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anno I - n. 1 febbraio 2013
La pistola
fumante
Successi e segreti
dell’intelligence
cubana, da Dallas
al Venezuela
SicuReZZa
La frontiera dei Patriot
|
geopolitica
La minaccia di Boko Haram
|
economia
UK e Tobin Tax
Siamo un’impresa integrata nell’energia e nell’ambiente, impegnata a crescere nelle attività di
sviluppo, progettazione, realizzazione e manutenzione di grandi impianti industriali, nonché
nelle attività di ricerca di nuove fonti energetiche alternative innovative ed eco-compatibili.
La nostra Mission è creare e distribuire valore nel settore energetico ed ambientale al fine di
soddisfare le esigenze dei Clienti, la competitività dei territori in cui operiamo, e le aspettative
di tutte le persone che collaborano con noi.
www.generalspa.it
SommaRio
SicuReZZa
8 I migliori servizi
del Continente
14 Il servizio cubano
e il “caso Kennedy”:
coincidenze
imbarazzanti
18 Uno sguardo oltre
il confine
20 Boko Haram e una
RubRiche
terra spaccata a metà
22 Green on blue
geopolitica
26 Nel cuore instabile
14
dell’Africa
30 Le nuove rotte
del narcotraffico
32 I cartelli della droga
34 Ritratto di famiglia
36 Aspetta e spera
economia
40 Mr. Cameron a chi
la dà a bere?
48 Nicosia e i compiti
a casa
16
a diRe il veRo...
L’analisi
di approfondimento
24
politicamente
ScoRRetto
Quello che gli altri
non dicono
38
l’anaRchico 2.0
Storie di ordinaria eversione
46
do you SpRead?
Voci dal mercato globale
50
duRa lex
Sotto la lente del diritto
inoltRe
6
mappamondo
40
52
un libRo
al meSe
52
coSì dicono
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
3
Un buon inizio
N
elle poche settimane trascorse dalla messa online
del nostro nuovo portale e del numero zero di questo magazine, la nostra iniziativa editoriale ha ricevuto un lusinghiero riscontro da parte di una non
marginale platea di lettori e di visitatori. Oltre tremila visite con singoli tempi di permanenza superiori ai dieci minuti, segnalano una lettura attenta da parte di chi ci segue. Fatto
che si è replicato anche su Facebook e Twitter, dove LookOut News
continua ad essere seguito con interesse. Sapevamo sin dall’inizio
di rivolgerci a una platea di lettori affamati di cultura geopolitica
e quindi non necessariamente “di massa”. I contatti e i commenti
ricevuti ci dicono che siamo sulla strada giusta, che è quella di tentare di aggiornare costantemente chi ci segue con informazioni
analitiche e di proporre riflessioni più approfondite con scadenza
mensile su temi originali e di forte interesse e attualità nei settori
che appartengono al nostro orizzonte professionale: la sicurezza,
la geopolitica e l’economia.
Anche in questo numero 1 del magazine, troverete interventi originali e interessanti. L’attenzione si focalizza sul Sud America e su temi
di attualità che interessano un sub continente in continuo movimento. Inquadriamo il ruolo di potenza regionale che Cuba è riuscita ad
assumere nonostante decenni di embargo statunitense, integrando
l’analisi con una riflessione sui servizi segreti cubani e su parti oscure
della loro storia, ad iniziare dall’omicidio di John Kennedy.
Non trascuriamo, tuttavia, di mantenere viva l’attenzione su focolai di crisi come la Nigeria di Boko Haram e su una Turchia che
nello scacchiere mediterraneo e mediorientale sta assumendo un
peso strategico sempre maggiore. Le velleità “secessioniste” della
Gran Bretagna rispetto all’Eurozona non potevano non suscitare
la nostra attenzione e meritavano un’approfondita analisi sulle implicazioni di un’uscita dall’Europa da parte del Regno Unito.
Fin da questo primo numero, come noterete, abbiamo cominciato un
dialogo con i lettori più attenti che ci hanno voluto interrogare e sottoporci le loro riflessioni. Un’ultima considerazione, legittimamente orgogliosa in quanto indicativa di un certo primo successo editoriale. Sfogliando il magazine vedrete che le pagine che nel numero precedente
recavano la scritta “a disposizione per eventuali inserzioni pubblicitarie”
si sono tutte riempite grazie a prestigiosi inserzionisti che hanno creduto nella nostra scommessa. È un successo concreto e un buon inizio.
mario mori
inbox
il diRettoRe editoRiale RiSponde
Black out Brasile
Shale gas: l’Italia che fa?
La notizia pubblicata circa un
possibile blackout elettrico del
Brasile è vera. L’elemento chiave della vicenda andrebbe però
ricercato nel tentativo del presidente Dilma Rousseff di avere
maggiori consensi e un più ampio coinvolgimento politico e sociale sul tema legato alla costruzione della diga di Belo Monte,
in quanto alcune aree politiche
locali del Nord del Paese ne stanno contrastando la realizzazione.
Si tratta di un mega progetto con
un preventivo di spesa elevatissimo sul quale sono interessate diverse imprese internazionali. Un
altro aspetto da approfondire riguarda l’accordo con il Paraguay
per il potenziamento produttivo
della diga di Itaipu. Tra l’altro,
nell’ultimo anno, proprio grazie
alla corretta politica energetica
nazionale, le tariffe in Brasile sono diminuite di circa il 20%.
Ludovico
In merito al vostro articolo sulle nuove ricerche petrolifere al largo
della costa orientale della Nuova Zelanda, mi chiedo come mai l’Italia, piuttosto che investire su queste nuove frontiere, stia ferma a
guardare. Che fa l’Eni? Perché non si concentra sullo shale gas?
Giovanni
Che la crescita del Brasile comporti un costante aumento dei
consumi di energia lo dicono le
statistiche. Tuttavia, la sua riflessione sulla strategia politica della presidente Rousseff centra un altro aspetto del problema, vale a dire quello
della ricerca del sostegno politico per
progetti di forte impatto ambientale.
Sia la costruzione della diga di Belo
Monte che il potenziamento dell’impianto di Itaipu, in Paragauay, dovranno superare resistenze e paure
ambientaliste. In questo caso la minaccia del black out può giocare anche un ruolo politico. In ogni caso il
percorso appare accidentato anche se
il governo brasiliano sembra avere le
risorse per superarlo in sicurezza.
In realtà l’Eni si è mossa seppur in ritardo. In tema di shale gas ha stretto
una joint venture per svolgere ricerche in Polonia, con un’industria locale. L’Eni ha un know how formidabile nel campo della ricerca e dell’estrazione di gas da giacimenti tradizionali. Probabilmente preferisce “giocare sul sicuro” almeno per i prossimi anni, vista l’entità dei nuovi giacimenti scoperti
al largo delle coste del Mozambico. Il disastro Saipem, che il 30 gennaio ha visto
il titolo crollare in Borsa del 34% dopo che il management aveva comunicato
un dimezzamento dei profitti nell’ultimo biennio, potrebbe convincere l’ENI a
guardare con più attenzione allo shale gas. Comunque, un po’ di coraggio non
guasterebbe.
Mamma li turchi!
Credo che la Turchia in prospettiva sia uno Stato con cui si dovranno fare i conti. La sua politica estremamente aggressiva in molti continenti, compreso quello africano, la porterà a essere una nazione di primaria grandezza geopolitca. Non sarebbe il caso di dargli più spazio?
Raffaella
Siamo d’accordo sull’importanza della Turchia e, come noterà, sia
nella “striscia quotidiana” che nel media briefing settimanale ce ne occupiamo spesso, specie quando parliamo della Siria. Misteri della telepatia:
in questo numero troverà proprio un articolo sulla Turchia.
Anno I - Numero 1 - febbraio 2013
DIRETTORE RESPONSABILE
Luciano Tirinnanzi
@luciotirinnanzi
[email protected]
EDITORE
G-Risk - CEO Giuseppe De Donno
Via Tagliamento, 25 00198 Roma
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REDAZIONE
Rocco Bellantone
Dario Scittarelli
Cristiana Era
Marta Pranzetti
DIRETTORE SCIENTIFICO
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DIRETTORE EDITORIALE
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Registrata presso il Tribunale di Roma n. 13/2013 del 15/01/2013
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
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mappamondo
cuba:
online con alba-1
Solo il 2,9% dei cubani ha libero
accesso al web, ma guai a pensare che L’Avana sia in modalità offline, perché recentemente è stata registrata un’attività insolita
sulle connessioni Cuba-Venezuela. Ciò è dovuto al cavo sottomarino ALBA-1, acronimo di “Bolivarian Alternative for the Peoples of Our America-1”: un progetto costato 70 milioni di dollari
per bypassare l’embargo statunitense e permettere così a Cuba
di tornare a galla anche in rete.
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LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
iSlanda-ue:
dentro o fuori?
In attesa di scoprire chi vincerà
le elezioni presidenziali del 27
aprile, l’Islanda ha deciso di
congelare le trattative per l’ingresso nell’Unione Europea. La
strada sembra comunque in salita, visto che i sondaggi danno
per favorito il Partito dell’Indipendenza, schierato su posizioni antieuropeiste. La scelta spetta ai 315mila cittadini islandesi:
meglio inchinarsi all’UE o continuare a vivere in un felice isolamento?
mali:
salvi i manoscritti
di timbuctu
Mentre le truppe francesi avanzano per riprendersi il Mali, la cultura tira un sospiro di sollievo, almeno per ora. La maggior parte degli antichi manoscritti di Timbuctu è infatti rimasta intatta. A dare
la notizia è stato un esperto dell’Università di Cape Town, secondo il quale il 95% degli oltre
300mila manoscritti è rimasta illesa. Il timore era che finissero nelle
mani delle milizie jihadiste, che a
lungo hanno controllato la città.
nigeRia:
Shell colpevole,
ma non troppo
Una corte olandese ha riconosciuto la responsabilità di Shell
Nigeria nell’inquinamento del
Delta del Niger. Nessuna sanzione però per la casa madre, che
secondo la legge nigeriana non
ha l’obbligo di impedire alle sue
affiliate “di fare danni a terzi”.
Beffa per gli ambientalisti, che
speravano in un verdetto di colpevolezza che avrebbe creato un
precedente per la responsabilità
dei colossi dello sfruttamento
energetico.
iSRaele:
fischer si dimette.
nuova grana
per netanyahu
Il dopo elezioni di Benyamin
Netanyahu non è affatto tranquillo. Superato lo scoglio delle
urne con una maggioranza risicata, il primo ministro dovrà anche pensare a come sostituire
Stanley Fischer. Il governatore
della Banca d’Israele si è infatti
dimesso con due anni di anticipo rispetto alla scadenza naturale del suo mandato. E la reazione negativa dei mercati non si è
fatta attendere.
coRee:
botta e risposta
tra nord e Sud
sul nucleare
Se la Corea del Nord tiene in
apprensione il mondo con i
suoi test nucleari, i dirimpettai
del Sud di certo non stanno a
guardare. Dal centro spaziale di
Naro, Seoul ha mandato in orbita il suo primo satellite scientifico. La missione, condotta in collaborazione con la Russia, si chiama Korea Space Launch Vehicle1 (KSLV-1), e dopo due tentativi
falliti nel 2009 e nel 2010, stavolta è finalmente riuscita.
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Cuba
La più potente
intelligence
del mondo
Il DGI e il caso
Kennedy
Turchia
Il punto sui Patriot
al confine siriano
Nigeria
Boko Haram e il
dramma dei civili
Afghanistan
Green on blue e
fuoco “amico”
La mappa originale di Cuba del 1962,
dove il Presidente Kennedy ha segnato
di suo pugno gli avamposti missilistici
durante la crisi
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LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
SicuReZZa
I
Cuba |
I migliori
n molti Paesi del mondo,
gli organismi di intelligence cambiano nome
e sigla a seconda degli
umori politici dei loro
clienti istituzionali, che spesso
ne modificano la denominazione
quando una sigla “storica” diviene imbarazzante anche per
eventuali incidenti di percorso
che consigliano un maquillage
dei nomi per far dimenticare
“malefatte” o “deviazioni” (è il
caso, ad esempio della Ceka sovietica che, identificata con il
“terrore rosso” della rivoluzione
e della guerra civile, ha cambiato
nome varie volte fino ad arrivare,
negli anni del disgelo, a quello
di KGB, Comitato per la Sicurezza dello Stato).
Anche l’intelligence cubana ha
subito diverse evoluzioni formali e organizzative, dai tempi
della rivoluzione a quelli della
presa del potere da parte di Fidel
Castro e poi ancora nei decenni
successivi: la sigla storica DGI
(Direccion General de Intelligencia) non viene più usata, la
più recente è DI, Departamento
de Intelligencia. Per evitare di
confondere e annoiare il lettore,
servizi
del Continente
Gli aiuti sovietici prima, quelli di
Chavez poi e infine i servizi segreti di
Castro, hanno salvato una piccola e
povera nazione, trasformandola in una
potenza regionale. Ci concentriamo
qui sull’ultimo dei fattori di crescita
di Cuba che abbiamo preso
in considerazione: i servizi segreti
in questa breve storia dell’intelligence castrista parleremo,
semplicemente, di servizi segreti cubani.
Il racconto, vista la bravura con
la quale Cuba è riuscita a proteggere i propri segreti da tutti
i tentativi di penetrazione diretta
occidentale (in cinque decenni,
la CIA americana non è riuscita
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a piazzare neanche una fonte umana all’interno
degli apparati cubani), si basa su quanto riferito
da alcuni defezionisti di rilievo che sono riusciti a
fuggire negli Stati Uniti. Il più importante tra questi è sicuramente Rodriguez Menier, compagno di
lotta di Fidel fin dal 1954, membro dei servizi che
all’apice della carriera ha ricoperto anche il posto di funzionario di collegamento con la Germania dell’Est. Menier ha defezionato nel 1987 e si
è rivelato una fonte preziosa per darci un quadro
delle eccellenti capacità del regime cubano di
controllare e reprimere il dissenso interno e di
disseminare tutto il continente americano di spie
e agenti di influenza, in grado non solo di informare i vertici dell’Avana ma anche di controllare
e pilotare il processo decisionale di governi dell’area, sia amici che nemici.
Cuba, pur essendo un paese piccolo, con un’economia traballante e non in grado di assicurare condizioni economiche adeguatamente agiate alla sua
popolazione, ha sempre stanziato e stanzia tuttora
fondi che in proporzione superano di gran lunga
il budget dell’intelligence degli Stati Uniti per le attività di sicurezza e di spionaggio, sia all’interno
che all’estero. Sotto l’aspetto degli investimenti in
sicurezza e intelligence, oggi Cuba può essere considerata l’Israele del continente americano.
