo parlato del simbolo per capire il linguaggio simbolico. Ora, a ben vedere, il simbolo non è
anzitutto l’elemento materiale, ma quello che se ne fa o quello che si fa con esso. Così per es.
l’acqua di per se stessa non è simbolo di vita, di nascita. Lo può essere anche della morte:
inondazione, maremoto. E’ dunque il modo di servirsene e il contesto nel quale viene usato che
diranno di che cosa sia simbolo. Nel battesimo il simbolo non è soltanto l’acqua, è l’immersione o
l’abluzione, ossia quel bagno che, accompagnato da alcune parole, significa e realizza l’immersione
nella morte di Cristo e l’emergere nella vita del risorto. Qui si tratta di un’azione simbolica, molto
più, dunque che di un oggetto-simbolo. Ora, l’azione simbolica è comunemente chiamata rito. Il
rito rappresenta l’espressione privilegiata del simbolo; potremmo dire che è il simbolo in
azione. Il rito è una sequenza di parola – gesto – simbolo.
La parola “rito” generalmente non gode di particolare stima nei nostri ambienti. Essa
immediatamente evoca ripetitività, noia, costrizione. Chiediamoci: cosa è il rito?
La parola “rito” deriva dalla radice indo-europea “R’tam” che significa “ordine” e, più precisamente
ancora, indica il “mettere in ordine”. Dalla stessa radice derivano le parole: arte (messa in ordine dei
suoni o dei colori), aritmetica (messa in ordine dei numeri), ritmo (messa in ordine del tempo) ecc.
Non esiste gruppo umano – sia nelle culture primitive che in quelle moderne – in cui non sia
riscontrabile qualche forma di ritualità a ogni livello – familiare, sociale, religioso, legata al ciclo
dell’anno, a quelli della vita ecc.. Pensiamo per es. al ciclo della vita: la nascita è sempre
accompagnata da un rito (es. circoncisione nella cultura ebraica, battesimo nella nostra cultura), così
come altri passaggi significativi della vita fino alla morte (funerale, sepoltura, ecc.). Possiamo dire
che il rito è un’esigenza oggettiva della vita sociale, perché l’uomo è un “animale rituale”: quanto
più forte è l’interazione sociale, tanto più affiora la sua necessità. Fondamentalmente il rito, ogni
volta che lo si compie, mette in ordine un individuo (o un gruppo) nel suo rapporto con la società,
conferendogli una statura personale e una identità sociale.
In questa prospettiva il rito è sempre un’azione:
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Memoriale: il suo fondamento è la memoria di un evento (es. la nascita, la morte e
risurrezione di Cristo per i cristiani)
Sociale: non si fa un brindisi da soli…non ci si battezza da sé
Programmata: l’azione rituale ha un codice perché alla fine bisogna sapere se il risultato
perseguito mediante il rito è stato raggiunto.
Ripetitiva: Natale e il 1 maggio ritornano tutti gli anni
Irrazionale: il rito opera in ciò che non è dimostrabile o misurabile con la sola ragione
Ora, i sacramenti si celebrano mediante riti umani, perché non esistono se non in quanto sono
celebrati. Ognuno di essi è un’azione memoriale, è un’azione sociale, nel quadro di una
celebrazione ecclesiale, programmata da un rituale, ripetitiva: la celebrazione eucaristica o quella
del battesimo sono sempre le stesse. Si servono dell’irrazionale, nelle relazioni umane e in quelle di
Dio. Si esprimono in particolare mediante certi segni (pane e vino, olio ecc.), mediante gesti
(imposizione delle mani, segno di croce), e parole (“Io ti battezzo…”). Inseriscono in tal modo
l’interessato in un nuovo status, conferendogli una nuova identità (battesimo, matrimonio,
ordinazione) o rinnovandogli per l’oggi ciò che egli fu fatto ieri (cresima, eucaristia, penitenza
ecc.).
(NB Si noti che, quando diciamo che Gesù ha istituito i sacramenti, non vogliamo dire che abbia
inventato lui i riti. Il battesimo, i pasti religiosi, l’unzione…esistevano prima di lui. Questo vuol
dire che Gesù ha assunto un certo numero di riti per dar loro un significato nuovo e una portata
nuova: la grazia dell’incorporazione al battesimo, la grazia della comunione, del perdono ecc.).
Torniamo alla definizione di rito: sequenza di parola – gesto – simbolo e facciamo alcune
considerazioni.
