La politica della redenzione

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La politica della redenzione
Politiche del paradiso in terra
A proposito di fondamentalismi e democrazia
Enzo Pace
Introduzione
Qual è la differenza fra il giovane ebreo, che ha ucciso nel novembre 1995 il
presidente israeliano Rabin e il giovane egiziano di fede musulmana, che ha guidato
uno degli aerei schiantatosi contro le Torri Gemelle il 9 settembre del 2001?
In apparenza si tratta di due eventi diversi, non fosse altro per la sproporzione del
numero di vittime: una contro seimila. A parte la macabra contabilità, si può affermare
che in entrambi i casi, tuttavia, gli effetti di tali gesti sono stati disastrosi e perversi.
L’uccisione di Rabin ha compromesso, forse definitivamente, il primo reale tentativo
di pacificazione fra israeliani e palestinesi. Su scala mondiale, il secondo attentato ha
costituito una sorta di cerniera della storia contemporanea: nulla è stato più come
prima. Da allora siamo entrati in un lungo tunnel di guerre semi-mondiali (combattute
anche per procura) e di conflitti regionali che, spesso, hanno coinvolto, se non
militarmente, una pluralità di nazioni.
C’è un altro elemento comune fra i due gesti: l’ossessione religiosa che anima
un’azione politica orribile. Potremmo continuare con gli esempi. Alla fine dovremmo
constatare, sconsolatamente, che nessuna grande religione oggi si sottrae all’insorgere
del fondamentalismo e, in alcuni casi, alla deriva violenta che ne consegue.
Erano cristiani (protestanti e cattolici) gli irlandesi del Nord, che per lunghi anni si
sono fatti la guerra, così come i croati e i serbi, anche se di opposte chiese; sono
cristiane le etnie Hutu e Tutsi del Rwanda, che si sono sterminate a vicenda; allo
stesso, le frange estremiste protestanti, che si battono negli USA contro la legge
sull’aborto, hanno compiuto attentati cruenti nelle cliniche, dove si pratica
l’interruzione della gravidanza. Sono buddisti i movimenti nazional-religiosi, come il
Bonu Bala Sena (letteralmente: il potere della forza buddista, movimento fondato nel
2012), che non intendono cedere terreno alle rivendicazioni autonomiste dei Tamil
nello Sri Lanka e sono induisti i militanti dei vari gruppi paramilitari, che nel 1991 e
nel 2014 hanno aiutato il partito neo-fondamentalista hindu (il Bharatyia Janata Party:
BJP, letteralmente: il partito del popolo hindu) ad andare al potere. I movimenti
radicali, nati negli ultimi trenta anni nel mondo musulmano che attirano tanto la nostra
attenzione, hanno educato minoranze di giovani secondo lo slogan “corano e
moschetto, musulmano perfetto”. Essi rappresentano, in effetti, la punta di un iceberg
di un ben più vasto arcipelago del radicalismo religioso violento.
Il fondamentalismo (o, meglio, i diversi tipi di fondamentalismo), infatti, ha
educato milioni di persone nel mondo a ritenere che la democrazia sia un inganno
della ragione umana, giacchè essa non riconoscerebbe che l’unica e assoluta legge,
che deve governare le società umane, sia quella voluta da un dio sia quella conforme a
un ordine cosmico eterno, sovraumano. Le leggi degli uomini non sono legittime se
non si fondano su un principio trascendente. La mentalità del fondamentalista, perciò,
si nutre di un’idea ricorrente: la verità è dalla mia parte; se è tale, non appartiene solo
a me, ma deve essere condivisa e rispettata da tutti; se non lo fanno, ho il dovere di
imporla, con le armi della critica e, se necessario, con la critica delle armi; penso e
faccio tutto questo, perché, in fondo, amo gli altri, mi preoccupa che vivano
nell’errore e nell’impurità; che l’altro non capisca il valore supremo della verità e non
lo riconosca come il fondamento stesso della vita collettiva e politica, è un incentivo
per me perché si redima. In questo giro di pensieri, come si comprende, il passaggio,
dalla violenza simbolica a quella fisica è breve. Non tutti i fondamentalisti lo
compiono, ma è certo che il pensiero fondamentalista, quando diventa uno scrupolo
religioso ossessivo, produce forme di azione che portano il segno della violenza sacra
e il principio di distruzione delle regole democratiche.
Come si spiega la nascita in epoca moderna di movimenti fondamentalisti e come
mai, in alcuni casi, essi scelgono di ricorrere alla lotta armata, in tutte le sue forme
(dal metodo terroristico alla guerra rivoluzionaria)?
La risposta a queste domande va ricercata in diverse direzioni. Qui ci limitiamo a
illustrarne solo qualcuna.
Religioni certe in epoca d’incertezza
In tempi d’incertezze, le religioni sono rimaste le uniche a fornirle. Le incertezze
peggiori sono oggi quelle che riguardano l’identità collettiva, il senso d’appartenenza
a una comunità politica, a quella rete di legami sociali, attraverso i quali le persone
imparano a riconoscere l’esistenza di valori comuni, di là delle diversità individuali e
delle varie opzioni di vita. Le grandi ideologie politiche e culturali sono, in molta
parte, entrate in crisi: esse erano delle mappe che orientavano il pensiero e l’azione
delle persone; consentivano di collocarsi, di schierarsi. E’ entrata in crisi soprattutto
l’idea, tutta moderna, di governare una comunità politica senza dover necessariamente
fare riferimento a questa o quella religione. Anche laddove esistevano ed esistono le
religioni di stato, le classi dirigenti hanno agito come se questo riferimento non
esistesse più.
Le religioni hanno finito, in tal modo, per costituire un serbatoio d’evidenze
logiche e linguistiche per ridare corpo all’utopia dello Stato etico, dello Stato fondato
sulla Legge divina. Idea questa che ritroviamo sia nei movimenti radicali di area
musulmana, così come in quelli di matrice ebraica, nel mondo cristiano integrista così
come nel risorgente movimento neo-hindu o nei movimenti di monaci buddisti in
alcuni Paesi del Sud-Est asiatico. Insomma, svuotate di passioni politiche, che le
ideologie tradizionali erano in grado di suscitare, le religioni hanno saputo alimentare
nuovi furori e nuove speranze di cambiamento radicale del mondo. Quando la politica
cessa di essere “facoltà di dare inizio”, per riprendere una geniale intuizione di Hanna
Arendt, senza più riuscire a essere una forma d’immaginazione del cambiamento
possibile, le religioni riprendono quota, tornano a scaldare i cuori di molti nel segno
dell’utopia. Esse solo sanno trasformare la passione in ossessione: la verità religiosa
appare un dubbio definitivamente risolto, una verità che non può essere messa in
dubbio da nessuno e che, soprattutto, deve diventare la pietra angolare su cui
ricostruire un’intera società. Questa era in fondo l’utopia che ha spinto, in un primo
tempo, molti giovani iraniani a credere al progetto della Repubblica islamica di
Khomeyni; così come riscalda il cuore di tanti giovani ebrei la parola di un leader
spirituale di un movimento ultraortodosso come Habad (forte a Brooklyn e a
Gerusalemme), che interpreta la definitiva riconquista dei confini biblici della Terra
d’Israele come il compimento dei tempi e l’avvento del Messia (con buona pace di
chi, nel mondo ebraico, si dà da fare per trovare una pace giusta con i palestinesi).