Il nuovo servizio, secondo la testimonianza resa
di fronte al Senato degli Stati Uniti da Gerardo
Peraza, un ex dirigente fuggito in America, aveva
ed ha avuto come obiettivo principale la raccolta
di informazioni negli Stati Uniti e l’infiltrazione
della CIA attraverso falsi esuli e doppi agenti
reclutati da Langley per spiare Castro e le sue
attività. Secondo Peraza e altri defezionisti,
nessuna delle fonti e nessuno degli
agenti cubani reclutati dalla CIA
era “sinceramente” al servizio degli
Stati Uniti: il padrone reale rimaneva sempre Castro. Anche in altri
Paesi dove operavano sotto copertura diplomatica gli agenti cubani,
dalla Gran Bretagna al Canada,
l’obiettivo principale restavano gli
USA. Secondo Peraza, “tutti i diplomatici inviati da Cuba negli Stati
Uniti (all’Onu, visto che Washington e l’Avana non hanno relazioni
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LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
diplomatiche, ndr). La missione cubana alle Nazioni Unite è la terza in ordine di grandezza rispetto
a tutti gli stati del mondo [...] e la metà di tutto il
personale della missione è composta da funzionari del DGI che, tra gli altri compiti, hanno
quello di reclutare agenti nella comunità degli
emigrati cubani. Il servizio, peraltro, ha sempre
usato il flusso di rifugiati da Cuba verso gli Stati
Uniti per inviare agenti sotto copertura in territorio americano...”. Secondo il già citato Brian Latell della CIA, inoltre, “la macchina per la raccolta
delle informazioni costruita dall’Avana è una delle quattro o cinque migliori del mondo...”.
Grazie a questa macchina, i cubani sono stati
sempre un passo avanti alle iniziative clandestine
condotte dagli americani contro Cuba: dalla disastrosa avventura della Baia dei Porci (1961) ai ripetuti e fantasiosi tentativi di assassinare Fidel Castro organizzati dalla CIA con l’aiuto di Cosa
Nostra, i servizi cubani conoscevano in
anticipo le mosse USA e le fecero fallire.
Un altro famoso disertore del DGI, Jesus
Mendez, ha dichiarato che “la quasi totalità
degli agenti reclutati dalla CIA fin dall’inizio
SicuReZZa
degli anni Sessanta lavorava agli ordini di Fidel Castro” mentre il suo collega Florentino Aspillaga
Lombard, che defezionò nel 1987, contribuì a identificare 35 agenti doppi cubani che erano riusciti a
passare tra le maglie del reclutamento, superando
anche il test alla macchina della verità. Su questo tema, Aspillaga ha raccontato che tutti gli agenti destinati a infiltrare i servizi americani venivano addestrati alle tecniche per ingannare il poligrafo.
Con la caduta dell’Unione Sovietica, i legami e le
strategie d’intervento coordinate tra Mosca e
l’Avana si sono allentate e Cuba si è concentrata
sui vicini sudamericani per consolidare il suo
Cuba si è progressivamente
concentrata sui vicini
sudamericani per consolidare
il proprio ruolo di potenza regionale
ruolo di potenza regionale e proseguire comunque la sua guerra di spie contro gli Stati Uniti,
grazie a mezzi più evoluti. Per questo i servizi cubani hanno stabilito ottime relazioni con i gruppi
guerriglieri latino-americani (prime tra tutte le
FARC colombiane) che svolgono ormai il doppio
lavoro di lotta ai regimi e di narcotrafficanti.
Comperando cocaina, spesso pagata a bassissimo
prezzo con forniture di armi, il DGI raggiungeva
un duplice scopo: rifornirsi di valuta pregiata,
spedendo la droga dalle coste e dagli aeroporti
cubani verso gli Usa, e indebolire il nemico storico
“infettandolo” con la coca.
I fratelli Castro
con il cosmonauta cubano
Arnaldo Tamayo Mendez
e il cosmonauta sovietico
Yuri Romanenko
di ritorno dalla missione
Soyuz 38
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Una fonte cubana che preferisce restare anonima afferma che “Cuba ha bisogno dei dollari e
anche dei beni di consumo che possono essere
offerti dai colombiani e il quid pro quo consiste
nell’offrire ai cartelli della coca la possibilità di
fare ottimi affari trasportando la loro droga attraverso Cuba”. Carlo Leheder Rivas, uno dei fondatori del Cartello di Medellin, che sta scontando
una condanna a 135 anni di carcere, ha ammesso
durante il suo processo negli Stati Uniti: “Senza il
permesso di Fidel io non avrei mai potuto lavorare
a Cuba”. Di fronte alla corte federale ha poi affermato di avere incontrato due volte Raul Castro per
concordare le modalità d’uso dello spazio aereo
cubano per i voli della coca verso gli Sati Uniti.
Con mezzi clandestini e illegali, dunque, i servizi
cubani lottano contro il loro avversario di sempre, contribuiscono al benessere dell’isola col
traffico di stupefacenti e, grazie ai contatti con
personaggi come il presidente venezuelano Chavez - supporter storico di Castro al quale fornisce
petrolio a prezzi stracciati (e questo spiega perché i cubani tengono tanto alla salute del presidente venezuelano) - contribuiscono a rafforzare
il ruolo della piccola Cuba come potenza regionale con la quale tutti, in centro e sud America,
debbono e dovranno fare i conti.
Per quanto riguarda il rapporto con gli Stati Uniti, in una recente intervista, Ricardo Alarcon,
presidente dell’Assemblea nazionale cubana e secondo in importanza all’Avana soltanto a Raul
Castro, ha descritto il lavoro degli agenti segreti
cubani come essenziale a garantire “a uno stato sovrano di difendersi”. Alla domanda se Cuba continuerà a inviare agenti negli Stati Uniti, Alarcon ha
risposto così: “Sì, con la esse maiuscola!”.
Il dizionario
L’ex ufficiale CIA, Brian Latell, aveva una fonte cubana, Florentino Aspillaga, ufficiale pluridecorato della Direzione generale dei servizi segreti (DGI), che
disertò nel 1987. Queste le sue più importanti informazioni sui segreti di Cuba:
Castro sapeva dell’attentato al presidente Kennedy già nell’ottobre 1963. Cuba
aveva un “supertalpa” nel governo di Washington che potrebbe essere ancora
al suo posto. Le forze militari e l’intelligence svolsero un ruolo chiave nel rovesciamento del governo di Anastasio Somoza in Nicaragua nel 1979. Terroristi
cileni furono addestrati da Cuba per assassinare il presidente del Cile Augusto
Pinochet. Hugo Chavez del Venezuela e/o suo fratello Adan sono stati reclutati
da anni dall’intelligence cubana e i servizi segreti venezuelani oggi operano in
aggiunta al DGI.
L’attentato a Oswald
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LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
gli ScenaRi poSSibili
la tRanSiZione del veneZuela
Orfani di “líder”
D
opo che il presidente Hugo Chávez ha lasciato il
Venezuela per sottoporsi a
un’operazione per estirpare un tumore, la barra
di controllo del governo
viene lentamente affidata
ai suoi eredi politici. Si
tratta però di un’operazione molto complicata in
quanto la sua assenza ha
creato un vuoto nella leadership del Paese, dopo
14 anni di governo presenzialista e un culto della personalità che ha fatto di lui
una figura dominante in
America Latina. L’assenza
assoluta del presidente,
aveva portato i chavisti e
l’opposizione ad affrontare una situazione imprevista il 7 ottobre: risolvere la
transizione senza la presenza del capo. Lo stile di governo centralista caratterizzato da un’alta concentrazione del potere oggi
difficilmente può essere
redistribuito tra i suoi fedelissimi. Ciò nonostante,
emergono come gli architetti della transizione
post-Chávez il vice presidente e successore decretato, Nicolás Maduro, il
presidente dell’Assemblea
Nazionale Diosdado Cabello, il ministro del Petrolio, Rafael Ramirez e il
fiammeggiante cancelliere Elías Jaua.
Le prove di equilibrio tra i
quattro - che non sempre
hanno avuto buoni rapporti - e la capacità di lavorare insieme, saranno cruciali per determinare se il
Venezuela può continuare
sulle orme di Chávez del
“socialismo radicale” o se
invece il Paese evolverà
verso un esito moderato
simile all’amministrazione brasiliana della “sinistra democratica”.
L’opposizione, nel frattempo, è fortemente indignata
e ha più volte segnalato
che il Venezuela manca di
una vera guida ed è ormai
subordinata ai capricci di
Cuba - Maduro, Cabello e
Ramírez, lo scorso fine settimana si sono riuniti con
il presidente cubano Raúl
Castro - dove Chávez è sottoposto a trattamenti sotto il velo del segreto di Stato. Nicolás Maduro è visto
come un moderato appartenente al “partito del dialogo”, e ha già stabilito
contatti con Washington
dopo anni di pessime relazioni con gli Stati Uniti.
Potrebbe dunque essere
lui a riconciliarsi con l’opposizione, ma in questo
modo il rischio di scatenare l’ira dei radicali è alto.
Nel frattempo, potrebbero prodursi fatti violenti
nei prossimi giorni, da
quando il PSUV ha chiamato tutti alla “presa” di
Caracas. L’opposizione
si può lamentare quanto
vuole, ma resta il fatto
che le loro opinioni non
vengono prese in considerazione: il Venezuela
continua a essere un
Paese controllato dai
chavisti.
Cuba |
Il servizio cubano
e il “caso Kennedy”:
coincidenze imbarazzanti
I
servizi cubani nascono
durante la rivoluzione
castrista: nel 1958 il fratello di Fidel, Raul Castro
istituì il SIB (Servicio
de Intelligencia Basica), al cui
comando venne posto il capitano Ramiro Valdes Menendez e i
cui compiti erano due: scoprire
i traditori nelle file della rivoluzione che passavano informazioni alla polizia governativa di
Batista, e infiltrare i ranghi della polizia e dell’esercito di Batista, per acquisire informazioni
sui piani governativi e tentare
di influenzarli a favore della rivoluzione. Come si può notare,
14
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
Lee Harvey Oswald è al centro di una storia che
incrocia la scuola dei cubani di Minsk, il colonnello
del KGB Prusakov e la moglie di Lee.
Tutto questo alla vigilia dell’attentato a Dallas
i castristi avevano le idee molto
chiare sui compiti di un servizio
segreto moderno: spionaggio,
controspionaggio, controllo e
manipolazione del processo decisionale dell’avversario.
Il 10 gennaio del 1959, appena
due settimane dopo la vittoria della Rivoluzione, Castro nominò Valdes capo del Departamento de
Inteligencia del Ejercito Rebelde
(la prima delle nuove sigle...),
che stabilì la propria sede in un
enorme e moderno compound
dell’Avana, da allora conosciuto
con il nome “Direttorato”. Il
settore, in continua espansione fin dal marzo dello stesso
anno, venne posto sotto la duplice competenza del Ministero
delle Forze Armate Rivoluzionarie e del Ministero degli esteri.
A partire dal 1960, visti i rapporti
eccellenti stabiliti tra il regime
SicuReZZa
A sinistra:
la lettera inviata da Oswald
al Soviet Supremo per chiedere
asilo politico in Unione Sovietica
castrista e l’Unione
Sovietica, i funzionari dei servizi cubani vennero presi
sotto l’ala protettrice del KGB, che si
curò dell’istruzione
e dell’addestramento dei funzionari
delle nuove strutture
di sicurezza cubane.
Una delle scuole utilizzate per l’addestramento intensivo dei cubani era situata a Minsk e dal 1960 ha curato l’addestramento di trecento
agenti castristi ogni tre anni (durata media dei corsi avanzati).
Un dato curioso - che potrebbe
spalancare la porta a nuove teorie del complotto sull’assassino
del presidente Kennedy (Dallas, 22 novembre 1963) - è dato
da una strana catena di circostanze, quantomeno sorprendenti: la scuola dei cubani era
situata in via Ulianova a Minsk.
Nel ’61-’62 risiedeva a Minsk,
nell’edificio accanto alla scuola, anche Lee Harvey Oswald,
l’uomo che un anno dopo
avrebbe sparato al presidente
Kennedy. Non solo: il direttore
della scuola di addestramento
era il colonnello del KGB Ilya
Vasilievich Prusakov, zio di Marina Prusakova, ovvero la ragazza che fu presa in moglie da
Oswald e che lo avrebbe seguito negli Stati Uniti proprio alla
vigilia dell’attentato di Dallas.
Secondo le testimonianze di
defezionisti dei servizi dell’Avana che parteciparono ai corsi di
via Ulianova - e secondo quanto
lasciato scritto dallo stesso
Oswald nel suo diario - molti
giovani cubani strinsero amicizia con il giovane americano,
che manifestava simpatie per
Cuba e per Castro e che trascorreva, senza spiegazioni accettabili al riguardo, un periodo di
soggiorno in Unione Sovietica;
non per motivi di studio o di lavoro ma piuttosto “per diporto”
(in piena guerra fredda?).
Queste strane circostanze che
sembrano collegare Oswald, i
giovani “studenti” cubani e lo
zio della sua futura moglie nonché colonnello del KGB, diventano ancora più strane se le si
collega a un dato oggettivo riferito da Brian Latell (un funzionario Cia
che ha diretto il desk
Cuba negli anni ’70 e
’80) e rilevato dalle stazioni di intercettazione della National Security Agency americana il 22
novembre del 1963, nelle ore
che precedettero l’assassinio di
Kennedy. In quel lasso di tempo, il traffico radio istituzionale
tra Cuba e le ambasciate nel resto del mondo si ridusse drasticamente, mentre venne registrato un contestuale, incomprensibile e massiccio incremento del traffico radio tra
la capitale cubana e Dallas, e
viceversa.
Non è questa la sede per riaprire il dibattito sul caso Kennedy e sulle tante contraddizioni che hanno segnato il lavoro degli investigatori e della
Commissione Warren. Ma se
le coincidenze non bastano a
illuminare i misteri di Dallas,
esse possono tuttavia essere
sufficienti a indurci a guardare con sospettoso rispetto alla
possibile, micidiale, capacità
operativa dei servizi cubani e
dei loro maestri sovietici. Di
questa capacità è stata d’altronde offerta testimonianza
in tutte le sedi, istituzionali e
giornalistiche, nelle quali è
stata data voce ad esuli cubani, già agenti dell’intelligence
castrista.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
15
a diRe il veRo...
l’analiSi di appRofondimento
Lobby:
una parolaccia,
solo in Italia
Il Grigio
“
16
P
2, P3, P4... faccendiere, traffichino,
lobbista...”. Questi
termini, che nell’immaginario
collettivo hanno tutti connotati negativi, si riferiscono a
personaggi o gruppi di pressione che, solo nel nostro
Paese, svolgono in modo semi-clandestino un’attività
che negli Stati Uniti e in
tutta l’Eurozona è regolamentata e si può svolgere
alla luce del sole: il “lobbismo”. Se si chiede a un
esperto come Gianluca
Sgueo, autore del saggio
Lobbying e lobbismi, di dare
una definizione del termine, egli risponderà citando
John Kennedy: “il lobbista è
colui che mi fa capire in tre
minuti quello che i miei collaboratori mi spiegano in tre
giorni”.
