Un continente che rinnega la natura umana

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Un continente che rinnega la natura umana
Un continente che
rinnega la natura umana
di John Waters
Giornalista e scrittore,
editorialista dell’Irish
Times
Una possibile interpretazione del problema dell’Unione Europea consisterebbe nel
vederla non come un’unione, ma come una dittatura dei forti sui deboli. Dieci anni
fa, quando è stata introdotta la valuta unica, questa dittatura ha dato luogo a una
sorta di manipolazione benevola delle piccole nazioni europee, che ha usato prestiti
a basso tasso d’interesse per ingigantire i desideri umani allo scopo di trarne un
profitto a lungo termine. Ora il processo si è invertito, e queste piccole nazioni (e
anche alcune non così piccole) sono costrette a rimborsare debiti orribilmente gonfiati, esito dell’iperinflazione creata da una valuta sbilanciata e disfunzionale e da
un apparato bancario inefficiente.
Queste circostanze sono il prodotto di due fattori: primo, la mancanza di coesione
economica su cui basare una moneta unica funzionante; secondo, la riunificazione
della Germania che ha provocato un rallentamento dell’economia tedesca, e in seguito alla quale i tassi d’interesse hanno raggiunto un livello tale da minare l’integrità delle economie più piccole, che mai prima avevano assistito a una simile
esplosione di credito disponibile.
Ma ancor peggio di tutto ciò sono state le successive negazioni: anziché ammettere cos’era accaduto, un’intera generazione di politici europei ha cercato di fingere che il vero problema fosse l’insubordinazione delle piccole nazioni. E le piccole
nazioni – in parte per debolezza e in parte per un ingiustificato senso di colpa indotto dagli inevitabili effetti del credito illimitato sulle loro culture e popoli –
hanno finora accettato questa versione dei fatti: forse nella speranza che il vecchio
aeroplano del progetto Europa possa essere rattoppato per resistere a un altro paio
di voli.
La linea politica ufficiale dell’Unione Europea, in altre parole, è diventata l’imposizione di un’enorme bugia, che ha infine confermato i dubbi di tutti coloro che in
precedenza cercavano di mettere in questione le sue motivazioni. La bugia è resa
necessaria dalla cecità egoistica di una generazione di politici che non hanno il coraggio di ammettere che il progetto è fallito e dovrebbe ripartire da zero, proprio
ora che essi pensavano di goderne i frutti. Questo è il significato e l’obiettivo del
patto fiscale recentemente approvato dai leader UE e su cui presto si esprimerà in
un referendum il mio Paese, l’Irlanda, probabilmente a fine maggio 2012.
In seguito a un periodo di incertezza, in cui sembrava che fosse a rischio la stessa
sopravvivenza dell’euro, si sta imponendo un nuovo clima di normalizzazione, fon-
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dato sul patto fiscale. Una volta approvato, questo provvedimento ribadirà che i
problemi dell’Eurozona sono interamente causati dall’incoscienza e dagli sperperi
delle piccole nazioni. Ma il vero problema è così evidente, da così tanto tempo, che
l’imposizione di questa analisi fittizia sarà un miracolo di indottrinamento dell’opinione pubblica. Nonostante le manifestazioni di piazza, il consenso degli economisti e tutte le conferme empiriche disponibili, i nuovi autoeletti leader dell’UE sono
in procinto di imporre all’intero continente una visione della crisi che è funzionale
ai loro interessi personali, occultando la verità.
Il patto fiscale somiglia alla destrezza con cui il prestigiatore distrae il pubblico dal
trucco che rende possibile la sua magia. Nella pratica, il patto sarà inefficace, perché è insensato minacciare le economie in crisi – allo scopo di tenerle in riga – con
sostanziose penali economiche che possono solo peggiorare la loro situazione. Ma
questo traviamento è cruciale per convincere tutti che le nazioni del nucleo centrale dell’UE dovrebbero soffrire meno delle altre per il fallimento del progetto Eurozona. Germania e Francia hanno ottenuto questo splendido risultato appropriandosi
delle leve del comando e sospendendo i già deboli strumenti democratici dell’UE, e
hanno usato la ritrovata egemonia per insinuare che l’UE sarebbe una creatura
della filantropia tedesca e francese. Dopo aver acquisito il controllo delle istituzioni
centrali europee, con prepotenza e tattiche di intimidazione hanno soggiogato le
deboli leadership dei Paesi periferici, e ove necessario le hanno sostituite.
