scarica il numero 1 del magazine del febbraio 2013
Transcript
scarica il numero 1 del magazine del febbraio 2013
anno I - n. 1 febbraio 2013 La pistola fumante Successi e segreti dell’intelligence cubana, da Dallas al Venezuela SicuReZZa La frontiera dei Patriot | geopolitica La minaccia di Boko Haram | economia UK e Tobin Tax Siamo un’impresa integrata nell’energia e nell’ambiente, impegnata a crescere nelle attività di sviluppo, progettazione, realizzazione e manutenzione di grandi impianti industriali, nonché nelle attività di ricerca di nuove fonti energetiche alternative innovative ed eco-compatibili. La nostra Mission è creare e distribuire valore nel settore energetico ed ambientale al fine di soddisfare le esigenze dei Clienti, la competitività dei territori in cui operiamo, e le aspettative di tutte le persone che collaborano con noi. www.generalspa.it SommaRio SicuReZZa 8 I migliori servizi del Continente 14 Il servizio cubano e il “caso Kennedy”: coincidenze imbarazzanti 18 Uno sguardo oltre il confine 20 Boko Haram e una RubRiche terra spaccata a metà 22 Green on blue geopolitica 26 Nel cuore instabile 14 dell’Africa 30 Le nuove rotte del narcotraffico 32 I cartelli della droga 34 Ritratto di famiglia 36 Aspetta e spera economia 40 Mr. Cameron a chi la dà a bere? 48 Nicosia e i compiti a casa 16 a diRe il veRo... L’analisi di approfondimento 24 politicamente ScoRRetto Quello che gli altri non dicono 38 l’anaRchico 2.0 Storie di ordinaria eversione 46 do you SpRead? Voci dal mercato globale 50 duRa lex Sotto la lente del diritto inoltRe 6 mappamondo 40 52 un libRo al meSe 52 coSì dicono LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 3 Un buon inizio N elle poche settimane trascorse dalla messa online del nostro nuovo portale e del numero zero di questo magazine, la nostra iniziativa editoriale ha ricevuto un lusinghiero riscontro da parte di una non marginale platea di lettori e di visitatori. Oltre tremila visite con singoli tempi di permanenza superiori ai dieci minuti, segnalano una lettura attenta da parte di chi ci segue. Fatto che si è replicato anche su Facebook e Twitter, dove LookOut News continua ad essere seguito con interesse. Sapevamo sin dall’inizio di rivolgerci a una platea di lettori affamati di cultura geopolitica e quindi non necessariamente “di massa”. I contatti e i commenti ricevuti ci dicono che siamo sulla strada giusta, che è quella di tentare di aggiornare costantemente chi ci segue con informazioni analitiche e di proporre riflessioni più approfondite con scadenza mensile su temi originali e di forte interesse e attualità nei settori che appartengono al nostro orizzonte professionale: la sicurezza, la geopolitica e l’economia. Anche in questo numero 1 del magazine, troverete interventi originali e interessanti. L’attenzione si focalizza sul Sud America e su temi di attualità che interessano un sub continente in continuo movimento. Inquadriamo il ruolo di potenza regionale che Cuba è riuscita ad assumere nonostante decenni di embargo statunitense, integrando l’analisi con una riflessione sui servizi segreti cubani e su parti oscure della loro storia, ad iniziare dall’omicidio di John Kennedy. Non trascuriamo, tuttavia, di mantenere viva l’attenzione su focolai di crisi come la Nigeria di Boko Haram e su una Turchia che nello scacchiere mediterraneo e mediorientale sta assumendo un peso strategico sempre maggiore. Le velleità “secessioniste” della Gran Bretagna rispetto all’Eurozona non potevano non suscitare la nostra attenzione e meritavano un’approfondita analisi sulle implicazioni di un’uscita dall’Europa da parte del Regno Unito. Fin da questo primo numero, come noterete, abbiamo cominciato un dialogo con i lettori più attenti che ci hanno voluto interrogare e sottoporci le loro riflessioni. Un’ultima considerazione, legittimamente orgogliosa in quanto indicativa di un certo primo successo editoriale. Sfogliando il magazine vedrete che le pagine che nel numero precedente recavano la scritta “a disposizione per eventuali inserzioni pubblicitarie” si sono tutte riempite grazie a prestigiosi inserzionisti che hanno creduto nella nostra scommessa. È un successo concreto e un buon inizio. mario mori inbox il diRettoRe editoRiale RiSponde Black out Brasile Shale gas: l’Italia che fa? La notizia pubblicata circa un possibile blackout elettrico del Brasile è vera. L’elemento chiave della vicenda andrebbe però ricercato nel tentativo del presidente Dilma Rousseff di avere maggiori consensi e un più ampio coinvolgimento politico e sociale sul tema legato alla costruzione della diga di Belo Monte, in quanto alcune aree politiche locali del Nord del Paese ne stanno contrastando la realizzazione. Si tratta di un mega progetto con un preventivo di spesa elevatissimo sul quale sono interessate diverse imprese internazionali. Un altro aspetto da approfondire riguarda l’accordo con il Paraguay per il potenziamento produttivo della diga di Itaipu. Tra l’altro, nell’ultimo anno, proprio grazie alla corretta politica energetica nazionale, le tariffe in Brasile sono diminuite di circa il 20%. Ludovico In merito al vostro articolo sulle nuove ricerche petrolifere al largo della costa orientale della Nuova Zelanda, mi chiedo come mai l’Italia, piuttosto che investire su queste nuove frontiere, stia ferma a guardare. Che fa l’Eni? Perché non si concentra sullo shale gas? Giovanni Che la crescita del Brasile comporti un costante aumento dei consumi di energia lo dicono le statistiche. Tuttavia, la sua riflessione sulla strategia politica della presidente Rousseff centra un altro aspetto del problema, vale a dire quello della ricerca del sostegno politico per progetti di forte impatto ambientale. Sia la costruzione della diga di Belo Monte che il potenziamento dell’impianto di Itaipu, in Paragauay, dovranno superare resistenze e paure ambientaliste. In questo caso la minaccia del black out può giocare anche un ruolo politico. In ogni caso il percorso appare accidentato anche se il governo brasiliano sembra avere le risorse per superarlo in sicurezza. In realtà l’Eni si è mossa seppur in ritardo. In tema di shale gas ha stretto una joint venture per svolgere ricerche in Polonia, con un’industria locale. L’Eni ha un know how formidabile nel campo della ricerca e dell’estrazione di gas da giacimenti tradizionali. Probabilmente preferisce “giocare sul sicuro” almeno per i prossimi anni, vista l’entità dei nuovi giacimenti scoperti al largo delle coste del Mozambico. Il disastro Saipem, che il 30 gennaio ha visto il titolo crollare in Borsa del 34% dopo che il management aveva comunicato un dimezzamento dei profitti nell’ultimo biennio, potrebbe convincere l’ENI a guardare con più attenzione allo shale gas. Comunque, un po’ di coraggio non guasterebbe. Mamma li turchi! Credo che la Turchia in prospettiva sia uno Stato con cui si dovranno fare i conti. La sua politica estremamente aggressiva in molti continenti, compreso quello africano, la porterà a essere una nazione di primaria grandezza geopolitca. Non sarebbe il caso di dargli più spazio? Raffaella Siamo d’accordo sull’importanza della Turchia e, come noterà, sia nella “striscia quotidiana” che nel media briefing settimanale ce ne occupiamo spesso, specie quando parliamo della Siria. Misteri della telepatia: in questo numero troverà proprio un articolo sulla Turchia. Anno I - Numero 1 - febbraio 2013 DIRETTORE RESPONSABILE Luciano Tirinnanzi @luciotirinnanzi [email protected] EDITORE G-Risk - CEO Giuseppe De Donno Via Tagliamento, 25 00198 Roma Tel. +39 06 8549343 - Fax +39 06 85344635 [email protected] - www.grisk.it REDAZIONE Rocco Bellantone Dario Scittarelli Cristiana Era Marta Pranzetti DIRETTORE SCIENTIFICO Mario Mori ART DIRECTION Francesco Verduci DIRETTORE EDITORIALE Alfredo Mantici [email protected] facebook.com/LookoutNews twitter.com/lookoutnews Registrata presso il Tribunale di Roma n. 13/2013 del 15/01/2013 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 5 mappamondo cuba: online con alba-1 Solo il 2,9% dei cubani ha libero accesso al web, ma guai a pensare che L’Avana sia in modalità offline, perché recentemente è stata registrata un’attività insolita sulle connessioni Cuba-Venezuela. Ciò è dovuto al cavo sottomarino ALBA-1, acronimo di “Bolivarian Alternative for the Peoples of Our America-1”: un progetto costato 70 milioni di dollari per bypassare l’embargo statunitense e permettere così a Cuba di tornare a galla anche in rete. 6 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 iSlanda-ue: dentro o fuori? In attesa di scoprire chi vincerà le elezioni presidenziali del 27 aprile, l’Islanda ha deciso di congelare le trattative per l’ingresso nell’Unione Europea. La strada sembra comunque in salita, visto che i sondaggi danno per favorito il Partito dell’Indipendenza, schierato su posizioni antieuropeiste. La scelta spetta ai 315mila cittadini islandesi: meglio inchinarsi all’UE o continuare a vivere in un felice isolamento? mali: salvi i manoscritti di timbuctu Mentre le truppe francesi avanzano per riprendersi il Mali, la cultura tira un sospiro di sollievo, almeno per ora. La maggior parte degli antichi manoscritti di Timbuctu è infatti rimasta intatta. A dare la notizia è stato un esperto dell’Università di Cape Town, secondo il quale il 95% degli oltre 300mila manoscritti è rimasta illesa. Il timore era che finissero nelle mani delle milizie jihadiste, che a lungo hanno controllato la città. nigeRia: Shell colpevole, ma non troppo Una corte olandese ha riconosciuto la responsabilità di Shell Nigeria nell’inquinamento del Delta del Niger. Nessuna sanzione però per la casa madre, che secondo la legge nigeriana non ha l’obbligo di impedire alle sue affiliate “di fare danni a terzi”. Beffa per gli ambientalisti, che speravano in un verdetto di colpevolezza che avrebbe creato un precedente per la responsabilità dei colossi dello sfruttamento energetico. iSRaele: fischer si dimette. nuova grana per netanyahu Il dopo elezioni di Benyamin Netanyahu non è affatto tranquillo. Superato lo scoglio delle urne con una maggioranza risicata, il primo ministro dovrà anche pensare a come sostituire Stanley Fischer. Il governatore della Banca d’Israele si è infatti dimesso con due anni di anticipo rispetto alla scadenza naturale del suo mandato. E la reazione negativa dei mercati non si è fatta attendere. coRee: botta e risposta tra nord e Sud sul nucleare Se la Corea del Nord tiene in apprensione il mondo con i suoi test nucleari, i dirimpettai del Sud di certo non stanno a guardare. Dal centro spaziale di Naro, Seoul ha mandato in orbita il suo primo satellite scientifico. La missione, condotta in collaborazione con la Russia, si chiama Korea Space Launch Vehicle1 (KSLV-1), e dopo due tentativi falliti nel 2009 e nel 2010, stavolta è finalmente riuscita. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 7 Cuba La più potente intelligence del mondo Il DGI e il caso Kennedy Turchia Il punto sui Patriot al confine siriano Nigeria Boko Haram e il dramma dei civili Afghanistan Green on blue e fuoco “amico” La mappa originale di Cuba del 1962, dove il Presidente Kennedy ha segnato di suo pugno gli avamposti missilistici durante la crisi 8 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 SicuReZZa I Cuba | I migliori n molti Paesi del mondo, gli organismi di intelligence cambiano nome e sigla a seconda degli umori politici dei loro clienti istituzionali, che spesso ne modificano la denominazione quando una sigla “storica” diviene imbarazzante anche per eventuali incidenti di percorso che consigliano un maquillage dei nomi per far dimenticare “malefatte” o “deviazioni” (è il caso, ad esempio della Ceka sovietica che, identificata con il “terrore rosso” della rivoluzione e della guerra civile, ha cambiato nome varie volte fino ad arrivare, negli anni del disgelo, a quello di KGB, Comitato per la Sicurezza dello Stato). Anche l’intelligence cubana ha subito diverse evoluzioni formali e organizzative, dai tempi della rivoluzione a quelli della presa del potere da parte di Fidel Castro e poi ancora nei decenni successivi: la sigla storica DGI (Direccion General de Intelligencia) non viene più usata, la più recente è DI, Departamento de Intelligencia. Per evitare di confondere e annoiare il lettore, servizi del Continente Gli aiuti sovietici prima, quelli di Chavez poi e infine i servizi segreti di Castro, hanno salvato una piccola e povera nazione, trasformandola in una potenza regionale. Ci concentriamo qui sull’ultimo dei fattori di crescita di Cuba che abbiamo preso in considerazione: i servizi segreti in questa breve storia dell’intelligence castrista parleremo, semplicemente, di servizi segreti cubani. Il racconto, vista la bravura con la quale Cuba è riuscita a proteggere i propri segreti da tutti i tentativi di penetrazione diretta occidentale (in cinque decenni, la CIA americana non è riuscita LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 9 a piazzare neanche una fonte umana all’interno degli apparati cubani), si basa su quanto riferito da alcuni defezionisti di rilievo che sono riusciti a fuggire negli Stati Uniti. Il più importante tra questi è sicuramente Rodriguez Menier, compagno di lotta di Fidel fin dal 1954, membro dei servizi che all’apice della carriera ha ricoperto anche il posto di funzionario di collegamento con la Germania dell’Est. Menier ha defezionato nel 1987 e si è rivelato una fonte preziosa per darci un quadro delle eccellenti capacità del regime cubano di controllare e reprimere il dissenso interno e di disseminare tutto il continente americano di spie e agenti di influenza, in grado non solo di informare i vertici dell’Avana ma anche di controllare e pilotare il processo decisionale di governi dell’area, sia amici che nemici. Cuba, pur essendo un paese piccolo, con un’economia traballante e non in grado di assicurare condizioni economiche adeguatamente agiate alla sua popolazione, ha sempre stanziato e stanzia tuttora fondi che in proporzione superano di gran lunga il budget dell’intelligence degli Stati Uniti per le attività di sicurezza e di spionaggio, sia all’interno che all’estero. Sotto l’aspetto degli investimenti in sicurezza e intelligence, oggi Cuba può essere considerata l’Israele del continente americano. Il nuovo servizio, secondo la testimonianza resa di fronte al Senato degli Stati Uniti da Gerardo Peraza, un ex dirigente fuggito in America, aveva ed ha avuto come obiettivo principale la raccolta di informazioni negli Stati Uniti e l’infiltrazione della CIA attraverso falsi esuli e doppi agenti reclutati da Langley per spiare Castro e le sue attività. Secondo Peraza e altri defezionisti, nessuna delle fonti e nessuno degli agenti cubani reclutati dalla CIA era “sinceramente” al servizio degli Stati Uniti: il padrone reale rimaneva sempre Castro. Anche in altri Paesi dove operavano sotto copertura diplomatica gli agenti cubani, dalla Gran Bretagna al Canada, l’obiettivo principale restavano gli USA. Secondo Peraza, “tutti i diplomatici inviati da Cuba negli Stati Uniti (all’Onu, visto che Washington e l’Avana non hanno relazioni 10 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 diplomatiche, ndr). La missione cubana alle Nazioni Unite è la terza in ordine di grandezza rispetto a tutti gli stati del mondo [...] e la metà di tutto il personale della missione è composta da funzionari del DGI che, tra gli altri compiti, hanno quello di reclutare agenti nella comunità degli emigrati cubani. Il servizio, peraltro, ha sempre usato il flusso di rifugiati da Cuba verso gli Stati Uniti per inviare agenti sotto copertura in territorio americano...”