Le religioni allora diventano, inevitabilmente, parte attiva del polemos, della guerra
ideale contro il nemico simbolico che ostacola il compimento dell’utopia di uno Stato
puro, religiosamente fondato sulla legge di Dio. Quando, infine, l’ossessione del
pensiero religioso di tipo fondamentalista, che sogna il regime della verità e che si
esalta quando la verità si fa regime, si unisce al bisogno d’affermazione dell’identità
collettiva di un intero popolo, l’attrazione fatale fra religione e principio
d’identificazione etnica appare ancora più forte. Si possono allora vedere scendere in
campo rabbini, vescovi, imam, monaci buddisti, pastori e predicatori autorevoli delle
più varie e diverse confessioni religiose per benedire movimenti di rivendicazione
etnica. Le identità collettive appaiono così involucri sacri, macchine da guerra
mentali, poste al servizio di guerre e conflitti violenti in campo aperto.
Alle origini del fondamentalismo
Il fondamentalismo, prodotto maturo della modernità, ha ormai un secolo di vita.
Esso si è manifestato in diversi ambienti socio-religiosi. E’ nato, storicamente, nel
mondo protestante. Tuttavia fenomeni simili si sono verificati anche in altri ambienti:
dal mondo ebraico a quello musulmano sino allo hinduismo e al buddismo. Non è certo
avvenuto per contagio o per un meccanico processo di vasi comunicanti. Il problema è
un altro: il fondamentalismo è in realtà il nome che noi abbiamo finito per dare a una
serie di movimenti collettivi che hanno utilizzato il linguaggio religioso per esprimere
l’utopia del fondamento assoluto di una delle creature umane, più artificiose e relative,
come lo Stato-nazione. Perciò parlare di fondamentalismo significa ricorrere a una
scorciatoia linguistica e concettuale per definire un tipo di conflitto di vasta portata che,
con gradi diversi di violenza e in varie forme, si è presentato in tutte quelle società che
hanno preteso di organizzare la loro vita collettiva con istituzioni e regole del gioco che
facessero riferimento esplicito alla religione o che non contassero su di essa per
legittimarsi politicamente. Società eticamente neutrali e Stati non più schierati a difesa
di una religione di maggioranza sono le due costruzioni moderne (che si affermano fra
il XVII e il XVIII secolo e che, poi dopo la fine del colonialismo, si estenderanno anche
al di fuori del perimetro Europa-Nord America). I movimenti contemporanei di tipo
fondamentalista s’incaricano di criticare proprio questo tipo di stato, provando a
smontarlo e abbatterlo, o pacificamente, ricorrendo agli strumenti della lotta
democratica, oppure violentemente, scegliendo una delle moderne forme di fare la
guerra, senza avere a disposizione eserciti ed armamenti sofisticati, come la guerriglia
e il terrorismo.
A quasi trenta anni dal suo primo apparire sulla scena pubblica di molti Paesi (il
1979 è l’anno della prima marcia del movimento neo-fondamentalista negli USA e
della rivoluzione iraniana), il fondamentalismo ha dispiegato tutte le proprie
potenzialità intellettuali, sociali, politiche e militari in quasi tutte le più importanti
religioni mondiali: dal cristianesimo all’islam, dall’ebraismo alle principali religioni
dell’Oriente. Secondo le caratteristiche dei differenti ambienti d’origine, i movimenti in
questione hanno assunto caratteristiche diverse. E’ più corretto parlare, perciò, del
fenomeno al plurale.
Dietro il modo di ragionare dei fondamentalisti, in realtà, si cela un paradosso. Nella
pretesa di far diventare la verità assoluta, fondamento dello Stato e della convivenza
sociale, molti movimenti finiscono paradossalmente per diventarne nemici. Se essi si
fossero limitati a proporre una particolare lettura dei Testi sacri e a declinare da tale
ermeneutica una visione del mondo e della società alternativa a quella dominante, si
sarebbero affermati come un punto di vista fra altri punti di vista. Tutto ciò è
impensabile per il pensiero fondamentalista. L’idea stessa che ci possano essere modi
differenti di credere, all’interno di una comune tradizione religiosa, è radicalmente
rifiutata. Il pluralismo che, storicamente, si è manifestato in seno a tutte le grandi
religioni mondiali è di per sé considerato un errore sistematico: la verità è una e una
sola; non è pensabile che vi si possa accedere per vie diverse. Società e Stati che
tollerano il principio moderno del credere nel relativo sono giudicati in antitesi alla
legge divina. Il credere nel relativo – cioè nella consapevolezza che la mia religione
debba convivere con altre fedi, senza che la mia s’imponga o con la forza del potere
politico o con la violenza – è, a ben guardare, un aspetto fondamentale della vita
democratica. Non a caso, il primo emendamento della Costituzione americana afferma
che la libertà religiosa è la matrice di tutte le altre libertà umane.
Nati nel primo ventennio del secolo XX, i movimenti in questione, dopo aver
conosciuto una fase di grande espansione, negli anni 1979-1989, sono oggi a un
tornante della loro storia: alcuni sono riusciti ad arrivare al potere, altri si sono battuti e
si battono per cambiare i rapporti sociali e politici a loro favore; altri, ancora, hanno
scelto il linguaggio radicale religioso e la violenza sacra per raggiungere obiettivi
d’indipendenza nazionale o di riscatto di un intero popolo; altri, infine, sono scivolati
sempre più nell’ombra della lotta armata e nella spirale del terrorismo non solo
nazionale, ma anche, come nel caso d’alcuni gruppi radicali di matrice musulmana, a
livello internazionale. In ogni caso questi movimenti non sono più delle acerbe creature
sociali; sono diventati dei soggetti collettivi adulti.
Il fondamentalismo protestante
Il fondamentalismo nasce, negli Stati Uniti d’America, come una corrente teologica
in seno al protestantesimo, in opposizione alle tendenze della teologia liberale che si
erano manifestate già in Europa. I teologi conservatori statunitensi presero
ufficialmente posizione contro le nuove mode interpretative del testo biblico in una
conferenza tenutasi a Niagara Falls nel 1895. In quella sede, essi elaborarono un
documento nel quale sintetizzarono i punti ritenuti inalienabili per un sapere teologico
rispettoso della verità della Bibbia. L’affermazione dell’assoluta inerranza del Testo
sacro costituiva il punto centrale di tale dichiarazione: la Bibbia ha sempre ragione e
non può essere interpretata alla luce della ragione. Tale principio, infatti, può essere
considerato il criterio essenziale in base al quale è possibile distinguere l’atteggiamento
religioso fondamentalista da altri che possiamo chiamare, genericamente, modernisti o
aperti all’uso del metodo storico-critico, nell’esegesi della Bibbia. Per avere un termine
di confronto in campo cattolico, basterà ricordare che la tendenza liberale e modernista
attecchirà nell’Ottocento anche fra i teologi cattolici. La reazione del Papa e degli
ambienti conservatori non si farà attendere: nel 1907, con l’enciclica Pascendi, il
modernismo sarà condannato.
Il manifesto di Niagara Falls del 1895 sarebbe rimasto probabilmente un documento
interno al circuito dei teologi protestanti, se fra il 1909 e il 1915 le idee in esso
contenute non fossero state diffuse capillarmente nelle chiese da due pastori battisti che
pubblicarono una serie di volumi dal titolo The Fundamentals (da qui il nome assunto
dal movimento che ne seguì). Nacque un vero e proprio movimento d’opinione che
dette vita a iniziative pubbliche di vario tipo.
La più clamorosa – se vogliamo, la più importante dal punto di vista sociologico,
perché costituisce l’ingresso sulla scena pubblica del movimento fondamentalista – è il
cosiddetto «processo alla scimmia», lo Scope Trial, dal nome, John Scope, del
professore di biologia che venne accusato da un gruppo di famiglie legate al movimento
fondamentalista di insegnare le teorie evoluzioniste di Charles Darwin a scuola. Il
processo si celebrò nel 1925 a Dayton, nello Stato del Tennessee. Al centro del
dibattimento giudiziario vi era, appunto, la questione della liceità dell’insegnamento
nelle scuole pubbliche delle teorie darwiniane, ritenute in contrasto con il racconto
biblico della creazione dell’universo. Come si vede il tormento fondamentalista su
Darwin viene da lontano e interessa oggi anche una parte del pensiero teologico
cattolico.