I padri fondatori dimenticati
I fautori del progetto europeo sembrano ritenere che sia dovere morale di ciascuno
aderire alla sua logica. Ma, a parte i generici pronunciamenti sui vantaggi potenziali della cooperazione economica, l’opinione pubblica resta disinformata sul nucleo filosofico del progetto. Di tanto in tanto ci viene rammentato il desiderio dei
fondatori di unire il continente all’indomani della Seconda guerra mondiale, onde
scongiurare ostilità future entro l’Europa.
Se non facciamo come dicono loro – insinuano oggi i successori di quei fondatori –
potremmo essere responsabili di nuovi bagni di sangue nei campi d’Europa. E oggi,
salta fuori un’altra assurdità: che per evitare una nuova guerra tra Francia e Germania, il resto d’Europa debba impoverirsi per generazioni intere e condannare i
suoi figli a veder nascere un continente a due velocità, in cui la prosperità dei ricchi sarà accompagnata da una nuova forma di autocrazia economica giustificata
dalla necessità di contenere gli appetiti irrefrenabili di nazioni incapaci di gestire i
propri affari. Diventerà sempre più difficile distinguere tra le circostanze generate
da questa logica e le circostanze per evitare le quali l’Unione Europea è stata concepita. L’UE è nata non da astrazioni o utopie, ma dai fatti della storia e della politica europea.
Jean Monnet e gli altri padri dell’Europa unita non volevano imporre un’idea elevata, ma realizzare un progetto pratico: basato, sì, su grandi ideali, ma anzitutto
un edificio da costruire passo dopo passo, e fondato su valori condivisi, principi
culturali e istituzioni che tenessero conto dei desideri dei popoli europei. Questi
ultimi quattro anni di autocrazia franco-tedesca hanno distrutto quell’idea, forse
per sempre.
Da parte mia, ormai da molti anni nutro forti sospetti sul progetto europeo, forse a
causa della sua burocrazia e del fatto che sembrava considerare il sostegno democratico come un sigillo di approvazione da apporre su decisioni già prese da politici
e funzionari. Nel mio Paese, l’Irlanda, in quanto giornalista e attivista mi sono
espresso a più riprese contro vari trattati europei, compreso quello di Maastricht
del 1992. Dopo la ratifica irlandese di quel Trattato, ho capito che l’Irlanda era già
così avanti sulla strada della dipendenza dall’UE che non c’era via di ritorno. La decisione del mio Paese di imboccare la strada di una nuova dipendenza mi disgustava, ma quando ho capito che era la scelta democratica del mio popolo ho deciso
di sostenerla e ho voluto che avesse successo. Mi rammarico di dover dire che a
quanto pare avevo ragione io.
«L’ideologia», ha
dichiarato con
acutezza Havel nel
suo saggio Il potere
dei senza potere,
«finge che i requisiti
del sistema derivino
dai requisiti della
vita. È un mondo di
apparenze che cerca
di spacciarsi per
realtà».
Per me, come per molti, il problema centrale del progetto europeo è sempre stato il
fatto di non saper accendere l’immaginazione della gente. Nonostante la gloriosa
retorica dei suoi padri fondatori, è rimasto un fenomeno tecno-burocratico giustificato da promesse di democrazia e uguaglianza, nobili ma in realtà vuote.
Questo è il problema così ben evidenziato dal compianto presidente ceco Václav
Havel nel suo discorso del 1994 al Parlamento europeo, quando descrisse la sua
reazione iniziale – da eurofilo convinto – al primo incontro con il Trattato di Maastricht: «Nella mia ammirazione, che inizialmente tendeva all’entusiasmo», scriveva
«ha iniziato a infiltrarsi un’inquietudine. Ho avuto l’impressione di osservare gli ingranaggi di una sofisticatissima macchina moderna. Studiare una simile macchina
dev’essere una grande gioia per un appassionato di tecnologia; ma per me, un essere umano il cui interesse per il mondo non è soddisfatto dall’ammirare macchine
ben oliate, mancava qualcosa. Forse, semplificando molto, potrei definirla una dimensione spirituale, morale o emotiva. La macchina parlava alla mia ragione, ma
non al mio cuore».