. Secondo il già citato Brian Latell della CIA, inoltre, “la macchina per la raccolta delle informazioni costruita dall’Avana è una delle quattro o cinque migliori del mondo...”. Grazie a questa macchina, i cubani sono stati sempre un passo avanti alle iniziative clandestine condotte dagli americani contro Cuba: dalla disastrosa avventura della Baia dei Porci (1961) ai ripetuti e fantasiosi tentativi di assassinare Fidel Castro organizzati dalla CIA con l’aiuto di Cosa Nostra, i servizi cubani conoscevano in anticipo le mosse USA e le fecero fallire. Un altro famoso disertore del DGI, Jesus Mendez, ha dichiarato che “la quasi totalità degli agenti reclutati dalla CIA fin dall’inizio SicuReZZa degli anni Sessanta lavorava agli ordini di Fidel Castro” mentre il suo collega Florentino Aspillaga Lombard, che defezionò nel 1987, contribuì a identificare 35 agenti doppi cubani che erano riusciti a passare tra le maglie del reclutamento, superando anche il test alla macchina della verità. Su questo tema, Aspillaga ha raccontato che tutti gli agenti destinati a infiltrare i servizi americani venivano addestrati alle tecniche per ingannare il poligrafo. Con la caduta dell’Unione Sovietica, i legami e le strategie d’intervento coordinate tra Mosca e l’Avana si sono allentate e Cuba si è concentrata sui vicini sudamericani per consolidare il suo Cuba si è progressivamente concentrata sui vicini sudamericani per consolidare il proprio ruolo di potenza regionale ruolo di potenza regionale e proseguire comunque la sua guerra di spie contro gli Stati Uniti, grazie a mezzi più evoluti. Per questo i servizi cubani hanno stabilito ottime relazioni con i gruppi guerriglieri latino-americani (prime tra tutte le FARC colombiane) che svolgono ormai il doppio lavoro di lotta ai regimi e di narcotrafficanti. Comperando cocaina, spesso pagata a bassissimo prezzo con forniture di armi, il DGI raggiungeva un duplice scopo: rifornirsi di valuta pregiata, spedendo la droga dalle coste e dagli aeroporti cubani verso gli Usa, e indebolire il nemico storico “infettandolo” con la coca. I fratelli Castro con il cosmonauta cubano Arnaldo Tamayo Mendez e il cosmonauta sovietico Yuri Romanenko di ritorno dalla missione Soyuz 38 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 11 Una fonte cubana che preferisce restare anonima afferma che “Cuba ha bisogno dei dollari e anche dei beni di consumo che possono essere offerti dai colombiani e il quid pro quo consiste nell’offrire ai cartelli della coca la possibilità di fare ottimi affari trasportando la loro droga attraverso Cuba”. Carlo Leheder Rivas, uno dei fondatori del Cartello di Medellin, che sta scontando una condanna a 135 anni di carcere, ha ammesso durante il suo processo negli Stati Uniti: “Senza il permesso di Fidel io non avrei mai potuto lavorare a Cuba”. Di fronte alla corte federale ha poi affermato di avere incontrato due volte Raul Castro per concordare le modalità d’uso dello spazio aereo cubano per i voli della coca verso gli Sati Uniti. Con mezzi clandestini e illegali, dunque, i servizi cubani lottano contro il loro avversario di sempre, contribuiscono al benessere dell’isola col traffico di stupefacenti e, grazie ai contatti con personaggi come il presidente venezuelano Chavez - supporter storico di Castro al quale fornisce petrolio a prezzi stracciati (e questo spiega perché i cubani tengono tanto alla salute del presidente venezuelano) - contribuiscono a rafforzare il ruolo della piccola Cuba come potenza regionale con la quale tutti, in centro e sud America, debbono e dovranno fare i conti. Per quanto riguarda il rapporto con gli Stati Uniti, in una recente intervista, Ricardo Alarcon, presidente dell’Assemblea nazionale cubana e secondo in importanza all’Avana soltanto a Raul Castro, ha descritto il lavoro degli agenti segreti cubani come essenziale a garantire “a uno stato sovrano di difendersi”. Alla domanda se Cuba continuerà a inviare agenti negli Stati Uniti, Alarcon ha risposto così: “Sì, con la esse maiuscola!”. Il dizionario L’ex ufficiale CIA, Brian Latell, aveva una fonte cubana, Florentino Aspillaga, ufficiale pluridecorato della Direzione generale dei servizi segreti (DGI), che disertò nel 1987. Queste le sue più importanti informazioni sui segreti di Cuba: Castro sapeva dell’attentato al presidente Kennedy già nell’ottobre 1963. Cuba aveva un “supertalpa” nel governo di Washington che potrebbe essere ancora al suo posto. Le forze militari e l’intelligence svolsero un ruolo chiave nel rovesciamento del governo di Anastasio Somoza in Nicaragua nel 1979. Terroristi cileni furono addestrati da Cuba per assassinare il presidente del Cile Augusto Pinochet. Hugo Chavez del Venezuela e/o suo fratello Adan sono stati reclutati da anni dall’intelligence cubana e i servizi segreti venezuelani oggi operano in aggiunta al DGI. L’attentato a Oswald 12 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 gli ScenaRi poSSibili la tRanSiZione del veneZuela Orfani di “líder” D opo che il presidente Hugo Chávez ha lasciato il Venezuela per sottoporsi a un’operazione per estirpare un tumore, la barra di controllo del governo viene lentamente affidata ai suoi eredi politici. Si tratta però di un’operazione molto complicata in quanto la sua assenza ha creato un vuoto nella leadership del Paese, dopo 14 anni di governo presenzialista e un culto della personalità che ha fatto di lui una figura dominante in America Latina. L’assenza assoluta del presidente, aveva portato i chavisti e l’opposizione ad affrontare una situazione imprevista il 7 ottobre: risolvere la transizione senza la presenza del capo. Lo stile di governo centralista caratterizzato da un’alta concentrazione del potere oggi difficilmente può essere redistribuito tra i suoi fedelissimi. Ciò nonostante, emergono come gli architetti della transizione post-Chávez il vice presidente e successore decretato, Nicolás Maduro, il presidente dell’Assemblea Nazionale Diosdado Cabello, il ministro del Petrolio, Rafael Ramirez e il fiammeggiante cancelliere Elías Jaua. Le prove di equilibrio tra i quattro - che non sempre hanno avuto buoni rapporti - e la capacità di lavorare insieme, saranno cruciali per determinare se il Venezuela può continuare sulle orme di Chávez del “socialismo radicale” o se invece il Paese evolverà verso un esito moderato simile all’amministrazione brasiliana della “sinistra democratica”. L’opposizione, nel frattempo, è fortemente indignata e ha più volte segnalato che il Venezuela manca di una vera guida ed è ormai subordinata ai capricci di Cuba - Maduro, Cabello e Ramírez, lo scorso fine settimana si sono riuniti con il presidente cubano Raúl Castro - dove Chávez è sottoposto a trattamenti sotto il velo del segreto di Stato. Nicolás Maduro è visto come un moderato appartenente al “partito del dialogo”, e ha già stabilito contatti con Washington dopo anni di pessime relazioni con gli Stati Uniti. Potrebbe dunque essere lui a riconciliarsi con l’opposizione, ma in questo modo il rischio di scatenare l’ira dei radicali è alto. Nel frattempo, potrebbero prodursi fatti violenti nei prossimi giorni, da quando il PSUV ha chiamato tutti alla “presa” di Caracas. L’opposizione si può lamentare quanto vuole, ma resta il fatto che le loro opinioni non vengono prese in considerazione: il Venezuela continua a essere un Paese controllato dai chavisti. Cuba | Il servizio cubano e il “caso Kennedy”: coincidenze imbarazzanti I servizi cubani nascono durante la rivoluzione castrista: nel 1958 il fratello di Fidel, Raul Castro istituì il SIB (Servicio de Intelligencia Basica), al cui comando venne posto il capitano Ramiro Valdes Menendez e i cui compiti erano due: scoprire i traditori nelle file della rivoluzione che passavano informazioni alla polizia governativa di Batista, e infiltrare i ranghi della polizia e dell’esercito di Batista, per acquisire informazioni sui piani governativi e tentare di influenzarli a favore della rivoluzione. Come si può notare, 14 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 Lee Harvey Oswald è al centro di una storia che incrocia la scuola dei cubani di Minsk, il colonnello del KGB Prusakov e la moglie di Lee. Tutto questo alla vigilia dell’attentato a Dallas i castristi avevano le idee molto chiare sui compiti di un servizio segreto moderno: spionaggio, controspionaggio, controllo e manipolazione del processo decisionale dell’avversario. Il 10 gennaio del 1959, appena due settimane dopo la vittoria della Rivoluzione, Castro nominò Valdes capo del Departamento de Inteligencia del Ejercito Rebelde (la prima delle nuove sigle...), che stabilì la propria sede in un enorme e moderno compound dell’Avana, da allora conosciuto con il nome “Direttorato”. Il settore, in continua espansione fin dal marzo dello stesso anno, venne posto sotto la duplice competenza del Ministero delle Forze Armate Rivoluzionarie e del Ministero degli esteri. A partire dal 1960, visti i rapporti eccellenti stabiliti tra il regime SicuReZZa A sinistra: la lettera inviata da Oswald al Soviet Supremo per chiedere asilo politico in Unione Sovietica castrista e l’Unione Sovietica, i funzionari dei servizi cubani vennero presi sotto l’ala protettrice del KGB, che si curò dell’istruzione e dell’addestramento dei funzionari delle nuove strutture di sicurezza cubane. Una delle scuole utilizzate per l’addestramento intensivo dei cubani era situata a Minsk e dal 1960 ha curato l’addestramento di trecento agenti castristi ogni tre anni (durata media dei corsi avanzati). Un dato curioso - che potrebbe spalancare la porta a nuove teorie del complotto sull’assassino del presidente Kennedy (Dallas, 22 novembre 1963) - è dato da una strana catena di circostanze, quantomeno sorprendenti: la scuola dei cubani era situata in via Ulianova a Minsk. Nel ’61-’62 risiedeva a Minsk, nell’edificio accanto alla scuola, anche Lee Harvey Oswald, l’uomo che un anno dopo avrebbe sparato al presidente Kennedy. Non solo: il direttore della scuola di addestramento era il colonnello del KGB Ilya Vasilievich Prusakov, zio di Marina Prusakova, ovvero la ragazza che fu presa in moglie da Oswald e che lo avrebbe seguito negli Stati Uniti proprio alla vigilia dell’attentato di Dallas. Secondo le testimonianze di defezionisti dei servizi dell’Avana che parteciparono ai corsi di via Ulianova - e secondo quanto lasciato scritto dallo stesso Oswald nel suo diario - molti giovani cubani strinsero amicizia con il giovane americano, che manifestava simpatie per Cuba e per Castro e che trascorreva, senza spiegazioni accettabili al riguardo, un periodo di soggiorno in Unione Sovietica; non per motivi di studio o di lavoro ma piuttosto “per diporto” (in piena guerra fredda?). Queste strane circostanze che sembrano collegare Oswald, i giovani “studenti” cubani e lo zio della sua futura moglie nonché colonnello del KGB, diventano ancora più strane se le si collega a un dato oggettivo riferito da Brian Latell (un funzionario Cia che ha diretto il desk Cuba negli anni ’70 e ’80) e rilevato dalle stazioni di intercettazione della National Security Agency americana il 22 novembre del 1963, nelle ore che precedettero l’assassinio di Kennedy. In quel lasso di tempo, il traffico radio istituzionale tra Cuba e le ambasciate nel resto del mondo si ridusse drasticamente, mentre venne registrato un contestuale, incomprensibile e massiccio incremento del traffico radio tra la capitale cubana e Dallas, e viceversa. Non è questa la sede per riaprire il dibattito sul caso Kennedy e sulle tante contraddizioni che hanno segnato il lavoro degli investigatori e della Commissione Warren. Ma se le coincidenze non bastano a illuminare i misteri di Dallas, esse possono tuttavia essere sufficienti a indurci a guardare con sospettoso rispetto alla possibile, micidiale, capacità operativa dei servizi cubani e dei loro maestri sovietici. Di questa capacità è stata d’altronde offerta testimonianza in tutte le sedi, istituzionali e giornalistiche, nelle quali è stata data voce ad esuli cubani, già agenti dell’intelligence castrista. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 15 a diRe il veRo... l’analiSi di appRofondimento Lobby: una parolaccia, solo in Italia Il Grigio “ 16 P 2, P3, P4... faccendiere, traffichino, lobbista...”