E’ ben ricordare che il fenomeno di cui stiamo parlando si afferma, in un intervallo
di tempo ben preciso, fra il 1909 e il 1925, in un periodo storico che conosce la
rivoluzione bolscevica in Russia e la prima guerra mondiale. Due eventi che
rafforzavano la convinzione, negli ambienti protestanti più conservatori, che le forze
del Male avanzassero pericolosamente. Billy Sunday, uno dei primi predicatori
evangelici amava contrapporre, nei suoi discorsi radiofonici, alle manovre di Satana nel
mondo la forza di resistenza di una Nazione chiamata da Dio a far trionfare il Bene e la
libertà. Questa nazione era identificata con gli Stati Uniti, Nuova Gerusalemme in terra.
Un patriottismo biblico che alimenterà sino ai giorni nostri la retorica del neofondamentalismo protestante e del nuovo ceto politico conservatore che sosterrà,
dapprima il presidente degli USA, Ronald Reagan (fra il 1981 e il 1989) e, poi, l’altro,
George W. Bush (fra il 2001 e il 2009).
L’evoluzione che il fenomeno ha conosciuto negli Stati Uniti d’America in tempi più
recenti (dagli inizi degli anni Settanta agli inizi degli anni Novanta del XX secolo) può
essere riassunta con la formula: dal risveglio religioso all’impegno diretto in politica..
Tra il 1979 e il 1989, infatti, i movimenti fondamentalisti, infatti, si organizzano
come veri e propri gruppi di pressione politica. In particolare vanno ricordate due
grandi organizzazioni, nate nel 1979, come la Moral Majority e la Christian Coalition.
Queste due associazioni, assieme ad altre minori, riuscirono a mobilitare una
considerevole massa di persone. L’uso dei grandi mezzi di comunicazione di massa,
come la televisione, ai quali i telepredicatori ricorsero e continuano, ancora oggi, a
ricorrere per mobilitare le coscienze, ha giovato molto alle carriere politiche di persone
vicine agli ambienti neo-fondamentalisti.
L’idea che anima i loro militanti è che la modernità, giacché non riconosce
cittadinanza alla fede religiosa nella sfera pubblica e politica, ha rivelato ormai tutti i
suoi guasti, arrivando a minacciare le basi stesse della coscienza collettiva degli
americani.
Il fondamentalismo islamico
Il mondo musulmano ha conosciuto un fenomeno simile al fondamentalismo, anche
se questo concetto va applicato con molti distinguo. Il termine stesso non esiste nella
lingua araba. I diversi gruppi radicali, che si battono per il ristabilimento della Legge
coranica nella sua integralità nel governo della società, vengono solitamente designati
come islamiyyun, che si può tradurre in islamisti: coloro che riducono l’islam a
ideologia politica e che, così facendo, mirano ad instaurare uno Stato islamico.
Ci troviamo di fronte, dunque, a movimenti politico-religiosi, che si formano nel
periodo storico compreso fra la fine del colonialismo e la costituzione e lo sviluppo dei
nuovi Stati indipendenti, grosso modo, fra il 1950 e il 1965. Questo dato storico è
importante per capire la retorica anti-occidentale che molti movimenti islamisti hanno
utilizzato per mobilitare il consenso politico, per opporsi alle élites nazionali, accusate
d’acritica accettazione dei modelli di Stato di stampo occidentale. Benzina sul fuoco
dell’azione militante di questi movimenti viene poi gettata dalla crisi israelopalestinese. La presenza dello Stato d’Israele, nel cuore del mondo arabo, è vista dai
movimenti islamisti (e non solo) come un prolungamento del dominio delle potenze
occidentali in quell’area geografica. Infine, i movimenti trovano un fertile terreno di
crescita, agli inizi degli anni Ottanta del XX secolo, per l’esaurirsi delle speranze di
miglioramento economico e sociale da parte di vasti strati della popolazione, speranze
riposte nei gruppi dirigenti, che avevano guidato il processo d’indipendenza e di decolonizzazione, dopo la seconda guerra mondiale.
Le nuove élites avevano cercato, in molti casi, di modernizzare la società attraverso
riforme dall’alto, introducendo elementi di separazione fra la tradizione religiosa e la
politica, considerando il rispetto della Legge coranica un impedimento reale allo
sviluppo economico e al superamento di strutture sociali patriarcali e tribali. Non a caso
uno dei campi, in cui lo sforzo di modernizzazione si eserciterà in modo incisivo e che
produrrà inevitabili conflitti con gli ambienti più conservatori e tradizionalisti della
società, sarà la nuova legislazione sulla condizione della donna. Gli islamisti vedranno
in tutto questo una pericolosa forma di laicizzazione dello Stato e di secolarizzazione
della società. Da qui l’opposizione e la lotta politica aperta contro i regimi a partito
unico che finiranno per imporsi, in molti casi, nei nuovi Stati indipendenti postcoloniali.
L’evento mirabile per tutti i movimenti, che cominciavano ad organizzarsi
dall’Egitto alla Tunisia, dall’Algeria alla Giordania, dall’Iraq al Sudan, dal Libano al
Marocco è stato all’inizio la rivoluzione iraniana del 1979. Tale evento, infatti, ha
mostrato agli occhi degli islamisti che il loro sogno si era avverato, il sogno di uno
Stato islamico, poco importava che esso si fosse materializzato in un angolo del mondo
musulmano popolato da una minoranza considerata scismatica, come quella sciita.
L’utopia apparve allora a portata di mano. Più tardi altri movimenti cercheranno di
realizzarla: in Algeria, in Sudan, in Afghanistan con l’avvento del movimento dei
Taleban nel 1996 e, oggi, fra il territori della Siria e dell’Iraq (con succursali in Libia e
nel Sinai egiziano), con l’avvento del Daysh (lo Stato islamico dell’Iraq e dello
Chams).
Le società di tradizione musulmana, secondo l’analisi islamista, sono ripiombate in
uno stato d’ignoranza religiosa (jahiliyya) che produce il Male e che le rende succubi
dei modelli occidentali. In questa teodicea, l’unica sovranità possibile in terra è quella
divina. Essa si esercita in base alla rigida applicazione della Legge rivelata da Dio.
Legittimo è esclusivamente il potere dei governanti che obbediscono alla Legge;
quando tale obbedienza è disattesa, la lealtà verso di loro è automaticamente ritirata. Il
tiranno, perciò, può essere e deve essere abbattutto. I militanti islamisti sentono
d’essere, perciò, un’avanguardia di credenti che ha il compito di indicare le vie della
salvezza a tutta la comunità islamica.
Questa visione delle cose, assunta nella sua radicalità, significa lotta senza
quartiere ad ogni forma di potere empio, sia esso interno sia esterno al mondo
musulmano. Da qui la rilettura in chiave moderna della nozione di jihad. L’esempio
più eclatante è costituito dall’attentato organizzato, nel 1981, dal gruppo egiziano
Jihad, guidato da Salam al-Faraj, contro l’allora Presidente Anwar Sadat, accusato di
aver tradito la causa islamica, firmando un’intesa di pace con Israele. Tra le fila di tale
gruppo militava allora anche Al-Zawahiri che spesso compariva nei video diffusi da
al-Qa‛ida.
