I fondamentalismi e l`utopia del fondamento

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I fondamentalismi e l`utopia del fondamento
Democrazia e religione.
Democrazie e religione alla prova dei fondamentalismi
Enzo Pace
1. Introduzione.
In quale ideal-tipo di azione sociale possiamo collocare il fondamentalismo? In
un’intervista impossibile, Max Weber probabilmente ci suggerirebbe di inquadrarlo
nel modo d’agire razionale rispetto al valore. Il senso dell’agire nel caso che stiamo
per esaminare, infatti, scaturisce da una solidarietà sociale, da un sapere comunitario
che insegna ai singoli a disciplinarsi per rendere reale un valore etico-religioso,
ritenuto assoluto, fondamento di ogni possibile legame sociale.
La razionalità dell’agire di tipo fondamentalista si dispiega in modo trasparente, dal
momento che tutti i movimenti collettivi che agiscono secondo una logica
fondamentalista compiono le loro esercitazioni non solo in campo religioso, ma
soprattutto in quello politico. L’obiettivo è la conquista del potere politico perché si
ritiene che solo dal centro della decisione si possa rifondare la società tutta,
riscrivendo le regole del gioco costituzionale dello Stato e riconducendo le autonome
sfere della vita all’etica della fratellanza. La politica è il regno della razionalità
religiosa per i movimenti fondamentalisti. E la religione costituisce l’orizzonte di
senso ultimo dell’agire: dalla lotta contro il Nemico alla costruzione di una microfisica
di potere, dalla disciplina dei corpi al ristabilimento delle regole alimentari, dall’autoghettizzazione in quartieri o in enclave territoriali non contaminate dai simboli
presunti della modernità: dall’iconoclastia nei confronti della televisione alla
costruzione di luoghi di culto alternativi a quelli ufficiali, dalla riscoperta di antiche
abitudini nel vestiario alla trasformazione di rituali tradizionali in forme di messa in
scena delle politiche di identità.
In altre epoche del passato movimenti radicali o integralisti in campo religioso hanno
spesso portato sino alle estreme conseguenze l’idea che l’altro mondo è possibile.
Henri Desroche (1969) ha avuto il merito di fornirci una rassegna ragionata di tali
movimenti. In molti casi essi sono stati animati da un furore religioso e da una
passione per l’utopia che li portava a immaginare cittadelle pure e sante della fede da
costruire in terra. A volte – com’è accaduto sia durante la riforma protestante con la
guerra dei contadini tedeschi sia in occasione della gloriosa rivoluzione inglese con
l’emergere di movimenti di rivolta popolare – l’interpretazione radicale del Sermone
della Montagna permetteva di trasferire l’ideale dell’etica della fratellanza dal regno
dei cieli ai regni dell’economia e della politica. In ogni caso si trattava di un tipo di
agire orientato a valori e alla ricerca di un’intesa etica, di una solidarietà fra simili. La
dimensione razionale dell’agire politico non costituiva certamente il cuore stesso
dell’azione di questi movimenti.
Ciò che invece appare caratteristico dei movimenti collettivi di tipo fondamentalista è
la centralità della politica: il loro agire è razionale, tratta la religione come un mezzo
per raggiungere un altro fine, la conquista del potere politico e la costruzione dal
centro del comando di uno Stato integralmente etico. Il fondamentalismo perciò viene
dopo l’affermazione di uno Stato e di una società che tendono a regolarsi non più in
base ai principi religiosi. Dunque, siamo dopo la modernità. Ed è, allo stesso tempo,
contro di essa, nel senso che il fondamentalismo pretende non di sopprimere lo Stato,
instaurando una comunità di puri ed eguali, ma di reinventarne il fondamento assoluto
della legittimità (Pace, 1998).
L’intento che ci proponiamo nelle pagine che seguono è di mostrare come il
fondamentalismo sia innanzitutto un costrutto astratto, un tipo-ideale, che si rivela
utile per mettere ordine in una realtà in cui compaiono da tempo movimenti collettivi
che si avvalgono di retoriche religiose per scopi politici. Come tutti i tipi-ideali, il
fondamentalismo, dunque, non esiste, così come allo stato puro lo descriviamo nella
trama concettuale che ci permette di identificarne gli elementi specifici. Esistono tanti
e diversi movimenti collettivi, che sono apparsi in diversi contesti socio-religiosi, che
presentano in modo ricorrente tratti comuni, che giustificano legittimante l’esercizio
intellettuale di produzione di un modello interpretativo unitario (Marty, Scott
Appleby, 1991, 1993a, 1993b, 1995; Almond, Scott Appleby, Sivan, 2006).
In tal senso e in secondo luogo, i movimenti fondamentalisti hanno preteso e
pretendono di riportare al centro della vita individuale e collettiva il tema del
fondamento ultimo e assoluto della polis umana. In un’analisi distaccata delle luci e
delle ombre che essi hanno mostrato negli ultimi venti anni, si comprende che la
complexio oppositorum che si cela dietro tale intento costituisce la vera ragione della
crisi stessa del progetto fondamentalista. Volendo redimere la politica per salvare la
società dal relativismo si finisce spesso per imprigionare, banalizzandola, la verità nel
risiko fra Amico/Nemico. La verità diventa inevitabilmente di parte, schierata tutta da
una sola parte, interpretata e imposta da una parte sull’altra senza sconti apparenti.
Il bisogno e la ricerca di un fondamento razionale e legittimo dell’ordine sociale e del
sistema politico, su cui tutte le società umane si sono da sempre interrogate, spesso
interrogando gli dèi, possono essere traditi o stravolti dai movimenti fondamentalisti,
quando tale bisogno e tale ricerca divengono dubbi risolti, dittatura delle menti prima
ancora che dittature politiche. Amos Oz nelle sue lezioni sul fanatismo (2004) osserva
ironicamente che il fanatico (figura esasperata di fondamentalista religioso che ha
risolto tutti i suoi dubbi) crede che la verità, la sua verità, debba esserti imposta per
amore: egli lo fa perché ti vuole bene, vuole salvarti.
Finché la ricerca del fondamento resta come un strada aperta lunga la quale persone in
ricerca, diverse e con punti di vista differenti, si incontrano e s’intendono sui principi
del vivere assieme, il fondamento non è un risultato acquisito una volta per tutte, ma
un processo in continuo divenire. Come per l’identità: non conclusa e chiusa in sé una
volta per tutte, ma multipla per i tanti apporti che nel corso della vita individuale e
collettiva si finisce per stabilire o per subire.
In tale prospettiva, nel ricostruire a larghi tratti la vicenda dei principali movimenti
fondamentalisti, cercheremo di tracciare un bilancio critico del rapporto fra
fondamento e fondamentalismi.
2. La vexatia quaestio del nome delle cose.
Il fondamentalismo, prodotto maturo della modernità, ha ormai un secolo di vita. Esso
si è manifestato in diversi ambienti socio-religiosi. È nato, storicamente, nel mondo
protestante (Barr, 1977). Tuttavia fenomeni simili si verificano anche in altri contesti.