Molto tempo prima, Havel aveva esaminato la natura dell’ideologia comunista. Ben
lungi dall’avallare le reazioni trionfalistiche dei capitalisti occidentali di fronte alla
caduta del Muro di Berlino nel 1989, la sua diagnosi rappresenta un monito sui rischi impliciti in ogni utopia. Anni prima del collasso del comunismo, scrisse che
l’ideologia socialista dell’Est era «un’immagine proiettata su uno specchio convesso» del capitalismo occidentale: una versione lievemente esasperata di qualcosa
che è correlato nel profondo a una perversione del desiderio umano.
Riabilitare l’esperienza personale
«L’ideologia», ha dichiarato con acutezza Havel nel suo saggio Il potere dei senza
potere, «finge che i requisiti del sistema derivino dai requisiti della vita. È un
mondo di apparenze che cerca di spacciarsi per realtà». Sulla lotta tra comunismo e
capitalismo – scriveva in un altro saggio, Politica e coscienza – queste due «categorie profondamente ideologiche e spesso semanticamente confuse hanno smesso da
tempo di essere pertinenti».
Quel che realmente dobbiamo chiederci è se è possibile mettere la moralità al di
sopra della politica, restituire contenuto alla parola umana e riabilitare l’esperienza
personale degli esseri umani come autentica misura di libertà, piazzando al centro
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non un sistema coeso di credenze ma «l’io umano autonomo, integrale e con tutta
la sua dignità». Havel identificava nella società moderna l’esigenza di una «politica
post-politica», ovvero la politica non come tecnologia del potere ma come mezzo
per permettere alla vita umana di avere significato.
A tale scopo sarebbe stata necessaria una «rivoluzione esistenziale», che coinvolgesse il genere umano nella totalità del suo essere, trascendendo la politica e la
società nelle loro accezioni convenzionali. Havel sottolineava che quella rivoluzione era urgente nelle democrazie libere dell’Occidente tanto quanto nel blocco
comunista.
L’uomo continua a fraintendere la natura della libertà. Possiamo abbattere muri o
creare entità sovranazionali per rispondere agli incessanti richiami dei nostri desideri più profondi, ma non è detto che troveremo la risposta nelle idee di libertà che
stanno dall’altra parte di un muro, di un confine o di un oceano, e neppure aderendo a un sistema politico rivale.
Il desiderio umano è sconfinato e instancabile, e la libertà non può scaturire da un
sistema politico ed economico, perché l’appetito umano resta insoddisfatto dalle
condizioni e dalle risorse fisiche. Oltre un certo punto, nei tentativi di sviluppare
appieno il nostro potenziale, deve intervenire qualcos’altro: la consapevolezza che
quelli che vediamo come traguardi del desiderio umano non sono che tappe intermedie verso qualcos’altro, qualcosa che ci chiama da lontano e resta sempre appena fuori dalla nostra portata.
Ciò significa che gli esseri umani sono in ultima analisi insaziabili: e non possono
trovare soddisfazione finché non incominciano a riconoscere questo paradosso.
Havel ci stava suggerendo che il sistema capitalista, forse tanto quanto il socialismo, sopravvive occultando e sopprimendo la vera natura del cuore umano. Un essere umano è davvero libero quando diventa consapevole che ciò che desidera non
si può comprare, e non si trova dall’altra parte di una barriera.
Ogni entità sovranazionale che nel corso della storia abbia potenziato l’umanità,
disse Havel al Parlamento europeo in quel discorso del 1994, è stata sostenuta da
un particolare carisma, in grado di informare e plasmare le sue strutture. Per essere
vitali, quelle entità dovevano offrire un qualche appiglio all’identificazione emotiva,
affermare un ideale che parlasse alle persone e le ispirasse: «Una serie di valori
comprensibili a tutti e che tutti potessero condividere».
