CAP. 2-Città Creative

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CAP. 2-Città Creative
CAPITOLO 2
Le Città Creative e il Territorio
Michelangelo Pistoletto
“Sfera di giornali”
1966
azione degli studenti dell'Accademia di Belle Arti, Bucarest 1997
Foto: M. Scutaro
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1.
Il quadro delle trasformazioni dei sistemi urbani nel XX° secolo
Le tendenze osservate di recente nei sistemi urbani della maggior parte delle
economie avanzate stanno subendo una trasformazione profonda, le cui
caratteristiche cominciano ora a essere tracciate con approssimazione, ma le cui
conseguenze sono ben lontane dall’essere comprese. Nel 1938, Louis Wirth
scrisse un famoso articolo sull’American Journal of Sociology (Urbanism as a
way of life) testo che influenzò enormemente le concezioni dell’urbanesimo
contemporaneo, tra gli scienziati sociali, ma anche tra architetti e urban planners.
Wirth postulò che le città potessero essere definite da tre variabili: la (size), la
densità e, (correlativamente, aggiungo io) l’eterogeneità. Mezzo secolo dopo, a
partire dagli ultimi decenni del secondo millennio, questi criteri non servono più a
definire il fenomeno urbano, anche se nessuno finora è riuscito a proporre una
interpretazione altrettanto essenziale. Le grandi città diminuiscono ovunque di
popolazione e, a ben guardare, non si sa neppure tanto bene su che oggetto
misurare la dimensione; la densità metropolitana si abbassa al punto che, negli
Stati Uniti, la densità delle aree metropolitana è eguale alla densità totale di paesi
come l’Italia; l’eterogeneità resta un importante elemento, ma si formano nuovi
processi segregativi basati non più sulle classi sociali, ma su diverse popolazioni,
particolarmente le popolazioni notturne e quelle diurne. Le città di tutto il mondo
sono oggi investite da tre macroprocessi che stanno mutando profondamente la
natura del fenomeno urbano: la recessione dei confini che trasforma entità
chiaramente circoscrivibili in “terre sconfinate” di cui è difficile perfino definire
limiti e dimensione; la nascita di NRP, Non Resident Populations, a partire dai
pendolari che usano gli strumenti di mobilità per distribuire attività su territori
ampi a bassa densità e, infine, i fenomeni legati alla diffusione dei media e della
cultura di massa che contribuiscono a mutazioni profonde delle forme di governo
e anche della rappresentazione condivisa della realtà sociale contribuendo al
fenomeno della “doppia ermeneutica”.
Queste grandi tendenze investono sia il macrosistema dell’abitazione, cioè i
luoghi in cui si colloca la nostra casa, sia il microsistema dell’abitare, cioè
l’organizzazione interna della nostra casa e i suoi rapporti con l’esterno. I due
piani sono ovviamente collegati, ma fanno riferimento a insiemi di variabili
diverse. Cercherò di sintetizzare gli argomenti in una serie di punti, tratti in parte
da scritti precedenti, ma integrati e sviluppati nel contesto di questo lavoro.
1.1
L’urbanizzazione della società e la metamorfosi dell’oggetto
urbano
Le stime sull’andamento demografico a cavallo dei secoli xx e xxi indicano che
proprio in questo periodo si sta verificando un fenomeno di portata planetaria: per
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la prima volta da quando ha fatto la sua comparsa, come prodotto fisico della
organizzazione umana da 50 a 120 secoli orsono, la popolazione urbana del
pianeta è diventata maggioranza sulla terra. E salvo imprevisti eventi di
gigantesche dimensioni, guerre, epidemie, catastrofi naturali, sempre possibili
anche se non molto probabili o prevedibili, questa proporzione è destinata a
crescere e a crescere soprattutto nelle regioni meno sviluppate del mondo.
Le fasi finali di questa trasformazione hanno caratterizzato il xx secolo, durante il
quale la popolazione mondiale ha conosciuto due raddoppi. Tanto per dare un
parametro quantitativo di confronto, per il raddoppio che ha portato la
popolazione del pianeta al 1.600 milioni dell’inizio del ‘900 occorre risalire nel
tempo di 150 anni. Dopo settant’anni siamo ai tre miliardi circa e, dopo meno
della metà del tempo, trent’anni, ai 6 miliardi, più della metà dei quali in città. La
percezione comune di questo processo è quella di due vasi comunicanti, uno che
si svuota e l’altro che si riempie. Ma si tratta di un modello ingenuamente
meccanico e fuorviante. Come avviene in tutti i sistemi viventi questa
trasformazione è un fenomeno interattivo. Svuotandosi, la “campagna” cambia
profondamente natura.
Solo nel corso degli ultimi 200 anni, in seguito alla diffusione mondiale
dell’industrializzazione dalla Gran Bretagna in cerchi sempre più ampi, l’equilibrio
preindustriale della popolazione urbana su quella rurale da un rapporto di 10% al
90%, si è trasformato in una relazione simmetrica con meno del 10% di
popolazione rurale e più del 90% di popolazione urbana. C’è chi ha affermato che
“le popolazioni che abitano nelle città dell’Europa odierna desidererebbero
conservare la campagna così come la popolazione rurale l’ha lasciata. Mentre
alcuni studiosi richiamano l’attenzione sulla necessità di conservare un numero di
contadini sufficiente per mantenere la natura e gli spazi aperti così come sono,
altri, al contrario, accusano il mestiere di agricoltore di essere uno dei principali
responsabili della scomparsa del paesaggio, dell’inquinamento delle falde
acquifere, della distruzione degli argini, della proliferazione di costruzioni nella
campagna ecc.”. Quando rivolgono agli agricoltori queste accuse, i cittadini
dimenticano però che questi fatti sono il risultato della propria crescita numerica e
della crescente domanda di cibo a basso costo! “I cittadini vorrebbero trovare nel
paesaggio il prodotto di una società rurale che vive in armonia con se stessa e
con la natura, immutabile e per sempre congelata in una mitica Età dell’Oro. In
questo contesto rimane poco spazio per un paesaggio agrario moderno prodotto
dalle pratiche agricole industrializzate contemporanee”. (Staffan Helmfrid,in
Dimensione metropolitana, Il Mulino, Bologna, 1999 pp.65 sgg.)
E dall’altra parte la città, crescendo, si trasforma fino al punto da non essere più
riconoscibile, non tanto agli abitanti che la abitano, la vivono e la trasformano,
quanto a chi deve descriverla e amministrarla, che non riesce a tenere dietro ai
cambiamenti e continua a dipendere da vecchi schemi di interpretazione e di
governo. Siamo stati abituati a identificare la fonte di questi cambiamenti nelle
trasformazioni produttive e, naturalmente si tratta di una constatazione esatta,
che tuttavia ha concentrato tutta l’attenzione sugli aspetti più visibili del
fenomeno, l’aprirsi di grandi buchi nel tessuto urbano a causa dello spostamento
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o della trasformazione delle fabbriche della transizione industriale, distraendolo
dal fenomeno parallelo, di portata eguale se non più rilevante per la vita di milioni
di persone, delle trasformazioni abitative. Per fare un piccolo esempio, a cavallo
tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta si è prodotto nel nostro paese il
più grande spostamento di persone dalle periferie (le campagne) ai centri (le
città) della storia del paese e una delle maggiori del mondo contemporaneo.
Gran parte degli opinionisti italiani sempre pronti ad anteporre il giudizio estetico
e normativo alla comprensione dei fatti, hanno messo l’accento sulla apparente
insipienza dei milioni di poveri immigrati interni disponibili ad accatastarsi nei
quartieri fungaia delle periferie e dei periurbani metropolitani, abbandonando la
presunta qualità della vita rurale. Ma pochi hanno capito che l’offerta di una casa
con i sanitari e l’acqua corrente era irresistibile per una popolazione che per
secoli, quando non abitava con gli animali, modello ancora piuttosto diffuso tra la
popolazione rurale italiana, soprattutto nel meridione e che comunque dovendo
soddisfare i propri bisogni corporali, in qualsiasi condizione di clima e salute,
doveva anche di notte uscire da casa e sedersi su un buco fetido. Gli intellettuali
borghesi, che questo problema non l’avevano mai provato, hanno avuto buon
gioco nell’esercitare il proprio sarcasmo su “la civiltà del caolino” diffondendo
persino le leggende metropolitane dei “terroni” che coltivavano il basilico nella
vasca da bagno (e se anche qualcuno ci avesse pensato davvero?). Oggi grazie
allo studio attento di osservatori disincantati e rigorosi sappiamo che il rapporto
tra il proprio corpo e il contesto abitativo e il complesso gioco dell’intimità e della
pubblicità che pure fanno parte integrante e forse triviale della nostra vita
quotidiana celano in effetti complicati significati simbolici e normativi cui
obbediamo inconsciamente nello svolgere il nostro “mestiere di vivere”, ma che
svelano all’analisi attenta legami molto stretti con il sistema sociale generale.
Come vedremo non è questo il solo caso in cui l’assetto interno,
microsociologico, delle condizioni dell’abitare (la struttura e gli standard costruttivi
e igienico sanitari) si ricollega direttamente a quello macrosociologico (morfologia
urbana e insediamenti periferici), ma se non portiamo la dovuta attenzione a
questi legami siamo fuorviati, considerando banali e non degni dell’aulica
attenzione dell’intellettuale, proprio quei fenomeni concreti che costruiscono la
società a partire dalla vita quotidiana e hanno conseguenze importanti per
l’assetto del nostro sistema insediativo. Non dobbiamo però fermarci al puro e
semplice dato quantitativo, per importante che sia: le trasformazioni nell’ abitare
urbano e nel vivere in città non si limitano al fatto che le città sono più grandi:
sono anche diverse e una delle grandi diversità ha proprio a che vedere con
l’abitare e soprattutto il rapporto tra la collocazione e l’organizzazione interna
dell’abitazione. Come si dice in linguaggio tecnico il front e il back della nostra
casa.
1.2 La recessione dei confini e la nascita della metacittà
L’aspetto più rilevante della realtà urbana contemporanea riguarda i cambiamenti
nella morfologia fisica e sociale delle città intervenuti nel corso del XX secolo.
Risulta ormai evidente che in ogni parte del mondo la città tradizionale e la
“metropoli di prima generazione”, che hanno caratterizzato la vita urbana nella
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porzione centrale del secolo scorso, hanno ceduto il passo a un tipo del tutto
diverso di morfologia urbana, che sta producendo una serie di quelle che i
rapporti ufficiali delle Nazioni Unite chiamano Grandi Regioni Urbane (MUR.
Mega Urban Regions) in cui forme diverse di insediamenti umani si mescolano
inestricabilmente, fino a costituire una entità urbana nuova, ma non ancora ben
definita. Per ragioni analitiche che accenno sotto, ho suggerito di chiamare
questa nuova entità la meta-città.1 Nel triplice senso che questa entità è andata
al di là (meta) - e persino ben al di là - della classica morfologia fisica della
“metropoli di prima generazione” che ha dominato il xx secolo con il suo core e
suoi rings (polo e fasce); al di là (meta) del controllo amministrativo
tradizionale di enti locali sul territorio e al di là (meta) del prevalente riferimento
sociologico agli abitanti, con lo sviluppo delle “metropoli di seconda (e terza)
generazione” sempre più dipendenti dalle NRP, Non Resident Populations2.