Non certo per contagio o per un meccanico processo di vasi comunicanti. Il problema è
un altro: il fondamentalismo è in realtà il nome che noi abbiamo finito per dare ad un
conflitto di vasta portata che, in forme e gradi diversi, si è presentato in tutte quelle
società che avevano preteso di organizzare la loro vita collettiva con istituzioni e regole
del gioco, che potessero fare a meno del riferimento esplicito alla religione. Società
eticamente neutrali e Stati non più schierati a difesa di una religione di maggioranza
sono le due costruzioni sociali del XIX e XX secolo, che i movimenti di tipo
fondamentalista s’incaricano di criticare, provando a smontarle, pacificamente,
ricorrendo agli strumenti della lotta democratica, oppure violentemente, scegliendo una
delle moderne forme di fare la guerra, senza avere a disposizione eserciti ed armamenti
sofisticati, come la guerriglia e il terrorismo. Manifestazione estrema della violenza del
sacro, il fondamentalismo si presenta, a volte, come moderna variante di un
millenarismo convinto che la Fine dei Tempi e della storia sia prossima; una fine
immaginata come l’ultima pagina dello scontro fra le forze del Bene e quelle del Male.
In alcuni gruppi la vocazione apocalittica, allucinata e radicale, che ispira l’ideologia e
l’azione dei loro militanti arriva a legittimare il gesto terroristico, inteso come atto
rituale di purificazione del male presente nel mondo e, allo stesso tempo, come
accelerazione dell’apocalisse annunciata. Gli aderenti alla setta neo-buddista
giapponese Aum Shinrikyô (la Suprema verità) hanno così giustificato lo spargimento
di gas nervino nella metropolita di Tokyo nel marzo del 1995 (Reader, 1988;
Shimazono, 1995).
A quasi trenta anni dal suo primo apparire sulla scena pubblica di molti Paesi (il 1979 è
l’anno della prima marcia del movimento neo-fondamentalista negli USA e della
rivoluzione iraniana), il fondamentalismo ha dispiegato tutte le proprie potenzialità:
intellettuali, sociali, politiche e militari in quasi tutte le più importanti religioni
mondiali: dal cristianesimo all’islam, dall’ebraismo alle principali religioni
dell’Oriente. Secondo le caratteristiche dei differenti ambienti d’origine, i movimenti in
questione hanno assunto caratteristiche diverse. È più corretto parlare, perciò, del
fenomeno al plurale.
I fondamentalismi, ciononostante, sembrano percorsi da una comune tensione utopica:
la rifondazione, su basi religiose, dei legami sociali e la riscrittura del patto di
solidarietà etico-politico, che dovrebbe fondare la legittimità di uno Stato. Una ripresa
dell’utopia dello Stato etico. Non siamo di fronte tanto ad un regresso verso modelli
storicamente superati e improponibili, in un mondo moderno aperto sempre più alla
circolazione delle merci, dei capitali, degli uomini, dei messaggi pubblicitari e degli
stili di vita e di consumo. I fondamentalisti d’ogni luogo e di tutti i tempi sanno, alla fin
fine, che dovranno fare i conti realisticamente con la modernità, non fosse altro perché
consapevoli che, non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto da quello
culturale, non è facile sbarazzarsi della forza d’attrazione che la modernità stessa
esercita sulle persone del nostro secolo.
I movimenti di tipo fondamentalista, proprio perché animati dalla tensione utopica dello
Stato etico, difficilmente si sottraggono alla logica dell’agire politico e alle moderne
armi della critica, che consentono oggi di combattere le battaglie politiche. Il ricorso
estremo alla violenza dipende dalle condizioni oggettive, nelle quali alcuni movimenti
si trovano ad agire. Non è certamente un esito scontato. La violenza fisica è in realtà
implicita nella violenza simbolica che è all’origine stessa del pensiero fondamentalista:
se la verità è già scritta, basta applicarla senza troppe mediazioni e compromessi con la
logica di questo mondo e, laddove le persone resistono, imporla con gli strumenti del
dominio e del potere. Pensare che la verità assoluta e sacra possa farsi regime è di per
sé un atto di violenza (Pace, Guolo, 2000). Dietro questo modo di concepire la verità si
cela una passione più profonda: essa mi appartiene, sacralizza la mia vita e la società in
cui vivo; la terra che calpesto ne conserva materialmente la memoria e dunque nessuno
può osare dissacrarla. Una verità, infine, che trovo già luminosamente rivelata in un
Testo sacro. Lì c’è tutto. Nessuno può avere l’ardire d’interpretarla e adattarla alle
mutevoli condizioni della storia.
Dietro questo modo di ragionare, in realtà, si cela un paradosso. Nella pretesa di far
diventare la verità fondamento dello Stato e della convivenza sociale, molti movimenti
fondamentalisti finiscono paradossalmente per diventarne nemici. Se essi si fossero
limitati a proporre una particolare lettura dei Testi sacri e a declinare, da tale
ermeneutica, una visione del mondo e della società alternativa a quella dominante, si
sarebbero affermati come un punto di vista fra altri punti di vista. Tutto ciò è
impensabile per il pensiero fondamentalista. L’idea stessa che ci possano essere modi
differenti di credere, all’interno di una comune tradizione religiosa, è radicalmente
rifiutata. Il pluralismo che, storicamente, si è manifestato in seno a tutte le grandi
religioni mondiali è di per sé considerato un errore sistematico: la verità è una ed una
sola; non è pensabile che vi si possa accedere per vie diverse. Società e Stati che
tollerano il principio moderno del credere nel relativo (Michel, 1994; Pace, 1997) sono
ritenute detestabili, antitetiche alla legge divina.
I fondamentalismi, proprio come tutti i movimenti sociali, conoscono un ciclo di vita
che li vede nascere, crescere, entrare a volte in una fase di latenza e alla fine
scomparire. In quest’ultimo caso o perché essi hanno realizzato i loro propositi o perché
sconfitti dagli eventi.
Nati nel primo ventennio del secolo XX, i movimenti in questione, dopo aver
conosciuto una fase di grand’espansione, negli anni 1979-1989, sono oggi ad un
tornante della loro storia: alcuni sono riusciti ad arrivare al potere, altri si sono battuti e
si battono per cambiare i rapporti sociali e politici a loro favore; altri, ancora, hanno
scelto il linguaggio radicale religioso e la violenza sacra per raggiungere obiettivi di
indipendenza nazionale o di riscatto di un intero popolo, altri, infine, sono scivolati
sempre più nell’ombra della lotta armata e nella spirale del terrorismo. In ogni caso
questi movimenti non sono più delle acerbe creature sociali; sono diventati dei soggetti
collettivi adulti. Le vicende degli ultimi tempi ci mostrano che il progetto
fondamentalista di rifondare la società moderna è andato incontro sostanzialmente al
fallimento.
3.
Genesi ed evoluzione nel mondo contemporaneo dei movimenti di tipo
fondamentalista.
