FAMA E PUBLICA VOX NEL MEDIOEVO a cura di Isa Lori

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FAMA E PUBLICA VOX NEL MEDIOEVO a cura di Isa Lori
ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI
“CECCO D'ASCOLI”
FAMA E PUBLICA VOX
NEL MEDIOEVO
a cura di Isa Lori Sanfilippo e Antonio Rigon
Atti del convegno di studio
svoltosi in occasione della XXI edizione del
Premio internazionale Ascoli Piceno
Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 3-5 dicembre 2009
ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO
ROMA 2011
III serie diretta da
Antonio Rigon
Il progetto è stato realizzato con il contributo della
Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno
Comune di Ascoli Piceno
Fondazione Cassa di
Risparmio Ascoli Piceno
Istituto storico italiano
per il medio evo
© Copyright 2011 by Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” - Ascoli Piceno
Coordinatore scientifico: ISA LORI SANFILIPPO
Redattore capo: ILARIA BONINCONTRO
Redazione: SILVIA GIULIANO
ISBN 978-88-89190-86-9
Stabilimento Tipografico «Pliniana» - V.le F. Nardi, 12 - Selci-Lama (Perugia) - 2011
GIACOMO TODESCHINI
La reputazione economica come fattore di cittadinanza
nell’Italia dei secoli XIV-XV
Che cosa significa nelle città italiane del Tre e Quattrocento avere una
buona reputazione economica? Prima di arrivare a chiarire il significato
assunto in questo contesto dal rapporto tra fama economica e cittadinanza, è necessario approfondire brevemente la nozione stessa di reputazione
economica in Italia alla fine del medioevo. Le memorie e i libri di conti dei
mercanti scrittori abbondano di dichiarazioni più o meno estese ed esplicite, più o meno retoricamente eleganti, in materia di importanza della
fama per chi si dedichi al commercio e più in generale a guadagnarsi la vita
investendo il proprio denaro nei giochi economici proposti da un mercato, che, ormai, dal Tre al Quattrocento si va facendo sempre più internazionale1. Si va da Giovanni Morelli che insiste sull’importanza di avere ottime relazioni con persone affermate, ben reputate e socialmente preminenti, per acquistare una ricchezza coincidente con il buon nome pubblico,
all’anonimo mercante trecentesco che dichiara seccamente l’opposizione
che esiste tra i mercanti di chiara fama e di nota ricchezza e quelli “disfatti” ovvero in rovina e mal reputati, sino all’imponente discorsività
dell’Alberti e di Benedetto Cotrugli che erigono dei veri e propri monumenti linguistici al cittadino commerciante per il quale essere ricchi a buon
diritto è del tutto indistinguibile dall’essere riconosciuti come stimabili e
cioè pubblicamente utili nell’ambito della civitas2.
1 F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico
nei secoli XII e XIII, Catania 1985; J. Théry, Fama: l’opinion publique comme preuve judiciaire. Aperçu sur la rèvolution médiévale de l’inquisitoire (XIIe-XVe siècle), in La preuve en
justice de l’Antiquité à nos jours, cur. B. Lemesle, Rennes 2003, pp. 119-147; Fama. The
Politics of Talk and Reputation in Medieval Europe, cur. T. Fenster - D.L. Smail, IthacaLondon 2003; G. Todeschini, Theological Roots of the Medieval/Modern Merchants’ SelfRepresentation, in The Self-Perception of Early Modern Capitalists, cur. M.J. Jacob - C.
Secretan, New York 2008, pp. 17-46.
2 Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, in Mercanti scrittori, ed.V. Branca, Milano 1986,
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Bernardino da Siena, del resto, ereditando dalla Scuola oliviano – scotista, cui apparteneva, una nozione di ricchezza inscindibilmente connessa
a quella di utilità pubblicamente riconosciuta della medesima, aveva stabilito negli stessi anni, che il peccato del commerciante truffatore era in realtà anche, se non soprattutto, un crimine nei confronti del sistema economico che costui avrebbe dovuto rappresentare3. Il tradimento della fiducia di
cui pubblicamente godeva, infatti, se da un lato cancellava definitivamente
il suo nome e la sua reputazione, contribuiva d’altra parte a svalutare, infamandolo, il sistema di relazioni economiche di cui, invece, avrebbe dovuto
essere il garante. Non era estranea a questa visione del crollo della fiducia
collettiva indotto dalla disonestà del singolo una lettura classicamente agostiniana4 del tradimento di Giuda come attentato al bene pubblico, ossia
come metaforico peculato perpetrato ai danni della persona del Cristo a sua
volta intesa metaforicamente come figura dello Stato e dell’erario5.
La buona fama del mercante, in altre parole, era raffigurata dai teologi e dai giuristi, oltre che dai mercanti stessi, come l’esito di una competen-
III; G. Corti, Consigli sulla mercatura di un anonimo trecentista, «Archivio Storico
Italiano», 110 (1952), pp. 114-119; L.B. Alberti, I libri della famiglia, edd. R. Romano A.Tenenti, Torino 1969; Benedetto Cotrugli, Il libro dell’arte di mercatura, ed. U. Tucci,
Venezia 1990.
3 Bernardino da Siena, Sermo XXXIII. De mercationibus et vitiis mercatorum, in Opera
omnia, IV, Sermones XXXII-XLV. De contractibus et usuris, Firenze 1956, pp. 158-159. G.
Todeschini, Ricchezza francescana, Bologna 2004, pp. 168 ss.
4 Agostino, In Iohannis evangelium tractatus, 50, 10, ed. R. Willems (CC sl 36),
Turnhout 1954, p. 437: «Ecce audite quia Iudas iste non tunc perversus factus est, quando
a Iudaeis corruptus Dominum tradidit. Plerique enim incuriosi Evangelii existimant tunc
periisse Iudam, quando accepit a Iudaeis pecuniam ut Dominum traderet. Non tunc periit,
iam fur erat, et Dominum perditus sequebatur; quia non corde, sed corpore sequebatur.