La città tradizionale aveva ben precisi confini e una ben definita popolazione, sia
pure in entrambi i casi con qualche variabilità attorno a queste definizioni, ma il
concetto era chiaro e condiviso. La coincidenza di una popolazione con un
territorio ben delimitato é al tempo stesso il portato fondativo dell’urbanizzazione
antica, largamente basata sull’idea di città-stato, cioè della sovrapposizione tra
polis e astu, tra la città sociale e la città costruita, e il rafforzamento che di questa
coincidenza si è avuto con la razionalizzazione del territorio a fini amministrativi
sostenuto dalla diffusione dello stato moderno. Anche linguisticamente, benché
non in modo così chiaro per la lingua italiana, Bond, Boundary, Boundedness,
Bondage, tutti termini derivati dal tedesco Bund, descrivono sia la definizione
spaziale di una data unità sociale sia la sua coesione interna, e in questo senso
va anche interpretata la dizione Schaft, come in Gemeinschaft, che rimanda
egualmente a una idea di tronco o pilastro. L’idea weberiana di Verband, o
meglio Politische Verband, rimanda a questa idea di comunità, che,
curiosamente, nella lingua italiana non ha nulla di similare, anche se il termine
“confine” si riferisce a una restrizione, ma soprattutto in termini negativi di perdita
della libertà piuttosto che di acquisto di solidarietà. Confinare, confinamento, “al
confino”, che era spesso anche al confine, sono tutte versioni negative di un
termine che chiaramente nella lingua italiana (ma non sono abbastanza buon
linguista per trarne conclusioni significative) denotano soprattutto aspetti negativi.
A partire dai primi decenni del xx secolo questa identificazione o sovrapposizione
comincia a venire meno: i confini della città reale, che si configura come un’area
metropolitana cioè una entità territoriale funzionale costituita da una unità
centrale, “core” e da una area circostante “periphery” (“rings”, “fasce”,
“hinterland”, “periurbain”). L’unità funzionale è essenzialmente un bacino di
pendolarità, che è stato a volta a volta chiamato, DUS (Daily Urban System) o
FUR (Functional Urban Region). L’aspetto importante di questo sviluppo che ha
interessato prima gli Stati Uniti e poi anche l’Europa, è lo svincolamento della
1
Uso il termine con un significato analitico diverso da quello che gli viene dato da
F.Ascher cui devo riconoscere una primogenitura del termine che mi era sfuggita.
Ringrazio Jean Paul Hubert del DRAST per la segnalazione
2
Termine tratto dal lavoro di Gian Paolo Nuvolati,
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unità urbana “funzionale” da una precisa delimitazione territoriale. L’area centrale
(core) è normalmente definita da un confine amministrativo ben definito, ma
l’area metropolitana non è facilmente definibile perché è un concetto appunto
“funzionale” non territoriale, per di più variabile nel tempo. I confini del sistema
recedono, si allontanano e, anche perdono di precisione, sono meno definibili,
anche se non del tutto inesistenti. La città si perde dunque in uno spazio incerto
che ha eccitato la fantasia della popolarizzazione iperbolica: “città continente” o
addirittura “città mondo” e persino l’inconsapevolmente ossimorico, “città infinita”
in un crescendo tronitruante inversamente proporzionale alla chiarezza delle idee
che vi sottostanno. E’ poco agevole trattare di questi argomenti, che si occupano
di fenomeni che spesso cambiano sotto i nostri occhi, usando un vocabolario
accademico aulico, ammesso che esista ancora. D’altro canto sono decisamente
ostile alla “mediatizzazione” del linguaggio scritto. Che si traduce in due opposti
estremi. Termini con scarso o punto contenuto analitico ma forte suono
evocativo, e sempre sopra il rigo, usati per convincere e confondere piuttosto che
per spiegare e far capire. Oppure termini banali, prodotto della convinzione
radicata in ogni anchorperson (e purtroppo anche in molti autori) che il proprio
pubblico sia composto di idioti, o meglio dal “gonzo virtuale” tipo ideale preso a
pretesto per la diffusione di prodotti dozzinali. Nel caso della nuova forma
urbana, la definizione corretta, in buon italiano, l’ha proposta Michele Sernini nel
suo eccellente Terre sconfinate3 e non vi aggiunge nulla la retorica bolsa.
Comunque occorre guardarsi dalle confusioni ingenerate da questi bardi urbani
perché la legge di Gresham vale anche per il mercato delle idee suscettibilissimo
di accettare la moneta cattiva invece della buona.
Il venir meno della validità di confini condivisi, come gli antichi confini comunali,
sostituiti da limiti incerti, individuabili solo con operazioni statistiche o con altri
modi di rappresentazione, porta a gravi errori di valutazione. Per anni la
letteratura popolare e meno popolare ha parlato di fuga dalla città e di ritorno alla
campagna, un fenomeno che di recente può forse essere attribuito alle seconde
case, ma che in passato è stato solo il prodotto di una relazione spuria tra la
variabile crescita e la collocazione del comune.
Nella città tradizionale, su cui tutto lo stato attuale delle conoscenze della vita urbana è
ancora in gran parte modellato, gli abitanti, o la popolazione che vive nella città ha
coinciso quasi interamente con la popolazione che lavora nella città. I limiti della città
hanno incluso entrambe le popolazioni su un unico territorio; per secoli, e fino agli ultimi
tempi, questo spazio è stato circondato da mura ed è stato ordinatamente separato dal
resto della territorio. La rivoluzione industriale non ha molto cambiato questa situazione;
la produzione delle merci nel settore secondario richiede principalmente lo spostamento
delle materie prime, delle merci manufatte e del capitale, mentre gli operai e gli
imprenditori rimangono in gran parte concentrati nelle aree urbane. Soltanto il ventesimo
secolo ha determinato un cambiamento radicale. Osservando la forma della città nella
prima metà di questo secolo, notiamo come è la mobilità che ha influenzato la scena
urbana in termini di infrastruttura, di creazione di nuove e distintive zone residenziali e di
cambiamenti radicali nei vecchi centri..
3
Michele Sernini, Terre sconfinate. Città, limiti, localismo, F. Angeli, Milano 1996.
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1.3
Le nuove popolazioni urbane e la nascita dell’entertainment city
Le trasformazioni urbane del ventesimo secolo hanno visto un importante
cambiamento nella morfologia sociale degli insediamenti urbani. L’emergenza
delle metropoli di seconda e di terza generazione ha importanti implicazioni
sulla governance dei nuovi sistemi urbani. Ancora una volta ci troviamo davanti a
concetti e approcci nuovi. Per secoli la base del sostenibilità finanziaria della città
è stata la ricchezza prodotta dai suoi abitanti. La residenza o la cittadinanza
costituivano il presupposto delle varie forme di tassazione. Storicamente, alcune
città-stato sono state molto efficienti nel raccogliere entrate fiscali dai suoi
cittadini. Nel XV secolo, città-stato come Milano, Venezia o Napoli riuscivano a
raccogliere entrate annuali tali da essere paragonabili a quelle dell’intero regno di
Francia o di Castiglia o a una porzione rispettabile di quelle dell’Impero
Ottomano. Oggi l’economia delle città si basa sempre più sui consumi di
popolazioni mobili che non risiedono nelle stesse aree in cui lavorano. La
gravitazione crescente degli utenti della città (City users) porta a uno sviluppo
di un modello di metropoli che è proprio quello in cui stiamo vivendo oggi. È
molto diverso dalla città con la quale siamo abituati a scontrarci in termini
popolari e scientifici e che potremmo definire come metropoli di seconda
generazione. Ma tuttavia una quarta popolazione metropolitana si sta delineando.
E’ una popolazione piccola ma molto specializzata di uomini d'affari metropolitani
(Metropolitan business persons) Persone che raggiungono le città centrali per
fare commercio e/o stabilire contatti professionali: uomini d'affari e professionisti
che visitano i loro clienti, mobili per definizione, consulenti e responsabili
internazionali. Questa quarta popolazione, relativamente piccola ma crescente, è
caratterizzata da una disponibilità considerevole sia di capitali privati che
aziendali. Si trattengono, di norma, per alcuni giorni, ma anche per periodi più
estesi, e passano una parte del tempo alla loro professione e la restante parte
usano la città, anche se a un livello relativamente elevato. È una popolazione di
cittadini esperti. Tendono a sapere cosa accade attorno a loro, sono molto
selettivi in termini di shopping e d’uso dei ristoranti e degli hotel, così come
nell'uso delle amenità culturali superiori, quali i concerti, mostre, musei, ma
anche saune e palestre. Affari e turismo di alto livello convivono sempre più.
Sia i city users che gli uomini d'affari metropolitani sono un prodotto del terziario.
Al contrario delle industrie secondarie che spostano le merci, i servizi richiedono
principalmente lo spostamento degli individui, elemento del terziario ancora poco
esplorato. Malgrado una porzione crescente di servizi possa essere fornita
telematicamente, la maggior parte di questi dipende ancora da contatti personali,
anche quando non si tratta di consumatori finali, come nel caso dei servizi alle
ditte. Consulenze, relazioni pubbliche, vendita e simili: sono tutte attività che
richiedono un'interazione faccia a faccia, intensa e ripetuta. Ma più in generale la
nuova metropoli si trasforma in un grande luogo per l’urbatainment e il city
marketing diventa una fondamentale attività del governo urbano (Terry N.Clark
(Ed.), The City as an Entertainment Machine, Elsevier, Amsterdam, 2004). Va da
sé, ma forse è meglio dirlo subito per evitare errori al lettore frettoloso, che
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l’emergenza di una Entertainment City non coincide con la felicità di tutti, né con
la scomparsa di marginalità o di conflitti, ma l’emergenza di un sistema
economico basato sulla mercificazione dei luoghi.
Nel dibattito sulla sfera pubblica delle società contemporanee, normalmente
questi luoghi “non-luoghi” sono contrapposti ai precedenti tipi di spazio pubblico –
la piazza nella tradizione europea o la Via Principale in quella americana. Questo
confronto tende a essere ideologico piuttosto che reale. Possiamo essere sicuri
che nella trasformazione della tarda città romana, la diffusione delle basiliche non
abbia determinato simili ansie (Gombrich, 1966)? Dov’erano finiti la fretta e il
trambusto dei templi classici? Dov’erano le folle vivaci dei donatori, degli
spacciatori e degli ufficianti? Gli dei olimpici, com’è noto, si nutrivano dei fumi di
carne bruciata durante i sacrifici (ecatombe). Cos’era accaduto all'animale il cui
sacrificio cerimoniale diffondeva un odore costante di barbecue per solleticare gli
dei con il profumo di carne arrosto? Una delle mansioni delle vestali nel tempio
romano era lo stercoratio, che consisteva nel liberare i locali dal “concime”
prodotto dalle vacche che pascolano intorno e all’interno dei templi. Quindi, sono
convinto che una buona parte delle connotazioni negative dei non-luoghi sia
dovuto a una caratterizzazione errata che, come accade a tutte le generazioni,
ancora non siamo arrivati a considerare come nostra. Contrariamente alla
relativa e ingannevole stabilità dell'ambiente naturale da una generazione
all’altra, la scena urbana è variabile, in particolare durante periodi storici come
quello in cui viviamo. Piuttosto che essere trasmesso da una generazione alla
seguente, l’“ambiente costruito” cambia continuamente e diventa estraneo ai suoi
più vecchi abitanti.