La celebrazione può dirsi corretta solo quando questi diversi aspetti sono ugualmente presenti,
armoniosamente coerenti, efficacemente operanti. Tale presenza non è sempre simultanea. Un gesto
talvolta può anche non richiedere immediatamente una parola, e una parola può a volte fare a meno
di un simbolo. Ma sarà l’eccezione. In questi casi è la parola che diventa azione ed è il gesto che
parla in luogo della parola. Al contrario, la celebrazione risulta incoerente se soffre d’una
sproporzione tra parole, gesti, simboli. Là dove la parola diventa preponderante, il gesto e il
simbolo rimangono soffocati e rischiano di scomparire. Là dove la parola è troppo limitata e
contenuta, sia il gesto sia il simbolo possono risultare devianti o mal compresi.
3. Il corpo
Il discorso sul rito ci porta ad aprire un ulteriore capitolo sul come celebrare: è il capitolo sul corpo.
Se, come abbiamo visto, il rito è un linguaggio che utilizza forme espressive differenti (parole, cose,
gesti) allora è evidente come esso coinvolga la fisicità, la corporeità di chi vi partecipa. In qualsiasi
celebrazione cultuale ciò che è coinvolto, implicato è la totalità della persona. Nella liturgia tutti i
nostri sensi sono sollecitati: l’udito, la vista, il tatto ecc. Diceva ancora Guardini: “Ciò che opera
nell’azione liturgica, che prega, che offre e agisce non è l”anima”, l’interiorità, bensì l’uomo”.
Purtroppo nell’ambiente ecclesiale è ancora massicciamente presente l’idea che la “vita spirituale”
sia qualcosa che riguardi unicamente l’interiorità, e dunque la mente, il pensiero. Il corpo è quasi
estromesso dal “mondo dello spirito”. Sembra quasi che pregare fondamentalmente equivalga a
pensare o parlare a Dio. Eppure il corpo è lo spazio in cui l’uomo vive la dimensione dell’alterità:
con se stesso anzitutto (scopre cioè di non possedersi completamente e di non essere il centro
dell’universo); con gli altri e infine con Dio, perché il corpo è la mediazione di ogni incontro.
Estromettere il corpo dalla liturgia è come togliere la pila da un orologio: non funziona più. Al
contrario una delle condizione del celebrare è precisamente quella di far si che la liturgia sia
“assunta dai corpi” oltre che dalle menti.
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S. Benedetto nella sua Regola quando incomincia a parlare dell’Ufficio ha questa frase: “Pensiamo
dunque con quali disposizioni convenga stare dinanzi a Dio e agli angeli suoi e celebriamo il divino
Ufficio in modo che il nostro spirito concordi con la nostra voce”. In latino, l’ultima frase suona
così: “ut mens concordet voci nostrae”, abbreviata nel celebre adagio “Mens concordet voci”. E’
citato nella SC ai numeri 11 e 90 come pure nei Principi e norme per la Liturgia delle Ore. Il
succedersi delle parole in tale adagio potrebbe far credere che il nostro spirito debba indicare alla
voce ciò che deve pronunciare. Ma il senso della frase, rafforzato dal congiuntivo del verbo, dice, al
contrario, che lo spirito deve adeguarsi alla voce. Viene dunque prima la voce, e lo spirito è
chiamato a seguirla. Nel contesto san Benedetto vuole dire che i monaci devono cantare i salmi e
lasciare che il loro spirito se ne impregni.
Questo adagio, al di là dell’ambito specifico dell’Ufficio, esprime una caratteristica essenziale della
liturgia in genere: prima agire, poi comprendere; o meglio: agire per comprendere (dunque primato
del corpo). Per la liturgia non si tratta di trovare in se stessi delle belle idee da esprimere durante la
celebrazione, ma la contrario bisogna lasciarsi prendere da un’azione fatta di parole e gesti destinati
a trasformare le nostre idee e tutta la nostra via.
Dando priorità al corpo rispetto allo spirito non significa affatto rinunciare alla intelligenza della
liturgia, ma si tratta invece di acquistare maggiore coscienza del modo in cui la liturgia procede per
arrivare allo spirito: non solo con l’intelletto, ma anche con il corpo.