Il lobbista in una democrazia
avanzata altri non è che il
consulente di clienti appartenenti a tutte le categorie
produttive, che presta la sua
opera per contribuire in
modo legittimo al processo
decisionale politico, con
informazioni e analisi che
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
ambiscono a illustrare temi ritenuti degni di essere inseriti
nelle dinamiche legislative o a
influenzare lecitamente iter
amministrativi complessi.
Solo in Italia questa attività è
considerata “borderline”, ai
confini della legalità. Perché?
La risposta è molto semplice:
perché non è regolamentata.
Negli Stati Uniti i lobbisti, fin
dalla loro comparsa nella seconda metà dell’ottocento nella Lobby del Willard Hotel
dove alloggiava, prima di trasferirsi alla Casa Bianca, il presidente Ulysses Sam Grant - sono
stati autorizzati a operare come
gruppi di pressione e consulenza con varie leggi, l’ultima delle
quali è lo Ethics Government Act
del 1978 che garantisce a questi
professionisti di operare alla luce del sole, all’interno di rigidi
confini di legalità.
A Bruxelles esiste un albo ufficiale di lobbisti autorizzati a
operare nell’ambito delle strutture comunitarie. Secondo Il
Sole 24 Ore, oggi in Italia sono
attivi circa 1.500 professionisti
del lobbying che lavorano al di
fuori di qualsiasi regola e muovono un giro d’affari di circa
150 milioni di euro. Perché nel
nostro Paese non si affronta
questo problema una volta per
tutte? Perché mettere in contatto in modo trasparente piccole,
medie e grandi imprese con i
decisori politici e con i vertici
delle amministrazioni, deve
continuare ad essere opera di
“faccendieri”? Cercare di fare
buone e chiare leggi col contributo di rappresentanti professionali di legittimi interessi imprenditoriali deve per forza
essere fatto attraverso canali sotterranei? Perché
non si prende atto a livello legislativo che è proprio la mancanza di regole che favorisce i traffichini e le P4? La risposta a queste domande potrebbe essere imbarazzante: in primo luogo si
tratta evidentemente di inerzia legislativa, forse
motivata dalla paura di un confronto con un’opinione pubblica alla quale finora il lobbismo è stato presentato con forti accenti negativi. In secondo luogo, perché forse si preferisce continuare a
operare in un’area grigia dove c’è sempre spazio,
in assenza di regole, per la corruzione e per la
concussione.
“Conoscere per decidere” dovrebbe essere il cardine fondamentale per l’azione legislativa. Ma
per “conoscere” è essenziale che il legislatore disponga delle giuste informazioni, anche provenienti da settori legittimamente interessati e non
solo dagli uffici amministrativi o dai gabinetti
dei ministri, con le quali regolare la vita e lo sviluppo del Paese. Utilizzare a questi fini dei professionisti legalmente riconosciuti (e quindi facilmente controllabili) non può che contribuire
a migliorare l’operatività del parlamento e la
morale pubblica.
La democrazia teme giustamente ciò che non viene fatto alla luce del sole. La regolamentazione
di un’attività professionale che, finché resterà
nella sua area grigia ai confini della legalità continuerà a prestare il fianco ad accuse di “piduismo”, è necessaria e urgente anche da noi. D’altronde, in Italia molte iniziative produttive sono
state sviluppate al di fuori di una cornice legislativa, con pessimi risultati anche di immagine: ricordate le TV private? Sono andate avanti per anni senza una riga di regolamento o di legge. Così
il lobbismo: uno strumento d’informazione e
consulenza che, se utilizzato alla luce del sole,
non può che migliorare il processo legislativo, anche quando vuole sostenere in modo trasparente
legittime istanze del mondo della produzione e
delle professioni.
Se questa attività verrà condannata a restare
nell’ombra, l’assenza di regole non potrà che favorire portatori di interessi ambigui, logge e cricche più o meno segrete e il lobbismo “proibito”
continuerà a essere un fattore di inquinamento
della nostra democrazia.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
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SicuReZZa
Turchia |
Uno sguardo
oltre il confine
La Turchia deve fare i conti con il transito di estremisti islamici,
il numero crescente di profughi in fuga, i movimenti curdi e una guerra
alle porte di casa che minaccia l’esistenza stessa dello Stato siriano
R
isale ormai a un
mese fa l’installazione delle 6
batterie di missili Patriot fornite
da Stati Uniti, Germania e
Olanda sotto la bandiera della
NATO in Turchia, e piazzate rispettivamente a Gaziantep, Kahramanmaras e Adana a mo’ di
deterrente lungo il confine con
la Siria. Al di là dello scopo “puramente difensivo” dei Patriot,
come definito dalla portavoce
della NATO Oana Lungescu, dal
punto di vista geopolitico e geostrategico l’attenzione va orientata non
tanto sui missili in
sé, quanto sulle aree
di confine tra Siria e
Turchia che
ormai sono definibili come una
“zona grigia”: un’area di transito per i jihadisti che entrano in
Siria per combattere contro il
regime di Assad, per i profughi
siriani (ormai arrivati a 300 mila) e per i curdi che dal nord
della Siria cercano, con l’appoggio di Damasco, di infiltrarsi nei campi profughi della Turchia, secondo le autorità turche. Il confine turco-siriano,
però, è anche la frontiera
dell’Alleanza Atlantica.
Il premier Erdogan ha appoggiato fin dall’inizio il
Il confine tra Siria
e Turchia è ormai
un’area di transito per
i jihadisti, i profughi
siriani e i curdi
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LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
movimento di opposizione ad
Assad. Lo ha fatto prima consentendo ai disertori dell’esercito (riuniti sotto la bandiera
del Free Syrian Army - FSA) di
creare delle basi logistiche sul
proprio territorio vicino al
confine, successivamente addestrando l’FSA e permettendo la realizzazione di un network di telecomunicazioni. Infine, allestendo dei campi profughi (attualmente già tredici
con circa 153 mila persone)
per la popolazione siriana in
fuga. L’area è diventata anche
SicuReZZa
Kurdistan iracheno
I
l Kurdistan Iracheno (KRI, Kurdistan Region of Iraq) è una regione autonoma dell’Iraq del nord, entità riconosciuta a livello nazionale e internazionale e amministrata da un proprio governo
(KRG, Kurdistan Regional Government). La regione è istituita
nell’ambito del nuovo sistema federale iracheno stabilito dalla Costituzione del 2005, ed è suddiviso in tre province: Erbil (che prende il nome
dalla capitale), Sulamainiyah e Duhok. Il KRI cresce del 12% l’anno.
base di appoggio per i jihadisti
- il cui numero si aggira tra le 3
e le 10 mila unità, secondo le
stime dell’intelligence turca - e
in particolare per il gruppo
meglio organizzato, Jabhat alNusra, che sta assumendo un
ruolo di primo piano nella lotta al regime. Non da ultimo, la
Turchia sud-orientale fa parte
del quadrilatero curdo insieme
al nord della Siria, dell’Iraq e
dell’Iran. È dunque un’area
sensibile per Ankara, anche
dal punto di vista storico: qui si
annidano ancora le cellule del
PKK, il partito dei lavoratori
curdo che da sempre insegue
l’obiettivo dell’indipendenza
attraverso la lotta armata.
In questo snodo cruciale, Ankara deve cercare di trovare il giusto equilibrio per poter continuare a svolgere un ruolo di
primo piano ed evitare che la
crisi siriana, da opportunità di
crescita in immagine e influenza, diventi invece un fattore di
destabilizzazione interna. A
questo possono essere ricondotte le trattative tra il governo
Erdogan e il leader curdo del
PKK Abdullah Ocalan del gennaio scorso. La decisione di abbandonare la lotta armata in
cambio di maggiore autonomia e del riconoscimento della
consistente minoranza curda
nell’Anatolia meridionale, se effettivamente messa in pratica (a
dispetto di posizioni divergenti
delle frange interne del PKK),
potrà chiudere un fronte pericoloso e addirittura contribuire a
far avvicinare i curdi siriani ad
Ankara, così come è avvenuto
con le autorità e con la popolazione del Kurdistan iracheno,
con le quali sono stati avviati
proficui accordi economici.
La creazione di una zona cuscinetto nel nord della Siria, già
proposta dalla Turchia nell’agosto 2012, potrebbe diventare - se
dominata da curdi alleati - sia
una garanzia di sicurezza contro
il frazionamento della Siria, sia
una leva di influenza sui futuri
equilibri regionali. A quel punto, una maggiore autonomia per
i curdi turchi sarebbe un prezzo
che varrebbe la pena pagare.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
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SicuReZZa
Boko Haram e una
terra spaccata a metà
Nigeria |
I 170 milioni di abitanti
della Nigeria sono suddivisi
tra cristiani del sud
petrolifero, ricco e sviluppato,
e musulmani del nord agricolo,
povero e arretrato.
Da un decennio, il Paese
è attraversato da una guerra
civile a bassa intensità tra i
militanti musulmani di Boko
Haram da un lato e i cristiani e
le forze di sicurezza dall’altro
A
i suoi albori negli anni Novanta,
Boko Haram appare semplicemente come un gruppo impegnato in studi religiosi. Cambia
aspetto e missione nel 2002,
quando la sua guida viene assunta da Mohammed Yusuf e i primi guerriglieri islamisti - stanziati in accampamenti nella giungla del nord est
della Nigeria - cominciano a compiere sporadici
attacchi, con machete e piccole armi, contro basi isolate delle forze di polizia o villaggi di contadini che opponevano resistenza alle continue
richieste di cibo e alle estorsioni dei militanti.
20
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
Il 26 luglio 2009 il gruppo lancia una massiccia offensiva contro le forze di polizia negli stati
settentrionali del Paese: cinque
giorni di scontri che si concludono con la morte di circa 700
insorti e la cattura (e l’esecuzione) del loro leader Yusuf. La
netta sconfitta di Boko Haram
in quella che verrà chiamata la
battaglia di Maiduguri impone
al gruppo un cambiamento di
leadership e di strategia. Con la
SicuReZZa
guida del nuovo capo Abubakar Shekau si passa, infatti, dagli assalti contro la polizia a veri
e propri attacchi terroristici
(attentati dinamitardi e attacchi suicidi con autobombe)
contro sedi governative e contro
i cristiani ritenuti rappresentanti del sud “ricco e corrotto”.
In molti casi, tuttavia, gli attentati di Boko Haram sono stati
rivendicati dai militanti come
risposte alle azioni delle forze
di sicurezza, come nell’attacco
del 17 giugno 2012 a tre chiese
nello stato di Kaduna. L’esercito nigeriano è stato, tra l’altro,
recentemente accusato da Amnesty International e Human
Rights Watch di aver giustiziato
una quarantina di presunti militanti di Boko Haram nella città di Maiduguri, roccaforte del
gruppo, il primo novembre
2012. Non è infrequente, inoltre, che agli attentati degli islamisti facciano seguito rappresaglie altrettanto violente condotte dai cristiani, come avvenuto
a Jos l’11 marzo 2012, dopo che
un kamikaze si era fatto saltare
in aria con un’autobomba davanti a una chiesa.
Ma questa contrapposizione
tra islamisti e cristiani assume
soltanto superficialmente la
connotazione di un conflitto
religioso. Boko Haram è
infatti espressione di un
Paese drammaticamente
diviso tra il suo meridione, ricco di petrolio, e
un settentrione povero,
sottosviluppato e malgovernato da politici corrotti. È in questo contesto sociale e culturale
che ha preso piede la
credenza, diffusa e abilmente sfruttata dai guerriglieri, che i guai della
Nigeria - compresa la
corruzione della classe
politica - dipendano dall’influenza negativa dei
valori occidentali cristiani, considerati fonte di
peccato.
Associare Boko Haram
ad Al Qaeda è dunque
approssimativo e inappropriato. Il governo
centrale nigeriano, ritenendo che il gruppo sia
un problema interno
alla Nigeria, sta quindi
opponendo una strenua resistenza diplomatica al tentativo delle
autorità americane di
inserire Boko Haram
nella black list delle organizzazioni del terrorismo internazionale.
i pRincipali
attentati
26 agosto 2011
abuja, palazzo delle nazioni
unite: 23 morti
25 dicembre 2011
madalla, Jos e gadaka,
colpite tre chiese cristiane:
40 morti
20 gennaio 2012
Kano, stazioni di polizia e
uffici governativi: 185 morti
29 aprile 2012
Kano, università di bayero:
20 morti
17 giugno 2012
Zaria e Kaduna, colpite tre
chiese cristiane: 50 morti
2 ottobre 2012
mubi, politecnico: 40 morti
25 dicembre 2012
potiskum, chiesa cristiana:
6 morti
31 dicembre 2012
chibok, chiesa cristiana:
15 morti
Il dizionario
Il nome ufficiale del gruppo Boko Haram è Jama’atu Ahlis Lidda’awati
Sunna wal-Jihad, che in arabo significa “persone impegnate nella diffusione degli insegnamenti del Profeta e del Jihad”, e nasce con l’obiettivo di istituire la Sharia in Nigeria. Successivamente, il nome è stato abbreviato in Boko Haram, che si può tradurre con “l’educazione occidentale
è peccato”. È evidente, pertanto, la totale ostilità dei suoi militanti verso tutto
ciò che richiama valori non musulmani, religione cristiana in primis.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
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SicuReZZa
Afghanistan |
Green on blue
Contestualmente al disimpegno militare internazionale in Afghanistan,
si registra un aumento significativo di attacchi da parte di “alleati”
È
il 7 gennaio quando nella provincia
meridionale di Helmand un membro
dell’ANA (Afghan
National Army), Mohammed
Qasim Faruq, apre il fuoco contro i militari britannici del 28°
Reggimento Ingegneri, uccidendone uno: è la prima vittima nel
2013 degli attacchi di insider delle forze di sicurezza afghane (riunite sotto la sigla ANSF – Afghan
National Security Forces). Oltre
agli IED (gli ordigni esplosivi impropriamente definiti “improvvisati”), agli attentatori suicidi e
agli attacchi convenzionali dei
gruppi talebani, sono gli attacchi
“green-on-blue” - come vengono
definiti quelli attuati dai membri
di una forza alleata - la nuova minaccia che preoccupa le unità
ISAF impegnate in attività di addestramento dell’ANSF. E la preoccupazione è tale che lo scorso
settembre, dopo un picco di attentati da parte di militari afghani, il Generale John Allen, Comandante NATO in Afghanistan,
ha dovuto temporaneamente sospendere le operazioni congiunte.