1.4
Nuove forme di divisione del lavoro
Ma come abbiamo visto, la città contemporanea non è concepita soltanto per gli
abitanti, lo è anche per le NRP o PNR, le popolazioni non residenti, e per la
condizione mobile della città. Per osservare i luoghi della modernità radicale
dobbiamo osservare i posti in cui esiste mobilità. Il traffico automobilistico privato
è uno di questi. Naturalmente il traffico non è un luogo, e neppure uno spazio, ma
è uno spazio di flussi, come ci insegna una famosa definizione di Manuel Castells
(Castells, 1996; 412). Il sistema di traffico quotidiano è un sistema molto
particolare di interazione che assorbe una quantità enorme di risorse (tempo,
persone, soldi, energia) delle città in giro per il mondo. Ma è anche un sistema
molto particolare di divisione del lavoro: in realtà uno dei più grandi al mondo,
caratterizzato dal fatto che milioni di persone si dedicano a un'attività
cooperativo-competitiva, senza avere una qualsiasi precedente conoscenza del
partner. E in un contesto altamente rischioso, in cui il raggiungimento
dell'obiettivo specifico - raggiungere sani e salvi la propria destinazione - dipende
in gran parte dall’attenersi a regole e usi principalmente non scritti, il tutto
effettuato in condizioni estreme di velocità e di imprevedibilità. È stata rivolta
molta attenzione agli aspetti psicologici (f.i. quel che può essere ribattezzata
sindrome della “cavalli”) e percettivi del guidare, come a esempio la visibilità e la
posizione dei segnali. Poca attenzione, purtroppo, è stata diretta verso i fattori
sociali e culturali che interessano le prestazioni dei conducenti, il rispetto delle
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regole e la comprensione delle norme. E questi fattori sono cruciali, perché gran
parte del funzionamento del sistema dipende da loro.
Ciò vuole semplicemente dire che l'esperienza del guidare che sperimentiamo
nella nostra vita quotidiana, mettendoci in pericolo reale, è regolata da usi e
norme la cui comprensione è cruciale per la sopravvivenza specifica, ma che non
sono realmente tenute in considerazione, in modo sistematico, dai responsabili
delle decisioni politiche. Tutto questo ci porta ad un ulteriore aspetto: lo “spazio di
flussi” generato dal sistema di guida fa parte dello spazio pubblico. Ci muoviamo
nelle piazze e nelle vie non soltanto a piedi ma anche su ruota, così lo spazio di
guida è uno di quegli ambienti sociali recentemente formati della modernità
radicale e che dipendono molto dalla cultura pubblica di ogni comunità. A loro
volta, i modi in cui interagiamo durante le lunghe ore in cui, in quanto cittadini di
una città mobile, ci impegniamo in questo esercizio cooperativo-competitivo di
divisione di lavoro, rinforzano le abitudini e i modi di far fronte ai rapporti sociali.
È vero che il signore di classe media, anche quando ben educato, può
trasformarsi in una furia se la sua traiettoria viene attraversata in maniera
impropria. Ma è precisamente la percezione che una norma generale venga
violata dal ciclista o dal vandalo occasionale che genera un livello così elevato di
aggressività, come quello che osserviamo durante i confronti tra conducenti. Il
dubbio è minimo, quello che l’etichetta del conducente riflette è il più grande
sistema di usi e comportamenti appartenenti a ogni specifica località, all'interno
delle culture nazionali o regionali.
In realtà, l'interrelazione fra il privato e il pubblico è più complessa di come
appare. Lo spazio pubblico non soltanto può essere un'estensione o un
complemento di quello privato, ma può anche essere il suo opposto dialettico. Il
risultato finale può essere ottenuto per sottrazione quando lo spazio pubblico è
considerato come residuo della sua sfera di vita. "Le città senza comunità
civiche" rappresenta un concetto discusso vivacemente da Yanis Pyrgiotis
(Delors, 1994: 173), specialmente per quanto riguarda la città europea del sud.
Dove l’abbellimento diretto verso gli stranieri è considerato uno spreco di soldi,
quando non vi è interesse per "l'occhio pubblico" e la sua relativa coscienza
(Sennett, 1992). La mancanza di occhio pubblico o l'esclusione generalizzata è
probabilmente l'eredità di un modo antico di concepire le polis, in cui lo spazio
pubblico non esisteva, perché la città era una somma di residenze private divise
dalle religioni familiari (Fustel de Coulanges, 1924) - la pre-politicizzazione degli
individui (Bairoch, 1985; Glotz, 1926).
1.5
Tecnologie della mobilità e tecnologie dell’informazione
Questa situazione il prodotto di una serie di processi sociali complessi, ma in
particolar modo di due traiettorie tecnologiche (uso qui il termine più corretto
suggerito da Alain Gras, invece dell’abusato e inesatto “tendenza tecnologica”)
quella dei trasporti e quella della informazione. Contrariamente a quanto
normalmente si ritiene, la potente traiettoria tecnologica dell’informazione, non ha
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sostituito l’esigenza di spostamenti fisici nello spazio, ma si è potentemente
sommata ad essa permettendo lo sviluppo di una città fortemente diffusa nello
spazio. Grazie ai quattro processi individuati da Bill Mitchell: Smaterializzazione
(Dematerialization), Smobilitazione (Demobilization), Personalizzazione di massa
(Mass customization) Operatività intelligente (Intelligent operation) e
Trasformazione debole (Soft transformation) in inglese DDMIS,. In sintesi, la
possibilità di interazioni che non richiedono un forte supporto fisico e quindi una
progressiva riduzione dell’impianto fisico degli insediamenti. La smobilitazione è
in un certo senso la conseguenza della smaterializzazione e consiste nella
possibilità di ridurre gli spostamenti fisici pur con intense interazioni. La
Personalizzazione di massa è permessa dal basso costo del controllo delle
operazioni individuali nei sistemi produttivi e dalla flessibilità che questo basso
costo permette. Similarmente l’ Operatività intelligente permette di adattare molti
processi, in particolare quelli distributivi (acqua, elettricità, ma anche processi
come la semina) alle specifiche esigenze di ogni fase. Vedi l’irrigazione a goccia.
Queste flessibilità permettono trasformazioni “mirate” o “soft” per interventi che
un tempo venivano effettuati in modo massiccio e devastante. Per esempio la
creazione di nuovi quartieri di “plattenhausen” come il Corvale può oggi essere
sostituita da interventi più soft come la cablatura di Siena.
1.6
Tecnologia e cultura della mobilità
Nelle società tradizionali, lo spostamento e la mobilità erano attività difficili,
pericolose e costose, quasi sconvenienti. Nella vita contemporanea, invece, tutto
ciò è ritenuto un elemento necessario e positivo. Quello che era il disgusto per il
viaggio è diventato industria turistica, e movimenti culturali importanti come il
Futurismo hanno anticipato e dato impulso alla cultura della mobilità. La nostra
cultura è così incline alla mobilità che quasi non vediamo le correnti secondarie
che spingono verso l’accettazione e l’uso della mobilità come valore in sé. Un
fattore importante è costituito dall’impulso alla conoscenza che è parte della
bildung di ogni individuo. Accade sempre più spesso che un evento culturale attiri
migliaia o anche milioni di persone. Ciò non deve stupire: “società della
conoscenza” significa anche consumo di massa di prodotti culturali, e la
rappresentazione simbolica del prodotto culturale non sostituisce l’esperienza
personale sul luogo, ma piuttosto la stimola.
Nelle sue varie forme e connotazioni, la mobilità è un fenomeno sociale
dominante ma, mentre il movimento delle popolazioni attraverso la superficie del
pianeta è una delle caratteristiche più antiche della specie umana, non c'è dubbio
che la città, in particolare la città contemporanea, fornisca l'ambiente fisico e
culturale in cui il sistema di mobilità si è sviluppato al suo massimo. Quando
parliamo di un “sistema di mobilità” ci riferiamo sia ai sistemi tecnologici, quali le
infrastrutture a sostegno della mobilità, sia al fatto che tali sistemi non sono
soltanto limitati all'infrastruttura fisica – l’hardware, per così dire - ma includono
anche componenti economiche, culturali e sociali - il software. Questo punto è
stato pienamente sottolineato da numerosi autori, ma in modo particolarmente
esemplare da Alain Gras (Parigi, 1993) con il suo concetto di “macrosystème”.
Anche se a tale approccio potrebbe essere difficile controbattere su un piano
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concettuale, quest’ultimo non è largamente accolto in quello quotidiano relativo ai
problemi dei sistemi di trasporto e della mobilità metropolitana, limitandone così
il controllo. Gli aspetti sociali e culturali, e perfino quelli economici, sono spesso
trattati come variabili residue, riunite sotto un’unica voce (vagamente definita) di
“domanda” di mobilità, dimenticando di suggerire l’aspetto complementare della
mobilità, vale a dire l’accessibilità, un bisogno dominante e altamente stimato
delle organizzazioni sociali contemporanee.
La cultura della mobilità è interconnessa alla diffusione delle tecnologie ICT,
Information and Communication Technologies. Contrariamente alle aspettative
ampiamente annunziate, la diffusione degli strumenti d'informazione accessibili
“da casa” non ha condotto le città a un playback tecnologico della rivoluzione
industriale, trasformandole in una costellazione diffusa di “cottage tecnologici per
telelavoratori”. Le nostre case si sono, in effetti, trasformate in una piattaforma
per una miriade di macchine ICT, ma contemporaneamente, paradosso non
ancora completamente spiegato, le città continuano a svilupparsi ed i sistemi di
trasporto sono sottoposti a pressioni inesorabili, malgrado (o piuttosto in
concomitanza con) la diffusione delle reti di informazione. L’analisi di ciò che
accade nelle grandi aree metropolitane urbane e nel mondo può aiutare a
chiarire tale paradosso.A partire dall’inizio del terzo millennio le aree urbane
ospitano la maggioranza della popolazione di questo pianeta e, in molti paesi, la
maggior parte vive nelle loro immediate vicinanze - in Francia, per esempio, dal
2002, il 51% della popolazione totale vive nel periurbain; il dato, inoltre, non può
certo essere considerato indipendente dagli eventi elettorali dello stesso anno
(Pumain & Godard, 1996).
Sotto molti punti di vista, la città è un fenomeno intrigante: è là, esplicita e
spudorata in modo che ogni umano la riconosca. Pletore d’inchiostro sono state
tuttavia usate nella ricerca di una definizione incontrastata. La città
indubbiamente è il luogo e la sede dell'espressione più avanzata di civilizzazione
umana e allo stesso tempo temuta e odiata perché dispersore d’umanità. È il
manufatto protettivo più importante contro le avversità della natura per tutti gli
esseri umani, ma allo stesso tempo è vista come l'ambiente più malsano in cui
vivere. Queste antinomie sono antiche quanto la città stessa e non facilmente
risolvibili, poiché esprimono la nostra contraddizione perenne di fronte alla
società in cui viviamo. La città risulta dunque essere allo stesso tempo intima e
arcana e noi siamo incastonati in essa. In ogni era, i molteplici strati della sua
complessa realtà rimangono in gran parte nascosti. Tutto questo risulta ancora
più vero per quanto riguarda la città sociologica che si trova dietro quella fisica.