Il fondamentalismo nasce, negli Stati Uniti d’America, come una corrente teologica in
seno al protestantesimo, in opposizione alle tendenze della teologia liberale che si erano
manifestate già in Europa. I teologi conservatori statunitensi presero ufficialmente
posizione contro le nuove mode interpretative del testo biblico in una conferenza
tenutasi a Niagara Falls nel 1895. In quella sede, essi elaborarono un documento nel
quale sintetizzarono i punti ritenuti inalienabili per un sapere teologico rispettoso della
verità della Bibbia. Fra di essi, oltre alla riaffermazione di alcune verità di fede, come la
divinità di Cristo o la certezza della sua seconda venuta, il punto qualificante è
l’affermazione dell’assoluta inerranza del Testo sacro: tale principio, infatti, può essere
considerato il criterio essenziale in base al quale è possibile distinguere l’atteggiamento
religioso fondamentalista da altri che possiamo chiamare, genericamente, modernisti o
aperti all’uso del metodo storico-critico, nell’esegesi della Bibbia. Per avere un termine
di confronto in campo cattolico, basterà ricordare che la tendenza liberale e modernista
attecchirà nell’Ottocento anche fra i teologi cattolici. La reazione del Papa e degli
ambienti conservatori non si farà attendere: nel 1907, con l’enciclica Pascendi, il
modernismo sarà condannato.
Il manifesto di Niagara Falls del 1895 sarebbe rimasto probabilmente un documento
interno al circuito dei teologi protestanti, se fra il 1909 e il 1915 le idee in esso
contenute non fossero state diffuse capillarmente nelle chiese da due pastori battisti che
pubblicarono una serie di volumi dal titolo The Fundamentals (da qui il nome assunto
dal movimento che ne seguì). La disputa teologica cominciò così a diventare materia di
discussione fra fedeli di diverse chiese. Nacque un vero e proprio movimento di
opinione che dette vita ad iniziative pubbliche di vario tipo. La più clamorosa, se
vogliamo, la più importante dal punto di vista sociologico, perché costituisce l’ingresso
sulla scena pubblica del movimento fondamentalista, è il cosiddetto «processo della
scimmia». Lo Scope Trial, dal nome del professore di biologia che venne accusato da
un pastore fondamentalista di insegnare le teorie evoluzioniste di Charles Darwin a
scuola, si celebrò nel 1925 a Dayton, nello Stato del Tennessee. Al centro del
dibattimento giudiziario vi era, appunto, la questione della liceità dell’insegnamento
nelle scuole pubbliche delle teorie darwiniane, ritenute in contrasto con il racconto
biblico della creazione dell’universo.
È bene ricordare che il fenomeno di cui stiamo parlando si afferma, in un intervallo di
tempo ben preciso, fra il 1909 e il 1925, in un periodo storico che conosce la
rivoluzione bolscevica in Russia e la prima guerra mondiale. Due eventi che
rafforzavano la convinzione, negli ambienti protestanti più conservatori, che le forze
del Male avanzassero pericolosamente. Billy Sunday, uno dei primi predicatori
evangelici amava contrapporre, nei suoi discorsi radiofonici, alle manovre di Satana nel
mondo la forza di resistenza di una Nazione chiamata da Dio a far trionfare il Bene e la
libertà. Questa nazione era identificata con gli Stati Uniti, Nuova Gerusalemme in terra.
Un patriottismo biblico che alimenterà sino ai giorni nostri la retorica del
neo-fondamentalismo protestante, che ha fornito argomenti al nuovo ceto
teo-conservatore formatosi attorno alla seconda Presidenza di George W. Bush.
L’evoluzione che il fenomeno ha conosciuto negli Stati Uniti d’America in tempi più
recenti (dagli inizi degli anni Settanta agli inizi degli anni Novanta del XX secolo) può
essere riassunta con la formula: dal risveglio religioso all’impegno diretto in politica.
La differenza fra le origini e l’evoluzione del fenomeno in epoca più recente, riposa,
infatti, sulla rilevanza crescente che la politica assume nella strategia d’azione dei
movimenti. Per questo motivo, si parla di neo-fondamentalismo.
Tra il 1979 e il 1989, infatti, i movimenti fondamentalisti conoscono una crescita
imponente, sempre più visibile nella sfera pubblica: apertura di scuole confessionali,
creazione di una rete di radio e televisioni, organizzazione di campagne contro l’aborto,
la pornografia, l’omosessualità e in generale contro le nuove correnti culturali e
politiche, che si erano venute affermando durante e dopo il 1968. Occorrerà attendere,
tuttavia, l’arrivo alla Casa Bianca prima di Jimmy Carter e, soprattutto, poi, di Ronald
Reagan, perché tali movimenti ricevano una definitiva legittimazione e un consistente
appoggio politico. Carter, proclamandosi «born-again» (ribattezzato nella fede), e
Reagan, affidando una parte dei suoi successi elettorali alle campagne pubbliche
organizzate dal cartello dei gruppi neo-fondamentalisti, non nasconderanno le loro
simpatie per le idee e le azioni di questi movimenti.
Questi ultimi si erano andati organizzando, infatti, come veri e propri gruppi di
pressione politica. In particolare vanno ricordate due grandi organizzazioni, nate nel
1979, come la Moral Majority e la Christian Coalition. Queste due associazioni,
assieme ad altre minori, riuscirono a mobilitare una considerevole massa di persone.
L’uso dei grandi mezzi di comunicazione di massa, come la televisione, ai quali i
telepredicatori ricorsero e continuano, ancora oggi, a ricorrere per mobilitare le
coscienze, ha giovato molto alle carriere politiche di persone vicine agli ambienti neofondamentalisti.
La cornice storica e sociale in cui i movimenti neo-fondamentalisti si affermano va qui
succintamente ricordato per meglio coglierne la specificità americana. L’idea che anima
i loro militanti è che la modernità, giacché non riconosce cittadinanza alla fede religiosa
nella sfera pubblica e politica, ha rivelato ormai tutti i suoi guasti, arrivando a
minacciare le basi stesse della coscienza collettiva degli americani. Dopo il disordine
sociale provocato dai movimenti di liberazione del 1968, occorreva perciò ristabilire
l’ordine e la gerarchia dei valori tradizionali.
4. La crisi dei movimenti islamisti nel mondo musulmano.
Il mondo musulmano ha conosciuto un fenomeno simile al fondamentalismo, anche se
questo concetto va applicato con molti distinguo. Il termine stesso non esiste nella
lingua araba. I diversi gruppi radicali, che si battono per il ristabilimento della Legge
coranica nella sua integralità nel governo della società, vengono solitamente designati
come islamyyiun, che si può tradurre in islamisti: coloro che riducono l’islam a
ideologia politica e che, così facendo, mirano ad instaurare uno Stato islamico. Ci
troviamo di fronte, dunque, a movimenti politico-religiosi, che si formano nel periodo
storico compreso fra la fine del colonialismo e la costituzione e lo sviluppo dei nuovi
Stati indipendenti nel mondo musulmano. Questo dato storico è importante per capire la
retorica anti-occidentale che molti movimenti islamisti hanno utilizzato per mobilitare
il consenso politico e per opporsi alle élites nazionali, accusate d’acritica accettazione
dei modelli di Stato di stampo occidentale. Benzina sul fuoco dell’azione militante di
questi movimenti viene poi gettata dalla crisi israelo-palestinese. La presenza dello
Stato d’Israele, nel cuore del mondo arabo, è vista dai movimenti islamisti (e non solo)
come un prolungamento del dominio delle potenze occidentali in quell’area geografica.