Anche in Algeria, dopo il colpo di stato del 1991, l’islamismo radicale assumerà un
volto armato. L’annullamento della vittoria elettorale del Fronte di Salvezza islamica
(FIS), che nel 1991 aveva trionfato nel primo turno delle elezioni politiche e che sarà,
successivamente, posto fuori legge, provocherà la dura risposta del radicalismo.
Dapprima l’AIS (Armata islamica di salvezza), braccio armato della disciolta
organizzazione del FIS, poi il GIA (Gruppi islamici armati), organizzeranno la
resistenza che si trasformerà presto in guerra totale contro «il potere empio», una vera
guerra civile chemolte ferite a lasciato nel corpo sociale di questa giovane nazione
araba.
Il radicalismo armato assume aspetti diversi in altre situazioni storiche e politiche,
come nel caso palestinese. Gruppi come Hamas (Movimento per la resistenza
islamica, il cui acronimo in lingua araba significa anche fervore), fondato dallo
sceicco Ahmad Yassin nel 1987, e la Jihad islamica palestinese, la cui guida
ideologica è Fathi Shqaqi, favorevole alla creazione di un fronte unico radicale che
unisca sunniti e sciiti, sono stati sin qui impegnati nella «guerra di liberazione della
Palestina», contro Israele e, allo stesso tempo, a creare una base di consenso
molecolare, fornendo servizi minimi alla popolazione di Gaza e della Cisgiordania,
rete di servizi che in parte spiega il successo elettorale di Hamas nel 2005. I gruppi
hanno praticato a partire dagli anni Novanta il jihad nella forma del martirio: giovani
militanti s’immolavano, facendosi saltare in aria insieme alle loro vittime, nel portare
il combattimento sulla via di Dio nelle città israeliane. Il martirio dei giovani militanti
radicali assumeva la funzione di indicare al popolo palestinese, ma anche all’intero
mondo musulmano, quale fosse il compito degli autentici credenti. Quando l’Islam è
minacciato da Nemici che lo vogliono distruggere, questi giovani militanti hanno
pensato che sacrificare la loro vita non fosse solo un atto di ribellione e di lotta contro
l’oppressione israeliana, ma la porta aperta, l’assicurazione certa, verso il Paradiso.
Nel subcontinente indiano si è avuto analogamente lo sviluppo dei movimenti
islamisti. Di particolare rilevanza è il ruolo giocato dal movimento islamista
deobandi, dal nome della città, Deoband, in prossimità di Delhi. Esso fu fondato da alMawdudi (1903-1979) in India nel 1941; i è poi diffuso in Pakistan. Un ruolo
importante è stato giocato da tale movimento sulla formazione dei Taleban, i così detti
Studenti di Teologia, giovani afghani, rifugiati nei campi profughi in Pakistan, durante
il regime filo-sovietico che si era instaurato a Kabul. Nel 1996, i Taleban riescono ad
impadronirsi del potere, ristabilendo un minimo d’ordine nel caos, che si era
verificato, dopo la caduta del regime filo-sovietico e il ritiro delle truppe di Mosca da
Kabul. Gli Studenti di Teologia – così chiamati perché formatisi nelle scuole
coraniche allestite nei campi profughi dai predicatori islamisti deobandi - instaurarono
un regime islamico, presentandosi capace di riportare la pace fra le tribù in lotta, di
ricomporre i conflitti etnici e di ristabilire l’ordine compromesso da anni di guerra
intestina, ristabilendo l’autentico islam. La loro forza è stata tuttavia condizionata dal
fatto che essi erano soprattutto espressione di un’etnia, quella pashtun, che ha sempre
rivendicato a sé una superiorità storica rispetto alle altre, che compongono il mosaico
etnico afgano. I pashtun, infatti, ritengono di incarnare l’autentica identità nazionale,
per averne garantito la continuità nel tempo. Ben presto le altre etnie (hazara, uzbeka e
tajika) si sono rese conto che i Taleban utilizzavano l’islam per imporre la loro
egemonia etnica: da qui la ripresa dei conflitti interni e l’alleanza sempre più stretta
del governo islamista taleban con al-Qa´ida (la Base), organizzazione internazionale
fondata da Osama ben Laden.
Il crollo del regime dei Taleban in Afghanistan nell’ottobre del 2001 a seguito della
guerra condotta dall’alleanza occidentale dopo e in riposta all’attentato alle Due Torri
di New York, costituisce probabilmente una metafora tragica della parabola finale del
fondamentalismo islamico. L’internazionale islamista creata dal miliardario saudita
Osama ben Laden, infatti, legando le sue sorti a quella del regime afghano, ha
dimostrato la difficoltà crescente che i vari movimenti islamisti, sparsi nel mondo,
incontrano nei loro rispettivi Paesi: spesso sconfitti e repressi, altre volte spodestati
dal potere (come in Sudan), i loro militanti si spostano da un fronte di guerra all’altro
(dalla Bosnia alla Cecenia, dalla Somalia all’Indonesia, dal Kashmir alle Filippine)
alla ricerca frenetica di una conferma impossibile alle loro speranze rivoluzionarie per
l’instaurazione dello Stato islamico. Solo di recente tali speranze si sono concretizzate
in un area compresa fra il territorio siriano e quello iracheno, grazie anche alle
conseguenze di guerre condotte in quel’area o direttamente o per procura da alcune
grandi potenze mondiali, come gli USA, sostenuti dai Paesi europei, e la Russia di
Putin.
Il fondamentalismo ebraico
La combinazione fra stretta osservanza religiosa, acuto senso della propria identità
socio-culturale e difesa, senza compromessi possibili, dei sacri confini della propria
Terra, costituisce l’architettura del pensiero fondamentalista nell’ebraismo
contemporaneo. Solitamente definiti come ultraortodossi, i gruppi che si sono venuti
organizzando in Israele, soprattutto dopo la guerra dei Sei Giorni (1967), possono
essere in realtà classificati in almeno due tipi di movimenti collettivi.
Il primo tipo è segnato da una forte tensione messianica; il secondo, invece, punta
alla difesa della memoria e dell’identità religiosa di un popolo (quello ebraico), con
una strategia politica volta a ricostituire i confini della biblica Terra promessa. Il
corollario ideologico è l’opposizione strenua ad ogni ipotesi di concessioni territoriali
al popolo palestinese al fine di una pace stabile fra i due popoli in conflitto ormai da
quasi settanta anni.
In entrambi i casi, il valore che orienta l’azione sociale di questi gruppi è l’identità
dell’essere ebrei in Terra d’Israele (nel senso biblico d’Eretz Israel), prima ancora di
riconoscersi come cittadini di uno Stato democratico e pluralista, com’è lo Stato
israeliano moderno, sorto dopo la seconda guerra mondiale. In entrambi i casi, la
legittimazione dell’agire in forme radicali deriva dalla convinzione che un ebreo
osservante possa trovare nel Libro sacro e nelle interpretazioni consolidate nelle
tradizioni rabbiniche una fonte autorevole di norme, oltre che un modello di società
già prefigurato nella sua interezza.
Infatti, gli ultraortodossi in senso stretto o haredim (letteralmente «coloro che
tremano davanti alla parola di Dio», Isaia 66,5) osservano tutti i comandamenti divini,
mizwot, derivanti dalla Torah (Legge). L’osservanza dei precetti è il presupposto per
la creazione di comunità coese, ordinate ad Deum. Da qui la formazione di vere e
proprie enclave nel territorio, zone franche dove le persone sentono fisicamente una
prossimità religiosa che altrove non sarebbe possibile. Alcuni quartieri di
Gerusalemme e di Tel Aviv oggi hanno assunto i caratteri d’agglomerati urbani
etnicamente e religiosamente omogenei, così come alcune aree di metropoli americane
(come, ad esempio, a New York, nel quartiere di Crown Heights di Brooklyn, dove ha
sede uno dei movimenti più attivi e in crescita come quello di Habad).