La città racchiude numerose immagini che ci sono familiari: ognuna mostra una
specifica sfaccettatura della città fisica, della società non urbana. I nostri occhi ci
mostrano costruzioni, vie, automobili e perfino persone, ma non la società
urbana. Anche qualsiasi tipo di lente, all’infrarosso, radar o a risonanza
magnetica (o di ogni altra specie di sensori di onde o di prodotti chimici), che ci
potrebbe senza dubbio aiutare a vedere strati e strati di rappresentazione
estremamente dettagliata della realtà fisica, non ci rivelerà mai la società urbana.
Per vedere realmente la società urbana, come società in generale, dobbiamo
usare un tipo differente di obiettivo o di lente, un obiettivo intellettuale, capace di
63
rilevare simboli, norme e comportamenti simbolici o espressivi (Verstehende). Le
scienze urbane contribuiscono alla comprensione dei fenomeni non direttamente
osservabili e permettono quindi di inquadrare le caratteristiche nascoste della
società urbana. Tuttavia negli ultimi trent’anni, i cambiamenti avvenuti hanno
coinvolto l'essenza profonda delle relazioni tra fenomeni sociali e fisici,
introducendo innovazioni radicali nelle interazioni spazio-temporali fra esseri
umani (e macchine).
Per quanto questi continui cambiamenti siano profondi e radicali, non bisogna
aspettarsi che la vecchia città si sbricioli come le rappresentazioni hollywoodiane
vorrebbero farci credere. La città, dice Anthony Giddens, "mostra una falsa
continuità con gli ordini sociali preesistenti" (Giddens, 1990: 6). I cambiamenti
sono continui, si presentano come un accrescimento stalagmitico, e ne
sperimentiamo le conseguenze immediate sulla nostra pelle, in particolar modo
quando questi riguardano le nostre pratiche urbane quotidiane, sempre più
insopportabili ed irrinunciabili allo stesso tempo. Il ritmo del cambiamento, che è
comunque veloce, è misurato da campioni storici: dove i fenomeni procedono in
modo non uniforme, i risultati finali diventano percettibili soltanto a balzi. “Energia
e informazione, scrive Herbert A. Simon, sono due valute di base dei sistemi
organici e sociali. Una nuova tecnologia che altera i termini in base ai quali l’una
o l’altra è disponibile per il sistema, può portare quest’ultimo a subire
cambiamenti molto profondi… la rivoluzione industriale… trasformò una società
rurale di sussistenza in una società ricca ed urbana…”. E’ facile, guardandosi alle
spalle, vedere quanto questi cambiamenti si sono susseguiti inesorabilmente l’un
l’altro, e quanto “naturali” fossero le loro conseguenze: suburbia, per fare un
esempio, è il risultato di un mezzo di trasporto privato poco costoso. La questione
cambia se ci si chiede fino a che punto è possibile prevedere queste catene di
eventi o aiutare a evitare alcuni dei loro risultati più indesiderabili. Il problema non
è che manchino i profeti - sono stati numerosi in quasi tutte le epoche e i luoghi,
ma piuttosto il contrario: quasi tutto ciò che è accaduto, e il suo esatto contrario,
è stato profetizzato. Il vero problema è sempre stato selezionare e scegliere fra le
imbarazzanti quantità di futuri suggeriti in alternativa: in questo, le società umane
non hanno dimostrato alcuna gran capacità (Simon 1980: 420). Al contrario,
come scrive un altro Simon, Julian, "una previsione basata su dati passati può
essere solida se si rivela ragionevole partire dal presupposto che passato e
futuro appartengono allo stesso universo statistico." (McKibben statistico, 1998:
63). Questo commento è particolarmente importante nel nostro caso perché,
come vedremo, i cambiamenti hanno anche interessato gli strumenti
d'osservazione tradizionali.
1.7
Ora ma non qui: tempo, spazio e tecnologia nella meta-città.
Recessione dei confini e abitare nel sistema italiano.
Le considerazioni di carattere più tradizionale sulle tendenze della morfologia
urbana, della mobilità, dell’esclusione, della qualità abitativa – insomma, il mondo
fisico e sociale – non possono essere disgiunte dalle tendenze e dalle riflessioni
sulla “Società della Conoscenza” (Knowledge Society). Sono considerazioni
importanti perché sono collegate alla meta-città. Esiste una tendenza a
64
considerare gli sviluppi nelle ICTs (Information Communication Technologies)
come se queste fossero un’entità separata rispetto all’ambiente fisico dei sistemi
metropolitani. E invece il rapporto tra ICT – in particolare tutto ciò che riguarda
Internet – e l’ambiente visibile è molto più sottile, largamente inesplorato e per
molti versi più devastante degli ordini precedentemente stabiliti, di quanto in
genere non si ritenga. Le componenti materiali e immateriali del fenomeno
urbano sono tutte ugualmente importanti: la città è un oggetto profondamente
ambiguo. Innanzitutto perché è grande e complesso, e dunque le sue
componenti sono difficili da sintetizzare, ma in secondo luogo, e soprattutto,
perché di fatto in ogni città e nell’idea generale di città, esistono due oggetti
interrelati, ma distinti. Uno è la “città visibile”, familiare a ogni abitante in ogni
epoca (“Eis ten polin”, “Là la città”, è l’espressione da cui è nato il nome della
città di Istànbul). Se mostriamo a chiunque l’immagine di una città qualsiasi, essa
verrà immediatamente riconosciuta in quanto tale, nonostante le forme e tipologie
urbane siano pressoché infinite. Esiste però un’altra città che non può essere
vista, almeno non grazie alla lunghezza d’onda fisica. Ed è la città vivibile, o la
città vissuta: la società urbana, o città sociologica, che non solo è reale quanto
quella visibile, ma è al tempo stesso l’artefice e il prodotto di quella visibile, con la
quale dunque costituisce un insieme inestricabile.
Quale tipo di prodotto è allora la città, e con quali categorie possiamo distinguerla
da altri sistemi complessi? In un breve saggio sulla produzione di organismi
mutanti, il biologo Glauco Tocchini-Valentini fornisce un’interessante analisi che
chiarisce la differenza tra “un sistema vivente complesso”, sia esso un batterio o
un uomo, e altri sistemi complessi che esistono in natura. Soltanto gli organismi
hanno la caratteristica essenziale di possedere una descrizione o un progetto
interno. Questa è la differenza tra organismi e ambiente. Per esempio, il tempo
atmosferico è un sistema complesso che può essere descritto dalle leggi della
fisica, e queste leggi ci permettono di fare previsioni sull’evoluzione del sistema.
Ma in nessun luogo, all’interno del sistema meteorologico, si riuscirà a trovare il
suo “progetto”.i
Le città sono entità complesse che possono essere classificate al tempo stesso
come organismi viventi e grandi sistemi fisici. Nessuna città ha al suo interno un
DNA che descriva in modo riflessivo il suo futuro sviluppo, sebbene alcune città,
al tempo della loro fondazione, siano state progettate e si sviluppino secondo un
“piano”. E l’evoluzione di nessuna città può essere descritta da leggi strettamente
fisiche, sebbene esistano limitazioni strutturali che anche gli insediamenti più
spontanei sono costretti ad accettare. Dunque, per comprendere, prevedere, e in
certa misura influenzare i cambiamenti che interessano le città, dobbiamo usare
due tipi di “lenti”: l’una è nei nostri stessi occhi, ma la seconda sta nel nostro
cervello e può essere usata solo con l’aiuto di parole che esprimono i concetti.
Per questo dobbiamo essere molto cauti nel maneggiare concetti e parole per
descrivere la città sociologica, e per mettere in relazione ciò che vediamo e ciò
che immaginiamo o pensiamo.
65
1.8
eGovernance. Il governo della città nella transizione alla terza
fase
Rispetto alle proposte di una evoluzione verso la “societa’ delle reti” e
dall’eGovernment all’eGovernance occorre prestare attenzione a vari aspetti.
a) La connessione tra vari sistemi informativi, la loro capacità di comunicare e
di essere utilizzati a fini strategici
b) La capacità, soprattutto nell’impiego residenziale delle nuove tecnologie, di
inserire effettivamente i singoli agli usi più avanzati. In questa connessione
anche gli aspetti tecnologici di connessione sono rilevanti. L’”ultimo metro”
piuttosto che “l’ultimo miglio”.
c) L’uso interattivo degli strumenti in rete per ricollegare le persone tra di loro, e
per ricollegare i cittadini con l’amministrazione
In altre parole perche’ si completi quella che abbiamo chiamato la Transizione
alla Terza fase (Società della Conoscenza, dopo società delle Cose e società dei
Servizi) sono necessarie sia una forte spinta all’infrastrutturazione sia il sostegno
agli usi più innovativi, che implicano lo sviluppo di indicatori tecnici per misurare
l’accessibilità alle informazioni nel campo dell’ eGovernment.
Facciamo alcuni esempi, non sempre intuitivamente noti.
o
L’iniziativa dell’Associazione Interessi Metropolitani, AIM di Milano di
promuovere un Internet saloon per le persone anziane ha incontrato un successo
straordinario di circa 6.000 anziani in quattro anni. L’aumento della capacita’ di
relazione sociale dei partecipanti e’ stato notevole, se giudicato sulla bse delle
osservazioni qualitative effettuate, anche se quantificazioni piu’ precise sono
ancora in corso. Una iniziativa analoga sembra essere in corso a Roma.
o
Sulla diffusione dei telefoni cellulari e sul carattere frivolo del loro uso
sono stati versati fiumi di inchiostro e a un certo punto si e’ scomodato persino un
alto prelato. Quasi nessuno sa che le persone sorde, che hanno una incidenza di
circa 1 su mille a livello mondiale e che in Italia sono tra i 30 e i 70mila, hanno
riacquistato la possibilità di costituire o ricostituire comunità a distanza, e quindi
di stabilire un ambito di comunicazione al di la’ della cultura visuale della lingua
dei segni solo con il famoso “telefonino”.
o
Nel giro di pochi anni, da Seattle a Evian (1999-2003), si e’ creato
grazie alla strumentazione della rete, un poderoso movimento politico mondiale
grass roots, capace di mobilitare, al caso, milioni di persone con una struttura di
interazione tipica dello spazio dei flussi.
o
L’MIT è stato sempre considerato una sorta di “fabbricone” che si
faceva vanto della circostanza che i professori erano sempre nel loro studio, fatto
non comune neppure nelle università americane. Qualche anno fa l’MIT
introdusse un sistema wireless molto efficiente e generalizzato e di colpo i
professori non si trovavano più, il wireless combinato con il laptop aveva liberato
tutti, docenti e studenti, dalla “tirannia dello spazio”; anche gli spazi classici
dell’università, uffici, aule e biblioteche, cambiano forma, il wireless si porta il
proprio ufficio con se. Beninteso il sistema è sempre in grado di identificare dove
si trovi un portatore di entry point di wireless, ma ragioni di privacy impediscono
che si utilizzi liberamente questa possibilità. Occorre una rinegoziazione, che è
66
attualmente in corso, con la messa a punto di un software che accetta da
ciascun individuo la ridefinizione della propria disponibilità (availability) in tempi,
modalità, e scelta dei soggetti. Così si ricostruisce una rete libera dalla tirannia
dello spazio che si può ricostruire, ma solo a volontà, chiedendo istruzioni al
sistema sulla disponibilità, poniamo, per una riunione di lavoro dei membri di un
gruppo di ricerca dando anche suggerimenti sull’aula o sulla porzione di open
space (che intanto Frank Gehry ha introdotto in buone quantità)
In altre parole perché si completi quella che abbiamo chiamato la Transizione alla
Terza fase (Società della Conoscenza, dopo società delle Cose e società dei
Servizi) sono necessarie sia una forte spinta all’infrastrutturazione sia il sostegno
agli usi più innovativi. suggerendo indicatori tecnici per misurare l’accessibilita’
alle informazioni nel campo dell’ eGovernment.