. Questi termini, che nell’immaginario collettivo hanno tutti connotati negativi, si riferiscono a personaggi o gruppi di pressione che, solo nel nostro Paese, svolgono in modo semi-clandestino un’attività che negli Stati Uniti e in tutta l’Eurozona è regolamentata e si può svolgere alla luce del sole: il “lobbismo”. Se si chiede a un esperto come Gianluca Sgueo, autore del saggio Lobbying e lobbismi, di dare una definizione del termine, egli risponderà citando John Kennedy: “il lobbista è colui che mi fa capire in tre minuti quello che i miei collaboratori mi spiegano in tre giorni”. Il lobbista in una democrazia avanzata altri non è che il consulente di clienti appartenenti a tutte le categorie produttive, che presta la sua opera per contribuire in modo legittimo al processo decisionale politico, con informazioni e analisi che LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 ambiscono a illustrare temi ritenuti degni di essere inseriti nelle dinamiche legislative o a influenzare lecitamente iter amministrativi complessi. Solo in Italia questa attività è considerata “borderline”, ai confini della legalità. Perché? La risposta è molto semplice: perché non è regolamentata. Negli Stati Uniti i lobbisti, fin dalla loro comparsa nella seconda metà dell’ottocento nella Lobby del Willard Hotel dove alloggiava, prima di trasferirsi alla Casa Bianca, il presidente Ulysses Sam Grant - sono stati autorizzati a operare come gruppi di pressione e consulenza con varie leggi, l’ultima delle quali è lo Ethics Government Act del 1978 che garantisce a questi professionisti di operare alla luce del sole, all’interno di rigidi confini di legalità. A Bruxelles esiste un albo ufficiale di lobbisti autorizzati a operare nell’ambito delle strutture comunitarie. Secondo Il Sole 24 Ore, oggi in Italia sono attivi circa 1.500 professionisti del lobbying che lavorano al di fuori di qualsiasi regola e muovono un giro d’affari di circa 150 milioni di euro. Perché nel nostro Paese non si affronta questo problema una volta per tutte? Perché mettere in contatto in modo trasparente piccole, medie e grandi imprese con i decisori politici e con i vertici delle amministrazioni, deve continuare ad essere opera di “faccendieri”? Cercare di fare buone e chiare leggi col contributo di rappresentanti professionali di legittimi interessi imprenditoriali deve per forza essere fatto attraverso canali sotterranei? Perché non si prende atto a livello legislativo che è proprio la mancanza di regole che favorisce i traffichini e le P4? La risposta a queste domande potrebbe essere imbarazzante: in primo luogo si tratta evidentemente di inerzia legislativa, forse motivata dalla paura di un confronto con un’opinione pubblica alla quale finora il lobbismo è stato presentato con forti accenti negativi. In secondo luogo, perché forse si preferisce continuare a operare in un’area grigia dove c’è sempre spazio, in assenza di regole, per la corruzione e per la concussione. “Conoscere per decidere” dovrebbe essere il cardine fondamentale per l’azione legislativa. Ma per “conoscere” è essenziale che il legislatore disponga delle giuste informazioni, anche provenienti da settori legittimamente interessati e non solo dagli uffici amministrativi o dai gabinetti dei ministri, con le quali regolare la vita e lo sviluppo del Paese. Utilizzare a questi fini dei professionisti legalmente riconosciuti (e quindi facilmente controllabili) non può che contribuire a migliorare l’operatività del parlamento e la morale pubblica. La democrazia teme giustamente ciò che non viene fatto alla luce del sole. La regolamentazione di un’attività professionale che, finché resterà nella sua area grigia ai confini della legalità continuerà a prestare il fianco ad accuse di “piduismo”, è necessaria e urgente anche da noi. D’altronde, in Italia molte iniziative produttive sono state sviluppate al di fuori di una cornice legislativa, con pessimi risultati anche di immagine: ricordate le TV private? Sono andate avanti per anni senza una riga di regolamento o di legge. Così il lobbismo: uno strumento d’informazione e consulenza che, se utilizzato alla luce del sole, non può che migliorare il processo legislativo, anche quando vuole sostenere in modo trasparente legittime istanze del mondo della produzione e delle professioni. Se questa attività verrà condannata a restare nell’ombra, l’assenza di regole non potrà che favorire portatori di interessi ambigui, logge e cricche più o meno segrete e il lobbismo “proibito” continuerà a essere un fattore di inquinamento della nostra democrazia. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 17 SicuReZZa Turchia | Uno sguardo oltre il confine La Turchia deve fare i conti con il transito di estremisti islamici, il numero crescente di profughi in fuga, i movimenti curdi e una guerra alle porte di casa che minaccia l’esistenza stessa dello Stato siriano R isale ormai a un mese fa l’installazione delle 6 batterie di missili Patriot fornite da Stati Uniti, Germania e Olanda sotto la bandiera della NATO in Turchia, e piazzate rispettivamente a Gaziantep, Kahramanmaras e Adana a mo’ di deterrente lungo il confine con la Siria. Al di là dello scopo “puramente difensivo” dei Patriot, come definito dalla portavoce della NATO Oana Lungescu, dal punto di vista geopolitico e geostrategico l’attenzione va orientata non tanto sui missili in sé, quanto sulle aree di confine tra Siria e Turchia che ormai sono definibili come una “zona grigia”: un’area di transito per i jihadisti che entrano in Siria per combattere contro il regime di Assad, per i profughi siriani (ormai arrivati a 300 mila) e per i curdi che dal nord della Siria cercano, con l’appoggio di Damasco, di infiltrarsi nei campi profughi della Turchia, secondo le autorità turche. Il confine turco-siriano, però, è anche la frontiera dell’Alleanza Atlantica. Il premier Erdogan ha appoggiato fin dall’inizio il Il confine tra Siria e Turchia è ormai un’area di transito per i jihadisti, i profughi siriani e i curdi 18 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 movimento di opposizione ad Assad. Lo ha fatto prima consentendo ai disertori dell’esercito (riuniti sotto la bandiera del Free Syrian Army - FSA) di creare delle basi logistiche sul proprio territorio vicino al confine, successivamente addestrando l’FSA e permettendo la realizzazione di un network di telecomunicazioni. Infine, allestendo dei campi profughi (attualmente già tredici con circa 153 mila persone) per la popolazione siriana in fuga. L’area è diventata anche SicuReZZa Kurdistan iracheno I l Kurdistan Iracheno (KRI, Kurdistan Region of Iraq) è una regione autonoma dell’Iraq del nord, entità riconosciuta a livello nazionale e internazionale e amministrata da un proprio governo (KRG, Kurdistan Regional Government). La regione è istituita nell’ambito del nuovo sistema federale iracheno stabilito dalla Costituzione del 2005, ed è suddiviso in tre province: Erbil (che prende il nome dalla capitale), Sulamainiyah e Duhok. Il KRI cresce del 12% l’anno. base di appoggio per i jihadisti - il cui numero si aggira tra le 3 e le 10 mila unità, secondo le stime dell’intelligence turca - e in particolare per il gruppo meglio organizzato, Jabhat alNusra, che sta assumendo un ruolo di primo piano nella lotta al regime. Non da ultimo, la Turchia sud-orientale fa parte del quadrilatero curdo insieme al nord della Siria, dell’Iraq e dell’Iran. È dunque un’area sensibile per Ankara, anche dal punto di vista storico: qui si annidano ancora le cellule del PKK, il partito dei lavoratori curdo che da sempre insegue l’obiettivo dell’indipendenza attraverso la lotta armata. In questo snodo cruciale, Ankara deve cercare di trovare il giusto equilibrio per poter continuare a svolgere un ruolo di primo piano ed evitare che la crisi siriana, da opportunità di crescita in immagine e influenza, diventi invece un fattore di destabilizzazione interna. A questo possono essere ricondotte le trattative tra il governo Erdogan e il leader curdo del PKK Abdullah Ocalan del gennaio scorso. La decisione di abbandonare la lotta armata in cambio di maggiore autonomia e del riconoscimento della consistente minoranza curda nell’Anatolia meridionale, se effettivamente messa in pratica (a dispetto di posizioni divergenti delle frange interne del PKK), potrà chiudere un fronte pericoloso e addirittura contribuire a far avvicinare i curdi siriani ad Ankara, così come è avvenuto con le autorità e con la popolazione del Kurdistan iracheno, con le quali sono stati avviati proficui accordi economici. La creazione di una zona cuscinetto nel nord della Siria, già proposta dalla Turchia nell’agosto 2012, potrebbe diventare - se dominata da curdi alleati - sia una garanzia di sicurezza contro il frazionamento della Siria, sia una leva di influenza sui futuri equilibri regionali. A quel punto, una maggiore autonomia per i curdi turchi sarebbe un prezzo che varrebbe la pena pagare. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 19 SicuReZZa Boko Haram e una terra spaccata a metà Nigeria | I 170 milioni di abitanti della Nigeria sono suddivisi tra cristiani del sud petrolifero, ricco e sviluppato, e musulmani del nord agricolo, povero e arretrato. Da un decennio, il Paese è attraversato da una guerra civile a bassa intensità tra i militanti musulmani di Boko Haram da un lato e i cristiani e le forze di sicurezza dall’altro A i suoi albori negli anni Novanta, Boko Haram appare semplicemente come un gruppo impegnato in studi religiosi. Cambia aspetto e missione nel 2002, quando la sua guida viene assunta da Mohammed Yusuf e i primi guerriglieri islamisti - stanziati in accampamenti nella giungla del nord est della Nigeria - cominciano a compiere sporadici attacchi, con machete e piccole armi, contro basi isolate delle forze di polizia o villaggi di contadini che opponevano resistenza alle continue richieste di cibo e alle estorsioni dei militanti. 20 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 Il 26 luglio 2009 il gruppo lancia una massiccia offensiva contro le forze di polizia negli stati settentrionali del Paese: cinque giorni di scontri che si concludono con la morte di circa 700 insorti e la cattura (e l’esecuzione) del loro leader Yusuf. La netta sconfitta di Boko Haram in quella che verrà chiamata la battaglia di Maiduguri impone al gruppo un cambiamento di leadership e di strategia. Con la SicuReZZa guida del nuovo capo Abubakar Shekau si passa, infatti, dagli assalti contro la polizia a veri e propri attacchi terroristici (attentati dinamitardi e attacchi suicidi con autobombe) contro sedi governative e contro i cristiani ritenuti rappresentanti del sud “ricco e corrotto”. In molti casi, tuttavia, gli attentati di Boko Haram sono stati rivendicati dai militanti come risposte alle azioni delle forze di sicurezza, come nell’attacco del 17 giugno 2012 a tre chiese nello stato di Kaduna. L’esercito nigeriano è stato, tra l’altro, recentemente accusato da Amnesty International e Human Rights Watch di aver giustiziato una quarantina di presunti militanti di Boko Haram nella città di Maiduguri, roccaforte del gruppo, il primo novembre 2012. Non è infrequente, inoltre, che agli attentati degli islamisti facciano seguito rappresaglie altrettanto violente condotte dai cristiani, come avvenuto a Jos l’11 marzo 2012, dopo che un kamikaze si era fatto saltare in aria con un’autobomba davanti a una chiesa. Ma questa contrapposizione tra islamisti e cristiani assume soltanto superficialmente la connotazione di un conflitto religioso. Boko Haram è infatti espressione di un Paese drammaticamente diviso tra il suo meridione, ricco di petrolio, e un settentrione povero, sottosviluppato e malgovernato da politici corrotti. È in questo contesto sociale e culturale che ha preso piede la credenza, diffusa e abilmente sfruttata dai guerriglieri, che i guai della Nigeria - compresa la corruzione della classe politica - dipendano dall’influenza negativa dei valori occidentali cristiani, considerati fonte di peccato. Associare Boko Haram ad Al Qaeda è dunque approssimativo e inappropriato. Il governo centrale nigeriano, ritenendo che il gruppo sia un problema interno alla Nigeria, sta quindi opponendo una strenua resistenza diplomatica al tentativo delle autorità americane di inserire Boko Haram nella black list delle organizzazioni del terrorismo internazionale. i pRincipali attentati 26 agosto 2011 abuja, palazzo delle nazioni unite: 23 morti 25 dicembre 2011 madalla, Jos e gadaka, colpite tre chiese cristiane: 40 morti 20 gennaio 2012 Kano, stazioni di polizia e uffici governativi: 185 morti 29 aprile 2012 Kano, università di bayero: 20 morti 17 giugno 2012 Zaria e Kaduna, colpite tre chiese cristiane: 50 morti 2 ottobre 2012 mubi, politecnico: 40 morti 25 dicembre 2012 potiskum, chiesa cristiana: 6 morti 31 dicembre 2012 chibok, chiesa cristiana: 15 morti Il dizionario Il nome ufficiale del gruppo Boko Haram è Jama’atu Ahlis Lidda’awati Sunna wal-Jihad, che in arabo significa “persone impegnate nella diffusione degli insegnamenti del Profeta e del Jihad”, e nasce con l’obiettivo di istituire la Sharia in Nigeria. Successivamente, il nome è stato abbreviato in Boko Haram, che si può tradurre con “l’educazione occidentale è peccato”. È evidente, pertanto, la totale ostilità dei suoi militanti verso tutto ciò che richiama valori non musulmani, religione cristiana in primis. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 21 SicuReZZa Afghanistan | Green on blue Contestualmente al disimpegno militare internazionale in Afghanistan, si registra un aumento significativo di attacchi da parte di “alleati” È il 7 gennaio quando nella provincia meridionale di Helmand un membro dell’ANA (Afghan National Army), Mohammed Qasim Faruq, apre il fuoco contro i militari britannici del 28° Reggimento Ingegneri, uccidendone uno: è la prima vittima nel 2013 degli attacchi di insider delle forze di sicurezza afghane (riunite sotto la sigla ANSF – Afghan National Security Forces). Oltre agli IED (gli ordigni esplosivi impropriamente definiti “improvvisati”), agli attentatori suicidi e agli attacchi convenzionali dei gruppi talebani, sono gli attacchi “green-on-blue” - come vengono definiti quelli attuati dai membri di una forza alleata - la nuova minaccia che preoccupa le unità ISAF impegnate in attività di addestramento dell’ANSF. E la preoccupazione è tale che lo scorso settembre, dopo un picco di attentati da parte di militari afghani, il Generale John Allen, Comandante NATO in Afghanistan, ha dovuto temporaneamente sospendere le operazioni congiunte. Il disimpegno militare internazionale in Afghanistan è fissato per la fine del 2014, ma i dati relativi alla situazione sul terreno continuano a essere negativi. Secondo le statistiche più recenti, gli attacchi “green-on-blue” hanno raggiunto un picco del 15% sul totale di tutti gli attacchi subiti dal contingente ISAF. Un incremento significativo, visto che si è passati da azioni isolate (2 nel 2008, 5 nel 2009) a un susseguirsi di attentati da parte di membri di forze considerate alleate e che i soldati ISAF stanno addestrando per incrementarne le capacità operative. Tra coloro che vestono un’uniforme afghana vi sono sicuramente degli infiltrati talebani che mirano a creare un clima di tensione all’interno dell’ANSF e di diffidenza da parte dei soldati ISAF. E quasi sempre in occasione di un evento greenon-blue, le voci ufficiali hanno attribuito la paternità dell’azione ai talebani. Ma l’aumento Escalation di violenza R isale al 2011 il primo dato che segnala l’esplosione del fenomeno “green-on-blue”: 16 attacchi, con 35 morti e 34 feriti (+6% rispetto agli anni precedenti). Per poi arrivare al 2012, quando si sono registrati 44 attacchi che hanno causato la perdita di 61 uomini e 81 feriti tra i militari della missione internazionale. 