Essi sono stati in un primo tempo (sino agli inizi degli anni Cinquanta del secolo
scorso) avversari severi del sionismo, ritenuto appunto una forma di secolarizzazione
rispetto alla tradizione della Legge ebraica.
Con la Shoah, l’atteggiamento della maggior parte del mondo hared cambierà.
L’impossibilità di vivere in Europa dopo che il Male si era manifestato in maniera
radicale convince una parte del mondo ultraortodosso, sopravvissuto allo sterminio,
che l’immigrazione, prima nello Yishuv, l’insediamento ebraico in Palestina, poi nello
Stato d’Israele, sia ormai inevitabile. Le varie comunità ortodosse emigrate in Israele
dal Centro-Est dell’Europa manterranno, tuttavia, il loro rifiuto verso uno Stato «non
retto dalla Torah»; ma esse concederanno almeno alle istituzioni secolari una sorta di
«legittimazione funzionale». Lo Stato d’Israele, infatti, alla fine sarà visto da una parte
consistente di tali comunità come un luogo dove si possono praticare, meglio che
altrove, l’osservanza dei precetti religiosi e come un’istituzione con cui è possibile
contrattare al meglio le condizioni di riproduzione delle stesse comunità
(finanziamento delle scuole ebraiche, esenzione dal servizio militare degli studenti di
queste scuole e così via).
La necessità di negoziare con lo Stato benefici economici e privilegi ha favorito
negli ultimi decenni una progressiva partecipazione alla vita pubblica e politica degli
ultraortodossi. I gruppi di tali tendenze sono divenuti, dal 1977 in poi, grazie alla
legge elettorale proporzionale, un elemento decisivo per la formazione di qualsiasi
maggioranza e sono sovente entrati a far parte di coalizioni di governo, politicizzando
sempre più la loro azione socio-religiosa. Questo processo conosce un’acuta fase
d’esasperazione con l’aggravarsi del conflitto israelo-palestinese. Più il conflitto
diventa violento e disperato, più le frange radicali sono portate ad accentuare
l’impegno politico, in difesa non solo della sopravvivenza d’Israele, ma della Terra
(santa) d’Israele. Per i loro militanti diventa impensabile poter cedere qualsiasi parte
della Terra d’Israele, giacché una simile decisione verrebbe a violare un principio
fondamentale dell’ebraismo: quello del pikuah nefesh (salvaguardia della vita). La
cessione dei territori ai palestinesi significherebbe, infatti, mettere in pericolo la vita
stessa degli ebrei.
Con la guerra vittoriosa da parte d’Israele, dello Yom Kippur, nel 1973, la strategia
della colonizzazione religiosa, perseguita da tali gruppi, dispiega tutti i suoi effetti ed
oggi costituisce una delle maggiori difficoltà per una possibile via di soluzione del
conflitto. Nella seconda metà degli anni Settanta nasce, infatti, il Gush Emunim
(Blocco dei fedeli), un’organizzazione aperta non solo agli osservati religiosi ma
anche ai laici di ispirazione nazionalista. Nei nuovi insediamenti costruiti, a violte in
modo illegale, nei territori palestinesi occupati dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967
e quelle del 1973, i nuovi zeloti daranno vita a modelli di contro-società fondate su
una stretta osservanza della Torah e su relazioni sociali improntate ad ascetismo ed
etica del sacrificio, che hanno come obiettivo la «redenzione della Terra».
L’entusiasmo accresciuto dai successi raggiunti, spinge alcuni gruppi più radicali a
progettare la distruzione degli edifici di culto musulmani che sorgono sulla spianata
delle moschee, a Gerusalemme. La forte spinta alla politica di colonizzazione, come
riconquista della geografia della memoria religiosa ebraica subisce una battuta
d’arresto, quando, nel 1994, è raggiunta una prima intesa tra il governo Rabin e l’O LP
di Arafat, in base alla quale viene decisa la restituzione di parti della Terra d’Israele ai
palestinesi. La reazione delle frange estreme del fondamentalismo ebraico non si fa
attendere.
Nel novembre 1995, con un atto ancora più grave e scioccante per tutto il mondo
ebraico, un militante nazional-religioso, Ygal Amir, colpirà a morte il primo ministro
Rabin, al termine di una grande manifestazione a Tel Aviv, che aveva lo scopo di
sostenere il governo nella sua politica di trattativa con l’OLP. Nel rivendicare il gesto,
che egli dichiara necessario e obbligatorio, Amir si richiama alla tradizione ebraica
che, in taluni casi, legittima l’assassinio del rodef e mosser (letteralmente: traditore e
persecutore), che mette in pericolo la vita d’altri ebrei. La morte di Rabin, che ha
osato interrompere, con la cessione della Terra, il processo di guarigione dell’universo
(tikkun), è per l’attentatore un passo necessario per giungere al «pentimento»
d’Israele.
Gli etno-fondamentalismi nello hinduismo e nel buddismo.
Il dissolversi dei legami di solidarietà culturale e religiosa, che un tempo stringeva,
in un circolo virtuoso - famiglia, luogo d’insediamento territoriale, religione e valori
largamente condivisi -, causato dalla modernizzazione e dalla globalizzazione
economica, è stato interpretato da alcuni leader religiosi, sia del mondo hindù che di
quello buddista, come un segnale allarmante dell’eclisse del senso religioso dalla vita
individuale e collettiva. Nella prima metà del XX secolo si sono formati così, sia in
India, in ambiente hindù, che nello Sri Lanka, in ambiente buddista, movimenti che
presentano tratti di fondamentalismo. Possiamo parlare, perciò, rispettivamente, di
movimenti neo-hinduisti e neo-buddisti d’orientamento fondamentalista.
Le loro caratteristiche salienti, pur nella differenza dei contesti sociali e politici in
cui essi sorgono, sono l’affermazione dell’esistenza di un fondamento assoluto
dell’identità etno-culturale di un popolo; l’identificazione di questo fondamento nel
nucleo di verità contenuta in una tradizione religiosa determinata; il recupero
ermeneutico di un Testo sacro, considerato depositario della memoria collettiva di un
popolo, trasformato in una fonte indubitabile, per disegnare un modello di società
religiosamente integrata in tutte le sue parti e funzioni; infine, la selezione e
promozione di una nuova élite politica, locale e nazionale o fra le fila d’intellettuali
religiosi, legati ai movimenti di risveglio etno-religioso oppure fra le nuove leve di
monaci, istruiti e urbanizzati, impegnati sempre di più nella vita sociale e pubblica.
Ad esempio, nel lessico politico e religioso di uno dei più importanti movimenti
neo-hindù, lo Shiva Sena (letteralmente, l’Armata di Shiva), fondato nel 1966 e
diffuso in otto Stati dell’India e il cui simbolo è il tridente di Shiva, ricorre spesso un
neologismo: hindutva. Questa parola è tradotta, solitamente, come hinduità. Essa sta a
significare che esiste un’identità etnica e religiosa, radicata nella memoria dei sacri
testi e custodita dalle avanguardie religiose, rappresentate dai militanti del movimento,
che si assumono il compito di risvegliare la coscienza collettiva e di combattere gli
effetti, considerati negativi, prodotti dallo Stato secolare moderno. L’India è degli
hindù, perché la loro storia s’intreccia con la grande tradizione religiosa propria di un
popolo, diversa, e perciò incompatibile, con quella d’altri gruppi (i musulmani, i
buddisti, i cristiani e così via). Il potere politico deve, di conseguenza, rispecchiare i
valori di tale tradizione, combattendo il relativismo morale e il pluralismo etico
favoriti, a loro detta, dalla democrazia moderna.