Questo problema richiama il tema dei dati e della privacy. La raccomandazione di
Bruno De Finetti, grande anticipatore dei problemi della società dell’informazione,
già nel 1962 era di usare le nuove tecnologie non per “fare meglio e più
rapidamente vecchie operazioni” ma per” fare nuove operazioni per fini
strategici”. Ed è; proprio in questo senso che occorrerà prestare una maggiore
attenzione alla cultura dell’informazione e non solo alla struttura
dell’informazione. Con questo si vuole anche sottolineare che le legittime
considerazioni di protezione della privatezza individuale non devono interferire
con l’uso conoscitivo e lo scambio delle informazioni che sono un patrimonio
comune. Per dare un esempio concreto di cosa voglia dire la “cultura
dell’informazione” basta un riferimento all’anagrafe che, nel sistema italiano e’
considerata il pilastro attorno al quale, e’ organizzato tutto il sistema di
informazioni pubbliche italiano. Compresi i registri elettorali che garantiscono un
godimento pieno del diritto costituzionale al voto. L’abitudine all’anagrafe e’
diventata matter of fact nella nostra cultura e farebbe sorridere chi avanzasse il
sospetto che l’anagrafe minaccia la nostra privatezza. Negli Stati Uniti, per
contro, la sola idea di registri di popolazione pubblici (di quelli privati ne esistono
molti) suscita la ripulsione più profonda contro il grande fratello. Con risultati, tra
l’altro, ben noti e ampiamente deprecati sul piano della partecipazione elettorale,
depressa, se non addirittura impedita dalla organizzazione privatistica dei registri
elettorali. Se andiamo al polo opposto, la Finlandia, avendo deciso che
l’informazione e’ un bene collettivo ha deciso di realizzare un sistema che e’ a
tutti gli effetti una traduzione dello schema definettiano. E questa decisione non
e’ estranea all’impetuoso sviluppo dell’industria dell’innovazione in quel paese,
dove la privatezza delle persone non si percepisce in pericolo per la banca dati
accessibile con grande facilità, più di quanto noi ci si senta minacciati
dall’anagrafe. Come abbiamo visto nel caso dell’MIT occorrono nuovi protocolli
che regolino questi nuovi rapporti.
2. La “geografia della creatività” ed il ruolo delle città
Nel corso degli anni Novanta molti osservatori avevano creduto che gli enormi
progressi registrati nelle telecomunicazioni e la smaterializzazione di molte
67
attività economiche avrebbe portato ad una “morte della distanza”, o alla “fine
della geografia” - per citare titoli apparsi all’epoca su prestigiose riviste
internazionali come l’Economist, Fortune e altre ancora.
In realtà niente di tutto questo é avvenuto. L’affermarsi dell’economia della
conoscenza e della creatività ha visto, al contrario, l’emergere di alcune
dinamiche “geografiche” molto marcate: alcune città e regioni hanno visto tassi di
crescita altissimi, vere e proprie rinascite sociali ed economiche – pensiamo al
rifiorire di vecchie città come Boston, Chicago, New York negli Stati Uniti oppure
Londra e Parigi in Europa -, mentre altre sono cadute in crisi più o meno
profonde dalle quali fanno fatica a risollevarsi (gli esempi – da Pittsburgh a
Detroit - abbondano soprattutto negli Stati Uniti, dove la maggiore mobilità della
popolazione rende certe dinamiche più evidenti)
Evidentemente i fenomeni di localizzazione e di concentrazione di risorse e di
attività economiche sono ancora molto pronunciati, ma seguono criteri diversi da
quelli che avevano determinato lo sviluppo di alcune aree durante l’era
industriale.
Mentre in passato la concentrazione geografica delle attività economiche era per
lo più legata alla prossimità a determinate risorse naturali, a mercati di materie
prime, di fornitori o altri produttori altamente specializzati, oggi queste
caratteristiche non sembrano più sufficienti. La progressiva frammentazione e
globalizzazione dei processi produttivi da un lato, e la crescente preponderanza
di attività economiche più immateriali, legate alla creatività, ai saperi e
all’innovazione dall’altro, hanno modificato radicalmente i fattori che guidano i
processi di concentrazione di molte attività economiche. Quello che oggi risulta
essere l’elemento più critico nei processi di sviluppo e di innovazione é infatti la
prossimità e l’accesso ad una varietà di saperi, idee e competenze professionali
altamente qualificate. Tutto questo appare strettamente legato alla presenza di
elementi come università, centri di ricerca, servizi avanzati, e alla presenza di
una forza lavoro più variegata, istruita e internazionale di quella necessaria ai
processi produttivi tradizionali.
É per questi motivi che l’ambiente urbano, capace di assommare in sé le
caratteristiche di densità e concentrazione ma anche varietà e diversità di culture,
di attività economiche e sociali, é tornato a svolgere un ruolo di primo piano nei
processi di crescita e sviluppo. Un ruolo che era passato un pò in ombra negli
anni Sessanta e Settanta, in cui molte città erano divenute grige, sporche,
dominate da attività produttive e da uffici, da criminalità diffusa e povertà, ma che
ha ritrovato la sua centralità man mano che il sistema economico ha spostato il
suo baricentro verso attività più immateriali e processi creativi e innovativi.
2. La città nell’era della conoscenza e l’emergere delle “città creative”
La città, intese come luoghi in cui un elevato numero di persone diverse vivono e
lavorano in stretta prossimità fisica, si configura già di per sé come un coacervo
di persone, attività e idee diverse e si presta quindi in modo quasi naturale ad
essere un laboratorio per la creazione di nuove idee, saperi, interazioni, e per
l’emergere di nuove combinazioni economiche e sociali. Si tratta di una
68
caratteristica che la città ha sempre avuto, ma che é stata valorizzata e
apprezzata in modo e a fasi alterne nel corso della storia.
Oggi questo ruolo della città come “laboratorio di innovazione e creatività” , é
tornato alla ribalta grazie alle dinamiche economiche mondiali, e alla rinnovata
enfasi che accademici, politici e amministratori pongono su fattori come
l’innovazione, la creazione e la diffusione di nuove conoscenze, di saperi e
informazioni, la creatività: tutti processi che tendono a beneficiare molto dalla
prossimità fisica e dalla diversità che le città - e in particolare le grandi città –
sono in grado di offrire. É per questo che oggi si sente parlare spesso di regioni o
di città creative.
Ma cos’é una città creativa? Come viene definita e come la si può riconoscere o
misurare? Ma soprattutto: come si può generare, alimentare e mantere questa
“creatività”?
Per molti anni le città creative sono state definite ex-post. Vale a dire che
venivano identificate e studiate delle città che nel corso delle storia si erano
distinte per produzioni artistiche, culturali e intellettuali di alto valore e sulla cui
“creatività” vi era un ampio e pressoché unanime consenso.
Sulla base di questa definizione la maggior parte delle ricerche in materia si sono
occupate dello studio e dell’analisi delle grandi città creative del passato: Atene
nel quinto secolo avanti Cristo, la Firenze rinascimentale, la Londra Vittoriana o
la Parigi di fine Ottocento (dalle prime analisi del filosofo dell’arte Hyppolite
Taine, del 1865, fino ai lavori più recenti di Peter Hall, riuniti nel suo volume
Cities in Civilization, del 1998).
Questi studi ci aiutano a capire le dinamiche e le specificità di ciascun percorso,
e hanno inoltre l’importante pregio di evidenziare alcune caratteristiche molto
importanti della creatività.
Innazitutto mostrano come le città e regioni creative, pur finendo spesso per
venire identificate, soprattutto nel corso del tempo, con poche personalità o opere
di rilievo, sono tuttavia il frutto di un clima creativo “collettivo” che travalica il
singolo individuo e che caratterizza un sistema sociale nel suo complesso. Come
scrive Mihály Csíkszentmihályi, la creatività si può capire e studiare solo
seguendo un approccio sistematico in cui essa viene relazionata al contesto
sociale in cui si manifesta e di cui fa parte (Csíkszentmihályi, 19964)
In secondo luogo questi studi evidenziano anche come le condizioni per
l’esistenza di questi “climi creativi” non sono fisse e immutabili, ma sono variabili
e tipicamente si esauriscono nel tempo. Peter Hall, nel suo saggio “Cities in
Civilization” parla appunto di “creatività momentanea” proprio a sottolinearne la
natura mutevole e passeggera (Hall, 1998)
Tuttavia questi lavori, pur affascinanti e ricchi di spunti molto utili, hanno
un’importante limitazione. Infatti, identificando le città creative solo ex-post sulla
base di un giudizio complessivo considerato “inopinabile” (chi può obiettare, oggi,
che la Firenze rinascimentale fosse creativa?) – si fornisce una definizione di
città creativa inconfutabile ma poco operativa e utile ai fini della ricerca
4
Csíkszentmihályi, Mihaly (1996). Creativity : Flow and the Psychology of Discovery
and Invention. New York: Harper Perennial
69
contemporanea. Come possiamo valutare e riconoscere, oggi, il potenziale
creativo delle città del presente? Come possiamo gestire queste possibilità e
guirdarne lo sviluppo nel futuro? Questi lavori non aiutano a rispondere a queste
domande particolarmente importanti per i policy makers.
Alcuni lavori più recenti tendono a considerare e valutare la città creativa non in
relazione ai risultati del passato, ma sulla base di un insieme di condizioni
considerate critiche forme di creatività molto diverse, più ampie e diffuse rispetto
ad alcune forme artistiche di estrema eccellenza e visibilità. Espressioni creative
che spaziano dalla ricerca e sviluppo alle tecnologie informatiche, dall’ingegneria
alle biotecnologie, dalla scienza alla multimedialità.
Adottare una prospettiva di questo genere significa poter valutare il potenziale
creativo di una città non solo attraverso il riconoscimento di alcuni output
d’eccellenza ma anche attraverso attività ed investimenti ex-ante in attività che
portino alla creazione e diffusione di nuovo sapere e nuove conoscenze,
attraverso la presenza di importanti centri di ricerca, di un tessuto imprenditoriale
innovativo, di tecnologie di comunicazione all’avanguardia.