Duodenarium numerum Apostolorum implebat, apostolicam beatitudinem non habebat,
ad imaginem fuerat duodecimus: quo decedente, et alio succedente, et suppleta est apostolica veritas, et numeri permansit integritas. Quid ergo voluit Dominus noster Iesus
Christus, fratres mei, admonere Ecclesiam suam, quando unum perditum inter duodecim
habere voluit, nisi ut malos toleremus, nec corpus Christi dividamus? Ecce inter sanctos est
Iudas, ecce fur est Iudas, et, ne contemnas, fur et sacrilegus, non qualiscumque fur: fur
loculorum, sed dominicorum; loculorum, sed sacrorum. Si crimina discernuntur in foro,
qualiscumque furti et peculatus; peculatus enim dicitur furtum de re publica; et non sic
iudicatur furtum rei privatae quomodo publicae: quanto vehementius iudicandus est fur
sacrilegus, qui ausus fuerit non undecumque tollere, sed de Ecclesia tollere? Qui aliquid de
ecclesia furatur, Iudae perdito comparatur».
5 Cfr. ora una messa a punto del problema e una bibliografia, in G. Todeschini, The
Incivility of Judas: “Manifest” Usury as a Metaphor for the “Infamy of Fact” (infamia facti), in
Money, Morality, and Culture in Late Medieval and Early Modern Europe, cur. J. Vitullo - D.
Wolfthal, New York-London 2010, pp. 33-52; G. Todeschini, Come Giuda. La gente comune e i giochi dell’economia all’inizio dell’età moderna, Bologna 2011.
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za nel far funzionare l’equilibrio civico: il suo contrario, la cattiva reputazione, era invece il segno di una attitudine perversamente orientata a
distruggere il gioco delle fiducie che teneva insieme il mercato. Ma, poiché
questo sistema di relazioni poteva essere identificato come corpo civico, ne
risultava che la cattiva reputazione del commerciante era in definitiva la
prova di un suo tradimento nei confronti della res publica intesa come
Corpo economico e mistico.
L’essenziale di quanto nell’Italia del Tre e del Quattrocento si poteva
intendere con l’espressione reputazione economica, per come essa ci giunge attraverso i lessici che denotano la fama derivante dai comportamenti
tecnicamente economici, stava dunque nell’impossibilità di essere veduti
come persone o come appartenenti a gruppi che commettono crimini e
peccati in grado di danneggiare la Cosa pubblica. Chi aveva una buona
fama economica apparteneva, doveva appartenere, per ciò stesso al gruppo dei costruttori del bene comune, ciò che implicava un pregiudizio favorevole riguardo ai suoi comportamenti economici. L’azione economica che
conferiva una buona riconoscibilità sociale, una sorta di celebrità civica,
dipendeva interamente dall’agire in termini rappresentabili e cioè pensabili come profittevoli per il bonum commune, ossia per ciò che il governo
politico, la norma etico-religiosa e la consuetudine locale intendevano con
questa definizione. Il termine di riferimento negativo, dal quale guardarsi,
di continuo ricordato implicitamente o esplicitamente tanto dalle fonti
narrative e memorialistiche quanto da quelle giuridiche e legislative, era
non a caso l’avarizia di Giuda, ossia un’ansia di arricchimento raffigurata
sempre di più alla fine del medioevo non tanto nei termini di una avidità
generica, ma piuttosto come indifferenza colpevole per la felicità e per la
salvezza collettiva, ovvero, sulla traccia di Agostino, come minaccia nei
confronti della ricchezza istituzionale: furtum de re publica. Per meglio
comprendere la forza di questo collegamento tra la figura dell’apostolo
maledetto e la cattiva fama di coloro che risultavano estranei e disinteressati in senso economico al benessere della res publica, occorre ricordare
che la tradizione omiletica, ma anche quella teologica e canonistica, riecheggiata in questo da quella civilistica, avevano incollato sulla storia di
Giuda così come era stata tramandata non solo dai commenti al testo dei
Vangeli, ma anche dai lessici dell’avveduta amministrazione monastica,
oltre che da una miriade di sentieri testuali leggendari, ricapitolati nella
loro sostanza dalla Legenda aurea, la rappresentazione solo in apparenza
più generica del fur, del ladro comune abituato a perpetrare in una oscurità tanto reale quanto simbolica le proprie malefatte, a determinare dunque
la rovina del pubblico bene per la via di una dissimulazione e di un ingan-
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no tanto peggiori perché mascherati6. Una tradizione narrativa, radicata
nel Vangelo di Giovanni, riorganizzata e tramandata dai vocabolari delle
regole monastiche laddove essi avevano definito le forme della corretta
gestione di beni della comunità, rileggeva a partire soprattutto dal XII
secolo la figura di Giuda come tipo del ladro occulto, e decifrava la sua
impiccagione come modello di pena da infliggersi esemplarmente a quanti attentassero all’ordine economico della collettività7. L’infamia del fur,
anche lessicalmente riconducibile al concetto-parola furvum8 ossia oscuro,
invisibile, notturno, nigrum, e per questo autore di un crimine tanto più
inquietante, aveva acquistato insomma nella ricostruzione della figura di
Giuda tra XI e XIII secolo, tutto il fascino negativo di uno stereotipo
dominante: che aveva pertanto invaso prepotentemente il campo della legislazione e della rappresentazione diffusa, se è vero che, mentre l’ambito
statutario e giurisprudenziale italiano e francese segnalano, fra Due e
Quattrocento, nel furto la trasgressione più odiosa perché più insidiosamente connessa al tradimento di una fiducia sociale ipotizzata come irrinunciabile, nel contempo teologi e canonisti fanno del ladro il protagonista obbligato di un’avarizia criminosa e impenitente, quasi certamente recidiva e in se stessa, dunque, preludio ad una disobbedienza politica da
punire con la morte9. Sì che, ad esempio, una cronaca come quella di
6 Cfr. sul furto notturno: La notte. Ordine, sicurezza e disciplinamento in età moderna,
cur. M. Sbriccoli, Firenze 1991, e qui: Sbriccoli, Nox quia nocet. I giuristi, l’ordine e la normalizzazione dell’immaginario, pp. 9-19; S. Piasentini, “Alla luce della luna”: i furti a Venezia
(1270-1403), Venezia 1992; M. Sbriccoli, Periculum pravitatis. Juristes et juges face à l’image du criminel méchant et indurci (XIVe-XVIe siècles), in Le criminel endurci: récidive et récidivistes du Moyen Âge au XXe siècle, cur. F. Briegel - M. Porret, Paris 2006, pp. 25-43. Si
veda anche B. Geremek, La pietà e la forca: storia della miseria e della carità in Europa, Bari
1986; V. Toureille, Vol et brigandage au Moyen Âge, Paris 2006.