Infine, i movimenti trovano un fertile terreno di crescita, agli inizi degli anni Ottanta
del XX secolo, per l’esaurirsi delle speranze di miglioramento economico e sociale da
parte di vasti strati della popolazione, speranze riposte nei gruppi dirigenti, che avevano
guidato il processo d’indipendenza, dopo la seconda guerra mondiale. Questi gruppi
avevano cercato, in molti casi, di modernizzare la società attraverso riforme dall’alto,
introducendo elementi di separazione fra la tradizione religiosa e la politica,
considerando il rispetto della Legge coranica un impedimento reale allo sviluppo
economico e al superamento di strutture sociali patriarcali e tribali. Non a caso uno dei
campi, in cui lo sforzo di modernizzazione si eserciterà in modo incisivo e che produrrà
inevitabili conflitti con gli ambienti più conservatori e tradizionalisti della società, sarà
la nuova legislazione sulla condizione della donna. Gli islamisti vedranno in tutto
questo una pericolosa forma di laicizzazione dello Stato e di secolarizzazione della
società. Da qui l’opposizione e la lotta politica aperta contro i regimi a partito unico che
finiranno per imporsi, in molti casi, nei nuovi Stati indipendenti post-coloniali.
L’evento mirabile per tutti i movimenti, che cominciavano ad organizzarsi dall’Egitto
alla Tunisia, dall’Algeria alla Giordania, dall’Iraq al Sudan, è stato la rivoluzione
iraniana del 1979 (Arjomand, 1988). Quest’evento, infatti, ha mostrato agli occhi degli
islamisti che il loro sogno si era avverato, il sogno di uno Stato islamico, poco
importava che esso si fosse materializzato in un angolo del mondo musulmano popolato
da una minoranza scismatica, come quella sciita. L’idea, dunque, che un altro mondo
fosse possibile, affidando al progetto di uno Stato islamico integrale le speranze
d’orgoglioso riscatto della propria identità di musulmani, si rafforza (Carré, Dumont,
1985; Kepel, 1991).
L’esegesi islamista della tradizione coranica, messa al servizio della loro azione
politica si avvale d’alcuni concetti chiave come jahiliyya (ignoranza religiosa),
hakimmiyya (sovranità divina) e jihad (combattimento sulla via di Dio). Le società di
tradizione musulmana, secondo l’analisi islamista, sono ripiombate in uno stato
d’ignoranza religiosa (jahiliyya) che produce il Male e che le rende succubi dei
modelli occidentali. In questa teodicea, l’unica sovranità possibile in terra è quella
divina. Essa si esercita in base alla rigida applicazione della Legge rivelata da Dio.
Legittimo è esclusivamente il potere dei governanti che obbediscono alla Legge;
quando quest’obbedienza è disattesa, la lealtà verso i governanti è automaticamente
messa in mora (Choueiri, 1990; Guolo, 2002). I militanti islamisti sentono d’essere,
perciò, un gruppo eletto di credenti (‘usba mu’mina) che ha il compito di indicare le
tracce della salvezza a tutta la comunità dei credenti (umma), in un mondo tornato
all’epoca pre-islamica, dell’ignoranza e dell’idolatria.
Questa visione delle cose, assunta nella sua radicalità, significa lotta senza quartiere
ad ogni forma di potere empio, sia esso interno sia esterno al mondo musulmano. Da
qui la rilettura in chiave moderna della nozione di jihad. Storicamente il jihad
assumeva la funzione di difesa della Casa dell’Islam (dar al-Islam) dalla Casa della
Guerra (dar al-harb), che comprendeva tutto ciò che si situava fuori dal territorio
controllato dall’Islam. Nella visione islamista, invece, questa versione difensiva è
superata e i confini della violenza sacra sono dilatati a dismisura e in modo arbitrario.
Non c’è autorità tradizionale che possa stabilirli, se non gli stessi militanti,
combattenti per la fede. Il jihad allora può essere diretto anche contro il Nemico
interno, costituito dai governanti «empi», sedicenti musulmani, ma in realtà traditori
della fede islamica. Il jihad nei loro confronti è un atto di «difesa dell’uomo» contro la
limitazione della sovranità di Dio, una vera e propria «guerra santa» (harb almuqadasa), di purificazione, d’ascesi militante ed d’azione politico-militare.
L’esempio più eclatante è costituito dall’attentato organizzato, nel 1981, dal gruppo
della Jihad egiziano, guidato da Salam al-Faraj, contro l’allora Presidente Anwar
Sadat, accusato di aver tradito la causa islamica, firmando un’intesa di pace con
Israele.
Anche in Algeria l’islamismo radicale, dopo il colpo di stato del 1991 che cancella i
risultati elettorali, assumerà un volto armato. L’annullamento della vittoria elettorale
del Fronte di Salvezza islamica (FIS), che nel 1991 trionfa nel primo turno delle
elezioni politiche e che sarà, successivamente, posto fuori legge, provocherà, infatti, la
dura risposta del radicalismo. Dapprima l’AIS (Armata islamica di salvezza), braccio
armato della disciolta organizzazione del FIS, poi il GIA (Gruppi islamici armati),
organizzeranno la resistenza che si trasformerà presto in guerra totale contro «il potere
empio».
Il GIA estenderà il limite teologicamente permesso del jihad sino a colpire soggetti,
come donne e bambini, che la tradizione religiosa non identifica con il Nemico. Anche
in questo caso, la decisione trova la sua fonte ispiratrice nei responsi giuridici
derivanti dalla shari‘a, che i nuovi soggetti socio-religiosi, come i capi dei vari gruppi,
teorici dell’ortoprassi del «diritto dinamico», emanano in nome della «giurisprudenza
della necessità» (fiqh al darura), giustificata dalla lotta contro il Male. Le vittime
verranno uccise con una ritualità ben precisa, trattandole come «animali impuri».
Il radicalismo armato assume aspetti diversi in altre situazioni storiche e politiche,
come nel caso palestinese. Gruppi come Hamas (Movimento per la resistenza
islamica, il cui acronimo in lingua araba significa anche fervore), fondato dallo
sceicco Ahmad Yassin nel 1987, e la Jihad islamica palestinese, la cui guida
ideologica è Fathi Shqaqi, favorevole alla creazione di un fronte unico radicale che
unisca sunniti e sciiti, sono qui impegnati nella «guerra di liberazione della Palestina»,
contro Israele. I gruppi hanno praticato a partire dagli anni Novanta il jihad nella
forma del martirio: giovani militanti s’immolano, facendosi saltare in aria insieme alle
loro vittime, nel portare il combattimento sulla via di Dio nelle città israeliane. Il
martirio dei giovani militanti radicali assume la funzione di indicare al popolo
palestinese, ma anche all’intero mondo musulmano, quale sia il compito degli
autentici credenti, quando l’Islam è in minacciato da Nemici che lo vogliono
distruggere (Khosrokhavar, 2002).