Il disimpegno militare internazionale in Afghanistan è fissato
per la fine del 2014, ma i dati relativi alla situazione sul terreno
continuano a essere negativi. Secondo le statistiche più recenti,
gli attacchi “green-on-blue” hanno raggiunto un picco del 15%
sul totale di tutti gli attacchi subiti
dal contingente ISAF. Un incremento significativo, visto che si è
passati da azioni isolate (2 nel
2008, 5 nel 2009) a un susseguirsi
di attentati da parte di membri di
forze considerate alleate e che i
soldati ISAF stanno addestrando
per incrementarne le capacità
operative. Tra coloro che vestono
un’uniforme afghana vi sono sicuramente degli infiltrati talebani che mirano a creare un clima
di tensione all’interno dell’ANSF e di diffidenza da parte
dei soldati ISAF. E quasi sempre
in occasione di un evento greenon-blue, le voci ufficiali hanno
attribuito la paternità dell’azione ai talebani. Ma l’aumento
Escalation di violenza
R
isale al 2011 il primo dato che segnala l’esplosione del fenomeno “green-on-blue”: 16 attacchi, con 35 morti e 34 feriti
(+6% rispetto agli anni precedenti). Per poi arrivare al 2012,
quando si sono registrati 44 attacchi che hanno causato la perdita di
61 uomini e 81 feriti tra i militari della missione internazionale.
22
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
significativo di questi attacchi, attirando l’attenzione di media e
analisti, ha portato alla luce
che la maggior parte degli attentatori non proviene dalle fila talebane e che agisce per motivi di risentimento personale e
culturale nei confronti della
forza multinazionale.
Sono due le considerazioni che
misurano la gravità del fenomeno.
La prima: se gli addestrati si rivoltano contro gli addestratori, questo vuol dire che la politica volta a
conquistare la fiducia degli afghani (“to win hearts and minds”)
messa in atto a partire dalla transizione è fallita. La seconda considerazione è che la diffidenza tra i militari ISAF e quelli dell’ANSF, chiamati a lavorare insieme, mina le
basi stesse della strategia NATO
dell’apporto addestrativo alle forze afghane come elemento portante del capacity building, ossia
la capacità operativa di fronteggiare efficacemente la minaccia
talebana, una volta partiti i contingenti multinazionali. Se si considera anche che dopo il ripristino dei
pattugliamenti congiunti, nelle
operazioni sono stati inseriti dei
“guardian angel” per guardare le
spalle agli addestratori, l’exit strategy americana non può non subire un duro colpo, e le possibilità
di lasciare in Afghanistan piccoli
contingenti di unità addestrative
dopo il 2014 appare un’opzione
alquanto irrealistica.
politicamente ScoRRetto
quello che gli altRi non dicono
di Tersite
I finanziatori
della libertà
L
Greater Middle
East Initiative
Medio Oriente
tradizionale
Il “nuovo”
Medio Oriente
Il progetto
GMEI
di espansione
24
e hoax mass-mediatiche, corredo
primario per far
passare l’altrimenti
inaccettabile, cadono ormai a pioggia. La Bufala del 2012 va senz’altro al battage mondiale sui “combattenti
della libertà” contro il regime
assolutistico di Assad.
- I finanziatori della “Libertà”
(Arabia, Qatar, Bahrein) sono
califfati islamici dove a dire democrazia o tolleranza religiosa
si rischia il taglio della lingua,
e dove la locale “primavera
araba” ha preso mitragliate.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
- I “combattenti” sono dello stesso reseau degli jihadisti accorsi contro i sovietici in Afghanistan.
Nel caso siriano, i locali Fratelli Musulmani assieme a sunniti panarabi, qaedisti o prossimi,
che da repertorio sostengono la “guerra santa”
con stragi di bomba.
- Sponsor (armi/addestramento, elettronica/intelligence satellitare) sono quelli che - incuranti
del ribaltone afghano, dalla riuscita sconfitta
dell’URSS al blowback delle Twin Towers - usano ora il fanatismo sunnita per destabilizzare
l’area musulmana dal Nord Africa all’Asia-Russia centrale. Gli USA, che appoggiano i Fratelli
Musulmani (con cui la CIA ha legami fin dalle
esfiltrazioni ai tempi della persecuzione di Nasser), e i più esperti (e spregiudicati) inglesi che
appoggiano, coi califfi, i filo-qaedisti.
Visto si stampi!
I
l ruolo di jiahdisti e agenti USA e GB è più che trapelato sulla stampa internazionale. Dal Sunday
Express allo spagnolo ABC, ai giornali israeliani. Con il The Guardian a “coprire” col giochetto
degli “infiltrati”. E il New York Tymes a scrivere la storiella che sì la CIA è in Turchia, ad armare
e addestrare, ma anche per aiutare i “bravi ragazzi” a togliere le armi a qaedisti e similia. Salvo che
sono proprio questi, motivati fino al suicidio, a tenere la prima linea. E così il NYT deve ricredersi:
non solo gli jihadisti con la bandiera nera controllano il Nord, ma il loro ascendente
radicalizza l’ELS. Nel balletto anche il governo USA il quale - fingendo di non
sapere che Londra è un Londonistan per i terroristi islamici - annuncia l’inserimento di uno dei gruppi (Jabhat Al Nusra) tra le organizzazioni terroriste
al bando.
È il primo regime “change” chiavi in mano subappaltato a: estremisti islamici; spokesmen esuli,
futuri grassatori, adepti di intelligence USA e Dipartimento di Stato; i velinari mass-media occidentali e degli emirati. Il pacchetto che ha per
nastro l’hoax “combattenti della libertà” è affinamento multidisciplinare del realismo di Brezinsky
sull’Afghanistan (che sarà mai “qualche testa calda
islamica”) e della conseguente ipocrisia.
L’applicazione serrata della Greater Middle East
Initiative - cioè la petrodollar warfare, palese in
Iraq (hoax “armi di distruzione di massa”), camuffata in Libia e poi in Siria - è
certo facilitata dalla vocazione araba alle dittature, ma ha ben altri motivi. Detto in sintesi: il dollaro moneta imperiale. Cioè la sicurezza degli USA che, in
fallimento da decenni, resistono grazie
al dollaro imposto nel mondo come
moneta di scambio, e ai T-bonds come
finanziamento. Con a garanzia, non
certo i conti, ma la loro unica forza:
quella militare, straripante dal crollo
dell’URSS.
Vassallare la Siria - mercato per dollaro
e armi, fonte di idrocarburi e base mediterranea da togliere ai russi - è aprire
un varco per l’Iran. Nemico USA perché (come prima l’Iraq) scambia europetrolio minando il dollaro, e ne è fornitore alla Cina in yuan (30 miliardi
l’anno di non-petrodollari).
Obiettivo strategico: imporre il dollaro
su tutte le vie del petrolio, e rafforzare il ricatto alla Cina agendo sui
suoi rifornimenti. La Cina, oltre che futuro competitor militare, è acquirente
estero in trilioni di dollari dei
T-bonds, dal cui carico “tossico” inizia però a sganciarsi.
Mentre, per di più, scambia in
yuan (con Iran, Russia, Giappone) come alternativa più solida al dollaro. Per gli USA, sopravvissuti finora di debito sul
dollaro stampato a man bassa,
un annuncio di rovina. Per
uscirne: costringere la Cina
all’“alleanza”, e inficiare le
velleità multipolari (tra cui
l’euro) con la sottrazione di
mercati e stabilità nelle aree
di interesse.
Così il rischio per l’Europa è di
frontiere geo-economiche sotto assedio di Paesi in mano a salafiti, oppure “laici” ma minacciati dall’estremismo sunnitaqaedista. Tutti pronti a correre
in soccorso degli Stati Uniti,
con il loro counter-terrorism, e
il loro tributo del dollaro.
[email protected]
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
25
geopolitica
Repubblica
Centrafricana
Il caos, la povertà
e il gruppo Séléka
Messico
Le rotte dei
narcotici
Corea
del Sud
La gestione familiare
del potere
Siria
Lo stallo della guerra
26
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
geopolitica
Il Paese dilaniato da conflitti
interni, sia etnici che politici,
fatica a trovare un equilibrio
che lo faccia uscire dalla
condizione di sottosviluppo
Repubblica Centrafricana |
L’
evacuazione
dell’Ambasciata
degli Stati Uniti a
Bangui, nella Repubblica Centrafricana (RCA), disposta dal Dipartimento di Stato il 28 dicembre scorso per motivi di sicurezza,
riporta in primo piano l’annosa
questione dei “failed States”, ossia territori in cui lo Stato come
istituzione è inesistente o quasi.
La Repubblica Centrafricana,
afflitta da frequenti colpi di
Stato (quello del 2003 ha portato al potere l’attuale Presidente
François Bozizé), si trova in
una situazione di perenne conflittualità interna.
Paese tra i più poveri dell’Africa
- è classificato agli ultimi posti
nella graduatoria dell’Indice di
Sviluppo Umano delle Nazioni
Unite - e con un alto tasso di
popolazione affetta da AIDS, la
RCA è paradossalmente ricca di
risorse quali legname, oro, diamanti e uranio. Ma lo sviluppo
di una efficace azione di governance sul territorio è ostacolata
Nel cuore
instabile dell’Africa
da vari fattori. In primis, come
in molti Paesi sottosviluppati,
permane un’endemica corruzione a livello istituzionale: interessi personali a danno di politiche di sviluppo nazionali
hanno contribuito a ridurre significativamente la capacità di
controllo istituzionale sul territorio, il quale - soprattutto al
nord - è suddiviso in etnie che
si contendono la supremazia e
che si oppongono all’attuale
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
27
geopolitica
Il dizionario
Séléka è il nome della coalizione di gruppi ribelli che ha avviato l’offensiva di dicembre contro il governo di Bozizé. Di
Séléka, che in lingua Sango vuol dire appunto “coalizione”,
fanno parte alcune fazioni di tre principali gruppi politici:
il Convention of Patriots for Justice and Peace, l’Union of
Democratic Forces for Unity e il Democratic Forces of the People of Central African Republic. A questi si sono poi aggiunti
il Kodro Salvation Patriotic Convention e l’Alliance for Renaissance and Rebuilding. L’esatta composizione e il numero
dei membri di Séléka non è conosciuta, ma i gruppi noti e i
loro leader sono spesso in contrasto tra loro, e rendono la
coalizione poco coesa e incline a disgregarsi.
gruppo dominante, i Baya (circa
il 33% della popolazione) a cui
appartiene Bozizé. In secondo
luogo, il nord della RCA è flagellato dalle incursioni dei militari del Ciad che taglieggiano
la popolazione. Bozizé, tuttavia,
ha forti legami con il Ciad e il suo
Presidente, Idriss Débry (che
ha inviato truppe a sostegno
dell’esercito centrafricano), e
non è dunque in grado di fermare le scorrerie, al punto che
la frontiera settentrionale rimane completamente aperta a
movimenti di ogni tipo. Sul territorio imperversano anche
bande di criminali comuni che
si mescolano ai gruppi ribelli,
mentre nella parte sudorientale
Michel Am-Nondokro Djotodia (a sinistra),
leader di Seleka, stringe la mano al
presidente Francois Bozize (a destra)
durante i colloqui di pace a Libreville
l’11 gennaio di quest’anno
28
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
è presente il gruppo armato
ugandese Lord’s Resistance Army.
Gli accordi conclusi tra il 2007
e il 2011 con le forze ribelli
non hanno garantito stabilità al
Paese. La mancata attuazione
degli accordi, che prevedevano
amnistia, reintegrazione e sostegno economico, ha dato il via
alla nuova offensiva degli insorti,
riunitisi sotto la sigla “Séléka”
a partire dal 10 dicembre 2012. In poche settimane, i miliziani di Séléka, grazie a un’efficiente organizzazione e alla
scarsa resistenza di un
esercito regolare malpagato, sono riusciti a
geopolitica
I negoziati di Libreville,
la pace fragile
Gli accordi conclusi
tra il 2007 e il 2011
con le forze ribelli
non hanno garantito
stabilità al Paese
conquistare gran parte del
nord, comprese le importantissime aree minerarie, per poi arrivare a minacciare la capitale
Bangui.
Il rifiuto di Francia e Stati Uniti
alla richiesta di intervento di
Bozizé ha lasciato la difesa del
governo in mano ai poco più di
750 militari della Forza Multinazionale dell’Africa Centrale
(che vede la partecipazione di
Ciad, Congo, Camerun e Gabon) a cui si sono aggiunte successivamente altre 400 unità inviate dal Sud Africa. L’accettazione di un cessate il fuoco raggiunta faticosamente durante i
negoziati di gennaio a Libreville
(Gabon), a condizione di nominare un primo ministro scelto tra i membri dell’opposizione e di indire libere elezioni nel
giro di un anno, lascia aperte
molte questioni. Non ultime, il
dissenso interno tra le varie
frange che compongono Séléka,
gruppi costituiti su basi etniche
che già in passato hanno avuto
forti contrasti, e la mancanza di
un programma politico. Con
queste premesse, è difficile ipotizzare un ritorno alla normalità per il Paese anche in un ipotetico dopo-Bozizé.
L’arrivo del leader
di Seleka
S
ono durati tre giorni i
negoziati di Libreville,
nel Gabon, dove il governo
centrafricano e i ribelli di Seleka
hanno raggiunto un accordo
per formare di un governo di
unità nazionale. L’alto funzionario delle Nazioni Unite per
la Repubblica Centrafricana,
Margaret Vogt, ha confermato
al Consiglio di Sicurezza che il
cessate il fuoco è entrato in vigore 72 ore dopo la firma ed ha
la supervisione dell’Economic
Community of Central African
States (ECCAS). Ciò nonostante,
la pace è fragile, se un portavoce
del gruppo dei ribelli Seleka ha
affermato che la lotta ricomincerà nel caso in cui il governo
non soddisferà alcune richieste
dei ribelli come il rilascio dei
prigionieri di guerra e il ritiro
delle truppe straniere inviate a
sostegno del governo.
Cosa prevedono gli accordi di pace:
1) il presidente François Bozizé
resterà in carica fino alla fine
del suo mandato nel 2016;
2) il Primo Ministro sarà nominato tra le file dell’opposizione e avrà pieni poteri esecutivi per 12 mesi;
3 il governo di unità nazionale
di transizione sarà formato
dai rappresentanti di tutti i
soggetti che hanno preso
parte ai colloqui di pace;
4) una nuova legge elettorale
dovrà essere adottata prima
dello scioglimento dell’Assemblea Nazionale;
5) le elezioni legislative devono
avvenire entro 12 mesi;
6) l’attuazione delle disposizioni raggiunte con gli accordi
di pace andrà garantita con
un meccanismo di controlli
periodici.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
29
geopolitica
Messico |
Gli Stati
Uniti, la
DEA e le
iniziative sei
signoli Paesi
produttori o
esportatori
della
cocaina, non
riescono a
frenare un
fenomeno
in netto
aumento.