7 Todeschini, The Incivility of Judas, cit.; Todeschini, Come Giuda cit.; V. Toneatto,
Judas et les moines. L’utilisation d’une image patristique dans les règles monastiques du haut
Moyen Âge, in Réceptions des Pères et de leurs écrits au Moyen Âge. Le devenir de la tradition ecclésial, cur. N. Bériou, in corso di stampa.
8 L’associazione è già ben presente in Corpus Iuris Civilis, Digesta (ed. Mommsen,
Berlin 1954), 48, 13: 1, 4, 11; Institutiones, 4, 18, 9.
9 Alberto da Gandino, Tractatus de maleficiis, ed. H. Kantorowicz, Berlin-Leipzig
1926, II, pp. 306 ss., De furibus et latronibus et eorum receptatoribus; Thomas de Chobham,
Summa confessorum, (1215 c.), ed. Broomfield, Louvain 1968, dist. VI de avaritia, q. IIIa de
rapina, 4, p. 494 (Quare ecclesia sustineat quod fures occidantur): «Sed mirum quod in quibusdam regionibus occiditur homo pro simplici furto, cum antiquitus fuerit statutum in
lege dei et in legibus secularibus quod fur simplex aliter non puniretur nisi quod restitueret damnum in duplum vel in triplum vel in quadruplum secundum quod fuertum esset
maius vel minus. Unde mirum est quomodo constitutio regum vel principum potuit mutare constitutionem dei. Verumtamen hoc per magnam considerationem, quia in quibusdam
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Matteo Villani può sottolineare che è appunto per mezzo dell’accusa di
furto che in ogni momento si può infamare il nemico politico, anche se
«leggiadro e di gran pompa» come Bordone figlio di Chele Bordoni, indurlo dunque sulla base della pubblica voce a confessare sotto tortura («il
mormorio del popolo minuto era contro di lui» ci fa notare il Villani), ed
anche metterlo a morte10. Antonino da Firenze all’inizio del Quattrocento
ribadirà il concetto stabilendo che «la terza figliuola del avaritia si chiama
proditione cioe tradimento di persone come giuda traditore che tradì christo dandolo nelle mani de’ nimici o tradire cipta o castella [...]»11. Già fra
Due e Trecento, del resto, un testo, attribuito a un divulgato enciclopedista come Vincenzo di Beauvais, aveva affermato la somiglianza tra il più
malfamato degli uomini d’affari, l’usuraio manifesto, e Giuda: «comedendo et bibendo cum homine, et cum fratre proprio, mutuando et pecuniam
tradendo, intendit eum exheredare et spoliare suis. Similis Iudae proditori qui comedendo et bibendo cum domino eum intendebat prodere»12.
La mala fama economica si congiungeva quindi ad una nozione di tradimento del bene pubblico in molteplici flussi testuali, che, dal Tre al
Quattrocento, facendo leva sulla divulgata figura di Giuda come prototipo
di un uso antisociale, ma anche economicamente perdente della ricchezza,
conducevano ad intendere il mercante da poco, il mercante fallito o il mercante isolato e privo di contatti col mondo dei gruppi solidali, delle fraternità e delle famiglie, come personaggi anomali e fondamentalmente sinistri. Indebitati insolventi e cattivi pagatori di quanto richiesto per via fiscale dalle amministrazioni cittadine, come ci rivelano gli studi di Massimo
Vallerani e Giuliano Milani, avevano del resto molto in comune con coloro che, per essere stati identificati come esterni alla fama economica, piombavano nel ruolo di nemico del bene pubblico13.
regionibus sunt homines ita proni ad furtum vel ad rapinam quod nisi mortem timerent vel
mutilationem membrorum si comprehenderentur, numquam cessarent rapere vel furari. Et
ideo sustinet ecclesia quod fures occidantur».
10 Matteo Villani, Cronica, c. 58, Milano 1834, p. 96.
11 Antonino, Specchio di conscientia (Confessionale “Omnis mortalium cura”), Firenze
1488, avaritia.
12 Vincenzo di Beauvais, Speculum morale, Douai 1624 (anast.: Graz 1964), III XI 7
usura, coll. 1295 ss.
13 M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, Bologna 2005; G. Milani, L’esclusione
dal Comune: conflitti e bandi politici a Bologna e in altre citta italiane tra XII e XIV secolo,
Roma 2003. Sul rapporto fra “pacificazione” civica e ricomposizione di rapporti pregiudicati da infamanti situazioni di debito, cfr. i saggi raccolti in Conflitti, paci e vendette
nell’Italia comunale, cur. A. Zorzi, Firenze 2009. Cfr. G. Todeschini, Visibilmente crudeli.