Anche nel subcontinente indiano si è avuto lo sviluppo dei movimenti islamisti. Di
particolare rilevanza è il ruolo giocato dal movimento islamista deobandi, dal nome
della città, Deoband, in prossimità di Delhi. Esso fu fondato da al-Mawdudi (19031979), in India nel 1941, e si è poi diffuso in Pakistan (Adams, 1996; Reza Nasr,
1994). Un ruolo importante è stato giocato da questo gruppo sulla formazione dei
Taleban, i così detti Studenti di Teologia, giovani afghani, rifugiati nei campi profughi
in Pakistan, durante il regime filo-sovietico che si era instaurato a Kabul. Nel 1996, i
Taleban riescono ad impadronirsi del potere, ristabilendo un minimo d’ordine nel
caos, che si era verificato, dopo la caduta del regime filo-sovietico e il ritiro delle
truppe di Mosca da Kabul. Gli Studenti di Teologia, così chiamati perché formatisi
nelle scuole coraniche allestite nei campi profughi dai predicatori islamisti deobandi,
instaurano un regime islamico, presentandosi come un movimento riformatore, capace
di riportare la pace fra le tribù in lotta, di ricomporre i conflitti etnici e di ristabilire
l’ordine compromesso da anni di guerra intestina e di ristabilire l’autentico islam. La
loro forza è stata tuttavia condizionata dal fatto che essi fanno parte prevalentemente
di un’etnia, quella pashtun, che ha sempre rivendicato a sé una superiorità storica
rispetto alle altre, che compongono il mosaico etnico afgano: i pashtun, infatti,
ritengono di incarnare l’autentica identità nazionale, per averne garantito la continuità
nel tempo. Ben presto le altre etnie (hazara, uzbeka e tajika) si sono resi conto che i
Taleban utilizzavano l’islam per imporre la loro egemonia etnica: da qui la ripresa dei
conflitti interni e l’alleanza sempre più stretta del governo islamista taleban con
al-Qa´ida (la Base), organizzazione internazionale fondata da Osama ben Laden
(Guolo, 2001; Introvigne, 2001; Marsden, 1998; Rashid, 2001).
Il crollo del regime dei Taleban in Afghanistan, a causa della guerra nell’ottobre del
2001, in risposta all’attentato alle Due Torri di New York, costituisce probabilmente
una metafora tragica della parabola finale del fondamentalismo islamico.
L’internazionale islamista creata dal miliardario saudita Osama ben Laden, infatti,
legando le sue sorti a quella del regime afghano ha dimostrato, nonostante la potenza
di fuoco da essa esibita, la difficoltà crescente che i vari movimenti islamisti, sparsi
nel mondo, incontrano nei loro rispettivi Paesi: spesso sconfitti e repressi, altre volte
spodestati dal potere (come in Sudan), altre ancora sottoposti ad una profonda
autocritica, promossa dalle nuove élites post-islamiste, come in Iran (Kepel, 2000;
Roy, 1992).
Il progetto stesso di un integrale Stato islamico è entrato in crisi e, nel momento in cui
i gruppi islamisti, che oggi fanno riferimento ad al-Qa´ida, si rendono responsabili
d’attentati distruttivi contro la maggiore potenza politica dell’Occidente; essi si
trovano costretti sempre più a declinare la propria presunta identità musulmana nei
soli tratti distintivi del volto violento e intollerante dell’islam. Gli islamisti non hanno
più la forza di aggregare i credenti dal cuore puro, nonostante l’avversione che
quest’ultimi possano nutrire nei confronti degli Stati Uniti d’America e, in parte,
dell’Occidente (a causa soprattutto della questione palestinese), poiché, agli occhi
della maggioranza delle popolazioni musulmane, essi hanno finito per rendere un
pessimo servizio alla stessa.
5. Il conflitto fra Stato moderno e movimenti etno-fondamentalisti in Israele.
La combinazione fra stretta osservanza religiosa, acuto senso della propria identità
socio-culturale e difesa, senza compromessi possibili, dei sacri confini della propria
Terra, costituisce l’architettura del pensiero fondamentalista nell’ebraismo
contemporaneo (Stefani, 1992; Nanini, 2002). Solitamente definiti come
ultraortodossi, i gruppi che si sono venuti organizzando in Israele, soprattutto dopo la
guerra dei Sei Giorni (1967), possono essere in realtà classificati in almeno due tipi di
movimenti collettivi. Il primo tipo è caratterizzato da una forte tensione messianica; il
secondo, invece, punta alla difesa della memoria e dell’identità religiosa di un popolo
(quello ebraico), con una strategia politica volta a ricostituire i confini della biblica
Terra promessa. Il corollario ideologico è l’opposizione strenua ad ogni ipotesi di
concessioni territoriali al popolo palestinese.
In entrambi i casi, il valore che orienta l’azione sociale di questi gruppi è l’identità
dell’essere ebrei in Terra d’Israele (nel senso biblico d’Eretz Israel), prima ancora di
riconoscersi come cittadini di uno Stato democratico e pluralista, com’è lo Stato
israeliano moderno, sorto dopo la seconda guerra mondiale. In entrambi i casi, la
legittimazione dell’agire in forme radicali deriva dalla convinzione che un ebreo
osservante possa trovare nel Libro sacro e nelle interpretazioni consolidate nelle
tradizioni rabbiniche una fonte autorevole di norme, oltre che un modello di società
già prefigurato nella sua interezza.
Infatti, gli ultraortodossi in senso stretto o haredim (letteralmente «coloro che tremano
davanti alla parola di Dio», Isaia 66,5) osservano tutti i comandamenti divini, mizwot,
derivanti dalla Torah (Legge) (Gurtwirth, 2004). I mizwot sono norme d’ordine
pratico, la cui piena realizzazione presuppone l’esistenza di una comunità capace
d’integrare gli individui e di farli sentire corresponsabili di tutti gli atti che essi
compiono. Per cui per loro è necessario costituire vere e proprie enclaves nel
territorio, zone franche dove le persone sentano fisicamente una prossimità religiosa
che altrove non sarebbe possibile. Alcuni quartieri di Gerusalemme e di Tel Aviv oggi
hanno assunto i caratteri d’agglomerati urbani etnicamente e religiosamente
omogenei, così come alcune aree di metropoli americane (come, ad esempio, a New
York, nel quartiere di Cronw Heights di Brooklyn). Tutto ciò in funzione
dell’isolamento che preservi la comunità dall’influenza, ritenuta negativa, della
modernità e della secolarizzazione. Non a caso, essi sono stati in un primo tempo (sino
agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso) avversari severi del sionismo,
ritenuto appunto una forma di secolarizzazione intollerabile rispetto alla tradizione
della Legge ebraica. Da qui l’iniziale rifiuto da parte di questi movimenti di
riconoscere la legittimità dello Stato d’Israele, espressione empia di un movimento
come il sionismo (Greilsammer, 1991; Guolo, 1997; Sivan, Friedman, 1990).
Con la Shoah, l’atteggiamento della maggior parte del mondo haredi cambierà.
L’impossibilità di vivere in Europa dopo che il Male si era manifestato in maniera
radicale convince una parte del mondo ultraortodosso, sopravvissuto allo sterminio,
che l’immigrazione, prima nello Yishuv, l’insediamento ebraico in Palestina, poi nello
Stato d’Israele, sia ormai inevitabile. Le varie comunità ortodosse emigrate in Israele
manterranno, tuttavia il loro rifiuto verso uno Stato «non retto dalla Torah»; ma esse
concederanno almeno alle istituzioni secolari una sorta di «legittimazione funzionale».