Il Sud
America
resta
il centro
di tutto
30
Le nuove rotte
del narcotraffico
C
irca l’80% della
cocaina di tutto il
mondo è prodotto in Colombia,
mentre il resto arriva prevalentemente da Perù e
Bolivia. A dirlo è l’incrocio dei dati forniti dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Controllo della
Droga e la Prevenzione del Crimine (UNODC), dalla Giunta Internazionale di Fiscalizzazione degli
Stupefacenti (JIFE) e dalla polizie
internazionali, stando alle quali
Bogotà gestisce l’80-90% del mercato della coca consumata negli
Stati Uniti. Verso sud si muovono,
invece, le piste peruviane e boliviane, facendo capolino soprattutto in Brasile ma anche in Argentina, Venezuela e Cile. In mezzo, ovviamente, c’è anche l’Europa, che da questo punto di vista
non si fa mancare proprio nulla.
E così il mercato globale della droga si inchina alle pendici delle Ande, anche se l’intensificarsi della
lotta internazionale al narcotraffico e il problema della sovrapproduzione impongono a chi guida
il business dalla plancia di comando, di diversificare le rotte e strizzare l’occhio a nuovi potenziali
acquirenti. Negli ultimi anni, i
gruppi più influenti della criminalità organizzata mondiale hanno preso il controllo pressoché
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
totale dei percorsi che conducono la cocaina in
Nord America: dal coast to coast nel Pacifico ai
traffici via terra per Messico, America Centrale e
Caraibi. Qui il tasso di delinquenza e corruzione,
oltreché il numero dei consumatori, è aumentato
in maniera vertiginosa. E poi, come detto, c’è la
questione della sovrapproduzione, motivo per il
quale il prezzo della coca che parte quasi esclusivamente e arriva nell’Europa occidentale, ha toccato
i minimi storici da dieci anni a questa parte. Un passo indietro che ha spinto il commercio a esplorare
nuove mete come il Ghana e la Nigeria o i Balcani.
l’analisi dell’europol
Secondo l’Europol, l’agenzia anticrimine dell’Unione Europea operativa dall’estate del 1999, le principali rotte della droga sono tre: la “rotta-nord” (Caraibi orientali-Azzorre-Portogallo o Spagna), la “rotta equatoriale” (America Latina-Isole di Capo VerdeMadera o Isole Canarie-Europa Occidentale) e la
rotta africana (America del sud-Africa OccidentalePortogallo o Spagna). Nei primi due percorsi, la cocaina viene scaricata negli arcipelaghi atlantici in pescherecci o lance per essere poi trasportata in Europa. Gli ultimi paesi di transito, prima di arrivare in
Europa, sono soprattutto il Venezuela e il Brasile, seguiti da Argentina, Ecuador, Suriname e dalle ex colonie di Francia, Regno Unito e Paesi Bassi. Da altri
paesi caraibici e sempre più anche dal Messico, la
cocaina passa e fila dritta verso l’Europa.
I carichi di cocaina vengono scaricati nei porti situati
principalmente in Spagna, in Portogallo o nei Paesi
Bassi. Da qui, uno degli snodi principali per lo smistamento nel Continente è Londra: le richieste principali arrivano da Germania, Francia e Italia e, ultimamente, anche dai Balcani, coinvolgendo nel traffico
internazionale nuove organizzazioni criminali.
geopolitica
il ruolo strategico del venezuela
Lo scenario internazionale continua a essere dominato dallo strapotere della Colombia: le autorità colombiane sostengono che i cartelli della droga
utilizzano il Venezuela come ponte per inviare i carichi in Africa e in
Europa. La quantità di coca colombiana in transito da qui è aumentata
notevolmente: l’espulsione della DEA, l’antidroga americana, e il rifiuto del governo chavista di acconsentire alle estradizioni hanno reso il
Paese un porto franco sicuro per i narcotrafficanti.
il mal d’africa
Cresce moltissimo il traffico via mare verso l’Europa da Guinea
Bissau, Guinea, Costa d’Avorio, Senegal, Mali e Sierra Leone.
Il motivo è che i funzionari di questi Paesi non hanno né la
formazione né le risorse necessarie per controllare il flusso
dei carichi che transitano per i porti dell’Africa occidentale. Gli aerei che coprono le tratte in questa regione,
come i “pasadores”(velivoli da tursimo) possono volare basso ed eludere i radar.
la frontiera brasiliana
In Brasile, la vegetazione selvatica e la carenza dei controlli sono alleati dei narcotrafficanti: per la regione amazzonica passa illegalmente non solo la
droga, ma anche legname, oro e sostanze chimiche. Ciò spiega perché San
Paolo e Rio de Janeiro sono letteralmente
inondate di cocaina. L’ex ambasciatore
brasiliano a La Paz, Federico César de Araujo, sottolinea che ormai il Brasile non è più un
ponte verso gli USA ma, semplicemente, uno dei
maggiori consumatori di cocaina al mondo.
bolivia in sovraccarico
Secondo il rappresentante dell’UNODC, César Guedes, la Bolivia possiede più coca di quanta realmente ne possa produrre.
Buona parte arriva dal Perù in panetti o in cloridrato e viaggia verso
Brasile o Argentina. Per rafforzare i controlli, è in corso un’iniziativa
congiunta tra Bolivia, Brasile e Stati Uniti, per agevolare i monitoraggi satellitari sull’area e le operazioni di intelligence. Ma è sempre più dura, dopo che nel 2008 Evo Morales ha espulso la DEA dal Paese.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
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geopolitica
Messico |
I cartelli della droga
Il 2013 non sarà un anno facile per il presidente messicano Enrique Pena Nieto, che aveva fatto della
lotta ai narcotrafficanti e del ripristino nel Paese di condizioni di sicurezza accettabili i punti centrali
della sua vittoriosa campagna elettorale. Le nuove misure nel campo della politica della sicurezza pubblica non riusciranno, nel breve periodo, a dare risultati percepibili dalla popolazione. Ad esempio,
la nuova gendarmeria federale non sarà in grado di diventare operativa almeno fino alla fine del 2013
perché i tempi di organizzazione e di addestramento non sono brevi. Per ovviare a questi inconvenienti,
Nieto ha deciso a dicembre di continuare ad impiegare per tutto il 2013, nella lotta contro le bande
criminali e i cartelli della droga, almeno 50.000 soldati delle forze armate regolari.
la fedeRaZione
di Sinaloa
La Federazione è attiva in tutto il Paese. Dopo aver sconfitto in una guerra sanguinosa
durata fino alla prima metà del 2012 l’organizzazione di Vicente Carrillo Fuentes nello
stato di Chihahua, la federazione ha di fatto
assunto il controllo dei traffici criminali a
Ciudad Juarez e a Chihuahua City, anche
grazie alla fitta rete di alleanze. Oggi la Federazione di Sinaloa è infatti collegata strategicamente col Cartello del Golfo, col Cartello di Jalisco-Nueva Generacion, e con i
Cavalieri Templari, tutti uniti nella lotta, su
scala nazionale, contro il Cartello dei Los
Zetas. La sconfitta definitiva dei Carrillo
Fuentes ha prodotto come risultato collaterale un impressionante calo nel tasso di
omicidi a Chihuahua City e a Ciaudad Jarez. Nel 2012 la Federazione ha incontrato
difficoltà proprio nella sua base principale,
lo stato di Sinaloa, dove ha dovuto fronteggiare l’attivismo criminale e la concorrenza
di una piccola ma feroce gang di narcos:
Los Matzatelcos.
Nello stato di Chihuahua è ancora attivo il
cartello de La Linea che controlla le vie del
trasporto della droga e le aree di produzione nella parte occidentale dello stato di
Chihuahua. Ciò nondimeno, la Federazione oggi controlla una buona percentuale
del traffico di stupefacenti su scala nazionale. Nonostante la conflittualità con La Linea e con Los Matzatelcos, la Federazione
di Sinaloa resta ricca e potente.
32
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
i cavalieRi
templaRi
Il cartello, nato da una sanguinosa scissione della Famiglia
Michoacana (uscita quasi distrutta
dalla contesa), è oggi la gang dominante nello stato di Michoacan e sta espandendo progressivamente le sue attività negli
stati di Morelos, Guanajuato, Queretaro e Guerrero. Nello stato di Jalisco, controllato dagli (ex?)
alleati dell’omonimo cartello, con i quali non sembra
correre buon sangue, i Templari mantengono il controllo soltanto della regione sud-orientale. Il cartello
potrebbe aver assorbito gli sbandati della Famiglia Michoacana e si è alleato con il cartello del Golfo in una
lotta senza quartiere contro Los Zetas. La guerra tra i
due gruppi potrebbe essere la nota dominante delle
violenze in Messico per tutto il 2013.
geopolitica
loS ZetaS
L’organizzazione dei Los Zetas, che
nel 2012 si è dimostrata la più attiva
banda criminale del Messico, è
strutturata su cellule che operano
in modo semi autonomo sotto il coordinamento del numero due del
cartello, Miguel Trevino Morales.
Al momento, il cartello è interessato da sanguinose faide di potere al
suo interno: Trevino sta tentando
di scalzare dalla posizione di capo
l’attuale boss e fondatore della gang
Heriberto Lazcano, detto “El Lazca”.
La guerra di successione si annuncia
sanguinosa, anche perché il responsabile dei Los Zetas per le regioni
del centro-nord, Ivan Velazquez Caballero, detto “El Taliban”, dalla prigione dove è rinchiuso guida la lotta
contro Trevino con la sua rete attiva
negli stati di Coahuila, San Luis
Potosi e Zacatecas. Se i Los
Zetas riusciranno a mantenere una certa coesione, resteranno
certamente uno
dei gruppi criminale più potenti
del Messico.
il caRtello
del golfo
Un tempo uno dei più potenti gruppi criminali messicani,
il cartello del Golfo è oggi fortemente indebolito da un anno di guerra senza quartiere con Los Zetas e da una scissione interna che lo ha visto dividersi in due fazioni, Los Rojos
e Los Metros. La scissione tuttavia, secondo fonti locali,
non avrebbe finora portato alla nascita di due nuove famiglie e il cartello continua a operare come un’organizzazione unica. Con l’aiuto dei Sinaloa e dei Templari, il Golfo
nella lotta contro Los Zetas è finora riuscito a mantenere il
controllo dei traffici e dei canali di trasporto della droga
negli Stati Uniti e grazie agli alleati è riuscito a contrastare
tutte le offensive dei Los Zetas negli stati occidentali. Nonostante questi successi, la situazione del cartello non sembra così solida, in quanto il Golfo deve la sua sopravvivenza
(non si sa per quanto tempo) al sostegno interessato dei Sinaloa e dei Templari.
caRtello di JaliSco
(nuova geneRaZione)
Nel 2012 i Jalisco hanno proseguito ad espandere le loro attività criminali (estorsioni e
droga) in molti stati messicani, come Colima,
Morelos, Michoacan, Guerrero, Guanajuato e
Quintana Roo. Le loro tattiche aggressive li
hanno portati a un conflitto
sanguinoso con i Cavalieri
Templari. La Federazione Sinaloa, di fronte alla guerra
tra due dei suoi alleati, ha
preferito finora rimanere
neutrale. Al momento, il Cartello di Jalisco, nonostante la
tensione coi Templari è riuscito
a garantirsi l’apertura delle linee
di rifornimento della droga e ha
mantenuto intatta la sua notevole capacità di contrabbando degli stupefacenti negli Stati Uniti.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
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geopolitica
Corea del Sud |
Ritratto di famiglia
L’ascesa di Park Geun-hye.
Non è il primo caso che
un figlio di un dittatore succeda
al padre, ma è la prima volta
che sia una donna
a comandare questo Paese
I
l 20 dicembre 2012 si è conclusa la
campagna presidenziale in Corea del
Sud. Le urne hanno decretato la vittoria
di Park Geun-hye del partito conservatore Saenuri, prima donna ad assumere
il prestigioso incarico, ma soprattutto figlia di
quel dittatore, Park Chung-hee, che ha fatto
della Corea un Paese industriale e tecnologicamente avanzato. Ed è nella storia dello sviluppo
politico-economico che in parte risiede la ragione di questo successo elettorale.
Il golpe del 16 maggio 1961 porta al potere il Generale Park Chung-hee che si ritrova a guidare
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LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
un Paese in cui regnano povertà
e corruzione, dove il 66% della
forza lavoro è impiegata nell’agricoltura e solo il 7% nell’industria. Tra il 1965 e il 1990 la crescita del PIL raggiunge una media del 7,1%: è il miracolo sul
fiume Han. La rapida crescita
economica, accompagnata da
censura e restrizione delle libertà civili, ha visto come protagonisti uno Stato forte e i
chaebol, le grandi famiglie
geopolitica
imprenditoriali. Nel 1961
Park governa appoggiandosi
all’esercito, l’unica istituzione ben strutturata e organizzata, e all’Economic Planning Board che fissa scadenze e modalità del processo di
industrializzazione. Ma non
ci sono solo imposizioni: lo
Stato corteggia i chaebol, a
cui fornisce ingenti sussidi,
oltre a consentirgli di attirare investimenti dalle multinazionali e importare nuove
tecnologie.
Il governo autoritario fissa
come obiettivo primario del
Paese lo sviluppo economico. Quello di Park è stato, infatti, definito un developmental State che ha attraversato due fasi, quella iniziale
totale in cui la struttura dei
chaebol era più debole e
quella successiva limitata, in
cui, proprio grazie al successo della politica impostata
sulle esportazioni di prodotti
a basso costo - e quindi competitivi - in mercati importanti
quali quello statunitense e
dell’Europa occidentale, i chaebol si sono rafforzati e sono diventati la locomotiva dell’economia sudcoreana. Per la natura stessa del developmental
State l’alleanza Stato-chaebol
non è rimasta statica: i rapporti
di forza si sono modificati, riequilibrandosi, per poi cambiare di nuovo a favore di una società ormai pienamente industrializzata e strutturata che preme per aperture anche in senso
politico. Il clima favorevole dei
mercati internazionali, la scarsa
competizione di altri Paesi asiatici e la collocazione geostrategicamente importante della Corea
Famiglia, lealtà, business
I
chaebol, simili agli zaibatsu giapponesi, sono gruppi imprenditoriali posseduti e controllati dalle grandi famiglie
sudcoreane. Questi gruppi, veri e propri conglomerati di società ed aziende, sono gestiti su base familiare gerarchica in cui
predominano i valori della famiglia, della pietà filiale e della lealtà. Raggiunsero dimensioni internazionali grazie alla politica
economica di Park Chung-hee, con crescite annuali tra il 28 e il
53% durante gli anni Settanta, dominando il settore dell’industria pesante e dell’industria chimica. I più noti sono Hyundai,
Samsung, Daewoo e Lucky-Gold Star.
del Sud hanno reso possibile il
miracolo economico senza democrazia. Non solo: Park è entrato nell’immaginario di una
parte significativa della popolazione che lo ricorda come l’uomo che ha modernizzato il Paese e lo ha fatto diventare
l’11esima potenza industriale
nel mondo.