Malviventi, persone sospette e gente qualunque fra medioevo ed età moderna, Bologna 2007.
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La buona reputazione economica non coincideva dunque, nelle parole
e nelle concettualizzazioni di mercanti e giuristi fra Tre e Quattrocento in
Italia, con un generico insieme di buoni ed onesti comportamenti attestati
dalla publica vox, ma assai più concretamente con una pratica economica e
sociale in grado di attestare e confermare la partecipazione di chi agiva economicamente ad un modello di gestione della cosa pubblica, a sua volta
costruito a partire da catene concettuali lunghe e profonde, non necessariamente consapevoli ed esplicite, ma desumibili da una analisi del vocabolario delle fonti serrata e costante. Una reputazione economica non era fatta
quindi soltanto di provata onestà negli affari, ma anche, se non di più, dalla
consuetudine familiare con le famiglie o i clan cittadini meglio reputati e
più potenti. Dal fatto, sì, di essere associati sul piano economico con questi uomini onorati e rispettati, ma anche di essere uniti a loro da vincoli di
amicizia, parentela, affinità, consuetudini14. Un certo numero di documenti abitualmente considerati prove di una vita economica chiusa nei confini
del perseguimento di una onesta utilità, potranno a questo punto essere
riletti nella prospettiva di quanto essi ci dicono in tema di appartenenza
civica e di contrattabilità sociale delle norme economiche. È il caso tanto
delle serie statutarie dedicate a fissare le logiche del recupero di crediti da
parte dei comuni15 quanto delle infinite registrazioni notarili di debiti pagati o non pagati a gruppi professionali (un buon esempio ci è offerto, per
Firenze, dalle imbreviature di Matteo Biliotto riguardanti i debiti vantati
dalla società dei linaioli)16. In entrambi i casi l’abitudine storiografica a
pensare le relazioni creditizie medievali italiane che stabilivano un prezzo
del denaro, come comportamenti semi-legali ed estranei ad una piena
rispettabilità economica risulta infondata e aprioristica. È infatti chiaro
14 Cfr. G. Todeschini, Theological Roots cit.; G. Alfani, Padri, padrini, patroni. La
parentela spirituale nella storia, Venezia 2006.
15 Cfr. i testi statutari toscani riuniti in http://www.labinf-digips.unisi.it/statuta/ e, ivi,
le rubriche riguardanti il percepimento di “interesse” o la riscossione di mutua da parte dei
comuni; ad esempio, Asciano, 1465 (III 10/An/29v): «Che ‘l Podestà possa riscuotere da’
debitori del Comune. Statuiro ancora che al Podestà et a suo Vicario sia lecito potere
rischuotere ogni quantità di denari, e quali el Comune dovesse avere da qualunque persona et per qualunque cagione si fusse, i quali fusseno scripti debitori su qualunque libro del
Comune di Sciano et di tucto quello che in verità riscuoterà et alle mani del Camarlingho
farà pervenire, habbi da tale debitore soldo uno per ciascuna lira». Cfr. D. Ciampoli, Lo statuto del comune di Asciano del 1465, Siena 2000; Bibliografia delle edizioni di statuti toscani secoli XII-metà XVI, cur. L. Raveggi - L. Tanzini, Firenze 2001(Documenti di Storia
Italiana, ser. II, 9).
16 Ser Matteo di Biliotto Notaio, Imbreviature. I Registro (anni 1294-1296), edd. M.
Soffici - F. Sznura, Firenze 2002. Cfr. Notaires et crédit dans l’Occident méditerranéen médiéval, cur. F. Menant - O. Redon, Rome 2004.
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che, tanto nel primo quanto nel secondo caso, il debito e la sua registrazione normativa o notarile non soltanto dimostrano l’esistenza di un vincolo
d’obbligazione, ma, di più, attestano tutto l’onore di appartenere a gruppi,
governativi o professionali, sia in veste di creditori sia in veste di debitori.
L’esibizione scritturale del debito da restituire, sub poena dupli, ovvero cum
damnis, expensis et interesse, ossia maggiorato da un interesse di tipo usurario, aveva nelle scritture ufficiali tutta la pubblicità di una transazione
onorevole, ben lontana dunque dalla ambiguità del prestito mascherato
come in genere si ritiene: questa relazione economica e fiduciaria era in
effetti sistematicamente qualificata da un pagamento aggiuntivo alla
somma prestata o di cui si vantava il credito; se l’importo dell’interesse non
veniva quantificato formalmente, ciò dipendeva dal fatto che esso era inteso o come prezzo della gratitudine risultante da un mutuo amichevole comprensiva di una compensazione di spese, o come ammenda punitiva da
definirsi in base alle definizioni specifiche del mancato o ritardato pagamento. L’intera configurazione dei rapporti di credito-debito, per come ci
è rivelata dalle definizioni statutarie, e dalle registrazioni notarili, ossia da
documenti pubblici, mostra dunque sino a che punto da un lato lo spazio
economico cittadino italiano tre e quattrocentesco ritenesse onorata la relazione creditizia e costoso il denaro ove credito e denaro fossero gestiti da
soggetti indiscutibilmente ossia per definizione ritenuti utili al Corpo sociale, e dall’altro facesse discendere il significato di una transazione economica dal prestigio di gruppo di coloro che la attivavano. Il problema non era
costituito, in sostanza, per legislatori, civilisti, canonisti e teologi dal denaro e da una sua astratta sterilità17, ma dal significato sociale e politico ovvero dalla rispettabilità e dunque dal valore civico riconosciuti a coloro che
lo facevano circolare, lo spendevano e lo pagavano. In questa prospettiva,
le ricerche recentissime di Gabriella Piccinni sulla vita economica e i dibattiti antiusurari nella Siena trecentesca18, di Anna Esposito sulla definizione
di inaffidabilità di forestieri e socialmente disinseriti nella Roma del
Quattrocento19, e di Antonella Astorri sul potere del tribunale della
Mercanzia nella Firenze trecentesca di definire il senso e i confini della
17 Cfr. G. Todeschini, Eccezioni e usura nel Duecento. Osservazioni sulla cultura economica medievale, «Quaderni Storici», 44/2 (2009), pp. 351-368.