Lo Stato d’Israele, infatti, è visto da queste comunità come un luogo dove si possono
praticare, meglio che altrove, l’osservanza dei precetti religiosi e come un’istituzione
con cui è possibile contrattare al meglio le condizioni di riproduzione delle stesse
comunità (finanziamento delle scuole ebraiche, esenzione dal servizio militare degli
studenti di queste scuole e così via).
La necessità di negoziare con lo Stato benefici economici e privilegi ha favorito negli
ultimi decenni una progressiva partecipazione alla vita pubblica e politica degli
ultraortodossi. Questi gruppi sono divenuti, dal 1977 in poi, grazie alla nuova legge
elettorale proporzionale, un elemento decisivo per la formazione di qualsiasi
maggioranza e sono sovente entrati a far parte di colazioni di governo, politicizzando
sempre più la loro azione socio-religiosa. Questo processo conosce un’acuta fase
d’esasperazione con l’aggravarsi del conflitto israelo-palestinese. Più il conflitto
diventa violento e disperato, più le frange radicali sono portate ad accentuare
l’impegno politico, in difesa non solo della sopravvivenza d’Israele, ma della Terra
(santa) d’Israele. Per i loro militanti diventa impensabile poter cedere qualsiasi parte
della Terra d’Israele, giacché una simile decisione verrebbe a violare un principio
fondamentale dell’ebraismo: quello del pikuah nefesh (salvaguardia della vita). La
cessione dei territori ai palestinesi significherebbe, infatti, mettere in pericolo la vita
stessa degli ebrei.
La questione della Terra assume, dunque, un’importanza crescente per comprendere le
caratteristiche anche del secondo tipo di gruppi fondamentalisti ebraici, di cui
abbiamo fatto cenno poco sopra. Si tratta di tutte quelle organizzazioni che
confluiscono in un alveo teologico preciso, che si collega al pensiero di un rabbino,
vissuto alla fine del XIX secolo, il lituano Yitzhak Ya’akov Reines. Il ritorno a Sion,
secondo questa corrente, è considerato l’elemento decisivo per l’avvento della
Redenzione. La rinascita dello Stato ebraico permette, infatti, di ricomporre il popolo
d’Israele (Am Israel) sotto la Legge d’Israele (Torat Israel) nella Terra d’Israele
(Eretz Israel). Questa visione delle cose sarà messa in pratica, per la prima volta, da
Rav Avraham Yitzhak Kook (1865-1935), primo rabbino capo ashkenazita dello
Yishuv, giunto appunto in Palestina nel 1904. Per Kook il sionismo, nonostante le sue
proclamate caratteristiche secolari, non è un fenomeno antireligioso. Dietro al
desiderio di molti ebrei di tornare «qui e ora» nella Terra promessa, egli v’intravede la
«luce del pentimento»; non a caso il ritorno a Sion è espresso in ebraico dal termine
teshuvah, che significa anche pentimento. Quest’insieme di idee genererà quella che è
stato chiamato il sionismo nazional-religioso (Liebman, Don-Yehia, 1983; Silberstein,
1993; Sprinzak, 1999).
Da queste idee si verrà consolidando nel tempo una corrente radicale nazionalreligiosa la quale si batterà, oltre che per una maggiore rispondenza delle leggi
secolari dello Stato ai principi della Torah, per una politica della piena sovranità
sull’intera Eretz Israel. Il mancato possesso d’Eretz Israel è, infatti, nella «teologia
della terra» causa dell’arresto del processo messianico. I sionisti nazional-religiosi,
contrariamente agli ultraortodossi, pensano, infatti, che la realizzazione di uno Stato
orientato dalla legge religiosa sarà possibile solo quando gli ebrei saranno insediati
nella totalità della Terra d’Israele. È lo stare nella Terra, il cui suolo è intriso di
santità, che rende possibile la teshuvah (ritorno a Dio/pentimento) di tutto il popolo
ebraico e la conseguente osservanza della Legge, non viceversa.
Con la guerra vittoriosa da parte di Israele, dello Yom Kippur, nel 1973, la strategia
della colonizzazione religiosa, perseguita da tali gruppi, dispiega tutti i suoi effetti ed
oggi costituisce una delle maggiori difficoltà per una possibile via di soluzione del
conflitto. Nella seconda metà degli anni Settanta nasce, infatti, il Gush Emunim
(Blocco dei fedeli), un’organizzazione aperta anche ai secolari nazionalisti (Aran,
1990). Nei nuovi insediamenti, i nuovi zeloti (Friedman, 1992) daranno vita a modelli
di contro-società fondate su una stretta osservanza della Torah e su relazioni sociali
improntate ad ascetismo ed etica del sacrificio, che hanno come obiettivo la
«redenzione della Terra». L’entusiasmo accresciuto dai successi raggiunti, spinge
alcuni gruppi più radicali a progettare la distruzione degli edifici di culto musulmani
che sorgono sulla spianata delle moschee, a Gerusalemme. La forte spinta alla politica
di colonizzazione, come riconquista della geografia della memoria religiosa ebraica
subisce una battuta d’arresto, quando, nel 1994, è raggiunta una prima intesa tra il
governo Rabin e l’OLP di Arafat, in base alla quale viene decisa la restituzione di parti
della Terra d’Israele ai palestinesi. La reazione delle frange estreme del
fondamentalismo ebraico non si fa attendere.
Nel novembre 1995, con un atto ancora più grave e scioccante per tutto il mondo
ebraico: un militante nazional-religioso, Ygal Amir, colpirà a morte il primo ministro
Rabin, al termine di una grande manifestazione a Tel Aviv, che aveva lo scopo di
sostenere il governo nella sua politica di trattativa con l’OLP. Nel rivendicare il gesto,
che egli dichiara necessario e obbligatorio, Amir si richiama alla tradizione ebraica
che, in taluni casi, legittima l’assassinio del rodef e mosser (letteralmente: traditore e
persecutore), che mette in pericolo la vita d’altri ebrei. La morte di Rabin, che ha
osato interrompere, con la cessione della Terra, il processo di guarigione dell’universo
(tikkun), è per l’attentatore un passo necessario per giungere al «pentimento»
d’Israele.
L’attrazione fatale, in una parte dei gruppi fondamentalisti ebraici, verso la logica
della violenza sembra imporsi, quale strumento necessario per proseguire la lotta
politica in nome di valori assoluti, ritenuti non negoziabili.
6.
L’insorgere degli etno-fondamentalismi nello hinduismo e nel buddismo.
L’impatto della modernizzazione politica con la formazione di Stati moderni sul calco
di quell’occidentale e l’inserimento delle economie, un tempo periferiche e
sottosviluppate, nel circuito finanziario e industriale dell’economia globale, che non
conosce confini e territori, dove vantaggiosamente investire capitali e far circolare le
merci, hanno contribuito a mutare anche i rapporti sociali, fondati sull’etica di clan,
sul primato delle caste, sulla famiglia patriarcale e sulle solidarietà corte, proprie della
vita sociale ed economica di villaggio. Una massa crescente di contadini senza terra,
di braccianti senza lavoro e di proprietari terrieri attratti dai nuovi affari del
commercio internazionale si è spostata dalle zone rurali e dai villaggi dell’interno
verso le grandi città, nuove megalopoli formatesi per superfetazione addosso ad
antiche capitali o insediamenti urbani d’epoca coloniale. Il dissolversi dei legami di
solidarietà culturale e religiosa, che un tempo stringeva, in un circolo virtuoso,
famiglia, luogo di insediamento territoriale, religione e valori largamente condivisi, è
stato interpretato da alcuni leader religiosi, sia del mondo hindù che di quello
buddista, come un segnale allarmante dell’eclisse del senso religioso dalla vita
individuale e collettiva. Nella prima metà del XX secolo si sono formati così, sia in
India, in ambiente hindù, che nello Sri Lanka, in ambiente buddista, movimenti che
presentano tratti di fondamentalismo. Possiamo parlare, perciò, rispettivamente, di
movimenti neo-hinduisti e neo-buddisti (Pace, 2003).