Allo stesso modo, un altro movimento, nato in India e d’impianto fondamentalista,
l’Associazione dei volontari nazionali (RSS), è solita organizzare pubblicamente riti
collettivi, rivisitando una serie di feste previste nel calendario sacro hindù e
trasformandole in vere e proprie manifestazioni politico-religiose, nelle quali i simboli
della tradizione sacra (dei Veda, i testi antichi dell’hinduismo) sono reinterpretati, per
essere esibiti come simboli d’identità nazionale, spesso contro un Nemico, di volta in
volta, identificato nei musulmani o nei cristiani. La nascita (nel 1983) e il successo
elettorale del Partito del Popolo Hindù (Bharatiya Janata Party) nel 1996 e, poi nel
2014, costituisce un evidente esempio dell’approdo alla politica dei movimenti di
risveglio etno-religioso in campo hindù.
Analogamente il processo di trasformazione interno, vissuto dal buddismo nello Sri
Lanka, subito dopo l’indipendenza nazionale, avvenuta nel 1948, è un altro esempio di
formazione di un etno-fondamentalismo religioso, alla stessa stregua di quanto
abbiamo già visto sia nel mondo induista che in quello ebraico.
Grazie all'opera di revisione operata da alcuni monaci, già a partire della fine
dell'Ottocento e rafforzatasi dopo l'indipendenza, si afferma un modernismo religioso
buddista. Esso si esprime nell’idea di non praticare più l'ascesi spirituale solo fuori da
questo mondo,nel chiuso dei monasteri, ma con l’impegno diretto nel mondo. In tal
modo il principio buddista classico della compassione viene convertito nel primato
della responsabilità personale e morale dell’individuo nell'agire sociale. La
modernizzazione delle categorie spirituali tradizionali, nate in seno stesso al mondo
monastico, ha favorito un successivo passaggio: la ricostruzione della memoria
collettiva, in funzione della definizione dell'identità etno-nazionale singalese (gli
abitanti dell’antica Ceylon), emersa dal colonialismo dopo la seconda guerra
mondiale. In questo lavoro di recupero della memoria e di reinvenzione della
tradizione, un ruolo decisivo è svolto proprio da un nuovo ceto di monaci, con buon
livello d’istruzione, convinti della necessità di far uscire il buddismo dalle celle
monastiche e di coinvolgere nel risveglio spirituale, dal basso, tutta la società e, in
particolare, le classi medie dei centri urbani, saldando così la pericolosa frattura che la
modernizzazione stava aprendo fra città e campagna
Ad esempio, i monaci hanno riproposto un antico testo della tradizione buddista
theravada singalese del VI secolo - il Mahavamsa (letteralmente: la grande cronaca),
che racconta la storia del primo monachesimo buddista nello Sri Lanka, in forme
epiche, presentandolo come la fonte autentica ed unica dell'identità della nazione
singalese. In questa storia si narra l’allenaza virtuosa fra illuminati principi e sovrani
singalesi, da un lato, e monaci buddisti, dall’altro. Trono e altare, diremmo se fossimo
in Europa.
L’impresa religiosa e politica è perfettamente riuscita. I monaci hanno fornito e
forniscono alle nuove classi dirigenti dello Sri Lanka una risorsa di senso collettivo la spiritualità buddista -, mettendola al servizio di un progetto politico preciso:
affermare la perfetta coerenza fra religione, etnia, lingua e terra. La formazione di un
pensiero etno-fondamentalista o nazional-religioso è una delle cause del conflitto,
aspro e sanguinoso, che, tra il 1970 e i giorni nostri, oppone la maggioranza singalese
alla minoranza Tamil, di religione ed etnia hindù, abitante in ampie zone dell’isola. Il
mito delle origini religiose della Nazione singalese si è così rafforzato, proprio in
antitesi ad un Altro - soprattutto nei confronti dei Tamil, e, in misura meno
drammatica, rispetto ai musulmani ed ai cristiani -, nello spazio del violento dramma
rituale che agita la storia contemporanea dello Sri Lanka. La stessa tenuta democratica
del nuovo stato ne ha così risentito pesantemente.
L’anno terribile
L’attentato alle Twin Towers di New York dell’11 settembre 2001 può essere
considerato, a tutti gli effetti, un evento cerniera della storia contemporanea. Molti
osservatori e studiosi hanno cominciato a chiedersi che cosa fosse avvenuto nella
mente dei giovani attentatori per convincerli a compiere un’azione di così grave
violenza, contro sé stessi e contro altri esseri umani del tutto innocenti. L’attentato è
stato in realtà un evento drammatico che è stato preceduto e seguito da altri episodi
simili, riconducibili in gran parte a un modo tecnicamente specifico di fare la guerra
nel mondo contemporaneo: il terrorismo. In tale ambito rientrano le azioni di guerra
compiute con “uomini-bomba” che non vanno tanto a colpire obiettivi militari, ma
colpiscono in modo indiscriminato.
Dal 1982, anno del primo attentato suicida compiuto da un militante Hezbollāh in
Libano contro l’ambasciata americana a Beirut, anche l’azione terroristica ha
cambiato di segno. Chi la teorizza e la pratica, in effetti, non è solo interessato a creare
un clima di paura nel campo avverso, colpendo civili e persone inermi, ma anche e
sempre più a dimostrare che il sacrificio di vite umane è un atto purificatore estremo
accetto agli occhi di un dio, degno di essere compiuto senza timore nell’affrontare e
nel dare la morte. Infatti la lunga serie di attentati portati a termine in varie parti del
mondo da uomini e donne (più recentemente, anche queste ultime), che si fanno
esplodere addosso una bomba per arrecare il maggior danno possibile al nemico, da un
lato mostra quanto stretto sia il legame fra una forma di pensiero religioso, radicale e
intransigente com’è il fondamentalismo e, dall’altro, la convinzione di dover ricorrere
alla violenza estrema per imporre il proprio punto di vista.
L’estremismo religioso ha generato una forma di radicalismo dell’agire che ha
portato molti gruppi fondamentalisti a giustificare comportamenti che in linea di
principio sono censurati dalle rispettive tradizioni religiose di riferimento, come nel
caso del suicidio o della violenza rivolta a civili. Il ricorso al metodo bellico di tipo
terroristico non costituisce certo una novità nel corso della storia moderna e
contemporanea. Ciò che appare nuovo è l’emergere di un profilo di combattente che in
nome di un’idea religiosa è disposto a compiere azioni di estrema violenza, compreso
il suicidio sacrificale di sé stesso, per infliggere al nemico il maggior numero possibile
di vittime in una situazione di rapporti di forza militare asimmetrici. In molti casi alla
dimensione religiosa si sovrappongono motivi più strettamente politici, come la lotta
per l’indipendenza nazionale o la difesa di un territorio occupato militarmente
(Afghānistān, ‘Irāq, Palestina), o ancora la ribellione alla sovranità di uno Stato che
non tollera alcuna rivendicazione di autonomia o di indipendenza di parti del suo
territorio (come nel caso della Cecenia o dello Sri Lanka).