18 G. Piccinni, Il sistema senese del credito nella fase di smobilitazione dei suoi banchi
internazionali. Politiche comunali, spesa pubblica, propaganda contro l’usura (1332-1340), in
Fedeltà ghibellina affari guelfi, cur. G. Piccinni, Pisa 2008, pp. 209-289.
19 A. Esposito, Minoranze e credito: il caso di Roma tra medioevo e rinascimento, in
Credito e cittadinanza nell’Europa mediterranea dal Medioevo all’Età Moderna, Asti, in corso
di stampa.
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reputazione economica20, permettono di capire a fondo quanto la fama economica fosse questione determinata da elaborazioni discorsive e da sentenze prodotte in ogni caso da una ristretta minoranza di detentori del potere
economico. Il fatto che l’attentato alla buona reputazione di un mercante
noto e socialmente ben inserito ci sia testimoniato a Firenze, come ha
messo in luce Antonella Astorri, da carte processuali che narrano storie di
truffe ordite da infedeli e stranieri ignoti alla città cristiana ai danni di mercatores di ottima fama, e che la forma di tali ipotetici inganni sia quella di
una rivendicazione di credito, negata con successo grazie all’intervento del
Tribunale della mercanzia fermamente intenzionato a difendere l’onore
economico di chi è al sopra di ogni sospetto, ci induce a riflettere non soltanto sui modi di costruzione della colpa economica in Italia fra Tre e
Quattrocento, ma anche sulla indubitabilità della parola di chi, a Firenze
come a Roma, a Milano come a Siena, faceva parte della piccola schiera dei
super-cittadini ovvero di quelle che Edwyn Hunt ha denominato «the
medieval super-companies»21. Il «numero piccolo di cittadini che ordinassono e pacificassono i cittadini e la terra» e che, stando alle parole di
Giovanni Bentivoglio per come ce le riferisce il Morelli nelle sue memorie,
riteneva di avere un maggiore diritto di amministrare la realtà cittadina22, si
impone sempre più dal Tre al Quattrocento come protagonista privilegiato
della vita economica italiana23. Questo modello di élite o di oligarchia ha
20 A. Astorri, Mercanti e giustizia a Firenze nel Trecento: un processo per frode contro un
ebreo nel tribunale della Mercanzia, in From Florence to the Mediterranean and Beyond.
Essays in Honour of Anthony Molho, D. Razmada Curto - E. R Dursteler - J. Kirshner, cur.
F. Trivellato, Firenze 2009, pp. 83-102.
21 E.S. Hunt, The medieval super-companies. A study of the Peruzzi company of
Florence, Cambridge 1994.
22 Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, in Mercanti scrittori cit., IV: «Giovanni
Bentivoglio si fé Signore di Bologna. Tornati da Bologna i nostri cittadini, passata la mortalità, vi furono certe novità, però che i bolognesi teneano molte amicizie con signori, e toccavano provvigioni e presenti e caccabaldole e frasche. E non vedevano il disfacimento
loro: però che chi era amico del Duca volea quello che ‘l Duca, chi era amico del Marchese
procurava la volontà del Marchese, e così chi era d’Astore faceva il simile. E tanto furono
da loro aizzati che non v’era pace. Il perché seguì che uno Giovanni Bentivoglio, di franco
animo e savio, ma pieno di baldanza e di seguito di certi Becherini, uomini bassi, a un punto
preso e a certa discordia, consigliò che non era possibile la terra istesse in quella forma e
che bisognava provvedere di certo numero piccolo di cittadini che ordinassono e pacificassono i cittadini e la terra, e certe altre parole intorno alla sua intenzione. E detto ch’egli
ebbe, gli amici suoi dissono ch’egli era buono egli e ch’egli avesse a suo consiglio certi altri
de’ maggiori, per non gli schiudere così tosto; e in effetto egli avea sì provveduto e dentro
e fuori che non fu detto il contradio, e fu fatto Signore di Bologna […]».
23 Cfr. ora la sintesi storiografica con bibliografia e raccolta di fonti, di A. Zorzi, Le
signorie cittadine in Italia (secoli XIII-XV), Milano 2010.
LA REPUTAZIONE ECONOMICA COME FATTORE DI CITTADINANZA
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tuttavia il suo punto di forza politico nella capacità che, fra centro e nord
italiano, già fra Due e Trecento, esso ricava dalla capacità che lo caratterizza di presentarsi come fautore e produttore di un bene comune economico altrimenti impossibile, di un equilibrio governativo come quello che
Giovanni Villani poteva attribuire alla competenza dei «XXXVI buoni
uomini mercatanti e artefici, de’ maggiori e migliori che fossono nella cittade»24 che, a Firenze, nel 1266 venivano creando un meccanismo di controllo economico e politico potente come quello delle Arti maggiori e minori25.