Le loro caratteristiche salienti, pur nella differenza dei contesti sociali e politici in cui
essi sorgono, sono nell’ordine:
a) l’affermazione dell’esistenza di un fondamento assoluto dell’identità etno-culturale
di un popolo;
b) l’identificazione di questo fondamento nel nucleo di verità contenuta in una
tradizione religiosa determinata;
c) il recupero ermeneutico di un Testo sacro, considerato depositario della memoria
collettiva di un popolo, trasformato in una fonte indubitabile, per disegnare un
modello di società religiosamente integrata in tutte le sue parti e funzioni;
d) la selezione e promozione di una nuova élite politica, locale e nazionale o fra le fila
di intellettuali religiosi, legati ai movimenti di risveglio etno-religioso oppure fra le
nuove leve di monaci, istruiti e urbanizzati, impegnati sempre di più nella vita sociale
e pubblica.
Ad esempio, nel lessico politico e religioso di uno dei più importanti movimenti
neo-hindù, lo Shiva Sena (letteralmente, l’Armata di Shiva), fondato negli anni
Sessanta e diffuso in otto Stati dell’India e il cui simbolo è il tridente di Shiva, ricorre
spesso un neologismo: hindutva. Questa parola è tradotta, solitamente, come hinduità
(Piano, 1996; Jaffrelot, 1993). Essa sta a significare che esiste un’identità etnica e
religiosa, radicata nella memoria dei sacri testi e custodita dalle avanguardie religiose,
rappresentate dai militanti del movimento, che si assumono il compito di risvegliare la
coscienza collettiva e di combattere gli effetti, considerati negativi, prodotti dallo
Stato secolare moderno. L’India è degli hindù, perché la loro storia s’intreccia con la
grande tradizione religiosa propria di un popolo, diversa, e perciò incompatibile, con
quella di altri gruppi (i musulmani, i buddisti, i cristiani e così via). Il potere politico
deve, di conseguenza, rispecchiare i valori di tale tradizione, combattendo il
relativismo morale e il pluralismo etico favoriti, a loro detta, dalla democrazia
moderna.
Allo stesso modo, un altro movimento, nato in India e d’impianto fondamentalista,
l’Associazione dei volontari nazionali (RSS), è solita organizzare pubblicamente riti
collettivi, rivisitando una serie di feste previste nel calendario sacro hindù e
trasformandole in vere e proprie manifestazioni politico-religiose, nelle quali i simboli
della tradizione sacra (dei testi antichi Veda) sono reinterpretati, per essere esibiti
come simboli d’identità nazionale. Spesso contro un Nemico, di volta in volta,
identificato nei musulmani o nei cristiani. La nascita (nel 1983) e il successo elettorale
del Partito del Popolo Hindù (Bharatiya Janata Party) nel 1991, potere che è riuscito
a mantenere sino a qualche anno fa, costituisce l’esempio evidente dell’approdo alla
politica dei movimenti di risveglio etno-religioso in campo hindù.
Il processo di trasformazione interno, vissuto dal buddismo nello Sri Lanka, subito
dopo l’indipendenza nazionale, avvenuta nel 1948, è un altro esempio di formazione
di un etno-fondamentalismo religioso, alla stessa stregua di quanto abbiamo già visto
sia nel mondo induista che in quello ebraico. Grazie all'opera di revisione operata da
alcuni monaci, già a partire della fine dell'Ottocento e rafforzatasi dopo
l'indipendenza, si afferma un modernismo religioso buddista. Esso si esprime nell’idea
di spostare la ricerca dell'ascesi spirituale fuori da questo mondo di sofferenza
all’impegno diretto nel mondo. In tal modo il principio buddista classico della
compassione viene convertito nel primato della responsabilità personale e morale
nell'agire sociale. La modernizzazione delle categorie spirituali tradizionali, nate in
seno stesso al mondo monastico, ha favorito un successivo passaggio: la ricostruzione
della memoria collettiva, in funzione della definizione dell'identità etno-nazionale
cingalese (gli abitanti dell’antica Ceylon), emersa dal colonialismo dopo la seconda
guerra mondiale. In questo lavoro di recupero della memoria e di reinvenzione della
tradizione, un ruolo decisivo è svolto proprio da un nuovo ceto di monaci, con buon
livello d’istruzione, convinti della necessità di far uscire il buddismo dai ristretti spazi
liturgici dei templi sacri e di coinvolgere nel risveglio spirituale, dal basso, tutta la
società e, in particolare, le classi medie dei centri urbani, saldando così la pericolosa
frattura che la modernizzazione stava aprendo fra città e campagna (Barthlomeusz, De
Silva, 1998; Seneviratne, 1999). Ad esempio, i monaci hanno riproposto un antico
testo della tradizione buddista theravada cingalese del VI secolo, il Mahavamsa
(letteralmente: la grande cronaca), che racconta la storia del primo monachesimo
buddista nello Sri Lanka, in forme epiche, presentandolo come la fonte autentica
dell'identità della nazione cingalese. L’impresa religiosa e politica è perfettamente
riuscita. I monaci hanno fornito e forniscono alle nuove classi dirigenti dello Sri
Lanka una risorsa di senso collettivo - la spiritualità buddista , mettendola al servizio
di un progetto politico preciso: affermare la perfetta coerenza fra religione, etnia,
lingua e terra. La formazione di un pensiero etno-fondamentalista o nazional-religioso
è una delle cause del conflitto, aspro e sanguinoso, che, tra il 1970 e i giorni nostri,
oppone la maggioranza cingalese alla minoranza Tamil, di religione ed etnia hindù,
abitante in ampie zone dell’isola. Il mito delle origini religiose della Nazione
cingalese si è così rafforzato, proprio in antitesi ad un Altro, soprattutto nei confronti
dei Tamil, e, in misura meno drammatica, rispetto ai musulmani ed ai cristiani, nello
spazio del violento dramma rituale che agita la storia contemporanea dello Sri Lanka.
7. Conclusione.
L’analisi, che abbiamo condotto su alcuni dei più importanti movimenti della galassia
fondamentalista, mostra le luci, in verità poche, e le ombre, tante e inquietanti, di tale
fenomeno. Molte religioni hanno visto nascere dal loro seno movimenti radicali, i
quali, in questi ultimi dieci anni, si sono venuti organizzando in vari punti del globo.