Il legame fra la lotta per l’affermazione dell’identità nazionale e il ricorso alla
pratica degli attentati suicidi si è rafforzato, del resto, anche in quelle situazioni dove,
solo dieci anni fa, il riferimento alla religione era marginale o indiretto da parte di
almeno uno dei due contendenti. È il caso, per esempio, dello Sri Lankā. Anche qui,
infatti, ci sono stati ripetuti attentati condotti con la tecnica degli ‘uomini-bomba’
anche da parte dei gruppi più radicali delle tigri Tamil, l’esercito clandestino che ha
lottato sino al 2009 (anno della definitiva per ora loro sconfitta) per l’indipendenza
della zona nord-orientale dello Sri Lanka. La dimensione religiosa del conflitto è
emersa gradualmente dopo la nascita del nuovo Stato nazionale singalese, quando le
classi dirigenti dichiaratamente filobuddhiste hanno fatto di tutto per imporre l’idea
che la nazione è una e una sola, con una terra identificata come l’isola del Dharma,
una sola lingua (quella singalese) e una religione (quella buddhista), entrando così in
rotta di collisione con l’importante minoranza hindu, di lingua e cultura Tamil, che
popola, dai tempi della colonizzazione inglese, le zone settentrionali dello Sri Lanka.
Anche in tal caso, dunque, la rivendicazione d’indipendenza connota una politica
d’identità, che necessariamente ha bisogno di attingere all’archivio dei simboli della
memoria collettiva Tamil, per trovare tutti quegli elementi che possano rinforzare il
senso di appartenenza a una minoranza nazionale oppressa e discriminata anche dal
punto di vista linguistico e religioso.
I monaci buddhisti dello Sri Lankā, d’altro canto, hanno sviluppato una tendenza
fondamentalista, invocando a più riprese la necessità della guerra santa (dharma
yudhaya) contro i Tamil che pretenderebbero in sostanza lo smembramento di una
terra integralmente santificata dal buddhismo nel corso dei secoli. Tutto ciò ha finito
alla lunga per sospingere sia una parte dei Tamil sia altre minoranze religiose, come
quella musulmana per esempio, verso posizioni ideologiche che possiamo assimilare
al fondamentalismo. Dalla rivendicazione o dalla difesa della propria identità si passa
a invocare la sacralità della terra dove si abita e si finisce poi per giustificare tale
politica d’identità con ragioni di carattere religioso. Quando la tensione con i regimi al
potere cresce, si rafforza nella coscienza di chi si sente represso e non ascoltato la
convinzione che sia necessario ricorrere alla violenza estrema; diviene più plausibile,
allora, il passaggio dalla guerriglia all’azione terroristica, motivata anche
religiosamente.
Il terrorismo malattia senile del fondamentalismo
Dall’anno terribile, il 2001, in poi si sono moltiplicati perciò gli studi volti a
spiegare e a capire le origini religiose del fenomeno terroristico e del suo legame con
il pensiero fondamentalista. Va notato che parallelamente all’analisi scientifica di
politologi, sociologi, storici e scienziati della comunicazione, si sono diffusi almeno
altri due generi letterari di cui vale la pena dare conto brevemente. In primo luogo, il
genere del pamphlet antislamico – di cui Oriana Fallaci è stata in Italia, e non solo,
l’interprete più efficace – che ha per reazione fatto moltiplicare i saggi che hanno
cercato di controbattere alla tesi che riduce tutto l’islam al fondamentalismo e alla
violenza. In secondo luogo, è fiorita la letteratura sull’argomento (romanzi, novelle e
racconti brevi) interessata a narrare come una persona possa diventare fondamentalista
e decidere di compiere gesti estremi nel cuore di società aperte e non solo in scenari
già segnati dalla catastrofe della guerra.
In entrambi i casi, tuttavia, si fissa lo sguardo sul mondo musulmano, lasciando
intendere che il fondamentalismo sia una prerogativa esclusiva dell’islam. Oltre a una
delle ultime fatiche dello scrittore John Updike, va ricordato il caso letterario del
pakistano Mohsin Hamid, autore di The reluctant fundamentalist. Nel libro di Hamid,
si narra la trasformazione subita dal giovane pakistano, Changez, che da manager di
un’importante società d’affari di New York decide – dopo l’attentato alle Twin
Towers e durante l’invasione da parte degli Stati Uniti dell’Afghānistān - di diventare
un militante musulmano radicale e di aspirare a emulare le gesta dei protagonisti
dell’attacco terroristico.
Sia gli studi sia i racconti hanno messo in luce come il fondamentalismo, come
modo di pensare e di informare gli stili di vita degli individui, contenga un potenziale
di aggressività che si è manifestato nel corso degli ultimi anni, dal 2001 in poi, in
misura crescente rispetto ai numerosi scacchi e fallimenti subiti dai vari movimenti
religiosi di tipo fondamentalista, che non sono riusciti, salvo poche eccezioni (Irān), a
imporre il loro punto di vista nelle società dove pure continuano a essere presenti. In
altre parole, la sconfitta del loro progetto politico ha spinto alcuni a immaginare il
ricorso alla violenza estrema come l’ultima, necessaria e coerente opzione per
affermare le proprie idee.
Siamo di fronte a una fase degenerativa del progetto e la violenza cui molti di tali
movimenti ricorrono ne è il segno più drammatico, una sorta di malattia senile.
L’allarme crescente nei confronti delle azioni terroristiche ha prodotto un mutamento
nel punto d’osservazione del fenomeno fondamentalista. Esso è, infatti, analizzato non
più e non solo come una corrente religiosa che fissa i propri canoni di fede a partire
dall’idea che un testo sacro contiene una verità assoluta non interpretabile alla luce
dell’evoluzione storica delle società umane, ma sempre più come una forma di
pensiero e di azione che si presenta intrinsecamente violenta, intollerante, fanatica,
non disposta a transigere in alcun modo sui principi che sono ritenuti non negoziabili.
Ciò precisato e tornando all’associazione fra fondamentalismo e terrorismo, uno
studioso statunitense, Mark Jürgensmeyer, ha concentrato l’attenzione sulla violenza
religiosa nel mondo contemporaneo, sostenendo che il fondamentalismo, nato come
movimento religioso e politico, in vari contesti ha finito per esprimere tutto il suo
potenziale di violenza simbolica, fornendo successivamente motivazioni e
giustificazioni ad azioni di tipo terroristico. La violenza simbolica si è tradotta così in
violenza reale. In tale analisi non si compie l’errore di attribuire solo ad alcuni sistemi
di credenza religiosa, in particolare alle così dette religioni monoteiste, l’emergere
dello zelo estremista. Chi agisce violentemente in nome di Dio, infatti, tende a
giustificare razionalmente ciò che egli compie, poiché si sente investito da una
missione speciale, sente di far parte di un’avanguardia di fede, di cui si fa difensore e
interprete esclusivo e autorevole. Il fatto che generalmente i protagonisti di tali gesti
estremi rifiutino con sdegno di essere qualificati terroristi è significativo; spesso essi,
infatti, si autodefiniscono combattenti non solo di una giusta causa, ma di una causa
superiore e trascendente, che sarebbe messa in discussione e in pericolo nella società
moderna.
Da questo punto di vista, è importante segnalare il moltiplicarsi delle ricerche sui
materiali prodotti dai movimenti radicali fondamentalisti; in particolare documenti
riguardanti tutti quei militanti che hanno compiuto azioni estreme, lasciandosi
volontariamente morire compiendo un attentato. Più recenemente tale materiale si p
arricchito delle storie di vita di giovani europei (uomini e donne) che hanno deciso di
migrare verso le terre del califfato, in Siria.
Essi hanno lasciato lettere o testamenti spirituali, che presi e analizzati assieme
costituiscono un materiale empirico di prima mano, un insieme di documenti
etnografici autoprodotti, che consente di guardare dal di dentro la cultura della
violenza religiosamente motivata, così come prende forma in un ambiente sociale
influenzato dall’ideologia fondamentalista. Non c’è da stupirsi che molte informazioni
provengano dal mondo dei combattenti estremisti di matrice musulmana, che spesso
hanno consegnato a brevi scritti o a video registrati, prima di un attentato, le
motivazioni del loro gesto. È proprio questo ambiente che mediamente ha fatto
registrare il più elevato numero di casi di suicidi sacrificali, definiti di martirio nel
linguaggio religioso dei movimenti che li hanno promossi.