Se, tuttavia, la reputazione economica, quale ci appare da molti indizi,
era faccenda dipendente dalla appartenenza di gruppo, e, per esempio,
non erano l’esercizio del prestito a interesse, o la pratica creditizia, a determinare l’accusa di usura, ma piuttosto la condizione di usuraio manifesto
e conclamato, o l’autodenuncia, o la resistenza a pagare quanto dovuto, a
imporre uno stigma di estraneità e il ruolo di nemico del bene pubblico, ci
si deve domandare come la condizione di cittadino e l’appartenenza alla
civitas fossero in realtà connesse ai comportamenti economici e alla fama
che poteva derivarne. Bisogna prima di tutto distinguere con una certa
cura fra le dichiarazioni formali di cittadinanza, così come venivano registrate in molte città italiane, dipendenti che fossero dall’acquisizione di
proprietà immobili o da privilegi concessi per meriti particolari26, da un
grado più profondo di cittadinanza come poteva essere quello derivante
dalla reputazione economica, in se stesso debolmente connesso alla registrazione ufficiale, ma tipico di un basso medioevo cittadino italiano, che
appunto riguardo alla nozione di appartenenza al corpo cittadino aveva
sviluppato un massimo di ambiguità, non fosse altro perché la convalida
24
Giovanni Villani, Nuova Cronica, ed. G. Porta, Parma 1991, VIII 13 (Come in
Firenze si feciono i XXXVI e come si diede ordine e gonfaloni a l’arti), leggibile in
http://www.classicitaliani.it/villani/cronica_08.htm
25 Cfr. ora Florence et la Toscane, XIVe-XIXe siècles. Les dynamiques d’un État italien,
a cura di J. Boutier, S. Landi, O. Rouchon, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2004,
e la discussione di G. M. Varanini, A proposito di Firenze e dello stato fiorentino nei secoli
XIV-XV, in «Reti Medievali - Rivista», 11 - 2010/1 (gennaio-giugno),
http://www.rivista.retimedievali.it; cfr. G. A. Brucker, The Civic World of Early Renaissance
Florence. Princeton 1977; A. Astorri, La Mercanzia a Firenze nella prima metà del Trecento.
Firenze 1998.
26 J. Kirshner, Paolo di Castro on cives ex privilegio: A Controversy over the Legal
Qualifications for Public Office in Early Fifteenth-Century Florence, in Renaissance. Studies
in honor of Hans Baron, cur. A. Molho - J.A. Tedeschi, Firenze 1970, pp. 229-264. Cfr. E.
Brambilla, Appartenenze di nascita e di fede. Battesimo e giuramenti di cittadinanza confessionale, in La fiducia secondo i linguaggi del potere cit., pp. 179-199; nel complesso: P. Costa,
Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 1. Dalla civiltà comunale al Settecento, RomaBari 1999.
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GIACOMO TODESCHINI
delle identità civiche dipendeva da un groviglio giurisdizionale di cui facevano parte la norma canonica, la pratica sacramentale, il diritto locale e
quello comune. Proprio perché essere cives era in ogni caso il risultato di
una composizione, del sovrapporsi di differenti aspetti della identità personale, ed equivaleva ad una risposta molteplice alle esigenze di riconoscibilità stabilite da poteri e da istanze di giustizia differenti, la vox publica, o
almeno quanto il gioco dei poteri ammetteva o doveva ammettere della vox
publica, giocava un ruolo importante nella definizione della cittadinanza e
soprattutto di quella legata a comportamenti economici ossia pubblicamente visibili e presupposti, tanto dal vocabolario della tradizione teologica, quanto da quello della codificazione canonistica e civilistica, come fondamento della felicità pubblica e del bene comune. In altre parole, la relazione fra reputazione economica ed appartenenza civica risultava
nell’Italia delle città tre-quattrocentesche dal sottile equilibrio che si determinava fra riconoscibilità pubblica, attestata dalla rinomanza, e partecipazione ai riti di una socialità di mercato convalidata istituzionalmente, ma
anche a livello dottrinario dalla élite giuridica, teologica ed economica che
amministrava il potere nelle città e che era espressa dal sistema dominativo delle famiglie di antica o recente ricchezza. La definizione corrente del
risultato di un tale non facile equilibrio, riassunta da definizioni ingannevolmente limpide come quella corrente nelle memorie mercantili di «onorevole cittadino e buono mercatante», non deve nasconderci la complessità reale di cui si intesseva la piena cittadinanza fondata su una buona fama
economica27.
Gli scritti memorialistici e didascalici dei mercatores italiani di successo illustrano, fra Tre e Quattrocento, e con una certa chiarezza, se osservati da vicino, la complessità di una fama economica in grado di fondare una
cittadinanza indiscutibile. Proprio il fatto che in queste dichiarazioni di
identità appaia esplicitamente la necessità di un intreccio tra abitudini,
scelte economiche e sociali, e strategie politiche di inserimento comunica
al lettore e mette in pubblico quanto la fama di “buon mercante” e buon
cittadino sia questione da contrattarsi con i poteri e gli ambienti che, nella
città, fanno e cioè dominano il mercato. Già Pegolotti, nella celebre introduzione versificata al suo manuale di mercature, per definire «Quello che
dee avere in sè il vero e diritto mercatante», deve comporre un elenco
alquanto eterogeneo di comportamenti in grado di far riconoscere nel mercator un membro credibile della società cittadina. Onestà (dirittura), e pre27 Cfr. G. Todeschini, Theological Roots cit.; «Médiévales», 24 (1993), La renommée,
Saint-Denis, Publications de l’Université de Paris VIII; Fama. The Politics of Talk cit.
LA REPUTAZIONE ECONOMICA COME FATTORE DI CITTADINANZA
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vidente accortezza (provedenza) lo devono qualificare, ossia atteggiamenti
tanto morali quanto tecnicamente economici. Al tempo stesso la sua parola deve essere ritenuta affidabile («ciò che promette non venga mancante»), e il suo aspetto onorevole e piacevolmente accogliente («sia se può di
bella e onesta contenenza […] fuori di rampogna con bella accoglienza»).