L’economista americano Richard Florida, per esempio, propone un approccio che
unisce vari indicatori “di sistema” come quelli appena citati e ne aggiunge un altro
riguardante la presenza, nel contesto cittadino, di quella che lui chiama “classe
creativa”. La classe creativa include persone impegnate in attività non
standardizzate e routinarie, di qualsiasi ambito industriale o settore merceologico,
che richiedono ogni volta di affrontare e risolvere problemi e situazioni nuove. Si
tratta di professionisti (architetti, ingegneri, medici, avvocati, riceratori, scienziati,
informatici ecc.), ma anche manager, dirigenti e imprenditori – un ampio gruppo
di persone che include ma va ben oltre la nozione di creativi limitata ad artisti,
scrittori e/o musicisti tradizionalmente in uso (Florida, 2003).
Secondo Florida, quindi, la quantità di classe creativa presente in una città
(assieme alle altre condizioni di contesto, naturalmente) é uno dei principali
indicatori del potenziale creativo del territorio. L’economista di Harvard Edward
Glaeser sottolinea invece come la capacità di competere nell’economia creativa
sia di fatto legata ad una varaibile ancora più ampia e generale della presenza di
classe creativa, ovvero alla diffusione dell’istruzione e la concentrazione di
persone in possesso di titoli di studio e skills ad elevata qualificazione (Glaeser et
al., 2001).
Seguendo questi approcci più ampi ed “olistici” può quindi sembrare che si sia un
pò allentato il rapporto con la cultura e le industrie creative.
Ma non é cosi’. Le industrie creative hanno un ruolo chiave nei processi di
crescita e di sviluppo delle città – cosi’ come le città hanno un ruolo molto
importante nello sviluppo di molte industrie creative. Un legame a doppio filo che
possiamo sinteticamente illustrare attraverso l’analisi di due funzioni critiche della
città rispetto alle industrie creative e culturali: consumo da un lato, ma anche
nuove forme di “produzione” dall’altro.
Non solo, ma al di là delle industrie creative la cultura intesa in senso più in
generale resta un elemento fondamentale per impostare uno sviluppo locale ed
urbano più equilibrato e orientato alla qualità dei processi di crescita che si
vogliono intraprendere. Come hanno scritto alcuni studiosi italiani, la cultura
70
diviene la piattaforma di aggregazione e di apprendimento sociale che aiuta una
comunità locale a confrontarsi con idee, problemi, stili di vita diversi da quelli
familiari e a dialogare attivamente e creativamente con essi. La cultura diviene
una vera e propria ‘infrastruttura cognitivà che non si limita a riempire il tempo
libero ma stimola ad apprendere e a investire sulle proprie competenze, guida
sempre di più la costruzione del senso della vita quotidiana, dà forma ai modelli
di qualità della vita, plasma visioni di futuro con le quali la comunità locale si
confronta in modo partecipato e consapevole dando vita ad una ‘atmosfera
industrialé che non è più basata come un tempo su una cultura di prodotto ma su
un comune orientamento alla produzione e alla diffusione di conoscenza (Sacco,
Tavano Blessi e Nuccio, 2008)5.
3. Città come luoghi di attrazione, consumo e socialità
3.a. Il consumo di beni e attività culturali nelle città- trend e caratteristiche
L’alta concentrazione di persone in un spazio relativamente limitato ha sempre
reso le città luoghi importanti per gli scambi commerciali e per i processi di
consumo, tuttavia questi aspetti sono stati spesso trascurati dalla letteratura
accademica, soprattutto quella economica, che si é generalmente più occupata di
studiare i vantaggi che l’agglomerazione urbana determinava per certe attività
produttive (Glaeser, Kolko e Saiz, 2001).
É solo in anni più recenti che alcuni economisti hanno riconosciuto l’importanza e
il peso delle attività di consumo sulle dinamiche urbane e sui processi di sviluppo
regionali. Questa riscoperta é dovuta in buona parte alla straordinaria crescita di
particolari processi di consumo, che hanno poco a che vedere con beni e prodotti
tradizionali, ma che sono invece collegati a servizi e beni immateriali e alle attività
creative a culturali.
La crescita dei consumi legati ad attività creative, ri-creative e culturali é stata
particolarmente monitorata e studiata in paesi e città straniere come Londra, New
York, Toronto, ma lo stesso trend lo si rileva in Italia.
Come mostra la figura xxx il consumo di numerose attività ricreative e culturali é
andato costantemente aumentando anche in Italia nel corso degli ultimi 15 anni,
nonostante i periodi di crisi economica che a varie riprese e con alterna intensità
hanno colpito l’economia italiana e mondiale in questo arco temporale.
Figura xxx
5
Sacco, Pier Luigi, Tavano Blessi, Giorgio, e Nuccio, Massimiliano (2008). Culture as
an Engine of Local Development Processes: System-Wide Cultural Districts, Working
Paper, Università IUAV, Venezia.
71
Consumo di spettacoli 1993-2006
% partecipanti soprai 6 anni
60
50
Teatro
40
Cinema
30
Musei
mostre
20
Concerti
classici
10
Concerti
leggeri
19
9
19 3
9
19 4
9
19 5
9
19 6
9
19 7
9
19 8
9
20 9
0
20 0
0
20 1
0
20 2
0
20 3
0
20 5
06
0
Fonte: Istat, Indagine Multiscopo, 2003, 2007
Oltre alla sua costante crescita, un’altra caratteristica interessante del consumo
di attività culturali, creative e ri-creative é, appunto, proprio la sua concentrazione
nelle città, in particolare nelle città grandi e medio-grandi.
Questa caratteristica, tipicamente studiata e analizzata in paesi stranieri, si
manifesta tuttavia in modo molto simile anche in Italia.
Utilizzando dei dati della Siae sul consumo di attività di spettacolo nelle città
italiane, suddivise tra comuni capoluogo di provincia (che sono, solitamente, città
medio-grandi) e tutti gli “altri comuni”, si possono condurre delle analisi su come
si distribuisce il consumo di spettacoli tra queste due tipologie di città.
L’analisi, riportata in Figura...., mostra un livello di concentrazione delle
rappresentazioni nei comuni capoluogo di provincia piuttosto elevato non solo e
non tanto del numero di rappresentazioni (per esempio, il 64% delle performance
di musica classica avviene nei comuni capoluogo e solo il 36% in tutte le migliaia
di comuni restanti) ma soprattutto nel numero di spettatori e ancor di più nella
spesa del pubblico. Per tornare all’esempio della musica classica: a fronte del
64% di rappresentazioni che vi si trovano, nei comuni capoluogo troviamo l’80%
di tutti gli spettatori nazionali e addirittura l’87% di tutta la spesa nazionale.
72
Concentrazione delle attivita' di spettacolo nei comuni capoluogo
120.0%
100.0%
80.0%
% del numero di eventi
% dei biglietti venduti
60.0%
% della spesa del pubblico
40.0%
20.0%
op
er
et
ta
le
co
tte
m
ra
m
rio
ed
ia
m
us
ica
m
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us
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gg
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ta
l
bu
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cl
as
si
co
co
nc
er
to
da
nz
co
a
nc
er
to
ja
zz
co
nc
ba
lle
tto
0.0%
Fonte: Elaborazione dati SIAE, Quaderni dello spettacolo 2005
Questo significa che é nelle città medio grandi che si concentra il consumo di
attività culturali e creative. Occorre inoltre sottolienare un’altra caratterstica: vale
a dire che tale maggior consumo nei contesti urbani più grandi e rilevanti non é
legato semplicemente alla maggior densità e popolosità, ma ad una effettiva
maggior predisposizione delle persone a spendere in questo genere di attività
(probabilmente legato anche ad una maggior qualità e valore aggiunto delle
rappresentazioni effettuate in questi luoghi). Questa tesi é avvalorata da alcuni
dati, come quelli riportati in Figura xxx, che mostrano come la spesa media in
spettacoli per abitante delle città capoluogo sia di molte volte superiore alla
spesa per abitante registrata negli altri comuni. Per esempio, nel caso del teatro
di prosa, nei comuni non capoluogo la spesa media per abitante é poco meno di
un euro all’anno, mentre nei comuni capoluogo é quasi di 7 euro, sette volte
tanto.
Questi dati, pur se indicativi, ci mostrano comunque come le città siano in grado
di creare e mantenere le condizioni di mercato affinché le industrie creative
possano svilupparsi e prosperare– sia quantitativamente che qualitativamente.
73
Spesa in spettacoli per abitante (comuni capoluogo vs. altri comuni)
8.00
7.00
6.00
Euro
5.00
Spesa per abitante nei comuni capoluogo
4.00
Spesa per abitante negli altri comuni
3.00
2.00
1.00
O
pe
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Bu
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gg
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Pr
os
a
0.00
Fonte: Elaborazione dati SIAE, Quaderni dello spettacolo 2005
3.b. Le città e le nuovi “classi creative”
La presenza di numerose e variegate attività culturali e ricreative é importante
non solo per un generale impatto economico sui consumi, ma anche per l’effetto
che esse hanno su alcuni processi sociali che hanno luogo nelle città, nonché
sulla loro attrattività nei confronti di alcune specifiche categorie di persone e di
profili professionali.
Infatti la possibilità di avere accesso ad attività culturali e ricreative contribuisce a
rendere l’ambiente urbano particolarmente attraente per le persone con più
elevati livelli di istruzione (Glaeser et al., 2001) e in particolare quelle persone
impegnate in attività intellettuali, creative; in altre parole della già menzionata
“classe creativa” (Florida, 2002).
E, poiché secondo questi approcci queste sono le categorie di persone più
critiche per lo sviluppo e la crescita di un luogo, essere in grado di attrarle e
trattenerle diviene un obiettivo critico per ogni città o regione.
É importante sottolineare, comunque, che la capacità dei luoghi ad alta
concentrazione di amenities di attrarre “creativi” e highly skilled non é legata
soltanto all’elemento ricreativo e di consumo, ma anche alla valenza sociale ed
economica che tali caratterstiche assumono per queste persone. Infatti, una tale
densità e varietà di attività culturali offre l’opportunità di entrare in contatto con
persone che hanno interessi, obiettivi e background vicini e/o complementari tra
di loro; incontri che potenzialmente possono dare vita a nuove idee, nuove
74
combinazioni di saperi e nuove opportunità di crescita professionale (Currid,
20076).
É anche per questo che le dinamiche e la distribuzione geografica della
popolazione più istruita e della classe creativa segue dei trend del tutto peculiari,
nei quali emerge una tendenza alla concentrazione geografica maggiore di quella
rilevata nella media della popolazione (Tinagli, 20087).
Per esempio, delle 360 aree metropolitane che esistono all’interno degli Stati
Uniti, sette, da sole, raccolgono bel il 25% di tutti i talenti americani: New York,
Chicago, Boston, Seattle, Washigton, Atlanta e San Francisco8. In Svezia, il
paese che ormai guida tutte le classifiche di innovazione e competitività, circa il
60% della classe creativa e il 70% di tutti gli artisti é concentrato nelle tre regioni
di Stoccolma, Goteborg e Malmo (Tinagli et al., 2007)9.