In quest’ottica, un brillante sociologo della religione francese di origine iraniana,
Farhad Khosrokhavar, ha studiato i nuovi martiri di Allāh, cercando di cogliere le
ragioni di ciò che egli ha chiamato martiro-patia (la patologia del morire, da martiri)
che sembra aver colpito frazioni consistenti delle coorti giovanili di molte società a
maggioranza musulmana e, in misura minore, alcune frange di giovani musulmani
europei, che l’autore ha potuto intervistare in occasione della sua ricerca sulla
presenza di persone di cultura musulmana nelle carceri. Ciò che emerge dai suoi studi,
così come da altri che possono essere consultati nel sito del centro di ricerca PRISM
(The Project for the Research of Islamist Movement: www.e-prism.org; 23 ott. 2008),
istituito da Reuven Paz nel 2002, è che il documento attribuito a Muhammad ‘Attā,
uno degli attentatori delle Twin Towers, costituisce una sorta di matrice di
testimonianze simili.
Ciò che emerge, infatti, non è solo la retorica religiosa e la ripetizione di formule
rituali, ma l’idea forte di compiere un’azione che fa sentire i giovani attentatori (e
attentatrici) come facenti parte di una catena di testimoni il cui ultimo anello è lo
stesso profeta Muhammad. Ci si ricollega direttamente a un modello astratto di
combattente sulla via di Dio, così come viene definito dal Corano, ripristinando – con
un salto astorico notevole – il circuito della memoria religiosa, che, secondo una delle
matrici ideologiche dell’islamismo radicale e violento, si sarebbe spezzato dapprima
sotto la pressione del colonialismo e, successivamente, per volontà stessa delle nuove
classi dirigenti postcoloniali che hanno deviato dall’ortodossia e imposto una
modernizzazione che progressivamente ha reciso i legami con le pure origini della
fede. Si dimostra così come il fondamentalismo in generale, e non solo nel caso
appena citato, si faccia interprete di una politica della memoria collettiva per
contrastare il pericolo di perdita della stessa nelle società moderne, tendezialmente più
aperte e plurali rispetto a quelle del passato.
Se assumiamo, dunque, il 2001 come l’anno terribile del fondamentalismo,
l’interrogativo che ci si è posti è se la violenza estremista e l’intolleranza siano una
coerente espressione della natura stessa del fenomeno di cui stiamo parlando. C’è un
generale consenso fra gli studiosi nel sostenere come la violenza costituisca una
possibile deriva dei movimenti di tipo fondamentalista, solo quando, però, essi
finiscono per convincere i propri militanti della necessità di mobilitarsi non solo per
difendere l’assolutezza di un sistema di credenza e, in tal modo, per affermare
un’identità religiosa pura e dura, ma anche per non arrendersi quando tutte le altre
possibili alternative di lotta politica sono state esplorate senza successo o sono state
precluse dai regimi al potere. Si fa strada allora e solo allora l’idea che prima delle
leggi di uno Stato o di un ordinamento giuridico cui obbedire, esista una lealtà più
stretta e cogente, quella verso la legge divina. Per queste persone diventa problematico
riconoscere l’esistenza di uno Stato che pretende di essere non confessionale o
accettare di vivere in una società pluralista e aperta, in cui credere nel relativo diventi
la regola aurea che permette ai credenti di diverse fedi di vivere sotto lo stesso tetto.
Conclusione
L’analisi, che abbiamo condotto su alcuni dei più importanti movimenti della
galassia fondamentalista, mostra le luci - in verità poche - e le ombre - tante e
inquietanti – di tale fenomeno. Molte religioni hanno visto nascere dal loro seno
movimenti radicali, i quali si sono venuti organizzando in vari punti del globo in
modo autonomo spesso rispetto alle religioni storiche da cui hanno preso le mosse.
Il fondamentalismo è il nome che diamo ad un tipo di conflitto culturale e
politico, che emerge, sia nelle società ultramoderne sia in quelle in via di
modernizzazione e che si trovano, ormai, sempre più a stretto contatto con i modelli di
vita moderna, a causa della forte interdipendenza economica e culturale, grazie anche
ai nuovi media.
I fondamentalismi, perciò, non sono corpi estranei delle società in cui viviamo.
Essi svelano l’esistenza della precarietà e dell’infondatezza del patto etico-politico,
che tiene assieme individui che vivono in una stessa realtà sociale. Essi rivelano
l’esistenza, nelle società contemporanee, di un basso indice di fiducia nei confronti del
sistema politico e della tendenza al ripiegamento individualistico sui propri interessi.
In tal senso il fenomeno di cui parliamo sembra mondiale e non confinato in un parte
del nostro mondo. L’universalità del fondamentalismo, dunque, sembra escludere che
solo una religione - come l’islam, ad esempio - ne abbia il monopolio esclusivo.
Possiao affermare che esso, di conseguenza, è un sintomo – una luce – di un malessere
profondo universale.
Il modo di pensare e di agire del credo fondamentalista è una forma di
modernità religiosa che si confronta dialetticamente, e violentemente a volte, con le
forme individualizzate e relativistiche del moderno credere. Schematicamente
potremmo dire che, di fronte a una difficoltà crescente dei grandi sistemi di credenza
religiosa di controllare i propri confini simbolici, perché gli individui tendono a farsi
una religione a misura dei propri bisogni e delle proprie attese, superando barriere e
invadendo, senza troppi scrupoli, i confini d’altri sistemi di credenza, i
fondamentalismi contrastano tutte queste forme sfrangiate, deboli, incerte, ricche di
soggettività e di ricerca spirituale senza frontiere, in nome di un’identità forte, radicata
in una verità che si ritiene non negoziabile né adattabile alla logica del compromesso
con il mondo.
Le poche luci accese però sono ormai state oscurate, alla prova dei fatti. E’ ben
difficile, infatti, trovare esempi di movimenti che abbiano saputo effettivamente
iscrivere le loro idee nella società civile, senza produrre insanabili conflitti, generando
al contrario forme d’intolleranza, strutture politiche contraddittorie e, per finire, una
striscia di sangue per la somma di atti violenti commessi.
Quanto appena detto fa comprendere allora la seconda ombra che grava sul
fondamentalismo: la totale e progressiva riduzione della religione alla dimensione
politica in vista della sua redenzione. Pensare che il Paradiso possa essere realizzato
in terra con la critica delle armi appare sempre più come il paradosso dei paradossi,
che la storia ci presenta oggi. Ridurre la religione alla politica, infatti, si è presto
dimostrato un esercizio sterile e pericoloso: non fosse altro perché chi si è mosso in
nome di Dio o di una suprema Legge cosmica, per affermare le ragioni della Verità
nella sfera politica, non pensava a quali e quanti rischi andava incontro, piegando le
ragioni della trascendenza alle piatte esigenze della lotta per il potere.
I monaci-guerrieri, che si aggirano nel mondo contemporaneo, hanno
interpretato in anticipo le sofferenze spirituali del mondo moderno, ma poi hanno
finito, nel loro radicalismo ascetico e rivoluzionario, spesso violento, per violare
sistematicamente i diritti umani fondamentali o, peggio, provocando dolore e morte,
considerando legittimo il ricorso alla violenza sacra. Hanno così dimostrato che, pur
volendo purificare dai mali che affliggono le democrazie moderne, essi sono
strutturalmente incompatibili non solo con lo spirito democratico, ma con il rispetto
minimo alla dignità di ogni essere umano.
Un bilancio, in ultima analisi, fallimentare.
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