Il fondamentalismo è il nome che diamo ad un tipo di conflitto culturale e politico, che
emerge, sia nelle società ultramoderne sia in quelle in via di modernizzazione e che si
trovano, ormai, sempre più a stretto contatto con i modelli di vita moderna, a causa
della forte interdipendenza economica. Per cui i fondamentalismi non sono corpi
estranei delle società in cui viviamo. Essi svelano l’esistenza della precarietà e
dell’infondatezza del patto etico-politico, che tiene assieme individui che vivono in
una stessa realtà sociale. Essi rivelano l’esistenza, nelle società contemporanee, di un
basso indice di fiducia nei confronti del sistema politico e della tendenza al
ripiegamento individualistico sui propri interessi. L’universalità del fondamentalismo,
dunque, sembra escludere che solo una religione, come l’Islam, ad esempio, ne abbia
il monopolio esclusivo.
Il modo di pensare ed agire del credo fondamentalista è una forma di modernità
religiosa che si confronta dialetticamente, e violentemente a volte, con le forme
individualizzate e relativistiche del moderno credere. Schematicamente potremmo dire
che, di fronte a una difficoltà crescente dei grandi sistemi di credenza religiosa di
controllare i propri confini simbolici, perché gli individui tendono a farsi una religione
a misura dei loro bisogni e delle loro attese, superando barriere e invadendo, senza
troppi scrupoli i confini d’altri sistemi di credenza, i fondamentalismi contrastano tutte
queste forme sfrangiate, deboli, incerte, ricche di soggettività e di ricerca spirituale
senza frontiere, in nome di un’identità forte, radicata in una verità che si ritiene non
negoziabile né adattabile alla logica del compromesso con il mondo.
Il modo con cui i fondamentalismi rispondono è molto variabile: ci sono gruppi che si
ritirano dal mondo per separarsene, evitandone il contagio e l’impurità, per poi
muovere, dopo l’arrocco, contro i suoi ordinamenti; altri, più pacificamente, provano a
rifondare tutta la vita sociale, dal basso, sul calco di una comunità di puri e tranquilli
nella fede, immaginata all’origine stessa di una determinata tradizione religiosa; ci
sono gruppi, infine, che ritengono che l’unico modo per por freno alla deriva della
secolarizzazione o alla privatizzazione della fede sia quello di dare la scalata al potere,
per riscrivere le carte costituzionali degli Stati moderni, in nome di una costituzione
superiore, eterna, direttamente rivelata da Dio o riflesso della Legge cosmica.
Uno studioso come Gilles Kepel (1991) ha riassunto con una metafora felice i tratti
del fenomeno appena descritto: i fondamentalismi rappresentano il segno della
rivincita di Dio su una società, come quella moderna, che ha cercato di farlo uscire di
scena. Da quella pubblica, s’intende, innanzi tutto, e, in subordine, da quella privata,
interiore. L’idea di rivincita suppone che prima ci fosse stata una sconfitta della
religione, durante l’epoca della secolarizzazione; cosa tutta da dimostrare. Nella
partita di ritorno, che si starebbe giocando ora, il reincantamento del mondo si
esprime, tra l’altro, anche con l’emergere dei movimenti fondamentalisti. Essi hanno
messo in luce come lo stretto legame fra modernità e secolarizzazione non fosse poi
così solido, come poteva apparire alle nuove generazioni che si erano affacciate alla
vita sociale negli anni Sessanta e Settanta del secolo appena trascorso. Il divorzio fra
ragioni della politica e ragioni della fede sembrava ormai consumato, non più
riproponibile nelle democrazie moderne. Anche in Paesi con tradizioni religiose
diverse da quelle cristiane, le nuove élites politiche post-coloniali si sono sforzate di
dissociare il destino dei nuovi Stati dall’influenza atavica delle religioni dominanti.
Nasser o Gandhi non avevano certo in animo di fondare uno Stato religioso.
Non è un luogo comune allora ricordare che, prima ancora del crollo del Muro di
Berlino, le grandi ideologie che tenevano assieme utopia e reale governo delle società
avevano da tempo cominciato a conoscere una fase d’eclisse. Il sionismo in Israele, il
marxismo nel mondo arabo-musulmano, le ideologie liberali sempre più schiacciate
sul registro di un liberismo adulatore della virtù supreme del mercato, il panarabismo
infrantosi sulle contraddizioni interne fra le varie nazioni arabe o le varie versioni del
nazionalismo: tutte hanno, di volta in volta, mostrato vistosi segni di stanchezza nel
proporsi come uno schema ideale di riferimento, soprattutto per le nuove generazioni
dei Paesi in via di sviluppo, sradicate dai loro contesti originari e trapiantati in
degradate aree urbane, senza grandi prospettive di miglioramento economico. Fin qui
è quanto di oggettivamente rilevante possiamo imputare ai movimenti in questione.
Le poche luci accese però sono ormai state oscurate, alla prova dei fatti, proprio negli
ultimi dieci-quindici anni. È ben difficile, infatti, trovare esempi di movimenti che
abbiano saputo effettivamente iscrivere le loro idee nella società civile, senza produrre
insanabili conflitti, creando strutture politiche contraddittorie, costrette a ricorrere, in
molti casi, alla violenza sacra. E’ questa la prima ombra: l’evidente legame fra
certezza di possedere la verità e necessità di ricorrere all’uso della forza per imporla e
farla rispettare, quando c’è qualcuno che eventualmente non intende riconoscerne
l’autorità.
Quanto appena detto fa comprendere allora la seconda ombra che grava sul
fondamentalismo: la totale e progressiva riduzione della religione alla dimensione
politica. Abbiamo visto che esistono almeno due correnti all’interno della galassia
fondamentalista: una prima, che ha sempre pensato che fosse necessario ricostruire,
dal basso, un tessuto di legami e luoghi sociali dove veder risplendere la verità
religiosa, alla quale si desidera essere integralmente fedeli; una seconda, invece, che
ha puntato in alto, alla conquista del potere politico, entrando pesantemente in azione
in questa sfera. Chi ha agito secondo il primo modo di pensare, è riuscito a compiere,
talvolta, una piccola rivoluzione dal basso, che gli ha consentito di insediarsi
stabilmente nelle pieghe della società civile; coloro i quali, al contrario, si sono mossi
prevalentemente sul terreno politico, hanno dovuto registrare sconfitte, contraddizioni
e fallimenti. Fino alla guerra e al terrorismo, come forma di lotta religiosa e politica, al
tempo stesso (Lifton, 1999).
Ridurre la religione alla politica per redimerla, infatti, si è presto dimostrato un
esercizio sterile e pericoloso: non fosse altro perché chi si è mosso in nome di Dio o di
una suprema Legge cosmica, per affermare le ragioni della Verità nella sfera politica,
non pensava a quali e quanti rischi andava incontro, piegando le ragioni della
trascendenza alle piatte esigenze della lotta per il potere.
I monaci-guerrieri, che si aggirano nel mondo contemporaneo, hanno interpretato in
anticipo le sofferenze spirituali del mondo moderno, ma poi hanno finito, nel loro
radicalismo ascetico e rivoluzionario, spesso violento, per violare sistematicamente i
diritti umani fondamentali o, peggio, provocando dolore e morte, considerando
legittimo il ricorso alla violenza sacra.. Un bilancio, in ultima analisi, fallimentare.
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Il presente saggio è stato pubblicato in Pensare e costruire la democrazia, a cura di
Paola Chiatti, Morlacchi Editore, 2009, pp. 67-93.