22 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 significativo di questi attacchi, attirando l’attenzione di media e analisti, ha portato alla luce che la maggior parte degli attentatori non proviene dalle fila talebane e che agisce per motivi di risentimento personale e culturale nei confronti della forza multinazionale. Sono due le considerazioni che misurano la gravità del fenomeno. La prima: se gli addestrati si rivoltano contro gli addestratori, questo vuol dire che la politica volta a conquistare la fiducia degli afghani (“to win hearts and minds”) messa in atto a partire dalla transizione è fallita. La seconda considerazione è che la diffidenza tra i militari ISAF e quelli dell’ANSF, chiamati a lavorare insieme, mina le basi stesse della strategia NATO dell’apporto addestrativo alle forze afghane come elemento portante del capacity building, ossia la capacità operativa di fronteggiare efficacemente la minaccia talebana, una volta partiti i contingenti multinazionali. Se si considera anche che dopo il ripristino dei pattugliamenti congiunti, nelle operazioni sono stati inseriti dei “guardian angel” per guardare le spalle agli addestratori, l’exit strategy americana non può non subire un duro colpo, e le possibilità di lasciare in Afghanistan piccoli contingenti di unità addestrative dopo il 2014 appare un’opzione alquanto irrealistica. politicamente ScoRRetto quello che gli altRi non dicono di Tersite I finanziatori della libertà L Greater Middle East Initiative Medio Oriente tradizionale Il “nuovo” Medio Oriente Il progetto GMEI di espansione 24 e hoax mass-mediatiche, corredo primario per far passare l’altrimenti inaccettabile, cadono ormai a pioggia. La Bufala del 2012 va senz’altro al battage mondiale sui “combattenti della libertà” contro il regime assolutistico di Assad. - I finanziatori della “Libertà” (Arabia, Qatar, Bahrein) sono califfati islamici dove a dire democrazia o tolleranza religiosa si rischia il taglio della lingua, e dove la locale “primavera araba” ha preso mitragliate. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 - I “combattenti” sono dello stesso reseau degli jihadisti accorsi contro i sovietici in Afghanistan. Nel caso siriano, i locali Fratelli Musulmani assieme a sunniti panarabi, qaedisti o prossimi, che da repertorio sostengono la “guerra santa” con stragi di bomba. - Sponsor (armi/addestramento, elettronica/intelligence satellitare) sono quelli che - incuranti del ribaltone afghano, dalla riuscita sconfitta dell’URSS al blowback delle Twin Towers - usano ora il fanatismo sunnita per destabilizzare l’area musulmana dal Nord Africa all’Asia-Russia centrale. Gli USA, che appoggiano i Fratelli Musulmani (con cui la CIA ha legami fin dalle esfiltrazioni ai tempi della persecuzione di Nasser), e i più esperti (e spregiudicati) inglesi che appoggiano, coi califfi, i filo-qaedisti. Visto si stampi! I l ruolo di jiahdisti e agenti USA e GB è più che trapelato sulla stampa internazionale. Dal Sunday Express allo spagnolo ABC, ai giornali israeliani. Con il The Guardian a “coprire” col giochetto degli “infiltrati”. E il New York Tymes a scrivere la storiella che sì la CIA è in Turchia, ad armare e addestrare, ma anche per aiutare i “bravi ragazzi” a togliere le armi a qaedisti e similia. Salvo che sono proprio questi, motivati fino al suicidio, a tenere la prima linea. E così il NYT deve ricredersi: non solo gli jihadisti con la bandiera nera controllano il Nord, ma il loro ascendente radicalizza l’ELS. Nel balletto anche il governo USA il quale - fingendo di non sapere che Londra è un Londonistan per i terroristi islamici - annuncia l’inserimento di uno dei gruppi (Jabhat Al Nusra) tra le organizzazioni terroriste al bando. È il primo regime “change” chiavi in mano subappaltato a: estremisti islamici; spokesmen esuli, futuri grassatori, adepti di intelligence USA e Dipartimento di Stato; i velinari mass-media occidentali e degli emirati. Il pacchetto che ha per nastro l’hoax “combattenti della libertà” è affinamento multidisciplinare del realismo di Brezinsky sull’Afghanistan (che sarà mai “qualche testa calda islamica”) e della conseguente ipocrisia. L’applicazione serrata della Greater Middle East Initiative - cioè la petrodollar warfare, palese in Iraq (hoax “armi di distruzione di massa”), camuffata in Libia e poi in Siria - è certo facilitata dalla vocazione araba alle dittature, ma ha ben altri motivi. Detto in sintesi: il dollaro moneta imperiale. Cioè la sicurezza degli USA che, in fallimento da decenni, resistono grazie al dollaro imposto nel mondo come moneta di scambio, e ai T-bonds come finanziamento. Con a garanzia, non certo i conti, ma la loro unica forza: quella militare, straripante dal crollo dell’URSS. Vassallare la Siria - mercato per dollaro e armi, fonte di idrocarburi e base mediterranea da togliere ai russi - è aprire un varco per l’Iran. Nemico USA perché (come prima l’Iraq) scambia europetrolio minando il dollaro, e ne è fornitore alla Cina in yuan (30 miliardi l’anno di non-petrodollari). Obiettivo strategico: imporre il dollaro su tutte le vie del petrolio, e rafforzare il ricatto alla Cina agendo sui suoi rifornimenti. La Cina, oltre che futuro competitor militare, è acquirente estero in trilioni di dollari dei T-bonds, dal cui carico “tossico” inizia però a sganciarsi. Mentre, per di più, scambia in yuan (con Iran, Russia, Giappone) come alternativa più solida al dollaro. Per gli USA, sopravvissuti finora di debito sul dollaro stampato a man bassa, un annuncio di rovina. Per uscirne: costringere la Cina all’“alleanza”, e inficiare le velleità multipolari (tra cui l’euro) con la sottrazione di mercati e stabilità nelle aree di interesse. Così il rischio per l’Europa è di frontiere geo-economiche sotto assedio di Paesi in mano a salafiti, oppure “laici” ma minacciati dall’estremismo sunnitaqaedista. Tutti pronti a correre in soccorso degli Stati Uniti, con il loro counter-terrorism, e il loro tributo del dollaro. [email protected] LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 25 geopolitica Repubblica Centrafricana Il caos, la povertà e il gruppo Séléka Messico Le rotte dei narcotici Corea del Sud La gestione familiare del potere Siria Lo stallo della guerra 26 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 geopolitica Il Paese dilaniato da conflitti interni, sia etnici che politici, fatica a trovare un equilibrio che lo faccia uscire dalla condizione di sottosviluppo Repubblica Centrafricana | L’ evacuazione dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Bangui, nella Repubblica Centrafricana (RCA), disposta dal Dipartimento di Stato il 28 dicembre scorso per motivi di sicurezza, riporta in primo piano l’annosa questione dei “failed States”, ossia territori in cui lo Stato come istituzione è inesistente o quasi. La Repubblica Centrafricana, afflitta da frequenti colpi di Stato (quello del 2003 ha portato al potere l’attuale Presidente François Bozizé), si trova in una situazione di perenne conflittualità interna. Paese tra i più poveri dell’Africa - è classificato agli ultimi posti nella graduatoria dell’Indice di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite - e con un alto tasso di popolazione affetta da AIDS, la RCA è paradossalmente ricca di risorse quali legname, oro, diamanti e uranio. Ma lo sviluppo di una efficace azione di governance sul territorio è ostacolata Nel cuore instabile dell’Africa da vari fattori. In primis, come in molti Paesi sottosviluppati, permane un’endemica corruzione a livello istituzionale: interessi personali a danno di politiche di sviluppo nazionali hanno contribuito a ridurre significativamente la capacità di controllo istituzionale sul territorio, il quale - soprattutto al nord - è suddiviso in etnie che si contendono la supremazia e che si oppongono all’attuale LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 27 geopolitica Il dizionario Séléka è il nome della coalizione di gruppi ribelli che ha avviato l’offensiva di dicembre contro il governo di Bozizé. Di Séléka, che in lingua Sango vuol dire appunto “coalizione”, fanno parte alcune fazioni di tre principali gruppi politici: il Convention of Patriots for Justice and Peace, l’Union of Democratic Forces for Unity e il Democratic Forces of the People of Central African Republic. A questi si sono poi aggiunti il Kodro Salvation Patriotic Convention e l’Alliance for Renaissance and Rebuilding. L’esatta composizione e il numero dei membri di Séléka non è conosciuta, ma i gruppi noti e i loro leader sono spesso in contrasto tra loro, e rendono la coalizione poco coesa e incline a disgregarsi. gruppo dominante, i Baya (circa il 33% della popolazione) a cui appartiene Bozizé. In secondo luogo, il nord della RCA è flagellato dalle incursioni dei militari del Ciad che taglieggiano la popolazione. Bozizé, tuttavia, ha forti legami con il Ciad e il suo Presidente, Idriss Débry (che ha inviato truppe a sostegno dell’esercito centrafricano), e non è dunque in grado di fermare le scorrerie, al punto che la frontiera settentrionale rimane completamente aperta a movimenti di ogni tipo. Sul territorio imperversano anche bande di criminali comuni che si mescolano ai gruppi ribelli, mentre nella parte sudorientale Michel Am-Nondokro Djotodia (a sinistra), leader di Seleka, stringe la mano al presidente Francois Bozize (a destra) durante i colloqui di pace a Libreville l’11 gennaio di quest’anno 28 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 è presente il gruppo armato ugandese Lord’s Resistance Army. Gli accordi conclusi tra il 2007 e il 2011 con le forze ribelli non hanno garantito stabilità al Paese. La mancata attuazione degli accordi, che prevedevano amnistia, reintegrazione e sostegno economico, ha dato il via alla nuova offensiva degli insorti, riunitisi sotto la sigla “Séléka” a partire dal 10 dicembre 2012. In poche settimane, i miliziani di Séléka, grazie a un’efficiente organizzazione e alla scarsa resistenza di un esercito regolare malpagato, sono riusciti a geopolitica I negoziati di Libreville, la pace fragile Gli accordi conclusi tra il 2007 e il 2011 con le forze ribelli non hanno garantito stabilità al Paese conquistare gran parte del nord, comprese le importantissime aree minerarie, per poi arrivare a minacciare la capitale Bangui. Il rifiuto di Francia e Stati Uniti alla richiesta di intervento di Bozizé ha lasciato la difesa del governo in mano ai poco più di 750 militari della Forza Multinazionale dell’Africa Centrale (che vede la partecipazione di Ciad, Congo, Camerun e Gabon) a cui si sono aggiunte successivamente altre 400 unità inviate dal Sud Africa. L’accettazione di un cessate il fuoco raggiunta faticosamente durante i negoziati di gennaio a Libreville (Gabon), a condizione di nominare un primo ministro scelto tra i membri dell’opposizione e di indire libere elezioni nel giro di un anno, lascia aperte molte questioni. Non ultime, il dissenso interno tra le varie frange che compongono Séléka, gruppi costituiti su basi etniche che già in passato hanno avuto forti contrasti, e la mancanza di un programma politico. Con queste premesse, è difficile ipotizzare un ritorno alla normalità per il Paese anche in un ipotetico dopo-Bozizé. L’arrivo del leader di Seleka S ono durati tre giorni i negoziati di Libreville, nel Gabon, dove il governo centrafricano e i ribelli di Seleka hanno raggiunto un accordo per formare di un governo di unità nazionale. L’alto funzionario delle Nazioni Unite per la Repubblica Centrafricana, Margaret Vogt, ha confermato al Consiglio di Sicurezza che il cessate il fuoco è entrato in vigore 72 ore dopo la firma ed ha la supervisione dell’Economic Community of Central African States (ECCAS). Ciò nonostante, la pace è fragile, se un portavoce del gruppo dei ribelli Seleka ha affermato che la lotta ricomincerà nel caso in cui il governo non soddisferà alcune richieste dei ribelli come il rilascio dei prigionieri di guerra e il ritiro delle truppe straniere inviate a sostegno del governo. Cosa prevedono gli accordi di pace: 1) il presidente François Bozizé resterà in carica fino alla fine del suo mandato nel 2016; 2) il Primo Ministro sarà nominato tra le file dell’opposizione e avrà pieni poteri esecutivi per 12 mesi; 3 il governo di unità nazionale di transizione sarà formato dai rappresentanti di tutti i soggetti che hanno preso parte ai colloqui di pace; 4) una nuova legge elettorale dovrà essere adottata prima dello scioglimento dell’Assemblea Nazionale; 5) le elezioni legislative devono avvenire entro 12 mesi; 6) l’attuazione delle disposizioni raggiunte con gli accordi di pace andrà garantita con un meccanismo di controlli periodici. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 29 geopolitica Messico | Gli Stati Uniti, la DEA e le iniziative sei signoli Paesi produttori o esportatori della cocaina, non riescono a frenare un fenomeno in netto aumento. Il Sud America resta il centro di tutto 30 Le nuove rotte del narcotraffico C irca l’80% della cocaina di tutto il mondo è prodotto in Colombia, mentre il resto arriva prevalentemente da Perù e Bolivia. A dirlo è l’incrocio dei dati forniti dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Controllo della Droga e la Prevenzione del Crimine (UNODC), dalla Giunta Internazionale di Fiscalizzazione degli Stupefacenti (JIFE) e dalla polizie internazionali, stando alle quali Bogotà gestisce l’80-90% del mercato della coca consumata negli Stati Uniti. Verso sud si muovono, invece, le piste peruviane e boliviane, facendo capolino soprattutto in Brasile ma anche in Argentina, Venezuela e Cile. In mezzo, ovviamente, c’è anche l’Europa, che da questo punto di vista non si fa mancare proprio nulla. E così il mercato globale della droga si inchina alle pendici delle Ande, anche se l’intensificarsi della lotta internazionale al narcotraffico e il problema della sovrapproduzione impongono a chi guida il business dalla plancia di comando, di diversificare le rotte e strizzare l’occhio a nuovi potenziali acquirenti. Negli ultimi anni, i gruppi più influenti della criminalità organizzata mondiale hanno preso il controllo pressoché LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 totale dei percorsi che conducono la cocaina in Nord America: dal coast to coast nel Pacifico ai traffici via terra per Messico, America Centrale e Caraibi. Qui il tasso di delinquenza e corruzione, oltreché il numero dei consumatori, è aumentato in maniera vertiginosa. E poi, come detto, c’è la questione della sovrapproduzione, motivo per il quale il prezzo della coca che parte quasi esclusivamente e arriva nell’Europa occidentale, ha toccato i minimi storici da dieci anni a questa parte. Un passo indietro che ha spinto il commercio a esplorare nuove mete come il Ghana e la Nigeria o i Balcani. l’analisi dell’europol Secondo l’Europol, l’agenzia anticrimine dell’Unione Europea operativa dall’estate del 1999, le principali rotte della droga sono tre: la “rotta-nord” (Caraibi orientali-Azzorre-Portogallo o Spagna), la “rotta equatoriale” (America Latina-Isole di Capo VerdeMadera o Isole Canarie-Europa Occidentale) e la rotta africana (America del sud-Africa OccidentalePortogallo o Spagna). Nei primi due percorsi, la cocaina viene scaricata negli arcipelaghi atlantici in pescherecci o lance per essere poi trasportata in Europa. Gli ultimi paesi di transito, prima di arrivare in Europa, sono soprattutto il Venezuela e il Brasile, seguiti da Argentina, Ecuador, Suriname e dalle ex colonie di Francia, Regno Unito e Paesi Bassi. Da altri paesi caraibici e sempre più anche dal Messico, la cocaina passa e fila dritta verso l’Europa. I carichi di cocaina vengono scaricati nei porti situati principalmente in Spagna, in Portogallo o nei Paesi Bassi. Da qui, uno degli snodi principali per lo smistamento nel Continente è Londra: le richieste principali arrivano da Germania, Francia e Italia e, ultimamente, anche dai Balcani, coinvolgendo nel traffico internazionale nuove organizzazioni criminali. geopolitica il ruolo strategico del venezuela Lo scenario internazionale continua a essere dominato dallo strapotere della Colombia: le autorità colombiane sostengono che i cartelli della droga utilizzano il Venezuela come ponte per inviare i carichi in Africa e in Europa. La quantità di coca colombiana in transito da qui è aumentata notevolmente: l’espulsione della DEA, l’antidroga americana, e il rifiuto del governo chavista di acconsentire alle estradizioni hanno reso il Paese un porto franco sicuro per i narcotrafficanti. il mal d’africa Cresce moltissimo il traffico via mare verso l’Europa da Guinea Bissau, Guinea, Costa d’Avorio, Senegal, Mali e Sierra Leone. Il motivo è che i funzionari di questi Paesi non hanno né la formazione né le risorse necessarie per controllare il flusso dei carichi che transitano per i porti dell’Africa occidentale. Gli aerei che coprono le tratte in questa regione, come i “pasadores”(velivoli da tursimo) possono volare basso ed eludere i radar. la frontiera brasiliana In Brasile, la vegetazione selvatica e la carenza dei controlli sono alleati dei narcotrafficanti: per la regione amazzonica passa illegalmente non solo la droga, ma anche legname, oro e sostanze chimiche. Ciò spiega perché San Paolo e Rio de Janeiro sono letteralmente inondate di cocaina. L’ex ambasciatore brasiliano a La Paz, Federico César de Araujo, sottolinea che ormai il Brasile non è più un ponte verso gli USA ma, semplicemente, uno dei maggiori consumatori di cocaina al mondo. bolivia in sovraccarico Secondo il rappresentante dell’UNODC, César Guedes, la Bolivia possiede più coca di quanta realmente ne possa produrre. Buona parte arriva dal Perù in panetti o in cloridrato e viaggia verso Brasile o Argentina. Per rafforzare i controlli, è in corso un’iniziativa congiunta tra Bolivia, Brasile e Stati Uniti, per agevolare i monitoraggi satellitari sull’area e le operazioni di intelligence. Ma è sempre più dura, dopo che nel 2008 Evo Morales ha espulso la DEA dal Paese. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 31 geopolitica Messico | I cartelli della droga Il 2013 non sarà un anno facile per il presidente messicano Enrique Pena Nieto, che aveva fatto della lotta ai narcotrafficanti e del ripristino nel Paese di condizioni di sicurezza accettabili i punti centrali della sua vittoriosa campagna elettorale. Le nuove misure nel campo della politica della sicurezza pubblica non riusciranno, nel breve periodo, a dare risultati percepibili dalla popolazione. Ad esempio, la nuova gendarmeria federale non sarà in grado di diventare operativa almeno fino alla fine del 2013 perché i tempi di organizzazione e di addestramento non sono brevi. Per ovviare a questi inconvenienti, Nieto ha deciso a dicembre di continuare ad impiegare per tutto il 2013, nella lotta contro le bande criminali e i cartelli della droga, almeno 50.000 soldati delle forze armate regolari. la fedeRaZione di Sinaloa La Federazione è attiva in tutto il Paese. Dopo aver sconfitto in una guerra sanguinosa durata fino alla prima metà del 2012 l’organizzazione di Vicente Carrillo Fuentes nello stato di Chihahua, la federazione ha di fatto assunto il controllo dei traffici criminali a Ciudad Juarez e a Chihuahua City, anche grazie alla fitta rete di alleanze. Oggi la Federazione di Sinaloa è infatti collegata strategicamente col Cartello del Golfo, col Cartello di Jalisco-Nueva Generacion, e con i Cavalieri Templari, tutti uniti nella lotta, su scala nazionale, contro il Cartello dei Los Zetas. La sconfitta definitiva dei Carrillo Fuentes ha prodotto come risultato collaterale un impressionante calo nel tasso di omicidi a Chihuahua City e a Ciaudad Jarez. Nel 2012 la Federazione ha incontrato difficoltà proprio nella sua base principale, lo stato di Sinaloa, dove ha dovuto fronteggiare l’attivismo criminale e la concorrenza di una piccola ma feroce gang di narcos: Los Matzatelcos. Nello stato di Chihuahua è ancora attivo il cartello de La Linea che controlla le vie del trasporto della droga e le aree di produzione nella parte occidentale dello stato di Chihuahua. Ciò nondimeno, la Federazione oggi controlla una buona percentuale del traffico di stupefacenti su scala nazionale. Nonostante la conflittualità con La Linea e con Los Matzatelcos, la Federazione di Sinaloa resta ricca e potente. 32 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 i cavalieRi templaRi Il cartello, nato da una sanguinosa scissione della Famiglia Michoacana (uscita quasi distrutta dalla contesa), è oggi la gang dominante nello stato di Michoacan e sta espandendo progressivamente le sue attività negli stati di Morelos, Guanajuato, Queretaro e Guerrero. Nello stato di Jalisco, controllato dagli (ex?) alleati dell’omonimo cartello, con i quali non sembra correre buon sangue, i Templari mantengono il controllo soltanto della regione sud-orientale. Il cartello potrebbe aver assorbito gli sbandati della Famiglia Michoacana e si è alleato con il cartello del Golfo in una lotta senza quartiere contro Los Zetas. La guerra tra i due gruppi potrebbe essere la nota dominante delle violenze in Messico per tutto il 2013. geopolitica loS ZetaS L’organizzazione dei Los Zetas, che nel 2012 si è dimostrata la più attiva banda criminale del Messico, è strutturata su cellule che operano in modo semi autonomo sotto il coordinamento del numero due del cartello, Miguel Trevino Morales. Al momento, il cartello è interessato da sanguinose faide di potere al suo interno: Trevino sta tentando di scalzare dalla posizione di capo l’attuale boss e fondatore della gang Heriberto Lazcano, detto “El Lazca”. La guerra di successione si annuncia sanguinosa, anche perché il responsabile dei Los Zetas per le regioni del centro-nord, Ivan Velazquez Caballero, detto “El Taliban”, dalla prigione dove è rinchiuso guida la lotta contro Trevino con la sua rete attiva negli stati di Coahuila, San Luis Potosi e Zacatecas. Se i Los Zetas riusciranno a mantenere una certa coesione, resteranno certamente uno dei gruppi criminale più potenti del Messico. il caRtello del golfo Un tempo uno dei più potenti gruppi criminali messicani, il cartello del Golfo è oggi fortemente indebolito da un anno di guerra senza quartiere con Los Zetas e da una scissione interna che lo ha visto dividersi in due fazioni, Los Rojos e Los Metros. La scissione tuttavia, secondo fonti locali, non avrebbe finora portato alla nascita di due nuove famiglie e il cartello continua a operare come un’organizzazione unica. Con l’aiuto dei Sinaloa e dei Templari, il Golfo nella lotta contro Los Zetas è finora riuscito a mantenere il controllo dei traffici e dei canali di trasporto della droga negli Stati Uniti e grazie agli alleati è riuscito a contrastare tutte le offensive dei Los Zetas negli stati occidentali. Nonostante questi successi, la situazione del cartello non sembra così solida, in quanto il Golfo deve la sua sopravvivenza (non si sa per quanto tempo) al sostegno interessato dei Sinaloa e dei Templari. caRtello di JaliSco (nuova geneRaZione) Nel 2012 i Jalisco hanno proseguito ad espandere le loro attività criminali (estorsioni e droga) in molti stati messicani, come Colima, Morelos, Michoacan, Guerrero, Guanajuato e Quintana Roo. Le loro tattiche aggressive li hanno portati a un conflitto sanguinoso con i Cavalieri Templari. La Federazione Sinaloa, di fronte alla guerra tra due dei suoi alleati, ha preferito finora rimanere neutrale. Al momento, il Cartello di Jalisco, nonostante la tensione coi Templari è riuscito a garantirsi l’apertura delle linee di rifornimento della droga e ha mantenuto intatta la sua notevole capacità di contrabbando degli stupefacenti negli Stati Uniti. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 33 geopolitica Corea del Sud | Ritratto di famiglia L’ascesa di Park Geun-hye. Non è il primo caso che un figlio di un dittatore succeda al padre, ma è la prima volta che sia una donna a comandare questo Paese I l 20 dicembre 2012 si è conclusa la campagna presidenziale in Corea del Sud. Le urne hanno decretato la vittoria di Park Geun-hye del partito conservatore Saenuri, prima donna ad assumere il prestigioso incarico, ma soprattutto figlia di quel dittatore, Park Chung-hee, che ha fatto della Corea un Paese industriale e tecnologicamente avanzato. Ed è nella storia dello sviluppo politico-economico che in parte risiede la ragione di questo successo elettorale. Il golpe del 16 maggio 1961 porta al potere il Generale Park Chung-hee che si ritrova a guidare 34 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 un Paese in cui regnano povertà e corruzione, dove il 66% della forza lavoro è impiegata nell’agricoltura e solo il 7% nell’industria. Tra il 1965 e il 1990 la crescita del PIL raggiunge una media del 7,1%: è il miracolo sul fiume Han. La rapida crescita economica, accompagnata da censura e restrizione delle libertà civili, ha visto come protagonisti uno Stato forte e i chaebol, le grandi famiglie geopolitica imprenditoriali. Nel 1961 Park governa appoggiandosi all’esercito, l’unica istituzione ben strutturata e organizzata, e all’Economic Planning Board che fissa scadenze e modalità del processo di industrializzazione. Ma non ci sono solo imposizioni: lo Stato corteggia i chaebol, a cui fornisce ingenti sussidi, oltre a consentirgli di attirare investimenti dalle multinazionali e importare nuove tecnologie. Il governo autoritario fissa come obiettivo primario del Paese lo sviluppo economico. Quello di Park è stato, infatti, definito un developmental State che ha attraversato due fasi, quella iniziale totale in cui la struttura dei chaebol era più debole e quella successiva limitata, in cui, proprio grazie al successo della politica impostata sulle esportazioni di prodotti a basso costo - e quindi competitivi - in mercati importanti quali quello statunitense e dell’Europa occidentale, i chaebol si sono rafforzati e sono diventati la locomotiva dell’economia sudcoreana. Per la natura stessa del developmental State l’alleanza Stato-chaebol non è rimasta statica: i rapporti di forza si sono modificati, riequilibrandosi, per poi cambiare di nuovo a favore di una società ormai pienamente industrializzata e strutturata che preme per aperture anche in senso politico. Il clima favorevole dei mercati internazionali, la scarsa competizione di altri Paesi asiatici e la collocazione geostrategicamente importante della Corea Famiglia, lealtà, business I chaebol, simili agli zaibatsu giapponesi, sono gruppi imprenditoriali posseduti e controllati dalle grandi famiglie sudcoreane. Questi gruppi, veri e propri conglomerati di società ed aziende, sono gestiti su base familiare gerarchica in cui predominano i valori della famiglia, della pietà filiale e della lealtà. Raggiunsero dimensioni internazionali grazie alla politica economica di Park Chung-hee, con crescite annuali tra il 28 e il 53% durante gli anni Settanta, dominando il settore dell’industria pesante e dell’industria chimica. I più noti sono Hyundai, Samsung, Daewoo e Lucky-Gold Star. del Sud hanno reso possibile il miracolo economico senza democrazia. Non solo: Park è entrato nell’immaginario di una parte significativa della popolazione che lo ricorda come l’uomo che ha modernizzato il Paese e lo ha fatto diventare l’11esima potenza industriale nel mondo. La Corea degli ultimi anni ha visto il depauperamento di questa eredità: le difficoltà economiche si sono riaffacciate nella vita politica con ripercussioni negative soprattutto sulla classe media. Proprio quella classe media nata sotto il regime autoritario che aveva maggiormente beneficiato della politica economica. Un declino della crescita negli ultimi anni e un aumento del divario sociale e salariale sono i temi che hanno dominato la campagna elettorale. Gli ultracinquantenni, che hanno visto erodere il proprio standard di vita, hanno votato compatti per la figlia del Generale in un impeto di nostalgia. La promessa elettorale di mettere un controllo ai chaebol e di ridurre le disuguaglianze sarà una sfida importante, soprattutto in considerazione del forte legame di Park Geun-hye con il mondo imprenditoriale, con il quale difficilmente vorrà entrare in conflitto. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 35 geopolitica Siria | Aspetta e spera Q uella che l’ex diplomatico iraniano Mohammed Ali Sobhani ha definito come una “guerra fredda limitata” è ormai divenuta una realtà nel conflitto siriano. Le sorti della guerra, che rischia di trascinarsi dietro numerosi altri Paesi e aprire scenari apocalittici come uno scontro diretto tra Iran e Israele, per il momento restano in mano agli eserciti che si affrontano in Siria. Ciò è dovuto anche al fatto che la comunità internazionale non ha mai trovato un accordo per risolvere la crisi siriana e sembra ancora oggi preferire l’attendismo. Fatto che ovviamente non giova a nessuna delle parti in causa, schiaccia la popolazione inerme, frustra ogni speranza di pace e affida le sorti di un grande Paese al caso. I cosiddetti “amici della Siria”, capitanati dagli Stati Uniti, non si sognano di forzare la mano e non giungono ad alcun tipo di decisione per non irritare i Paesi schierati dalla parte di Assad ovvero Russia, Cina e Iran. Ma che succederebbe se Assad e il suo regime venissero sconfitti? Tra le molte ipotesi che si possono fare, l’unica certezza è che sarebbe l’Iran il vero sconfitto e il più isolato tra i Paesi della regione. Gli sciiti, infatti, maggioranza in Iran ma minoranza nell’intero mondo arabo, verrebbero sopravanzati dalla 36 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 Analisi dello stallo nella guerra siriana e gli interessi dei Paesi coinvolti componente sunnita che domina l’area e che ha come principale sponsor il potente Qatar, nuova autorità emergente in Medio Oriente: da quando l’emiro Hamad bin Khalifa al Thani ha fatto visita a Gaza, tutti hanno compreso che anche Hamas è ormai parte integrante della grande coalizione sunnita che conta già l’Egitto dei Fratelli Musumani, l’Arabia Saudita e la Turchia, quest’ultima ben preparata al peggio. L’Iran sciita, invece, potrebbe contare sulla sola coalizione di alawiti siriani e iracheni, e sull’Hezbollah libanese. Un po’ poco, tutto sommato. A meno di un intervento russo in difesa dei propri interessi strategici in Mediteraneo (vedi il porto siriano di Tartous). Ma si tratta di uno scenario assai poco probabile. In tal senso, la prudenza tattica di Israele è doverosa, specie in un contesto di incertezza politica, dopo le elezioni del 22 gennaio. Resta in piedi anche l’ipotesi del professor Ely Karmon, analista israeliano dell’IDC di Herzliya, che prevede la possibile formazione di un staterello alawita che spaccherebbe la Siria in due: “Un mini-stato, dove la spina dorsale dell’esercito alawita siriano potrebbe ritirarsi con la maggior parte dei suoi armamenti pesanti, parte della forza aerea più le armi chimiche di cui dispone. Ovvero una sorta di assicurazione contro una sanguinosa offensiva dell’opposizione sunnita sulla sua ultima roccaforte”. La resistenza alawita comunque continua e lo scenario è quello di una guerra ancora lunga. La Siria di oggi è molto simile all’Afghanistan degli anni dell’invasione sovietica (’79-’89): i ribelli di allora - talebani, alleanza del Nord, haqqani - erano sostenuti con rifornimenti di armi da USA e Arabia Saudita, che oggi sostengono la ribellione contro Assad. In Afghanistan non ci fu intervento diretto straniero e gli invasori sovietici si ritirarono perché avevano dove andare, cioè a casa. Ma gli alawiti e i cristiani siriani, dove possono ritirarsi? INSIS SpA is an italian company specialized in designing and manufacturing of multi-technological systems for Civil and Military application. INSIS SpA is able to offer cost-effective and tailored solutions in different areas related to electronics, servo-techniques, electro-optics, high precision mechanics and their conbination. Thanks to its background on system analysis, INSIS SpA is able to provide valuable contribution to the customers according to a flexible and cooperative model, being able By Official acknowledgment of Iyalian Government, INSIS SpA is a National Research Laboratory and it is listed in the Laboratories Register of Italian Scientific and Tecnological Research Ministry since 1997. Since 1999 the Company has been issued by CSQ of the ISO 9001 Certification. l’anaRchico 2.0 StoRie di oRdinaRia eveRSione La legge è uguale per tutti Guy F. C ondanna a sei anni per l’incendio del furgone dei CC negli scontri del 15 ottobre 2011 a Roma. In questi episodi può essere difficile discernere la manifestazione di rabbia (incubata da giovani al 37% senza né lavoro né futuro) dall’atto esaltante di “aficionados” della violenza (dallo stadio alla strada). Questa, diverso fenomeno sociale, si frammischierebbe alla protesta politica che è già in bilico - nelle diverse componenti come nei singoli individui - tra ribellione rivendicativa (residua speranza di partecipazione) e assalto distruttivo (vuoto di speranza per un destino di emarginazione). A seconda del punto di vista cambiano interpretazione e funzione della condanna. Così come questa andrebbe rapportata al suo “peso” sociale, punitivo e dissuasivo. In comparazione a campione: ANNI 7½: due ragazzi per violenza sessuale di gruppo su una tredicenne; ANNI 7½: imprenditore abusa di ragazzine in condizioni di disagio; 38 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 ANNI 7: omicidio studentessa Marta Russo con un colpo di pistola; ANNI 6½: uomo (alcool/droga) per violenza sessuale ex fidanzata: legata al letto, picchiata e seviziata; ANNI 6½ a critico d’arte milanese: abusi sessuali su bambine di dieci anni, amiche delle figlie. ANNI 5½, violenza sessuale aggravata: zio abusa di nipote tredicenne; ANNI 4,4: sequestro di persona, rapina e violenza sessuale in danno della ex moglie; ANNI 2 a ex parroco (pena sospesa) per violenza sessuale su bambina di dieci anni; ANNI 6, uguale “peso” di quella per il furgone incendiato: - imprenditore massacra di botte e uccide uomo che gli aveva graffiato l’auto durante un posteggio; - ubriaco travolge e uccide cinque ragazzi con un furgone; - rumeno: sfruttamento della prostituzione minorile, sequestro di persona. Fidanzata minorenne costretta a prostituirsi e, a suon di botte, a consegnargli il denaro. Reati di costante allarme, e costante entità media delle pene. quella per omicidio colposo è 0,5. Nei molti filmati si vedono i blindati posti a contrasto dei dimostranti. Ma, scemato l’effetto deterrente e la distanza di sicurezza, li si vede “caricarli” e subirne poi, in difficoltà di movimento, il contrassalto. I rischi della tattica vanno da un grave investimento a una spropositata reazione a fuoco dal mezzo circondato (come a Genova nel 2001). Cioè una esacerbazione che nel futuro, come pure nell’immediato, può portare grave rischio anche per gli agenti. A meno che - come avvenuto sconsideratamente in passato - non si voglia aizzare lo scontro a fini repressivi, oltre alle pene per i violenti, occorrerebbe quindi approntare una tattica adeguata di Ordine Pubblico. Sulle pene si sa per lunga esperienza che l’accentuazione oltre misura ha scarsa deterrenza sull’insorgenza politica ma, anzi, ne è concomitante alimento. Tanto più quando gli insorgenti vi leggono oggettiva equiparazione di atti di ribellione ad abietti crimini contro i più deboli. Per converso, dal lato della violenza applicata dallo Stato, colgono che negli abusi (finanche di omicidio) è usata misura opposta. Con condanne irrisorie, attenuanti, omertà e falsità, alterazione di prove. Laddove uno Stato di diritto, dall’habeas corpus in poi, deve tanto più tutelare il cittadino dagli abusi di chi esercita il potere. Pena il venire meno del suo riconoscimento di legittimità. Se è la Legge che deve tutelare i diritti, come mediazione sulla forza privata, va da sé che la percezione della sua parzialità, cioè della sua inservibilità per l’affermazione di quei diritti, concorra al formarsi di un antagonismo che si sente obbligato sul terreno della forza quale unica risorsa. E da qui alla violenza è solo un’occasione. Punto è che l’impunità perseguita dallo Stato, tradendo il caposaldo (di principio) dell’uguaglianza di fronte alla Legge, rafforza il caposaldo (di fatto) di chi contro quello Stato contrasta proprio per la sua parzialità. Il resto è futilità. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 39 economia Santa Sede Lo Stato della Città del Vaticano è sorto con il Trattato Lateranense, firmato l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, che ne ha sancito la personalità di Ente sovrano di diritto pubblico internazionale, costituito per assicurare alla Santa Sede, nella Dentro o fuori sua qualità di suprema istituzione Regno Unito l’Europa? Il dilemma delle tasse Italia Tobin Tax Cipro Euro, PIL e FMI Mr. C Britzerland, ovvero l’unione commerciale del Regno Unito con la Svizzera, è solo una delle mosse del premier britannico per convincere gli elettori euroscettici a continuare a credere in lui. Ma uscire dall’Europa si può? 40 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 economia I l 18 dicembre il Primo Ministro del Regno Unito David Cameron ha dichiarato che un ritiro inglese dall’Unione Europea è diventata un’eventualità immaginabile. Concetto poi ribadito il 23 gennaio, quando ha annunciato la volontà di indire un referendum sulla questione. Per contrastare la mai sopita schiera degli euroscettici capeggiati dal sindaco di Londra Boris Johnson e il crescente consenso dell’UKIP (Partito Indipendentista del Regno Unito), Cameron ha fissato per il 2017 un referendum sulla permanenza nell’UE, come previsto dal Trattato di Lisbona. L’azione del premier britannico, di cui va ricordata la solitaria opposizione al drammatico salvataggio della Grecia dello scorso dicembre, sembra volta a sfruttare i vagheggiamenti su di una possibile unione commerciale con la Svizzera (si parla a tal proposito di “Britzerland”) non tanto per una revisione dei trattati, quanto per una concreta esenzione dalle politiche di coordinamento in tema bancario e fiscale, adottate recentemente dall’UE di fronte al perdurare della grave crisi economica dell’area. Cameron a chi la dà a bere? Il 12 dicembre i ministri finanziari dell’Unione hanno definito nuovi poteri per la Banca Centrale Europea che permetteranno, attraverso il Fondo Europeo di Stabilità, di coordinare e supervisionare le operazioni LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 41 economia contRibuti e SpeSe ue peR paeSe Nel 1970 il Consiglio d’Europa dichiara decaduto il sistema di finanziamento attraverso i contributi nazionali dei Paesi membri e istituisce il sistema delle risorse proprie. Il Bilancio comunitario, che ammontava a 129.395 milioni di euro nel 2011, è finanziato attraverso un sistema composto da: dazi doganali, risorse di origine agricola, IVA e un prelievo basato sul Reddito Nazionale Lordo di ciascun Paese membro. Saldo di bilancio in milioni di euro dei principali paesi ue Paese Contributi al Bilancio UE Germania 19.671,1 Francia 18.050,8 Italia 14.336,2 Spagna 9.876,1 Regno Unito 11.273,4 Fondi dalla UE 12.133,0 13.162,3 9.585,9 13.599,0 6.570,0 di salvataggio e ristrutturazione del debito sovrano e la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà. In giugno, inoltre, è prevista la firma di un contratto vincolante per l’attuazione di riforme fiscali strutturali. Quindi, sebbene le divergenze e i costi associati a una maggiore integrazione sembrano aver congelato la proposta di una profonda revisione del Trattato di Maastricht (Van Rompuy, presidente del Consiglio Europeo), si può ritenere che il perdurare della recessione produrrà nuove (Cipro) e vecchie vulnerabilità (Grecia, Spagna), che inevitabilmente spingeranno verso una maggiore unione monetaria e fiscale. In questo quadro Cameron, forte dei sondaggi che danno prossimi al 50% i favorevoli all’uscita dall’UE, agita il tema del referendum, creando non poche difficoltà anche tra gli europeisti convinti, come i laburisti di Ed Miliband. Come noto, gli inglesi hanno sempre visto con diffidenza l’UE (solo nel 1973 hanno deciso di aderire alla Comunità Economica Europea) e, pur essendo tra i 12 Paesi fondatori (1992), hanno ottenuto importanti deroghe per la loro partecipazione. Il Regno Unito ha diritto a una riduzione del contributo versato per il bilancio comunitario (Consiglio di Fontainebleau 1984 e Decisione 2007/436/CE) e all’istituzione di una compensazione, pari al 66% della differenza tra il finanziamento al bilancio e i contributi ricevuti (contributo netto al bilancio dell’UE). Conserva Il dizionario L’United Kingdom Indipendent Party (UKIP) è il partito indipendentista britannico, fondato nel 1993 da Alan Sked e altri membri euroscettici provenienti dall’Anti-Federalist League. Da allora promuove una campagna per il ritiro del Regno Unito dall’Unione Europea. Oggi lotta per attestarsi quale terzo partito del Regno Unito: secondo un sondaggio del The Sun raccoglierebbe il 10% dei voti (alle elezioni del 2010 prese solo il 3,1%); i laburisti arriverebbero al 43%, i conservatori al 33% e i liberaldemocratici al 10%. L’attuale candidato è Jane Collins. 42 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 economia la preminenza della Common Law sulla Carta Costituzionale Europea (Lisbona 2007), attraverso la cosiddetta “clausola di esclusione” (opt-out), che sfrutta per non aderire all’euro e conservare la sterlina come moneta nazionale (1999). I numeri della sua economia, dopo cinque anni dall’inizio della crisi indotta dal sistema dei mutui sub-prime, sono impietosi. Due recessioni (double-dip?) nel 2008-2009 (Grande Recessione) e nel 2010-2012. I dati pubblicati dal National Institute of Economic and Social Research (NIESR) mostrano che la ripresa dalla caduta del 6,4% del PIL nella Grande Recessione è più lenta di quanto osservato nei cinque anni successivi alla Grande Depressione del 1930. Il deficit pubblico, dopo aver superato il 10% nel 2010, raggiunge il 7,9% e il debito pubblico si attesta Gli inglesi hanno all’84% (5,6% deficit sempre visto con primario, cioè al netdiffidenza l’UE to degli interessi sul debito), con circa il 30% del debito sovrano detenuto da investitori esteri. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto l’8% e il deficit della bilancia dei pagamenti è stimato (terzo trimestre del 2012) al 3,3% del PIL (15,7 miliardi di euro). Il sistema bancario, dopo la nazionalizzazione della Royal Bank of Scotland e i salvataggi (Lloyds TSB e HBOS) attuati dall’allora premier laburista Gordon Brown, sulla spinta degli standard di Basilea III e delle raccomandazioni della commissione Vickers, è attraversato da una profonda ristrutturazione volta a separare l’attività di raccolta del risparmio da quella d’investimento e a introdurre più elevati indici di capitalizzazione, allo scopo di ridurre il rischio sistemico, tuttora ritenuto molto elevato (Systemic Risk Survey, Bank of England 2012). In conclusione, i costi, seppure incerti, sembrano essere superiori agli incerti guadagni e ciò dovrebbe spingere a una maggiore cautela Cameron. Viceversa per l’UE, il referendum potrebbe rappresentare un’opportunità per limitare le deroghe accordate, con la clausola di esclusione al Regno Unito. UK fuori dall’UE: c’è da crederci? E conomicamente il Regno Unito è fortemente integrato nell’UE: esporta beni per 194 miliardi di euro (53% del totale delle esportazioni), corrispondenti a circa 3 milioni di posti di lavoro, e importa beni per 247 miliardi di euro (2011). Gli effetti di un’uscita dall’Unione, al netto dall’isolamento politico in cui verrebbe a trovarsi, non sono, quindi, facilmente quantificabili e le simulazioni offrono valutazioni contrastanti: beneficio netto (The Telegraph) o perdita permanente del 2,25% del PIL (NIESR). In un contesto così discordante, più che valutazioni puntuali dei costi/benefici ha senso guardare alle grandi voci e quindi provare a fare un bilancio. Seguendo quanto pubblicato sulla stampa (The Independent, The Guardian, The Economist) si ricavano le seguenti voci: benefici: nessun conferimento netto al bilancio comunitario; abolizione di dazi e barriere doganali, abolizione dei vincoli sul pescato, abolizione sui limiti alla giornata lavorativa (48 ore) e maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, allentamento dei vincoli di sostenibilità nella politica energetica; nuovo sviluppo della City come mercato offshore per le economie emergenti. costi: introduzione di tariffe doganali sulle merci dirette nell’UE, in particolare su alimentari (+55%), abbigliamento-tessile (+12%) e componentistica (+4%); spostamento della produzione di autoveicoli nei territori di vendita dell’UE; riallocazione dell’industria aeronautica, in particolare componentistica; ridimensionamento della City come centro di accesso ai mercati europei e di negoziazione di titoli e derivati denominati in euro, a vantaggio di una borsa continentale (Parigi); ostacoli alla libera circolazione dei cittadini da e verso l’UE; rinegoziazione dei trattati europei di difesa. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 43 Tu gestisci il core business, noi pensiamo al resto. Specializzata nella progettazione e gestione di servizi di Facility Management per la conduzione delle attività no core delle aziende, MANITAL è in grado di operare su tutta la penisola con la forza di centinaia di aziende specializzate per settore di attività e per aree di intervento. Si rivolge alla Pubblica Amministrazione, ai Gruppi Industriali, alle medie imprese appartenenti ai diversi settori di attività. Un mix di professionalità e flessibilità al servizio del cliente. Il vosTro Facility Partner outlooK www.lorienconsulting.it a cuRa di loRien conSulting Tobin Tax, questa sconosciuta - Spontaneamente, solo il 6,5% del totale degli intervistati sa dare una definizione esatta di Tobin Tax (qualcun altro ne dà una definizione, ma si confonde con la tassa patrimoniale). Conoscenza della tassa sulle transazioni finanziarie - Dopo aver ricordato loro la definizione esatta di Tobin Tax, quasi la metà degli italiani (48,4%) afferma di averne già sentito parlare, ma solo il 29,6% sa che entrerà in vigore in Italia nel marzo 2013. Favorevoli o sfavorevoli? - Mentre, però, i favorevoli appaiono più consapevoli di che cosa si stia parlando (sono favore- Quanto è d’accordo con questa tassazione? voli perché è una tassa «utile a risollevare l’economia italiana», 48,6%, e perché «penalizza i più ricchi», 27,1%, penalizzando anche «la casta della finanza», 17,1%), i contrari sembrano più spaventati dalla parola «Tax» che dal contenuto vero e proprio del provvedimento: infatti, la percentuale di contrari che non giustificano affatto la loro risposta o che si ritengono «poco informati» è pari al 37,0%; chi giustifica il suo disaccordo lo fa invece affermando perlopiù che «penalizza i più poveri», frase inesatta, seguendo lo scopo della tassa stessa. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 45 Istituto: Lorien Consulting s.r.l. - Criteri seguiti per la formazione del campione: campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, rappresentativo per sesso, età e area geografica - Metodo di raccolta delle informazioni: indagine quantitativa telefonica (CATI, Computer Assisted Telephone Interview) - Numero delle persone interpellate ed universo di riferimento: 1.000 cittadini italiani maggiorenni - Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 12 - 14 gennaio 2013 - Metodo di elaborazione: SPSS - Il gruppo di italiani che si azzarda a darne un giudizio, si divide però in due parti pressoché uguali: i favorevoli (28%), perlopiù uomini (74,3%) di 55-65 anni (22,9% vs la media nazionale 14,4%), con un livello di istruzione medio alto (diploma: 55,7% vs 48,0% nazionale; laurea: 24,3% vs 15,6% nazionale), impiegati o quadri (34,3% vs 22%) che si definiscono di sinistra (17,1% vs 10,8%) o centrosinistra (54,3% vs 25,2%), e i contrari, donne (62,2%) casalinghe (20,6% vs 15,2% nazionale) o disoccupati (12,8% vs 10,8%) con un livello di istruzione medio-basso (licenza elementare: 11,7% vs 9,6%; licenza media: 31,1% vs 26,8%) senza una precisa autocollocazione politica (29,2%). do you SpRead? voci dal meRcato globale Transazioni, è l’ora delle tasse B. Woods L o scorso 9 ottobre i ministri delle Finanze di undici Paesi dell’UE (Austria, Belgio, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Spagna) riuniti a Bruxelles, si sono dichiarati favorevoli all’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie (asset e derivati). Facendo seguito a quanto fatto dal primo ministro francese Hollande (tassa di 0,2% su tutte le transazioni su titoli emessi da società con sede sociale in Francia e con capitalizzazione superiore al miliardo di euro), l’Italia ha introdotto con la Legge di Stabilità 2013-2015, articolo 1 commi 491-500, le imposte sulle transazioni finanziarie (Gazzetta Ufficiale n. 302, 29 dicembre 2012). Il legislatore italiano ha previsto un’imposta differenziata per asset primari e derivati, nonché per mercati regolamentati e non regolamentati (mercati OTC) e per le negoziazioni ad alta frequenza (High Frequency Trading - HFT). 46 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 L’imposta, pari allo 0,2% del valore delle transazioni di titoli (0,1% nei mercati regolamentati e nei sistemi multilaterali per società con capitale superiore a 500 milioni di euro), che non si applica a «prodotti etici o socialmente responsabili», è dovuta a partire dal primo marzo 2013. È prevista l’introduzione (1 luglio 2013) di una tassa sulle transazioni sui derivati; l’imposta in misura fissa varia in ragione alla tipologia (futures, certificates, covered warrants, opzioni, swap, etc.) e al valore del contratto. Infine (comma 495) è prevista una tassa dello 0,02% sulle transazioni e negoziazioni ad alta frequenza (HFT), ovvero sulle operazioni di scambio realizzate su piattaforme elettroniche con tempo di esecuzione non superiore a mezzo secondo; la tassa si applica anche sugli ordini cancellati e modificati. Il grande pubblico ha identificato erroneamente questa nuova imposizione fiscale sugli scambi finanziari con la Tobin Tax. In realtà lo scopo della Tobin Tax (1972) era quello di stabilizzare i tassi di cambio, dissuadendo la speculazione con una tassa dello 0,5% sul volume delle transazioni, mentre le nuove tasse, soprattutto nella versione italiana, attraverso un’azione differenziata, mirano a limitare tutte le operazioni finanziarie altamente speculative, puntando in particolare a quelle sui mercati non regolamentati e sui mercati elettronici ultraveloci. L’azione di Francia e Italia dovrebbe, infatti, indurre gli altri Paesi dell’UE, non solo quelli che si sono espressi a favore della tassazione, ma soprattutto quelli decisamente contrari come i Paesi Bassi e il Regno Unito, a muoversi rapidamente verso una restrizione delle condizioni di funzionamento dei mercati finanziari. L’adozione di HFT: economia algoritmica S ono denominati scambi ad alta frequenza (HFT) gli scambi di titoli che si avvalgono di piattaforme elettroniche che, sulla base di sofisticati algoritmi, compiono operazioni di compra-vendita in frazioni di secondo. Le transazioni ad alta frequenza rappresentano ormai circa l’80% del volume degli scambi globali, ma coinvolgono solo un esiguo numero di operatori (circa il 2% del totale). Questa tipologia di transazioni implica la possibilità di produrre enormi effetti sui mercati finanziari: è il caso del “flash crash” del 6 maggio del 2010, quando in meno di 5 minuti il Dow Jones ha perso 998.50 punti (-9.2%), o del fallimento di Knight Capital (un importante market maker americano) che in 45 minuti ha subito perdite per 440 milioni di dollari (1 agosto 2012), per un malfunzionamento del sistema. Inoltre gli scambi ad alta frequenza evidenziano la presenza di asimmetrie informative che possono dar luogo a fenomeni di azzardo morale, di selezione avversa e soprattutto di collusione che pregiudicano il corretto funzionamento dei mercati finanziari. una tassazione differenziata e di regole più restrittive sui mercati finanziari da parte dei 27 Paesi dell’UE, in particolare del Regno Unito dove nella City sono sottoscritti oltre il 75% dei contratti OTC denominati in euro, stabilizzerebbe i corsi delle attività finanziarie e i tassi d’interesse. In tal modo si inizierebbe a limitare l’azione dei capitali speculativi che tanti problemi hanno creato negli scorsi mesi ai debiti sovrani e alle quotazioni azionarie, quindi all’euro e alla stessa stabilità politica dell’UE. Inoltre, rispondendo positivamente e rapidamente alle sollecitazioni provenienti da Francia e Italia, l’UE potrebbe riconquistare anche un ruolo di partnership autorevole e affidabile con gli USA, dove l’amministrazione Obama è strenuamente impegnata nell’introduzione di regole più severe nei mercati OTC e in quelli gestiti con piattaforme elettroniche (Title VII, DoddFrank Wall Street Reform and Consumer Protection Act). La cooperazione tra UE e USA potrebbe consentire il superamento dei costosi interventi specifici ed ex-post (fallimenti pilotati, ricapitalizzazione e nazionalizzazione di banche, etc.) attuati per salvare il sistema finanziario globale e favorire la nascita di una Camera di Compensazione Centrale (Central Clearing House) per i contratti OTC. L’istituzione di una Camera di Compensazione Centrale, a gestione mista pubblica e privata, è considerata da molti esperti come la proposta in grado di realizzare un’efficiente gestione dei rischi, senza pregiudicare l’innovazione finanziaria. OTC, ovvero la diversificazione del rischio I contratti OTC sono contratti bilaterali privati stipulati tra due parti direttamente, cioè senza transitare in un mercato organizzato (off exchange). Le finalità dei contratti OTC sono le stesse dei contratti sui mercati regolamentati, cioè la diversificazione del rischio. Rispetto ai contratti negoziati sui mercati organizzati, i contratti OTC non sono soggetti a tasse e imposte, non richiedono il rispetto di alcuna regola o requisito per i negoziatori. Tuttavia i contratti OTC sono soggetti al rischio di liquidità, ovvero all’incapacità di vendere un asset quando necessario, e al rischio di controparte, vale a dire al rischio che uno dei soggetti coinvolti nel contratto fallisca prima della regolazione dello stesso. Tali eventualità, come dimostrato dai fatti del 2008, possono accrescere il rischio sistemico e indurre una vera e propria crisi finanziaria globale. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 47 economia Cipro | Nicosia e i compiti a casa C ipro è la terzultima economia tra quelle dei 17 Paesi che hanno aderito all’euro. Fino all’esplosione della crisi del 2008, il Paese ha registrato un periodo di elevata crescita economica (3,5% annuo in media dal 2000) e di bassa disoccupazione (3,6%), con un debito pubblico pari al 48% del PIL. Nel 2009, il propagarsi della crisi provocata dal fallimento del sistema dei mutui sub-prime ha prodotto una riduzione dell’1,9% del PIL che il governo cipriota ha cercato di contrastare attraverso un pacchetto di misure espansive (4% del PIL). Tuttavia l’elevata esposizione delle banche cipriote in titoli del debito greco, la caduta dei prezzi delle abitazioni e il deprezzamento di alcune valute, 48 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 rilevanti per i flussi turistici che contribuiscono al 10% del PIL, hanno vanificato la tenue ripresa del 2010 (1,1% nel 2010 e 0,5% nel 2011). Nel 2012, la contrazione nel settore delle costruzioni, le difficoltà del turismo e le ingenti perdite subite dalle banche cipriote (4,5 miliardi di euro sul debito sovrano della Grecia) hanno duramente colpito la convalescente economia cipriota determinando una riduzione del PIL (-1,2%), un drastico aumento del tasso di disoccupazione (12,9%), una rilevante crescita del debito pubblico (74%) e la difficoltà nel ridurre il deficit pubblico. Le problematicità cipriote sono state prontamente registrate dalle agenzie di rating internazionali che, a più riprese, hanno declassato il debito sovrano avvicinandolo pericolosamente al livello di spazzatura (Moody da Ba3 a Ba1, Standard & Poor’s da BB a B). Con l’accesso al mercato del debito precluso, un’economia in recessione, banche da ricapitalizzare, Cipro ha chiesto e, dopo una lunga negoziazione, ottenuto dalla BCE e dal FMI un prestito di 17,5 miliardi di euro, cifra equivalente al suo PIL annuo. Tuttavia, i provvedimenti richiesti dalla Troika per la concessione del prestito (aumento dell’età pensionabile e delle tasse su alcolici e tabacchi, crescita di due punti dell’IVA, blocco delle indicizzazioni, blocco degli stipendi, etc.) non solo hanno provocato un’ondata di scioperi, ma rischiano di aggravare la crisi e far esplodere il debito pubblico (140%160% del PIL). Considerando economia Lo studio FMI Anche con l’aiuto esterno, per Cipro il problema è sempre quello: il debito sovrano. Può la crescita economica salvare questo Paese? che il sistema bancario cipriota è molto sviluppato (oltre 152 miliardi di asset, pari a più di otto volte il PIL nazionale), un eventuale salvataggio dal default sarebbe estremamente costoso (“Too Big To Save”) e potrebbe innescare una nuova violenta crisi dell’euro. È inevitabile che ciò accada o si potrebbe pensare a politiche economiche diverse per tenere sotto controllo il rapporto debito pubblico-PIL, senza strozzare l’economia? Sul tema della riduzione del debito pubblico, quando approssima o supera la soglia del 100%, e della crescita economica, il FMI recentemente ha pubblicato uno studio. L’analisi prende in esame gli effetti delle diverse politiche adottate negli ultimi cento anni per contrastare l’esplosione del debito pubblico. Dopo un esame dettagliato di quanto accaduto in sei Paesi (Regno Unito, Stati Uniti, Belgio, Canada, Italia e Giappone), l’analisi giunge alla conclusione che «solo la crescita economica può consentire una riduzione permanente del rapporto debito pubblico-PIL e che la crescita economica va associata a politiche monetarie espansive e a svalutazioni del tasso di cambio, giacché solo in quel contesto le riforme strutturali e i sacrifici imposti ai Paesi possono avere effetti permanenti». Ma se le politiche economiche attuate negli USA di Obama e nel Giappone di Abe (spesa pubblica e politica monetaria espansive) vanno in questa direzione, nell’area dell’euro la priorità è attribuita al “fare i compiti a casa” e gli effetti di queste diverse scelte sono evidenti per tutti. L o studio pubblicato nell’ottobre scorso dal FMI consente di avanzare alcune interessanti osservazioni. La prima è che un debito pubblico superiore al 100% del PIL ha riguardato, almeno una volta, la metà dei Paesi presi in esame (11 su 22). La seconda è che non esiste alcuna correlazione tra riduzione del debito pubblico e crescita economica nei casi esaminati. La terza, infine, è che non c’è un livello soglia nel rapporto debito pubblico-PIL che consenta di distinguere situazioni buone e cattive. Il rapporto assume che la dinamica del rapporto debito pubblico e PIL dipende da quattro variabili fondamentali: il tasso d’interesse sul debito, il tasso d’inflazione, il tasso di crescita del PIL e il rapporto deficit primario (deficit al netto della spesa per interessi) e PIL. I risultati - Lo stock di debito pubblico risponde molto debolmente alla crescita del bilancio primario: se infatti l’avanzo primario è, in media, del 2,4% del PIL, quando il rapporto debito pubblico-PIL si riduce, è dell’1,2% quando il rapporto debito pubblico-PIL cresce; - i tassi d’interesse reali e il tasso di crescita del PIL sono le due variabili fondamentali nella spiegazione della dinamica del rapporto debito pubblico-PIL; - il ruolo dell’inflazione nel ridurre il debito pubblico è incerto, anche se un’iperinflazione riduce fortemente il debito; - sembra essere più importante il trend del rapporto debito pubblicoPIL piuttosto che il suo livello. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 49 duRa lex Sotto la lente del diRitto Il reato di corruzione internazionale Draconian L e recenti vicende giudiziarie che vedono coinvolti, anche a livello internazionale, due tra i principali gruppi industriali italiani - ENI e Finmeccanica - impongono un approfondimento delle problematiche connesse al coinvolgimento dell’azienda nel procedimento penale avente ad oggetto il reato di corruzione internazionale commesso da soggetto collocato in posizione qualificata nell’ente e in presenza di un interesse o vantaggio dell’ente medesimo alla commissione del reato, oppure da quanti, pur non trovandosi in rapporto organico con la società, abbiano agito nell’interesse di questa: è il caso dell’agente/rappresentante che compie attività illecite per assicurarsi l’acquisizione di commesse, ovvero del “consulente”, persona fisica o giuridica, che s’interpone fittiziamente e illecitamente nel processo acquisitivo di un contratto di fornitura. 50 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 I risvolti possibili in ambito aziendale sono molteplici, soprattutto sotto il profilo delle risposte “sanzionatorie” previste dal nostro ordinamento e, in particolare, dalla normativa sulla responsabilità per illecito amministrativo dipendente da reato. LA VICENDA La compagnia Snamprogetti Netherlands facente capo a Saipem, società di ingegneria e costruzioni petrolifere controllata dal gruppo Eni, ha fatto parte dal 1994 al 2004 del consorzio petrolifero internazionale TskJ - joint venture guidata dall’americana Halliburton e partecipata dalla texana KBR, dal gruppo italiano ENI, dalla giapponese Jgc e dalla francese Technip - che avrebbe versato, nell’arco del decennio, 182 milioni di dollari in tangenti per corrompere politici, capi di Stato e alti funzionari del governo nigeriano al fine di aggiudicarsi l’autorizzazione a costruire sei grandi impianti di trasporto e stoccaggio di gas liquefatto del giacimento nigeriano di Bonny Island, nel sud del Paese: sei miliardi di dollari le provviste per ENI. Scoppiato lo scandalo delle tangenti, la Commissione per i crimini economici e finanziari della Nigeria (EFCC), nel novembre del 2010 ha concesso l’autorizzazione alla perquisizione degli edifici della Halliburton a Lagos, consentendo l’arresto di dieci impiegati e due direttori dell’azienda, dell’amministratore delegato della Saipem, l’italiano Giuseppe Surace, e dell’omologo francese della multinazionale Technip. Per regolare le pendenze con la giustizia locale, Snamprogetti - controllata di Saipem, a sua volta controllata di ENI - e altri due membri del consorzio petrolifero, patteggiano con la procura di Abuja una maxi multa pari a quasi 30 milioni di dollari (oltre a 2,5 milioni di dollari destinati al rimborso spese e ai costi legali sostenuti dal governo nigeriano). La cosa però non finisce qui. L’inchiesta sulle tangenti ha indotto ENI a transigere con il Dipartimento della giustizia USA e la Sec (Security and Exchange Commission cioè la Consob americana) il pagamento di una multa pari a 365 milioni di dollari per violazione della legislazione americana. Non altrettanto è accaduto in Italia: la Procura di Milano ha infatti avviato un procedimento penale per il reato di corruzione internazionale (nel cui ambito è stata emessa sentenza di prescrizione) nei confronti di cinque manager di Snamprogetti e della stessa Saipem per aver, quale persona giuridica, violato la legge 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti per reati commessi dai dirigenti nell’interesse dell’azienda (procedimento ancora in corso). E in tale ultimo contesto era stata altresì richiesta l’applicazione della misura interdittiva volta a vietare a ENI e Saipem di stipulare contratti con la pubblica amministrazione nigeriana. Il copione è destinato a riproporsi nelle inchieste per corruzione internazionale in corso su Finmeccanica e sue controllate, concentrate sulla fornitura di elicotteri e armi all’estero e avviate dalle Procure di Napoli e Busto Arsizio, che hanno determinato l’iscrizione della holding nel registro degli indagati per aver, quale persona giuridica, violato la legge 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti per reati commessi dai dirigenti nell’interesse dell’azienda. Tre i filoni sui quali si indaga: Panama - l’inchiesta riguarda le forniture effettuate da tre società del gruppo Finmeccanica AgustaWestland, Selex e Telespazio, al governo panamense nell’ambito di accordi stipulati con lo Stato italiano. Brasile - si indaga sulla fornitura, per un ingentissimo importo, di navi fregata. India - si indaga sul pagamento di presunte tangenti sul contratto di vendita di 12 elicotteri Agusta Westland al governo indiano. RIFLESSI SULL’ORGANIZZAZIONE AZIENDALE Il tema della responsabilità dell’ente per l’illecito amministrativo dipendente dal reato di corruzione internazionale tanto comunitaria quanto extracomunitaria, in quest’ultimo caso, con tutte le limitazioni previste dalla legge e sempre che ricorrano gli ulteriori presupposti dell’ottenimento di un vantaggio indebito e del compimento della condotta nell’ambito di un’operazione economica internazionale - impone di “ripensare” i modelli di organizzazione aziendale nella prospettiva di implementarne l’efficacia prevenzionistica in presenza di condotte analoghe a quelle contestate ad ENI e Finmeccanica. Infatti, verificata la realizzazione dei presupposti costitutivi del reato di corruzione internazionale da cui dipende l’illecito a carico dell’ente, occorrerà poi verificare la sussistenza degli elementi richiesti in generale dagli artt. 5, 6 e 7 d.lgs. 231/2001 per la sussistenza di qualsiasi illecito dipendente da reato, (compreso l’illecito di cui all’art. 25, comma 4). Tali elementi sono: a) la posizione qualificata dell’autore del reato nell’ente; b) la sussistenza di un interesse o vantaggio dell’ente medesimo alla commissione del reato; c) la mancata adozione di un modello organizzativo, idoneo a prevenire la commissione di detti reati, efficacemente implementato; d) la fraudolenta elusione del modello da parte dei soggetti apicali o un’insufficiente vigilanza da parte dell’organo di controllo. La particolarità delle dinamiche legate ai fenomeni di corruzione internazionale impone, quindi, per un verso di adeguare i modelli organizzativi mediante il ricorso a canoni di best practices che tengano conto della vocazione transnazionale dell’azienda; per l’altro, di potenziare la funzione di controllo attribuita all’organismo di vigilanza, mediante l’affiancamento di un organo tecnico in grado di monitorare ogni fase del processo di acquisizione della commessa, fungendo da deterrente sia ad eventuali attività illecite di agenti e rappresentanti, sia all’interposizione fittizia di consulenti e intermediari. LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 51 un libRo al meSe a cuRa di @Roccobellantone coSì dicono Castro’s Secrets Palgrave Macmillan, 2012 pp. 288 A quasi due anni dall’ufficiale uscita di scena dalla vita politica cubana, la figura di Fidel Castro continua a far discutere: per il peso che continua ad avere negli equilibri geopolitici internazionali e, soprattutto, per un’eredità ingombrante con cui tutti, nessuno escluso, avranno a che fare ancora a lungo. Né sanno qualcosa gli Stati Uniti, la cui storia durante e dopo la Guerra Fredda è indissolubilmente legata a quella del leader máximo. Un “flirt” su cui torna a indagare il libro Castro’s Secrets: the CIA and Cuba’s Intelligence Machine, pubblicato recentemente dalla casa editrice Palgrave Macmillan. L’autore è Brian Latell, impegnato nei primi anni Sessanta in attività di monitoraggio su Cuba per conto della CIA e oggi senior research presso l’Istituto di Studi Americani Cubani all’Università di Miami. In questo suo nuovo volume, Latell tira fuori gli scheletri dall’armadio di Castro e della CIA, setacciando la pista che ha collegato per anni Washington all’Avana. E a tornare a galla sono notizie esclusive sullo spionaggio e sul controspionaggio cubano. Verità sinora nascoste, a cui Latell arriva parlando con il disertore Florentino Aspillaga Lombard, per anni a capo del centro di intelligence cubano a Praga. E, tra le sue dichiarazioni scottanti, emerge una verità che, se confermata, potrebbe sconvolgere il copione della Storia per come l’abbiamo conosciuta finora: Fidel, e molto probabilmente anche suo fratello Raul, sapevano che Lee Harvey Oswald avrebbe tentato di assassinare il presidente Kennedy a Dallas. 52 LOOKOUT n. 1 febbraio 2013 “ Ho lasciato incompiute una quantità di cose. Ma questo è naturale. E, a proposito, vale la pena di ricordare che in francese il passato si chiama imperfetto. chaRleS de gaulle C ” harles André Joseph Marie de Gaulle (1890-1970), generale di brigata e politico francese, è stato per la Francia “l’homme qui dit non”, cioè l’uomo che volle dire “no” al Terzo Reich di Adolf Hitler e che, dopo aver visto la sua patria invasa e sottomessa, organizzò la lotta di resistenza contro l’occupazione tedesca e contro la Repubblica di Vichy. La sua proverbiale tenacia e il suo carattere forte - condivideva una grande stima con Churchill e un rispettoso odio con Roosevelt - contribuirono a rinsaldare il sentimento patriottico tra i francesi e a credere nella vittoria finale. Nessuno meglio di De Gaulle ha espresso nel Novecento l’orgoglio della Francia, intriso di quel nazionalismo e di quella grandeur che da sempre contraddistingue questo Paese. Oggi, che la Francia insegue nuovamente il passato con le guerre in Nord Africa, il risultato è lo stesso che descriveva il generale: imperfetto. G-risk, società italiana di security e intelligence, nasce a Roma nel 2007 da una fertile partnership tra analisti ed esperti di istituzioni nazionali ed estere dedicate alla prevenzione e alla gestione del rischio. Sostenuta da capitali privati - che ne assicurano la piena autonomia gestionale - GRisk dispone di numerose sedi operative in Italia e nel resto del mondo: roma, Genova, Beirut, riyadh, Karachi, la Paz, Bogotá, caracas, Montreal. realmente le attività aziendali e gli asset strategici, umani e tecnologici. La strategia di G-Risk si basa sulla stretta integrazione tra team di analisi strategica e gruppi operativi in grado di intervenire in qualsiasi momento in aree domestiche e internazionali. Le nostre unità sono presenti nelle maggiori aree critiche del pianeta per investigare sulle realtà locali con cui la società cliente desidera intraprendere attività e relazioni commerciali, otteLa nostra mission è garantire la sicurezza prima nendo tutte le informazioni necessarie nel minor che qualsiasi minaccia possa compromettere tempo possibile. www.grisk.it