4. Città come luoghi di produzione e diffusione
Proprio grazie alla loro capacità di attrarre e mischiare persone con background
diversi e con crescenti bisogni di consumo legati a cultura e creatività, le città
favoriscono inoltre lo sviluppo di tutte quelle “produzioni” in cui l’elemento
creativo, umano e culturale ha un ruolo preponderante: dalla musica al teatro,
dalle arti visive al cinema, ma anche moda, design, e tutti i processi di utilizzo e
valorizzazione dei beni culturali (sistema museale, per esempio).
Come scriveva Peter Hall in relazione alle attività ricreative e culturali che gli
individui cercano nelle città:
“ these agreable activities may themselves become sources of income and of
economic growth, may generates new industries of a kind never known to earlier,
simpler eras. Rich, affluent cultivated nations and cities can sell their virtue,
beauty, philosophy, their art and their theatre to the rest of the world” (Hall,
199810).
La cultura, la creatività, la bellezza stanno diventando sempre più elementi di
valore non solo culturale ma anche economico e di sviluppo, fonti di nuove forme
imprenditoriali e interi settori industriali.
Per questo, capire come le industrie creative sono articolate sul territorio e in che
modo il loro sviluppo si relaziona ad alcune peculiarità dei contesti urbani é un
elemento importante per la formulazione di strategie di crescita di questi settori.
Un’analisi in chiave territoriale delle varie industrie creative che verranno
discusse singolarmente nei capitoli successivi può fornire interessanti spunti di
riflessione. Evitando di entrare in dettagli tecnici e analisi dettagliate di ciascun
settore (che richiederebbero molto più spazio di quanto disponibile in questa
sede), di seguito riassumiamo ed illustriamo alcuni caratteri generali della
distribuzione territoriale delle attività produttive legate alle industrie creative.
6
Elizabeth Currid, The Warhol Economy, Princeton University Press, New Jersey, 2007
Irene Tinagli, Talento da Svendere. Perché in Italia il talento non riesce e prendere il
volo. Einaudi, Torino, 2008
8
Dati Us Census Bureau.
9
I. Tinagli, R. Florida, P. Ström. E. Walqvist, Sweden in the Creative Age, Handels
School of Business, Economics and Law, Göteborg, 2007
10
Sir Peter Hall (1998). Cities in Civilization, Pantheon Books, New York.
7
75
1. Le industrie creative più slegate da attività manifatturiere come la pubblicità ed
il branding, la realizzazione di software e servizi informatici, o il cinema,
presentano una distribuzione territoriale particolarmente concentrata e
“diseguale”. Basta pensare che sulle 103 province italiane solo 9 presentano
un’attività di concezione e produzione cinematografica di qualche rilievo (dove
vengono impiegati oltre 100 addetti in tutto il territorio provinciale).
Le attività di pubblicità e marketing, pur essendo più consistenti e diffuse di quelle
cinematografiche, registrano una simile tendenza: il 51% di tutti gli addetti
impegnati in attività di concezione e produzione di questo settore é concentrato in
sole quattro province (Milano, Torino, Roma e Bologna).
2. Non solo, ma in queste industrie creative meno legate alla manifattura
tradizionale si rileva una altissima tendenza alla concentrazione nelle zone
urbane più rilevanti e dense, ovvero nel comune capoluogo piuttosto che nel
resto del territorio provinciale. Per tornare all’esempio delle 9 province in cui si
registrano attività di concezione e produzione cinematografica di un qualche
rilievo si nota come il 76% di tutti gli addetti presenti nel territorio provinciale
siano in realtà concentrati all’interno dei confini del comune capoluogo.
Similmente, andando a guardare le quattro province leader per attività di
pubblicità, si può notare come ben l’83% delle persone impegnate nelle attività di
concezione e produzione sia concentrata nei comuni capoluogo. É evidente che
per le industrie creative in cui é più forte la componente “intellettuale” e
immateriale é particolarmente critica la possibilità di essere localizzate in luoghi
in cui sia più facile accedere al principale input produttivo, vale a dire risorse
umane altamente qualificate e creative.
3. La situazione appare invece più complessa e articolata per quelle industrie
creative in cui, al contrario, esiste una fase di produzione che coinvolge
importanti attività manifatturiere di tipo tradizionale come la moda o la cultura
materiale. In questi settori la localizzazione territoriale appare più distribuita e
meno concentrata, meno legata ai grandi centri urbani. Ma solo in aggregato; se
andiamo a guardare la distribuzione territoriale delle varie fasi, ci accorgiamo che
la fase concettuale di ideazione e design é distribuita sul territorio nazionale in
modo molto più diseguale delle attività di produzione (in tutta Italia sono solo una
ventina le province in cui troviamo significative attività di concezione e design
legate alla moda) e tende anche ad essere più concentrata nei centri urbani delle
altre fasi.
La Figura xxx mostra, per esempio, la distribuzione statistica del rapporto tra il
numero di addetti della moda presenti nel comune capoluogo rispetto a tutti gli
addetti della moda nel territorio provinciale, suddivisi per le principali fasi della
filiera produttiva del settore. In altre parole, ci dà un’idea di quanta parte degli
addetti di ciascuna fase é concentrato nel comune capoluogo.
Come si può vedere, la fase di ideazione é molto più concentrata nel comune
capoluogo delle fasi di produzione (in media circa il quaranta per cento delle
persone impegnate nel design é concentrata nel comune capoluogo contro il
18% degli addetti alla fasi di produzione). Tuttavia, é importante notare come
76
questa “concentrazione urbana” sia comunque inferiore a quella registrata per i
settori più smaterializzati citati al punto 1 e 2, a dimostrazione del fatto che il
rapporto tra design e produzione nei settori a forte componente manifatturiera é
comunque un legame forte che presuppone spesso anche una prossimità fisica
del design alla produzione e non solo ai mercati delle risorse umane e dei
prodotti finali.
4. La distribuzione di tutte le industrie creative, dalla moda al design, dalla
pubblicità al cinema, presenta una certa concentrazione nei contesti urbani che,
naturalmente, offrono una prossimità fisica ai mercati finali molto maggiore (oltre
alla figura sulla distribuzione delle attività legate alla moda si mostra, a titolo di
esempio, la distribuzione delle attività di concezione, produzione e distribuzione
relative al settore pubblicità e branding, v. Figura xxx).
0
.2
.4
.6
.8
1
Figura xxxx: Concentrazione Urbana delle attività collegate al settore Moda
design
attivita' collegate alla produzione
produzione
distribuzione
Concentrazione Urbana delle attività di Pubblicità& Branding
77
1
.8
.6
.4
.2
0
concezione & produzione
distribuzione
5. Oltre la produzione e il consumo: come coltivare gli “ambienti creativi”
Come sostengono numerosi studiosi, non sempre le città con maggiori tradizioni
culturali sono le più creative, cosi’ come possono non esserlo le città in cui le
industrie creative sono più sviluppate (Hall, 1998, Pratt, 1997)
Possono infatti esservi periodi, nella storia di una città, in cui la cultura non trova
un clima sociale ed economico tale da alimentare effettivi processi creativi, cosi’
come possono esservi momenti in cui le industrie che nascono attorno a
determinati prodotti culturali e creativi perdono le loro radici e le fonti più profonde
di ispirazione e di rigenerazione creativa.
Per quanto tradizione culturale e condizioni di mercato siano due elementi
importanti per qualsiasi città creativa, l’esistenza e la continuità di processi
creativi in un contesto locale ed urbano dipendono anche da altri fattori che
contribuiscono a generare quello che, alla fine degli anni Settanta, lo studioso
svedese Gunnar Tornqvist defini’ “creative mileu”.
Ma che cosa caratterizza un ambiente creativo e, soprattutto, cosa contribuisce
al suo continuo rinnovamento?
Secondo la definizione di Tornqvist (ripresa successivamente da altri studiosi, e
in particolare da Ake Andersson, uno dei più noti studiosi di creatività) un
ambiente creativo é caratterizzato da quattro elementi principali: a) la presenza di
informazione che si trasmette tra gli individui, b) il sapere, che consiste nelle
modalità in cui questa informazione viene assorbita dalle persone, c) le
78
competenze delle persone, d) la creatività, ovvero il modo in cui gli elementi
precedenti vengono ricombinati e interagiscono tra di loro (Tornqvist, 1983).
Una definizione molto ampia e per certi versi tautologica che pone il problema
pratico di come riuscire a realizzare queste condizioni cosi’ multiformi.
I suggerimenti e le interpretazioni sono molte ed articolate. Tornqvist enfatizza il
ruolo della dimensione e della diversità dei centri urbani (che favorisce lo
scambio di idee e di informazioni); Ake Andersson pone l’accento su quella che
egli definisce “instabilità strutturale”, ovvero una condizione di incertezza e
imprevedibiltà che stimola il processo creativo e pone di fronte a nuovi paradigmi
(198511), Peter Hall, a sua volta, attraverso la sua analisi delle città creative del
passato elenca una serie di tratti comuni di questi luoghi che vanno dalla
dimensione, alla ricchezza al cosmopolitismo (Hall, 1998).
Nonostante le varie sfumature e le differenze che caratterizzano i vari studi in
materia, un elemento emerge come fondamentale in tutti gli approcci: la diversità
e la convivenza di culture, stili e background variegati. Si tratta di un aspetto che
ritroviamo anche in approcci più recenti come quello di Richard Florida, secondo
cui le comunità creative sono caratterizzate non solo dalla presenza di talenti e
da avanzate tecnologie, ma da contesti sociali aperti e tolleranti (Florida, 2002).
Il ruolo dell’apertura culturale nei confronti di persone e idee diverse é un
elemento cruciale per coltivare e mantenere dei “climi creativi” perché é
soprattutto dagli influssi esterni che si stimolano contesti esistenti a confrontarsi e
rigenerarsi continuamente, impedendo la cristallizzazione di norme e abitudini
che col tempo divengono obsolete e imbrigliano la creatività. Come notava Peter
Hall nel suo studio degli esempi del passato, nei loro momenti di massima
creatività e splendore tutte le grandi città creative erano città cosmopolite che
attraevano talenti da ogni angolo del mondo, e dove si incrociavano mondi e
saperi diversi.
6. Rischi e dilemmi delle città creative
L’affermazione e lo sviluppo di città sempre più “creative” e attraenti per un
numero crescente di persone “highly skilled” non é immune da rischi ed effetti
negativi che pongono spesso le città di fronte a dilemmi importanti sulle strategie
da perseguire.
Sia la ricerca accademica che l’esperienza di numerose realtà territoriali ci
insegnano che la riqualificazione urbana, l’elevata attrattività e la presenza di un
fiorente mercato per le attività culturali e ricreative possono talvolta finire per
avere effetti indesiderati.
1. Innanzitutto la presenza di “amenities” e l’elevata attrattività tende
inevitabilmente a spingere in alto i prezzi delle unità immobiliari (la relazione
positiva tra presenza di classe creativa, talenti, forti immigrazioni e i prezzi degli
immobili é stata verificata sia negli Stati Uniti che in alcuni paesi Europei). Questo
fenomeno rischia di emarginare e allontanare dalla città proprio alcuni dei
11
Andersson, Ake (1985) Creativity and Regional Development, Papers of the Regional
Science Associations, Volume 56.