La Corea degli ultimi anni ha
visto il depauperamento di
questa eredità: le difficoltà economiche si sono riaffacciate
nella vita politica con ripercussioni negative soprattutto sulla
classe media. Proprio quella
classe media nata sotto il regime autoritario che aveva
maggiormente beneficiato della
politica economica. Un declino della crescita negli ultimi
anni e un aumento del divario
sociale e salariale sono i temi
che hanno dominato la campagna elettorale. Gli ultracinquantenni, che hanno visto
erodere il proprio standard di
vita, hanno votato compatti
per la figlia del Generale in un
impeto di nostalgia. La promessa elettorale di mettere un
controllo ai chaebol e di ridurre le disuguaglianze sarà una
sfida importante, soprattutto
in considerazione del forte legame di Park Geun-hye con il
mondo imprenditoriale, con il
quale difficilmente vorrà entrare in conflitto.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
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geopolitica
Siria |
Aspetta e spera
Q
uella che l’ex
diplomatico iraniano Mohammed Ali Sobhani ha definito
come una “guerra fredda limitata” è ormai divenuta una realtà nel conflitto siriano. Le sorti
della guerra, che rischia di trascinarsi dietro numerosi altri
Paesi e aprire scenari apocalittici come uno scontro diretto tra
Iran e Israele, per il momento
restano in mano agli eserciti
che si affrontano in Siria. Ciò è
dovuto anche al fatto che la comunità internazionale non ha
mai trovato un accordo per risolvere la crisi siriana e sembra
ancora oggi preferire l’attendismo. Fatto che ovviamente non
giova a nessuna delle parti in
causa, schiaccia la popolazione
inerme, frustra ogni speranza
di pace e affida le sorti di un
grande Paese al caso.
I cosiddetti “amici della Siria”,
capitanati dagli Stati Uniti, non
si sognano di forzare la mano e
non giungono ad alcun tipo di
decisione per non irritare i Paesi schierati dalla parte di Assad
ovvero Russia, Cina e Iran.
Ma che succederebbe se Assad e
il suo regime venissero sconfitti?
Tra le molte ipotesi che si possono fare, l’unica certezza è che
sarebbe l’Iran il vero sconfitto e
il più isolato tra i Paesi della regione. Gli sciiti, infatti, maggioranza in Iran ma minoranza
nell’intero mondo arabo, verrebbero sopravanzati dalla
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LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
Analisi dello stallo nella guerra siriana
e gli interessi dei Paesi coinvolti
componente sunnita che domina l’area e che ha come principale sponsor il potente Qatar,
nuova autorità emergente in
Medio Oriente: da quando
l’emiro Hamad bin Khalifa al
Thani ha fatto visita a Gaza, tutti hanno compreso che anche
Hamas è ormai parte integrante della grande coalizione sunnita che conta già l’Egitto dei
Fratelli Musumani, l’Arabia Saudita e la Turchia, quest’ultima
ben preparata al peggio. L’Iran
sciita, invece, potrebbe contare
sulla sola coalizione di alawiti siriani e iracheni, e sull’Hezbollah
libanese. Un po’ poco, tutto
sommato. A meno di un intervento russo in difesa dei propri
interessi strategici in Mediteraneo (vedi il porto siriano di Tartous). Ma si tratta di uno scenario assai poco probabile.
In tal senso, la prudenza tattica
di Israele è doverosa, specie in
un contesto di incertezza
politica, dopo le elezioni
del 22 gennaio.
Resta in piedi anche l’ipotesi del professor Ely Karmon, analista israeliano
dell’IDC di Herzliya, che
prevede la possibile formazione di un staterello alawita che
spaccherebbe la Siria in due: “Un mini-stato, dove la spina dorsale dell’esercito alawita siriano
potrebbe ritirarsi con la maggior parte dei suoi armamenti
pesanti, parte della forza aerea
più le armi chimiche di cui dispone. Ovvero una sorta di assicurazione contro una sanguinosa offensiva dell’opposizione
sunnita sulla sua ultima roccaforte”. La resistenza alawita comunque continua e lo scenario
è quello di una guerra ancora
lunga. La Siria di oggi è molto simile all’Afghanistan degli anni
dell’invasione sovietica (’79-’89):
i ribelli di allora - talebani, alleanza del Nord, haqqani - erano
sostenuti con rifornimenti di armi da USA e Arabia Saudita,
che oggi sostengono la ribellione contro Assad. In Afghanistan
non ci fu intervento diretto
straniero e gli invasori sovietici
si ritirarono perché avevano dove andare, cioè a casa. Ma gli
alawiti e i cristiani siriani, dove
possono ritirarsi?
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l’anaRchico 2.0
StoRie di oRdinaRia eveRSione
La legge è
uguale per tutti
Guy F.
C
ondanna a sei
anni per l’incendio del furgone
dei CC negli scontri del 15 ottobre
2011 a Roma. In questi episodi
può essere difficile discernere
la manifestazione di rabbia (incubata da giovani al 37% senza
né lavoro né futuro) dall’atto
esaltante di “aficionados” della
violenza (dallo stadio alla
strada). Questa, diverso
fenomeno sociale, si
frammischierebbe
alla protesta politica che è già in
bilico - nelle diverse componenti
come nei singoli individui - tra ribellione rivendicativa (residua speranza di partecipazione) e assalto distruttivo
(vuoto di speranza per un destino di emarginazione). A seconda del punto di vista cambiano
interpretazione e funzione della
condanna. Così come questa andrebbe rapportata al suo “peso”
sociale, punitivo e dissuasivo.
In comparazione a campione:
ANNI 7½: due ragazzi per violenza sessuale di gruppo su una
tredicenne;
ANNI 7½: imprenditore abusa
di ragazzine in condizioni di
disagio;
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LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
ANNI 7: omicidio studentessa Marta Russo con
un colpo di pistola;
ANNI 6½: uomo (alcool/droga) per violenza sessuale ex fidanzata: legata al letto, picchiata e seviziata;
ANNI 6½ a critico d’arte milanese: abusi sessuali
su bambine di dieci anni, amiche delle figlie.
ANNI 5½, violenza sessuale aggravata: zio abusa
di nipote tredicenne;
ANNI 4,4: sequestro di persona, rapina e violenza sessuale in danno della ex moglie;
ANNI 2 a ex parroco (pena sospesa) per violenza
sessuale su bambina di dieci anni;
ANNI 6, uguale “peso” di quella per il furgone incendiato:
- imprenditore massacra di botte e uccide uomo che
gli aveva graffiato l’auto durante un posteggio;
- ubriaco travolge e uccide cinque ragazzi con un
furgone;
- rumeno: sfruttamento della prostituzione minorile, sequestro di persona. Fidanzata minorenne costretta a prostituirsi e, a suon di botte,
a consegnargli il denaro.
Reati di costante allarme, e
costante entità media delle pene.
quella per omicidio colposo è 0,5.
Nei molti filmati si vedono i blindati posti a contrasto dei dimostranti. Ma, scemato l’effetto deterrente e la distanza di sicurezza, li si vede “caricarli” e subirne poi, in difficoltà di movimento, il
contrassalto. I rischi della tattica vanno da un grave investimento a una spropositata reazione a
fuoco dal mezzo circondato (come a Genova nel
2001). Cioè una esacerbazione che nel futuro, come pure nell’immediato, può portare grave rischio
anche per gli agenti. A meno che - come avvenuto
sconsideratamente in passato - non si voglia aizzare
lo scontro a fini repressivi, oltre
alle pene per i violenti, occorrerebbe quindi approntare una tattica adeguata di Ordine Pubblico.
Sulle pene si sa per lunga esperienza che l’accentuazione oltre misura ha scarsa deterrenza
sull’insorgenza politica ma, anzi, ne è concomitante alimento. Tanto più quando gli insorgenti vi leggono oggettiva equiparazione di atti di ribellione
ad abietti crimini contro i più
deboli.
Per converso, dal lato della violenza applicata dallo Stato, colgono che negli abusi (finanche
di omicidio) è usata misura opposta. Con condanne irrisorie,
attenuanti, omertà e falsità, alterazione di prove. Laddove
uno Stato di diritto, dall’habeas
corpus in poi, deve tanto più
tutelare il cittadino dagli abusi
di chi esercita il potere. Pena il
venire meno del suo riconoscimento di legittimità.
Se è la Legge che deve tutelare
i diritti, come mediazione sulla
forza privata, va da sé che la
percezione della sua parzialità,
cioè della sua inservibilità per
l’affermazione di quei diritti,
concorra al formarsi di un antagonismo che si sente obbligato sul terreno della forza quale
unica risorsa. E da qui alla violenza è solo un’occasione.
Punto è che l’impunità perseguita dallo Stato, tradendo il
caposaldo (di principio) dell’uguaglianza di fronte alla
Legge, rafforza il caposaldo (di
fatto) di chi contro quello Stato
contrasta proprio per la sua
parzialità. Il resto è futilità.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
39
economia
Santa Sede
Lo Stato della Città del Vaticano è
sorto con il Trattato Lateranense,
firmato l’11 febbraio 1929 tra la
Santa Sede e l’Italia, che ne ha
sancito la personalità di Ente sovrano
di diritto pubblico internazionale,
costituito per assicurare alla Santa
Sede, nella
Dentro o fuori
sua qualità di suprema istituzione
Regno Unito
l’Europa?
Il dilemma delle tasse
Italia
Tobin Tax
Cipro
Euro, PIL e FMI
Mr. C
Britzerland, ovvero l’unione
commerciale del Regno Unito
con la Svizzera, è solo
una delle mosse del premier
britannico per convincere gli
elettori euroscettici a
continuare a credere in lui.
Ma uscire dall’Europa si può?
40
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
economia
I
l 18 dicembre il Primo
Ministro del Regno
Unito David Cameron
ha dichiarato che un ritiro inglese dall’Unione
Europea è diventata un’eventualità immaginabile. Concetto
poi ribadito il 23 gennaio,
quando ha annunciato la volontà di indire un referendum
sulla questione. Per contrastare
la mai sopita schiera degli euroscettici capeggiati dal sindaco
di Londra Boris Johnson e il
crescente consenso dell’UKIP
(Partito Indipendentista del
Regno Unito), Cameron ha fissato per il 2017 un referendum
sulla permanenza nell’UE, come previsto dal Trattato di Lisbona. L’azione del premier
britannico, di cui va ricordata
la solitaria opposizione al
drammatico salvataggio della
Grecia dello scorso dicembre,
sembra volta a sfruttare i vagheggiamenti su di una possibile unione commerciale con la
Svizzera (si parla a tal proposito
di “Britzerland”) non tanto per
una revisione dei trattati, quanto
per una concreta esenzione
dalle politiche di coordinamento in tema bancario e fiscale,
adottate recentemente dall’UE
di fronte al perdurare della grave crisi economica dell’area.
Cameron
a chi la dà
a bere?
Il 12 dicembre i ministri finanziari dell’Unione hanno definito nuovi poteri per la Banca
Centrale Europea che permetteranno, attraverso il Fondo Europeo di Stabilità, di coordinare
e supervisionare le operazioni
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
41
economia
contRibuti e SpeSe ue peR paeSe
Nel 1970 il Consiglio d’Europa dichiara decaduto il sistema di finanziamento attraverso i contributi nazionali dei Paesi membri e istituisce il sistema delle risorse proprie. Il Bilancio comunitario, che ammontava a 129.395 milioni di euro nel 2011, è finanziato attraverso un sistema composto da: dazi doganali, risorse di origine agricola, IVA e un prelievo basato sul Reddito Nazionale Lordo di ciascun Paese membro.
Saldo di bilancio in milioni di euro
dei principali paesi ue
Paese
Contributi al Bilancio UE
Germania
19.671,1
Francia
18.050,8
Italia
14.336,2
Spagna
9.876,1
Regno Unito
11.273,4
Fondi dalla UE
12.133,0
13.162,3
9.585,9
13.599,0
6.570,0
di salvataggio e ristrutturazione del debito sovrano
e la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà. In
giugno, inoltre, è prevista la firma di un contratto vincolante per l’attuazione di riforme fiscali
strutturali. Quindi, sebbene le divergenze e i costi associati a una maggiore integrazione sembrano aver congelato la proposta di una profonda
revisione del Trattato di Maastricht (Van Rompuy, presidente del Consiglio Europeo), si può ritenere che il perdurare della recessione produrrà nuove (Cipro) e vecchie vulnerabilità (Grecia,
Spagna), che inevitabilmente spingeranno verso
una maggiore unione monetaria e fiscale.
In questo quadro Cameron, forte dei sondaggi
che danno prossimi al 50% i favorevoli all’uscita
dall’UE, agita il tema del referendum, creando
non poche difficoltà anche tra gli europeisti convinti, come i laburisti di Ed Miliband.
Come noto, gli inglesi hanno sempre visto con
diffidenza l’UE (solo nel 1973 hanno deciso di
aderire alla Comunità Economica Europea) e,
pur essendo tra i 12 Paesi fondatori (1992), hanno ottenuto importanti deroghe per la loro partecipazione. Il Regno Unito ha diritto a una riduzione del contributo versato per il bilancio comunitario (Consiglio di Fontainebleau 1984 e Decisione 2007/436/CE) e all’istituzione di una compensazione, pari al 66% della differenza tra il finanziamento al bilancio e i contributi ricevuti
(contributo netto al bilancio dell’UE). Conserva
Il dizionario
L’United Kingdom Indipendent Party (UKIP) è
il partito indipendentista britannico, fondato
nel 1993 da Alan Sked e altri membri euroscettici provenienti dall’Anti-Federalist League. Da
allora promuove una campagna per il ritiro del
Regno Unito dall’Unione Europea. Oggi lotta
per attestarsi quale terzo partito del Regno Unito:
secondo un sondaggio del The Sun raccoglierebbe
il 10% dei voti (alle elezioni del 2010 prese solo
il 3,1%); i laburisti arriverebbero al 43%, i
conservatori al 33% e i liberaldemocratici al
10%. L’attuale candidato è Jane Collins.
42
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
economia
la preminenza della Common Law sulla Carta Costituzionale Europea (Lisbona 2007), attraverso la
cosiddetta “clausola di esclusione” (opt-out), che
sfrutta per non aderire all’euro e conservare la
sterlina come moneta nazionale (1999).