Cautela economica, intelligenza contrattuale, e buoni rapporti col mondo
ecclesiastico ne faranno un protagonista apprezzato del mercato («scarso
comperare e largo venda […] la chiesa usare e per Dio donare crescie in
pregio, e vendere a uno motto»). La sua visibilità di commerciante dovrà
infine ben distinguersi dall’infamia del gioco d’azzardo e dell’usura manifesta, risultando invece da una costante professionalità contabile («usura e
giuoco di zara vietare e torre via al tutto. Scrivere bene la ragione e non
errare»)28. Non può sfuggire che questo sistema di qualità fa dell’abilità di
inserimento sociale un aspetto decisivo della capacità gestionale e aziendale: per essere considerati bravi mercanti bisogna prima essere riconosciuti
come cittadini nel senso pieno del termine da quanti – l’Arte della
Mercanzia, la Chiesa, le grandi famiglie, la pubblica opinione – organizzano la credibilità di chi gioca i giochi del mercato. Pochi anni dopo,
Benedetto Cotrugli si diffonderà ancora su tutto questo, ma insisterà,
divulgandolo, su un aspetto della competenza e dunque della reputazione
economica dell’uomo d’affari, la resistenza del corpo e della mente, una
sorta di stoicismo economico, che, pur accennato e presente tra i mercanti scrittori del Trecento, poiché radicato in una lunga ed antica tradizione
discorsiva, messa a punto nell’ambito delle riflessioni sulla credibilità mercantile della scuola economica francescana (Olivi, Scoto e avanti, fino a
Bernardino da Siena e Matteo d’Agrigento29), e in grado di connettere
ascesi e mercatura, stava diventando nel Quattrocento un segno distintivo
28 Francesco Balducci Pegolotti, La pratica della mercatura, ed. A. Evans,
Cambridge/Mass. 1936, p. 20; cfr. G. Todeschini, Cristianesimo e modernità economica, in
Le religioni e il mondo moderno, cur. G. Filoramo, I: Cristianesimo, cur. D. Menozzi, Torino
2008, pp. 87-108.
29 P. Evangelisti, Fede, mercato, comunità nei sermoni di un protagonista della costruzione dell’identità politica della corona catalano-aragonese. Matteo d’Agrigento (1380 c.1450), in «Collectanea Franciscana», 73 (2003), pp. 617-664; Evangelisti, La caritas cristomimetica francescana come strumento di costruzione della credibilità politico-economica
(XIII-XV secolo), in Politiche del credito. Investimento, consumo, solidarietà (Atti del
Congresso internazionale, Asti, 20-22 marzo 2003), Asti 2004, pp. 84-112; Evangelisti,
Mercato e moneta nella costruzione francescana dell’identità politica (Relazione al seminario “Forme di razionalità economica medievale” dell’Istituto storico italiano per il
Medioevo, Roma, 14 novembre 2005), «Reti Medievali - Rivista», 7/1 (2006),
<http://www.dssg.unifi.it/_RM/rivista/saggi/Evangelisti.htm>.
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della appartenenza del grande mercante al mondo delle aristocrazie cittadine. Scrive dunque Cotrugli, dopo aver nettamente distinto lo stile economico, spassionato e indifferente al denaro in se stesso, del vero mercante,
da quello gretto dei rivenditori, degli inesperti del mercato o, peggio, degli
usurai e della gente da poco, che quanto in definitiva fa del professionista
del mercato una persona specialmente nobile è la capacità di «durare gran
fatica di giorno et di nocte, camminare personalmente a pie et a cavallo,
per mare, per terra, et così affaticarsi nel vendere et nel comperare, et usare
in tucte simili facciende quanta diligentia è possibile, posponendo ogni
altra cura non solamente di cose superflue, ma etiamdio di quelle che sono
necessarie alla conservatione della humana vita. Et però n’occorre alcuna
volta il differire il mangiare et bere et dormire, anzi è necessario di tollerare fame, sete et vigilie et simili altre cose che sono noiose et contrarie alla
quiete del corpo; il quale se non fussi acto come dextro instrumento, non
potrebbe sopportare, et sopportandolo ne riceverebbe incommodità, alla
quale di necessità sequirebbe infirmità et di poi morte. Onde di due inconvenienti ne sequirebbe l’uno, o veramente che non pigliando simili exercitii come si conviene non sarebbe il proposito et cet., nè verrebbe al suo
desiderato fine, o che facciendolo non potrebbe per la disaptitudine del
corpo perseverare et perseverando chascherebbe nella infirmità et morte.
Et perché l’uno et l’altro di questi due inconvenienti extremi sono da schifare, diciamo et confirmiamo ch’egli è sommamente utile et ancora necessario l’avere il corpo in buona dispositione, acto a simile essercitio, il quale
a questa opera della consequition del fine concorrerà come instrumento
adacto non altrimenti che si facci il martello che concorre come dextro
instrumento del fabbro quando fabrica l’acuto»30.
L’uomo d’affari superiormente dotato, a buon diritto riconoscibile
come componente della élite cittadina e al tempo stesso così padrone di sé
da sdegnare il denaro in quanto tale, ha nel suo stesso corpo, ammaestrato e ben esercitato, il primo strumento di un successo che è soprattutto
ascesa sociale. Si tratta, però, di una forza fisica e di una resistenza, di una
tenacia, prodotte da un’acutezza mentale in se stessa segno di elezione. «Il
corpo dev’essere acto a supportare li affanni, non dico però che sia bastagio, perché communemente quelli che sono robusti et forti di loro natura
non sono habili d’intellecto. Debbe dunque il mercante essere supportante li affanni et havere le sue carni molli et delicate, le quali demostrano la
nobiltà dello intellecto, non dico corpi inbecilli per la inaptitudine al’exer-
30
Benedetto Cotrugli, Il libro dell’arte di mercatura cit., p. 144-145.