Il compito più urgente per l’Unione, concludeva Havel, era «la ricostituzione del suo
carisma», e il primo passo in quella direzione era formulare «un documento politico
unico, cristallino e universalmente comprensibile, che renda immediatamente evidente cos’è l’Unione Europea».
È interessante ricordare che allorché, qualche anno dopo, si è tentato di formulare
un documento simile, nella forma di una Costituzione europea che tutti gli Stati
membri erano invitati a sottoscrivere, l’iniziativa fu accompagnata da una controversia che sorgeva dall’esclusione di ogni menzione di Dio da quella bozza di documento. Forse questo è un indizio di ciò che davvero è andato storto.
Ragione positivista e ragione aperta
Nella sua ricerca di
onnipotenza, l’uomo
ha perso di vista la
sua struttura, la
sproporzione
congenita che
persiste tra ciò che
l’uomo davvero
sembra volere e ciò
verso cui lo
spingono i suoi
sogni.
Al Bundestag, nel settembre del 2011, come in varie occasioni nei precedenti sei
anni di pontificato, Papa Benedetto XVI ha tenuto un discorso articolato ed eloquente sul restringimento della ragione imposto alle nostre culture dal pensiero
positivista, ovvero l’idea che la realtà possa essere compresa solo con mezzi oggettivi ed empirici. «La ragione positivista», ha dichiarato, «che si presenta in modo
esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale,
assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e
la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo di Dio. E
tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna
tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il
cielo e la terra e imparare a usare tutto questo in modo giusto.»
Ecco la descrizione più concreta e accurata di dove ci ha condotti ciò che chiamiamo «progresso». Nella sua ricerca di onnipotenza, l’uomo ha perso di vista
l’unica cosa in grado di alleviare i suoi desideri e proteggerlo dalla sua incapacità di
soddisfarli. In altre parole, ha perso di vista la sua struttura, la sproporzione congenita che persiste tra ciò che l’uomo davvero sembra volere e ciò verso cui lo spingono i suoi sogni. I sogni sono buoni perché conducono l’uomo a scoprire grandi
cose sul mondo; ma il desiderio è molto più grande di qualsiasi realtà l’uomo possa
concepire. E così, più l’uomo cerca di farsi padrone del proprio destino, e più è condannato a restare insoddisfatto.
Rifletto spesso su questo paradosso: sforzandoci incessantemente di eliminare dalla
nostra cultura l’idea di un Dio che tutto sorveglia, di recente l’abbiamo rimpiazzato
con qualcosa di assai più irrazionale. Oggi, a controllare ogni nostra mossa non è
una divinità, ma qualcosa che chiamiamo «i mercati».
I mercati non dormono mai. Queste entità spettrali siedono notte e giorno davanti
agli schermi dei computer, a monitorare tendenze e a leggerci nel pensiero, a soppesare i destini dei popoli, preannunciando la fiducia dei greci e fissando il valore
dei bond irlandesi. Nessuno sembra sapere i nomi di queste entità, o da dove esattamente siedano a guardarci, o che aspetto abbiano. Ma la loro presenza indagatrice ci viene rammentata costantemente dai nuovi sacerdoti: banchieri,
speculatori, funzionari delle agenzie di rating ed «economisti». I banchieri, in particolare, godono di poteri sovrumani, avendo facoltà di creare denaro dal nulla. E
questa nuova tendenza ha preso piede in una relazione quasi precisamente inversa
allo smantellamento delle interpretazioni religiose della realtà.
Quel che abbiamo osservato nell’ultimo decennio di esperienza europea è stato il
realizzarsi a livello macropolitico del più fondamentale fraintendimento di se stesso
da parte dell’uomo. Questi ultimi eventi, ancora in corso, testimoniano la necessità
urgente che le élite dell’autocrazia europea si facciano avanti e incomincino a parlare ai cittadini d’Europa dei loro desideri umani fondamentali, e di come quei desideri possano trovare la migliore realizzazione in un progetto politico che governi
l’intera Europa in conformità alla vera natura dell’uomo.
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