I numeri della sua economia, dopo cinque anni
dall’inizio della crisi indotta dal sistema dei mutui sub-prime, sono impietosi. Due recessioni
(double-dip?) nel 2008-2009 (Grande Recessione) e nel 2010-2012. I dati pubblicati dal National Institute of Economic and Social Research
(NIESR) mostrano che la ripresa dalla caduta del
6,4% del PIL nella Grande Recessione è più lenta
di quanto osservato nei cinque anni successivi alla Grande Depressione del 1930. Il deficit pubblico, dopo aver superato il 10% nel 2010, raggiunge il 7,9% e il debito
pubblico si attesta Gli inglesi hanno
all’84% (5,6% deficit
sempre visto con
primario, cioè al netdiffidenza l’UE
to degli interessi sul
debito), con circa il
30% del debito sovrano detenuto da
investitori esteri. Il
tasso di disoccupazione ha raggiunto
l’8% e il deficit della
bilancia dei pagamenti è stimato (terzo trimestre del 2012) al
3,3% del PIL (15,7
miliardi di euro). Il sistema bancario, dopo la nazionalizzazione della Royal Bank of Scotland e i
salvataggi (Lloyds TSB e HBOS) attuati dall’allora premier laburista Gordon Brown, sulla spinta
degli standard di Basilea III e delle raccomandazioni della commissione Vickers, è attraversato
da una profonda ristrutturazione volta a separare
l’attività di raccolta del risparmio da quella d’investimento e a introdurre più elevati indici di capitalizzazione, allo scopo di ridurre il rischio sistemico, tuttora ritenuto molto elevato (Systemic
Risk Survey, Bank of England 2012).
In conclusione, i costi, seppure incerti, sembrano essere superiori agli incerti guadagni e ciò dovrebbe
spingere a una maggiore cautela Cameron. Viceversa per l’UE, il referendum potrebbe rappresentare
un’opportunità per limitare le deroghe accordate,
con la clausola di esclusione al Regno Unito.
UK fuori dall’UE:
c’è da crederci?
E
conomicamente il Regno Unito è fortemente integrato nell’UE: esporta beni
per 194 miliardi di euro (53% del totale
delle esportazioni), corrispondenti a circa 3 milioni di posti di lavoro, e importa beni per 247
miliardi di euro (2011). Gli effetti di un’uscita
dall’Unione, al netto dall’isolamento politico in
cui verrebbe a trovarsi, non sono, quindi, facilmente quantificabili e le simulazioni offrono valutazioni contrastanti: beneficio netto (The Telegraph) o perdita permanente del 2,25% del PIL
(NIESR). In un contesto così discordante, più
che valutazioni puntuali dei costi/benefici ha
senso guardare alle grandi voci e quindi provare
a fare un bilancio. Seguendo quanto pubblicato
sulla stampa (The Independent, The Guardian, The Economist) si ricavano le seguenti voci:
benefici: nessun conferimento netto
al bilancio comunitario; abolizione di
dazi e barriere doganali, abolizione dei
vincoli sul pescato, abolizione sui limiti
alla giornata lavorativa (48 ore) e maggiore flessibilità nel mercato del lavoro,
allentamento dei vincoli di sostenibilità
nella politica energetica; nuovo sviluppo
della City come mercato offshore per le economie emergenti.
costi: introduzione di tariffe doganali sulle
merci dirette nell’UE, in particolare su alimentari (+55%), abbigliamento-tessile (+12%) e
componentistica (+4%); spostamento della produzione di autoveicoli nei territori di vendita
dell’UE; riallocazione dell’industria aeronautica, in particolare componentistica; ridimensionamento della City come centro di accesso ai
mercati europei e di negoziazione di titoli e derivati denominati in euro, a vantaggio di una
borsa continentale (Parigi); ostacoli alla libera
circolazione dei cittadini da e verso l’UE; rinegoziazione dei trattati europei di difesa.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
43
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Tobin Tax, questa sconosciuta
- Spontaneamente, solo il 6,5%
del totale degli intervistati sa dare una definizione esatta di Tobin Tax (qualcun altro ne dà
una definizione, ma si confonde con la tassa patrimoniale).
Conoscenza della tassa
sulle transazioni finanziarie
- Dopo aver ricordato loro la
definizione esatta di Tobin Tax,
quasi la metà degli italiani
(48,4%) afferma di averne già
sentito parlare, ma solo il
29,6% sa che entrerà in vigore
in Italia nel marzo 2013.
Favorevoli o sfavorevoli?
- Mentre, però, i favorevoli appaiono più consapevoli di che
cosa si stia parlando (sono favore-
Quanto è d’accordo con questa tassazione?
voli perché è una tassa «utile a
risollevare l’economia italiana»,
48,6%, e perché «penalizza i più
ricchi», 27,1%, penalizzando anche «la casta della finanza»,
17,1%), i contrari sembrano più
spaventati dalla parola «Tax»
che dal contenuto vero e proprio del provvedimento: infatti,
la percentuale di contrari che
non giustificano affatto la loro
risposta o che si ritengono «poco informati» è pari al 37,0%;
chi giustifica il suo disaccordo
lo fa invece affermando perlopiù che «penalizza i più poveri»,
frase inesatta, seguendo lo scopo della tassa stessa.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
45
Istituto: Lorien Consulting s.r.l. - Criteri seguiti per la formazione del campione: campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, rappresentativo per sesso,
età e area geografica - Metodo di raccolta delle informazioni: indagine quantitativa telefonica (CATI, Computer Assisted Telephone Interview) - Numero delle persone interpellate ed
universo di riferimento: 1.000 cittadini italiani maggiorenni - Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 12 - 14 gennaio 2013 - Metodo di elaborazione: SPSS
- Il gruppo di italiani che si azzarda a darne un giudizio, si divide però in due parti pressoché uguali: i favorevoli (28%),
perlopiù uomini (74,3%) di
55-65 anni (22,9% vs la media
nazionale 14,4%), con un livello di istruzione medio alto (diploma: 55,7% vs 48,0% nazionale; laurea: 24,3% vs 15,6%
nazionale), impiegati o quadri
(34,3% vs 22%) che si definiscono di sinistra (17,1% vs
10,8%) o centrosinistra (54,3%
vs 25,2%), e i contrari, donne
(62,2%) casalinghe (20,6% vs
15,2% nazionale) o disoccupati (12,8% vs 10,8%) con un livello di istruzione medio-basso
(licenza elementare: 11,7% vs
9,6%; licenza media: 31,1% vs
26,8%) senza una precisa autocollocazione politica (29,2%).
do you SpRead?
voci dal meRcato globale
Transazioni,
è l’ora delle tasse
B. Woods
L
o scorso 9 ottobre
i ministri delle Finanze di undici
Paesi dell’UE (Austria, Belgio, Estonia, Francia, Germania, Grecia,
Italia, Portogallo, Slovacchia,
Slovenia e Spagna) riuniti a
Bruxelles, si sono dichiarati favorevoli all’introduzione di una
tassa sulle transazioni finanziarie (asset e derivati). Facendo
seguito a quanto fatto dal primo ministro francese Hollande
(tassa di 0,2% su tutte le transazioni su titoli emessi da società
con sede sociale in Francia e
con capitalizzazione superiore
al miliardo di euro), l’Italia
ha introdotto con la
Legge di Stabilità
2013-2015, articolo
1 commi 491-500,
le imposte sulle
transazioni finanziarie (Gazzetta
Ufficiale n. 302, 29
dicembre 2012). Il
legislatore italiano ha
previsto un’imposta differenziata per asset primari e
derivati, nonché per mercati regolamentati e non regolamentati (mercati OTC) e per le negoziazioni ad alta frequenza (High
Frequency Trading - HFT).
46
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
L’imposta, pari allo 0,2% del valore delle transazioni di titoli (0,1% nei mercati regolamentati e
nei sistemi multilaterali per società con capitale
superiore a 500 milioni di euro), che non si applica a «prodotti etici o socialmente responsabili», è dovuta a partire dal primo marzo 2013. È
prevista l’introduzione (1 luglio 2013) di una tassa sulle transazioni sui derivati; l’imposta in misura fissa varia in ragione alla tipologia (futures,
certificates, covered warrants, opzioni, swap, etc.)
e al valore del contratto. Infine (comma 495) è
prevista una tassa dello 0,02% sulle transazioni e
negoziazioni ad alta frequenza (HFT), ovvero sulle
operazioni di scambio realizzate su piattaforme
elettroniche con tempo di esecuzione non superiore a mezzo secondo; la tassa si applica anche
sugli ordini cancellati e modificati.
Il grande pubblico ha identificato erroneamente
questa nuova imposizione fiscale sugli scambi finanziari con la Tobin Tax. In realtà lo scopo della
Tobin Tax (1972) era quello di stabilizzare i tassi
di cambio, dissuadendo la speculazione con una
tassa dello 0,5% sul volume delle transazioni,
mentre le nuove tasse, soprattutto nella versione
italiana, attraverso un’azione differenziata, mirano a limitare tutte le operazioni finanziarie altamente speculative, puntando in particolare a
quelle sui mercati non regolamentati e sui mercati elettronici ultraveloci.
L’azione di Francia e Italia dovrebbe, infatti, indurre gli altri Paesi dell’UE, non solo quelli che
si sono espressi a favore della tassazione, ma soprattutto quelli decisamente contrari come i Paesi Bassi e il Regno Unito, a muoversi rapidamente
verso una restrizione delle condizioni di funzionamento dei mercati finanziari. L’adozione di
HFT: economia algoritmica
S
ono denominati scambi ad alta frequenza (HFT) gli scambi
di titoli che si avvalgono di piattaforme elettroniche che,
sulla base di sofisticati algoritmi, compiono operazioni di
compra-vendita in frazioni di secondo. Le transazioni ad alta frequenza rappresentano ormai circa l’80% del volume degli scambi
globali, ma coinvolgono solo un esiguo numero di operatori (circa
il 2% del totale). Questa tipologia di transazioni implica la possibilità di produrre enormi effetti sui mercati finanziari: è il caso
del “flash crash” del 6 maggio del 2010, quando in meno di 5 minuti il Dow Jones ha perso 998.50
punti (-9.2%), o del fallimento di Knight Capital (un importante market maker americano) che in
45 minuti ha subito perdite per 440 milioni di dollari (1 agosto 2012), per un malfunzionamento
del sistema. Inoltre gli scambi ad alta frequenza evidenziano la presenza di asimmetrie informative
che possono dar luogo a fenomeni di azzardo morale, di selezione avversa e soprattutto di collusione che pregiudicano il corretto funzionamento dei mercati finanziari.
una tassazione differenziata e
di regole più restrittive sui mercati finanziari da parte dei 27
Paesi dell’UE, in particolare
del Regno Unito dove nella City sono sottoscritti oltre il 75%
dei contratti OTC denominati
in euro, stabilizzerebbe i corsi
delle attività finanziarie e i tassi
d’interesse. In tal modo si inizierebbe a limitare l’azione dei
capitali speculativi che tanti
problemi hanno creato negli
scorsi mesi ai debiti sovrani e
alle quotazioni azionarie, quindi all’euro e alla stessa stabilità
politica dell’UE. Inoltre, rispondendo positivamente e rapidamente alle sollecitazioni
provenienti da Francia e Italia,
l’UE potrebbe riconquistare
anche un ruolo di partnership
autorevole e affidabile con gli
USA, dove l’amministrazione
Obama è strenuamente impegnata nell’introduzione di regole più severe nei mercati OTC e
in quelli gestiti con piattaforme
elettroniche (Title VII, DoddFrank Wall Street Reform and
Consumer Protection Act). La
cooperazione tra UE e USA potrebbe consentire il superamento dei costosi interventi specifici
ed ex-post (fallimenti pilotati, ricapitalizzazione e nazionalizzazione di banche, etc.) attuati
per salvare il sistema finanziario
globale e favorire la nascita di
una Camera di Compensazione
Centrale (Central Clearing
House) per i contratti OTC.
L’istituzione di una Camera di
Compensazione Centrale, a gestione mista pubblica e privata,
è considerata da molti esperti
come la proposta in grado di
realizzare un’efficiente gestione
dei rischi, senza pregiudicare
l’innovazione finanziaria.
OTC, ovvero la diversificazione
del rischio
I
contratti OTC sono contratti bilaterali privati stipulati tra due
parti direttamente, cioè senza transitare in un mercato organizzato (off exchange). Le finalità dei contratti OTC sono le stesse
dei contratti sui mercati regolamentati, cioè la diversificazione del
rischio. Rispetto ai contratti negoziati sui mercati organizzati, i contratti OTC non sono soggetti a tasse e imposte, non richiedono il rispetto di alcuna regola o requisito per i negoziatori. Tuttavia i contratti OTC sono soggetti al rischio di liquidità, ovvero all’incapacità
di vendere un asset quando necessario, e al rischio di controparte,
vale a dire al rischio che uno dei soggetti coinvolti nel contratto fallisca prima della regolazione dello stesso. Tali eventualità, come dimostrato dai fatti del 2008, possono accrescere il rischio sistemico e
indurre una vera e propria crisi finanziaria globale.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
47
economia
Cipro |
Nicosia e
i compiti a casa
C
ipro è la terzultima economia tra
quelle dei 17 Paesi
che hanno aderito all’euro. Fino
all’esplosione della crisi del
2008, il Paese ha registrato un
periodo di elevata crescita economica (3,5% annuo in media
dal 2000) e di bassa disoccupazione (3,6%), con un debito
pubblico pari al 48% del PIL.
Nel 2009, il propagarsi della
crisi provocata dal fallimento
del sistema dei mutui sub-prime
ha prodotto una riduzione
dell’1,9% del PIL che il governo cipriota ha cercato di contrastare attraverso un pacchetto
di misure espansive (4% del
PIL). Tuttavia l’elevata esposizione delle banche cipriote in
titoli del debito greco, la caduta dei prezzi delle abitazioni e il
deprezzamento di alcune valute,
48
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
rilevanti per i flussi turistici che
contribuiscono al 10% del PIL,
hanno vanificato la tenue ripresa
del 2010 (1,1% nel 2010 e 0,5%
nel 2011). Nel 2012, la contrazione nel settore delle costruzioni, le difficoltà del turismo e
le ingenti perdite subite dalle
banche cipriote (4,5 miliardi di
euro sul debito sovrano della
Grecia) hanno duramente colpito la convalescente economia
cipriota determinando una riduzione del PIL (-1,2%), un
drastico aumento del tasso di
disoccupazione (12,9%), una
rilevante crescita del debito
pubblico (74%) e la difficoltà
nel ridurre il deficit pubblico.