79
soggetti chiave dei processi creativi urbani come i giovani, gli artisti, o gli studenti
universitari, mettendo a repentaglio la capacità di alimentare continuamente la
creatività attraverso nuove idee e contaminazioni.
2. I processi di riqualificazione e l’aumento dei prezzi tendono inoltre a favorire
quei processi di “gentrification” che finiscono spesso per uniformare il tessuto
sociale (e spesso anche il profilo estetico ed architettonico) di molti quartieri,
diminuendone l’autenticità e la spinta innovativa.
3. Infine, la tendenza verso una progressiva separazione tra le elites creative quelle che sono riuscite a trovare meccanismi di riconoscimento economico e
sociale – e i gruppi che restano esclusi dall’economia creativa, non solo pone a
rischio le basi stesse dello sviluppo e dei processi creativi di lungo periodo, ma
può generare pericolose tensioni sociali e può acuire problemi territoriali e
difficoltà nel gestire il rapporto tra centro “creativo” e periferie sempre più
emarginate.
Alcuni di questi aspetti sono già stati osservati e analizzati sia dagli stessi teorici
dell’economia creativa (Florida, 2002, 2005) che da altri studiosi che hanno
evidenziato i limiti di strategie di sviluppo unidimensionali focalizzate
esclusivamente sull’attrattività verso risorse e talenti “esterni” (Sacco, Tavano
Blessi e Nuccio, 2008).
Quest’ultimo approccio evidenzia come una crescita armonica di una città
richieda spesso approcci multidimensionali che partono o passano dall’attrattività,
seguita o accompagnata però da altre misure volte a favorire processi di
inclusione sociale e di “capability building” (seguendo l’approccio elaborato e
reso noto dal premio Nobel Amartya Sen) e ci ricorda come numerose città
creative degli Stati Uniti siano riuscite a divenire esempi di successo proprio
grazie alla loro capacità di unire strategie diverse.
Tra gli esempi citati troviamo, per esempio, Austin, la capitale del Texas, che “sta
guadagnandosi oggi uno status di ‘città illuminatà fondato su una traiettoria
esemplare nella quale nella prima fase l’attrazione del talento e delle risorse ha
effettivamente giocato un ruolo preminente, ma per passare poi ad una seconda
fase tutta basata sull’inclusione sociale e sul capability building per evitare che il
processo di ‘gentrificazione creativà della città finisca per trasformarla in un
ghetto per ricchi. Altre città come Linz, in Austria o Vancouver, in Canada, hanno
invece saputo ripensare integralmente il proprio passato industriale dando vita a
sistemi di contenitori di industria creativa nei quali l’innovazione culturale e quella
tecnologica danno luogo a sinergie sempre più radicali e imprevedibili. Altre città
ancora, come Denver, in Colorado o come Newcastle-Gateshead, nel Regno
Unito, hanno scommesso sulla formazione e motivazione dei residenti come
strategia per costruire una base locale di domanda pagante per opportunità e
servizi culturali e formativi, divenendo nel giro di un decennio modelli esemplari di
nuove società della conoscenza, capaci di conciliare la crescita economica con la
qualità della vita” (Sacco, Tavano Blessi e Nuccio, 2008).
La sfida delle città creative é dunque quella di trovare un equilibrio che da un lato
supporti lo sviluppo ed il riconoscimento delle forme creative, il valore della
cultura e la sua valorizzazione, ma che dall’altro lato sappia anche garantire le
80
condizioni per la continua rigenerazione dell’ecosistema “creativo” urbano fatto di
diversità e contaminazioni.
7. Le città Italiane: un modello di creatività?
Se le città sono tornate ad avere un ruolo di primo piano nel nuovo sistema
economico, grazie al loro ruolo non solo di attrazione di talenti, ma più in
generale di grande laboratorio vivente dove si incrociano storia, bellezza, cultura
e idee, le città italiane potrebbero veramente rappresentare un modello di
creatività e un esempio per il mondo. Ma fino a che punto é davvero cosi’?
Sicuramente le città italiane presentano delle peculiarità importanti che le
rendono un asset prezioso per tutto il paese e un modello per gli altri. Possiamo
identificare tre punti di forza più evidenti del nostro territorio
1. L’esistenza di una molteplicità di centri storici e di identità urbane forti e
definite che altre città e paesi stranieri, come per esempio gli Stati Uniti, stanno
cercando con fatica di ricostruire nel tentativo di rilanciare centri urbani svuotati di
abitanti e di identità nel corso degli anni Sessanta e Settanta.
2. La presenza di patrimoni artistici e architettonici di grandissimo rilievo che
danno la possibilità alle nostre città di contare su elementi di “attrattività” forti e di
partire, in un certo senso, avvantaggiate.
3. La presenza di contesti sociali fortemente coesi che, cosi’ come celebrato da
numerosi sociologi italiani e stranieri, danno l’opportunità
Tuttavia a fianco di questi assets vi sono anche difficoltà e problemi che si
riflettono nella situazione di generale ritardo di molte nostre realtà (e dell’Italia più
in generale) ad affermarsi e ad emergere nello scenario competitivo
internazionale; difficoltà che impongono riflessioni ed interventi.
Come analizzato in maggior dettaglio altrove, l’enorme patrimonio di città e paesi
che abbiamo più che tradursi in attrattività e innescare innovazione economica ha
significato per lo più frammentazione, campanilismi, conflitti di potere la cui
conseguenza é stato il configurarsi di un sistema di isole, ciascuna delle quali ha
risorse e patrimoni importanti ma anche limiti che da sola non riesce a superare.
Le conseguenze più preoccupanti di un sistema cosi’ strutturato sono di due tipi:
uno economico-funzionale, l’altro di tipo socioculturale (Tinagli, 200812) .
Da un punto di vista economico-funzionale si fa riferimento alla necessità, per le
città di oggi, di fornire una quantità – e una qualità- di servizi e opportunità di
consumo, ricreazione e attività culturali che richiedono necessariamente una
certa massa critica che i centri medio-piccoli (come sono la maggior parte delle
nostre città) fanno fatica a raggiungere. Questo problema rende critica la
capacità di coordinare le attività dei comuni limitrofi e di iniziare a pensare e
progettare il territorio non più come un insieme di migliaia di piccoli centri isolati
12
Irene Tinagli, Talento da Svendere. Perché in Italia il talento non riesce e prendere il
volo. Einaudi, Torino, 2008
81
ma come regioni e aree che operano in modo sincrono e funzionale (Florida,
200613, Tinagli, 2008).
Da un punto di vista culturale si fa riferimento alla stessa struttura sociale della
miriade di piccoli centri che caratterizzano il nostro territorio – realtà che, se da
un lato presentano i vantaggi di comunità compatte e fortemente coese, dall’altro
però finiscono spesso per divenire comunità chiuse rispetto ad influssi esterni
(una caratteristica delle comunità molto coese già considerata da Mancur Olson).
Questa chiusura impedisce il rinnovo di idee, lo scambio generazionale e
interculturale, e finisce per far sentire intrappolati e desiderosi di fuggire proprio i
più giovani e brillanti.
Senza parlare del fatto che, proprio la dimensione limitata di questi contesti
sociali ed economici rende difficile per i giovani creativi entrare in contatto con un
mercato ed una domanda di “talento” e di creatività che offra loro le necessarie
opportunità di crescita e sviluppo personale e professionale.
8. Alcune idee
La molteplicità degli aspetti che contribuiscono a generare e coltivare dei “climi
creativi” (molti dei quali fortemente legati al territorio) rende particolarmente
complessa l’elaborazione e l’implementazione di politiche “nazionali” mirate ed
efficaci.
In linea generale, si dovrebbe cercare il maggior raccordo possibile tra politiche
nazionali e locali, nonché le maggiori sinergie possibli tra interventi di natura
diversa che vadano a toccare ambiti che spaziano dall’urbanistica alla coesione
sociale, dalle politiche culturali a quelle industriali e imprenditoriali.
In particolare, viste le peculiarità del contesto italiano e più in generale delle
cittàe delle industrie creative si propongono le seguenti possibilità:
1. Per superare i problemi legati alle limitate dimensioni di molti “mercati locali
per la creatività” e le difficoltà di incontro tra domanda e offerta di beni e servizi
legati alle industrie creative potrebbe essere creato un “Creative Social Network”,
o un “Database delle professioni e delle aziende creative”.
Uno dei problemi principali vissuti quotidianamente da chi svolge professioni
“creative” soprattutto in contesti limitati e periferici é quello di entrare in contatto
con un mercato della domanda dinamico e vivace, di capire chi e dove possano
essere i potenziali clienti e quali le loro esigenze, nonché trovare un modo per
“farsi vedere”. Similmente le aziende che si trovino in un certo momento ad aver
bisogno di una professionalità originale e creativa fanno spesso fatica a trovarla
nel mercato tradizionale del lavoro. L’idea quindi é creare un grande database
interattivo a livello nazionale in cui siano registrati tutti i profili dei “creativi”, con
curriculum, esperienze, progetti, interessi ecc. – divisi per macro-settori e dove
parallelamente siano inseriti tutti i profili delle aziende che in qualche modo, in
momenti diversi della loro vita, fanno uso di professionalità ad alto contenuto
creativo (dal web-designer al DJ o al sommelier). Maggiori dettagli della
proposta sono descritti nel Capitolo 14.
13
Florida, Richard, The New Megalopolis, Newsweek, 3 Luglio 2006
82
2. Per valorizzare i beni culturali e il potenziale dei centri storici, un programma
speciale mirato non solo al decoro e all’attrattività dei centri ma alla loro vivibilità,
funzionalità e connettività con il territorio circostante in modo da favorire il
progressivo sviluppo non solo di singole città ma di intere aree ben coordinate e
funzionali.
3. Per mantenere i necessari livelli di diversità negli ambiti urbani e limitare le
fonti di disagio sociale, agire su un rafforzamento delle misure volte alla
coesione, all’integrazione e all’apertura culturale soprattutto tra le nuove
generazioni (programmi nelle scuole, università, ecc.)
4. Per attenuare gli effetti di “gentrification” già in atto nelle città a maggior
potenziale creativo, é possibile pensare a interventi sui piani urbanistici e alla
possibilità di utilizzare programmi di “zoning”, sul modello già ampiamente
sperimentato negli Stati Uniti, che aiutino a destinare alcune aree cittadine a
persone di varia estrazione sociale, ad usi misti, nonché a persone e progetti
legati alla creatività e alla cultura.
Si tratta solo di alcune idee, tra la molteplicità di interventi possibili, che
sicuramente non esauriscono né lo spettro di misure possibili né tantomeno la
varietà di questioni che la gestione quotidiana di città e regioni e dei loro processi
di crescita richiede. La cosa più importante é ricordare, come evidenziato in una
delle sezioni precedenti, che la creatività non é immobile e non si eredita, ma va
costruita, coltivata e rinnovata ogni giorno.
i
Glauco Tocchini Valentini, ”Collezioni mutanti di topi”, in Consiglio Nazionale delle Ricerche,
Animali e piante transgeniche:implicazioni bioetiche, Roma 2001, pp. 50-52.
83