4. Conclusione
Il discorso che abbiamo articolato tentando di rispondere alla domanda “come il cristiano celebra?”
ci porta sostanzialmente a questa conclusione: se da un lato il celebrare appare qualcosa di
“naturale” per il credente, dall’altro lato celebrare non è poi così semplice, perché necessita di tutta
una serie di attenzioni antropologiche. Potremmo dire che per celebrare occorre acquisire una vera e
propria “arte”. Tale espressione è usata dai vescovi italiani nella Presentazione della II edizione del
Messale Romano3 riferita al compito proprio del presbitero, cioè quello della presidenza, anche se
può essere benissimo estesa a tutti i celebranti. Compare, inoltre, nel documento Il rinnovamento
liturgico in Italia, sempre della CEI4. Non vi sembri un’affermazione esagerata: celebrare è davvero
un’arte. Siccome la liturgia è un’esperienza sensibile, celebrare richiede l’arte del fare. L’ “arte” in
questo caso sta a indicare la capacità di realizzare qualche cosa con ordine e buon gusto. In altri
termini, in ambito liturgico, non si tratta solo di eseguire il rito, ossia di fare ciò che deve essere
fatto, ma di compierlo dandogli una bella forma, ossia con una sorta di grazia e di equilibrio che
mette in armonia tutti gli elementi che lo compongono. Un noto teologo per parlare della necessità
di imparare l’arte del celebrare porta questo esempio che può sembrare banale ma che è molto
pertinente: aprire un barattolo di conserva o scaldare nel forno un piatto surgelato precotto, non è
arte culinaria. E’ sufficiente per nutrirsi, certo, ma la cucina diventa un’arte quando i piatti sono
anche genuini, belli a vedersi, a gustarsi. Lo stesso si può dire dell’arte dell’attore, che non deve
semplicemente trasmettere un testo, ma deve aiutare a entrare in un altro universo. E’ così anche
quando si celebra: non si cammina soltanto per spostarsi da un punto a un altro, si fa una
“processione”; non si legge solo quello che sta scritto nel Lezionario, si fa sentire Dio che parla
nell’assemblea. Nella liturgia i gesti, le parole, gli oggetti non entrano in gioco solo nel circolo della
funzionalità, ma della significatività.
3
“La celebrazione eucaristica non sarà pastoralmente efficace se il sacerdote non avrà acquisito l’arte del presiedere, e
cioè di guidare e animare l’assemblea del popolo di Dio. Egli per primo, in spirito di disciplina e di fedeltà alle direttive
della Chiesa, dovrà conoscere a fondo lo strumento pastorale che gli è affidato per trarne insieme agli altri ministri e
animatori della celebrazione liturgica tutte le possibilità di scelta e di adattamento che le stesse norme del Messale
prevedono e suggeriscono”. p. IX
4
“L’arte di presiedere le assemblee liturgiche ha il fine di renderle vere assemblee celebranti, cioè attivamente partecipi
del mistero che si compie” n. 7
9
Come abbiamo visto, la liturgia si pone su un terreno “particolare”. Non è una semplice azione, ma
un’azione rituale, e cioè simbolica. L’esercizio di qualsiasi ministero nella liturgia, dunque,
deve porsi sul piano del rito e del simbolo. L’azione del presidente o del diacono o del lettore o
del cantore non può limitarsi ad essere efficiente, ma dove essere “simbolicamente” efficace. Per
essere molto semplici: il presidente o il diacono o il lettore o il cantore, compiendo il suo gesto, non
dovrà solo preoccuparsi di “fare” validamente una certa cosa, ma dovrà anche riuscire a
“comunicare” il senso di ciò che fa. E questo non spiegando il gesto ma ponendolo nel giusto modo.
In arte “sapere” significa “essere in grado di”. In definitiva, il celebrare implica anzitutto
l’assunzione di una competenza rituale, la cui prima e fondamentale regola è la più assoluta
corrispondenza tra gesto-parola-azione. Nell’ambito liturgico il dire è fare e il fare è dire. Il rito non
va inteso come “oggetto da riformare” ma come “esperienza che forma”. Questo è il fondamentale
passaggio che occorre fare per poter diventare autentici celebranti.
Celebrare è davvero un’arte, e quest’arte va imparata. La scuola di questa arte ha due luoghi propri:
le celebrazioni stesse e i libri liturgici. Ciò che la Chiesa propone nel Rito della Messa e negli altri
rituali è come una partitura di musica. La partitura non è mai la musica. Essa è ciò che permette alla
musica di esistere, se dei musicisti se ne impadroniscono e la suonano. Così è la liturgia. Coloro che
la celebrano non l’hanno inventata: essa è donata loro dalla Chiesa. Ma la liturgia non esisterebbe se
degli uomini non decidessero di celebrarla. Si può dire allora che, come per la partitura, si tratta
anzitutto di conoscere e rispettare ciò che è scritto, d’essere fedeli a ciò che ha voluto il
compositore; ma questo rispetto e questa fedeltà non dovranno consistere mai nell’accontentarsi di
suonare le note. Si tratterà invece, di mettere in campo tutte le tecniche di esecuzione, di
interpretazione e quant’altro è necessario per realizzare una esecuzione d’autore. In ciò consiste
l’arte! In ciò consiste l’arte del celebrare!
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