Le problematicità cipriote sono
state prontamente registrate
dalle agenzie di rating internazionali che, a più riprese, hanno declassato il debito sovrano
avvicinandolo pericolosamente
al livello di spazzatura (Moody da
Ba3 a Ba1, Standard & Poor’s
da BB a B). Con l’accesso al
mercato del debito precluso,
un’economia in recessione, banche da ricapitalizzare, Cipro ha
chiesto e, dopo una lunga negoziazione, ottenuto dalla BCE
e dal FMI un prestito di 17,5
miliardi di euro, cifra equivalente al suo PIL annuo. Tuttavia, i provvedimenti richiesti
dalla Troika per la concessione
del prestito (aumento dell’età
pensionabile e delle tasse su alcolici e tabacchi, crescita di due
punti dell’IVA, blocco delle indicizzazioni, blocco degli stipendi, etc.) non solo hanno
provocato un’ondata di scioperi, ma rischiano di aggravare la
crisi e far esplodere il debito
pubblico (140%160% del PIL).
Considerando
economia
Lo studio FMI
Anche con l’aiuto esterno, per Cipro il
problema è sempre quello: il debito sovrano.
Può la crescita economica salvare questo Paese?
che il sistema bancario cipriota
è molto sviluppato (oltre 152
miliardi di asset, pari a più di
otto volte il PIL nazionale), un
eventuale salvataggio dal default sarebbe estremamente costoso (“Too Big To Save”) e potrebbe innescare una nuova
violenta crisi dell’euro.
È inevitabile che ciò accada o si
potrebbe pensare a politiche
economiche diverse per tenere
sotto controllo il rapporto debito pubblico-PIL, senza strozzare l’economia?
Sul tema della riduzione del
debito pubblico, quando approssima o supera la soglia del
100%, e della crescita economica, il FMI recentemente ha
pubblicato uno studio. L’analisi prende in esame gli effetti
delle diverse politiche adottate
negli ultimi cento anni per contrastare l’esplosione del debito
pubblico. Dopo un esame dettagliato di quanto accaduto in
sei Paesi (Regno Unito, Stati Uniti, Belgio, Canada, Italia e Giappone), l’analisi giunge alla conclusione che «solo la crescita economica può consentire una riduzione permanente del rapporto
debito pubblico-PIL e che la
crescita economica va associata
a politiche monetarie espansive
e a svalutazioni del tasso di
cambio, giacché solo in quel
contesto le riforme strutturali e i
sacrifici imposti ai Paesi possono
avere effetti permanenti».
Ma se le politiche economiche
attuate negli USA di Obama e
nel Giappone di Abe (spesa pubblica e politica monetaria espansive) vanno in questa direzione,
nell’area dell’euro la priorità è
attribuita al “fare i compiti a casa” e gli effetti di queste diverse
scelte sono evidenti per tutti.
L
o studio pubblicato nell’ottobre scorso dal FMI consente
di avanzare alcune interessanti osservazioni. La prima è che un
debito pubblico superiore al 100% del
PIL ha riguardato, almeno una volta,
la metà dei Paesi presi in esame (11
su 22). La seconda è che non esiste
alcuna correlazione tra riduzione del
debito pubblico e crescita economica nei casi esaminati. La terza, infine,
è che non c’è un livello soglia nel
rapporto debito pubblico-PIL che
consenta di distinguere situazioni
buone e cattive. Il rapporto assume
che la dinamica del rapporto debito
pubblico e PIL dipende da quattro
variabili fondamentali: il tasso d’interesse sul debito, il tasso d’inflazione,
il tasso di crescita del PIL e il rapporto deficit primario (deficit al netto
della spesa per interessi) e PIL.
I risultati
- Lo stock di debito pubblico risponde molto debolmente alla crescita
del bilancio primario: se infatti
l’avanzo primario è, in media, del
2,4% del PIL, quando il rapporto
debito pubblico-PIL si riduce, è
dell’1,2% quando il rapporto debito pubblico-PIL cresce;
- i tassi d’interesse reali e il tasso di
crescita del PIL sono le due variabili fondamentali nella spiegazione della dinamica del rapporto debito pubblico-PIL;
- il ruolo dell’inflazione nel ridurre
il debito pubblico è incerto, anche
se un’iperinflazione riduce fortemente il debito;
- sembra essere più importante il
trend del rapporto debito pubblicoPIL piuttosto che il suo livello.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
49
duRa lex
Sotto la lente del diRitto
Il reato di corruzione
internazionale
Draconian
L
e recenti vicende
giudiziarie che vedono coinvolti,
anche a livello internazionale, due
tra i principali gruppi industriali italiani - ENI e Finmeccanica - impongono un approfondimento delle problematiche
connesse al coinvolgimento
dell’azienda nel procedimento
penale avente ad oggetto il reato di corruzione internazionale commesso da soggetto collocato in posizione qualificata
nell’ente e in presenza di un
interesse o vantaggio dell’ente
medesimo alla commissione
del reato, oppure da quanti, pur non trovandosi
in rapporto organico con la società,
abbiano agito nell’interesse di questa: è il caso
dell’agente/rappresentante che
compie attività illecite per assicurarsi
l’acquisizione di commesse, ovvero del “consulente”, persona fisica o giuridica, che s’interpone fittiziamente e illecitamente nel processo
acquisitivo di un contratto di
fornitura.
50
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
I risvolti possibili in ambito aziendale sono molteplici, soprattutto sotto il profilo delle risposte “sanzionatorie” previste dal nostro ordinamento e, in
particolare, dalla normativa sulla responsabilità
per illecito amministrativo dipendente da reato.
LA VICENDA
La compagnia Snamprogetti Netherlands facente capo a Saipem, società di ingegneria e costruzioni petrolifere controllata dal gruppo Eni, ha
fatto parte dal 1994 al 2004 del consorzio petrolifero internazionale TskJ - joint venture guidata
dall’americana Halliburton e partecipata dalla texana KBR, dal gruppo italiano ENI, dalla giapponese Jgc e dalla francese Technip - che avrebbe
versato, nell’arco del decennio, 182 milioni di
dollari in tangenti per corrompere politici, capi
di Stato e alti funzionari del governo nigeriano al
fine di aggiudicarsi l’autorizzazione a costruire
sei grandi impianti di trasporto e stoccaggio di
gas liquefatto del giacimento nigeriano di Bonny
Island, nel sud del Paese: sei miliardi di dollari le
provviste per ENI.
Scoppiato lo scandalo delle tangenti, la Commissione per i crimini economici e finanziari della
Nigeria (EFCC), nel novembre del 2010 ha concesso l’autorizzazione alla perquisizione degli
edifici della Halliburton a Lagos, consentendo
l’arresto di dieci impiegati e due direttori dell’azienda, dell’amministratore delegato della Saipem, l’italiano Giuseppe Surace, e dell’omologo
francese della multinazionale Technip.
Per regolare le pendenze con la giustizia locale,
Snamprogetti - controllata di Saipem, a sua volta
controllata di ENI - e altri due membri del consorzio petrolifero, patteggiano con la procura di
Abuja una maxi multa pari a
quasi 30 milioni di dollari (oltre a 2,5 milioni di dollari destinati al rimborso spese e ai costi
legali sostenuti dal governo nigeriano). La cosa però non finisce qui. L’inchiesta sulle tangenti ha indotto ENI a transigere
con il Dipartimento della giustizia USA e la Sec (Security and
Exchange Commission cioè la
Consob americana) il pagamento di una multa pari a 365
milioni di dollari per violazione
della legislazione americana.
Non altrettanto è accaduto in
Italia: la Procura di Milano ha
infatti avviato un procedimento
penale per il reato di corruzione internazionale (nel cui ambito è stata emessa sentenza di
prescrizione) nei confronti di
cinque manager di Snamprogetti e della stessa Saipem per
aver, quale persona giuridica,
violato la legge 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti per reati commessi dai
dirigenti nell’interesse dell’azienda (procedimento ancora in corso). E in tale ultimo
contesto era stata altresì richiesta l’applicazione della misura
interdittiva volta a vietare a ENI
e Saipem di stipulare contratti
con la pubblica amministrazione
nigeriana.
Il copione è destinato a riproporsi nelle inchieste per corruzione internazionale in corso
su Finmeccanica e sue controllate, concentrate sulla fornitura di elicotteri e armi all’estero
e avviate dalle Procure di Napoli e Busto Arsizio, che hanno
determinato l’iscrizione della
holding nel registro degli indagati per aver, quale persona
giuridica, violato la legge 231
sulla responsabilità amministrativa degli enti per reati commessi dai dirigenti nell’interesse dell’azienda.
Tre i filoni sui quali si indaga:
Panama - l’inchiesta riguarda le
forniture effettuate da tre società del gruppo Finmeccanica
AgustaWestland, Selex e Telespazio, al governo panamense
nell’ambito di accordi stipulati
con lo Stato italiano.
Brasile - si indaga sulla fornitura, per un ingentissimo importo,
di navi fregata.
India - si indaga sul pagamento di presunte tangenti sul
contratto di vendita di 12 elicotteri Agusta Westland al governo indiano.
RIFLESSI
SULL’ORGANIZZAZIONE
AZIENDALE
Il tema della responsabilità dell’ente per l’illecito amministrativo dipendente dal reato di
corruzione internazionale tanto comunitaria quanto extracomunitaria, in quest’ultimo
caso, con tutte le limitazioni
previste dalla legge e sempre
che ricorrano gli ulteriori presupposti dell’ottenimento di
un vantaggio indebito e del
compimento della condotta
nell’ambito di un’operazione
economica internazionale - impone di “ripensare” i modelli di
organizzazione aziendale nella
prospettiva di implementarne
l’efficacia prevenzionistica in
presenza di condotte analoghe
a quelle contestate ad ENI e
Finmeccanica.
Infatti, verificata la realizzazione dei presupposti costitutivi
del reato di corruzione internazionale da cui dipende l’illecito a carico dell’ente, occorrerà poi verificare la sussistenza
degli elementi richiesti in generale dagli artt. 5, 6 e 7 d.lgs.
231/2001 per la sussistenza di
qualsiasi illecito dipendente da
reato, (compreso l’illecito di
cui all’art. 25, comma 4).
Tali elementi sono:
a) la posizione qualificata dell’autore del reato nell’ente;
b) la sussistenza di un interesse o
vantaggio dell’ente medesimo
alla commissione del reato;
c) la mancata adozione di un
modello organizzativo, idoneo a prevenire la commissione di detti reati, efficacemente implementato;
d) la fraudolenta elusione del
modello da parte dei soggetti apicali o un’insufficiente
vigilanza da parte dell’organo di controllo.
La particolarità delle dinamiche legate ai fenomeni di corruzione internazionale impone,
quindi, per un verso di adeguare i modelli organizzativi mediante il ricorso a canoni di
best practices che tengano conto della vocazione transnazionale dell’azienda; per l’altro, di
potenziare la funzione di controllo attribuita all’organismo
di vigilanza, mediante l’affiancamento di un organo tecnico in
grado di monitorare ogni fase
del processo di acquisizione della commessa, fungendo da deterrente sia ad eventuali attività
illecite di agenti e rappresentanti, sia all’interposizione fittizia di
consulenti e intermediari.
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
51
un libRo al meSe
a cuRa di @Roccobellantone
coSì dicono
Castro’s Secrets
Palgrave Macmillan,
2012
pp. 288
A
quasi due anni dall’ufficiale uscita di
scena dalla vita politica cubana, la figura
di Fidel Castro continua a far discutere:
per il peso che continua ad avere negli equilibri
geopolitici internazionali e, soprattutto, per
un’eredità ingombrante con cui tutti, nessuno
escluso, avranno a che fare ancora a lungo. Né
sanno qualcosa gli Stati Uniti, la cui storia durante e dopo la Guerra Fredda è indissolubilmente
legata a quella del leader máximo. Un “flirt” su
cui torna a indagare il libro Castro’s Secrets: the CIA
and Cuba’s Intelligence Machine, pubblicato recentemente dalla casa editrice Palgrave Macmillan.
L’autore è Brian Latell, impegnato nei primi anni Sessanta in attività di monitoraggio su Cuba
per conto della CIA e oggi senior research presso
l’Istituto di Studi Americani Cubani all’Università di Miami. In questo suo nuovo volume,
Latell tira fuori gli scheletri dall’armadio di Castro e della CIA, setacciando la pista che ha collegato per
anni Washington all’Avana. E a
tornare a galla sono notizie
esclusive sullo spionaggio e sul
controspionaggio cubano. Verità sinora nascoste, a cui Latell arriva parlando con il disertore Florentino Aspillaga Lombard, per anni
a capo del centro di intelligence cubano a Praga. E, tra le sue dichiarazioni scottanti, emerge una verità che, se confermata, potrebbe sconvolgere il copione della Storia per come
l’abbiamo conosciuta finora: Fidel, e molto probabilmente anche suo fratello Raul, sapevano
che Lee Harvey Oswald avrebbe tentato di assassinare il presidente Kennedy a Dallas.
52
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
“
Ho lasciato
incompiute una
quantità di cose.
Ma questo è naturale.
E, a proposito, vale la
pena di ricordare che
in francese il passato si
chiama imperfetto.
chaRleS de gaulle
C
”
harles André Joseph Marie de
Gaulle (1890-1970), generale di
brigata e politico francese, è stato
per la Francia “l’homme qui dit non”, cioè
l’uomo che volle dire “no” al Terzo Reich di
Adolf Hitler e che, dopo aver visto la sua patria invasa e sottomessa, organizzò la lotta
di resistenza contro l’occupazione tedesca e
contro la Repubblica di Vichy. La sua
proverbiale tenacia e il suo carattere
forte - condivideva una grande stima con Churchill e un rispettoso
odio con Roosevelt - contribuirono a rinsaldare il sentimento patriottico tra i francesi e a credere
nella vittoria finale. Nessuno meglio di De Gaulle ha espresso nel
Novecento l’orgoglio della Francia,
intriso di quel nazionalismo e di quella
grandeur che da sempre contraddistingue
questo Paese. Oggi, che la Francia insegue
nuovamente il passato con le guerre in
Nord Africa, il risultato è lo stesso che descriveva il generale: imperfetto.
G-risk, società italiana di security e intelligence,
nasce a Roma nel 2007 da una fertile partnership
tra analisti ed esperti di istituzioni nazionali ed
estere dedicate alla prevenzione e alla gestione
del rischio. Sostenuta da capitali privati - che ne
assicurano la piena autonomia gestionale - GRisk dispone di numerose sedi operative in Italia
e nel resto del mondo: roma, Genova, Beirut,
riyadh, Karachi, la Paz, Bogotá, caracas,
Montreal.
realmente le attività aziendali e gli asset strategici, umani e tecnologici.
La strategia di G-Risk si basa sulla stretta integrazione tra team di analisi strategica e gruppi
operativi in grado di intervenire in qualsiasi momento in aree domestiche e internazionali. Le
nostre unità sono presenti nelle maggiori aree
critiche del pianeta per investigare sulle realtà
locali con cui la società cliente desidera intraprendere attività e relazioni commerciali, otteLa nostra mission è garantire la sicurezza prima nendo tutte le informazioni necessarie nel minor
che qualsiasi minaccia possa compromettere tempo possibile.
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