LA REPUTAZIONE ECONOMICA COME FATTORE DI CITTADINANZA
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citio, né dico facti bastagi et robusti, li quali communemente sono inscipidi et bestiali compagnoni et sanza fructo, la quale cosa è contrariissima allo
mercante»31. La reputazione economica, in altri termini, fonda una supremazia civica poiché produce, al di là della competenza e anche del profitto, un’immagine divulgabile di superiorità intellettuale e politica.
L’apparizione nel discorso del “bastagio”32 il facchino, a indicare la quotidiana e spregevole miseria di una forza fisica utile ma socialmente indegna,
«inscipida e bestiale», ossia priva del sale dell’intelligenza e dello spirito e
dunque subumana33, orienta evidentemente il ragionamento specificandone il senso che è tanto politico e antropologico quanto economico. La
supremazia economica, ma anche l’incontrovertibile cittadinanza del vero
mercante dipendono a questo punto da scelte e comportamenti la cui
valenza, civica, religiosa, morale rivela in realtà una superiorità molto vicina a quella di sangue. Un abisso incolmabile separa la forza e la compostezza di questo esperto della ricchezza pubblicamente significativa dalla
sciatta incompetenza del piccolo bottegaio, dalla avidità dell’usuraio o
dalla smania di guadagno di «ignoranti, vedove, villani et homini che non
sono usi alo exercitio della mercantia»34. Si tratta nel caso del grande mercante di essere e di apparire nella mente, nel corpo e nella amministrazione come uno di «quelli che sono ricchi et hanno il governo di molte cose
et grandi», e che pertanto «debbono stare con l’intellecto sublevato et
investigare le cose alte»35. La fama economica deve essere fama di un’identità centrale alla città, superiormente predisposta alla gestione della ricchezza come governo del bene comune: una vera e indiscussa reputazione
economica fa tutt’uno, ci spiega Cotrugli, con l’appartenenza al gruppo
esclusivo di coloro che sanno amministrare la cosa pubblica.
31
32
Ivi, p. 145.
Dal greco bastazein, bast¡zein, “portare”, “sopportare”, anche nel greco evangelico,
“portare la Croce”: cfr. Luca, 14, 27; Giovanni, 19, 17; Paolo, Ad Romanos 15; cfr. F.
Fanciullo, Facchino e facchini: le vicende di bastaso, bastagio, vastaso fra alta e bassa Italia,
Occidente mediterraneo, Grecia, in Atti del Convegno di Studi in memoria di Tristano
Bolelli, Pisa 2003 (Studi e saggi Linguistici, 40-41), pp. 89-100; cfr. Lessicografia della
Crusca in rete (http://193.205.158.203/cruscle/index.jsp), s. v. basterna.
33 Cfr. Todeschini, The Incivility of Judas cit., pp. 36 ss.
34 Benedetto Cotrugli, Il libro dell’arte di mercatura cit., p. 155 ss.
35 Ivi, p. 158: «[...] diverso debbe essere l’ordine nel governarsi secondo diverse facultà et capitali che l’homo ha, però che altrimenti si debbe governare un riccho molto et altrimenti uno riccho mezzanamente, et altrimenti uno povero, perché alcuni sono acti al governo di molti danari, alcuni di poco, alcuni sono buoni a essere famigli delli altri, però che
quelli che sono ricchi et hanno il governo di molte cose et grandi, debbono stare con l’intellecto sublevato et investigare le cose alte, et per ragione, che si dice gran nave gran travaglio».
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Chi guida un’economia, come chi comanda una nave, dovrà dunque
essere ed essere visto come uomo «temperato, continente, sobrio, domestico nello magnare, apto alle fatigie, acre et vivo, non avaro, non giovene,
patre che agia figlioli, addire apto et ornato, de extimatione predito»36, ma
ormai queste sue qualità ne segnaleranno più che la virtù generica o la
competenza economica, il diritto di far parte della luminosa élite che, come
aveva scritto Tommaso d’Aquino, può comandare all’infinito popolo di
quelli devono ubbidire37.
36 Benedetto Cotrugli, De Navigatione, trascrizione provvisoria di Piero Falchetta,
http://geoweb.venezia.sbn.it/cms/images/stories/Testi_HSL/Cotrugliy.pdf, f. 30r, Dello
Capitanio De Mare, c. V.
37 Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II IIae, q. 70, a. 3, Utrum alicuius testimonium sit repellendus absque eius culpa, Respondeo: «[...] ex exteriori conditione, sicut sunt
pauperes, servi et illi quibus imperari potest, de quibus probabile est quod facile posssint
induci ad testimonium ferendum contra veritatem […]»; ivi, I IIae, q. 105, a. III, ad 2um,
sulla questione della cittadinanza secundum quid e simpliciter: «[...] dicendum quod, sicut
philosophus dicit, in III Polit., dupliciter aliquis dicitur esse civis, uno modo, simpliciter;
et alio modo, secundum quid. Simpliciter quidem civis est qui potest agere ea quae sunt
civium, puta dare consilium vel iudicium in populo. Secundum quid autem civis dici potest
quicumque civitatem inhabitat, etiam viles personae et pueri et senes, qui non sunt idonei
ad hoc quod habeant potestatem in his quae pertinent ad commune. Ideo ergo spurii, propter vilitatem originis, excludebantur ab Ecclesia, idest a collegio populi, usque ad decimam
generationem». Cfr. Tommaso d’Aquino, Sententia libri politicorum, Lectio 4, in Opera
omnia, 47, Roma 1971.