documento pdf - Roberto Molinari
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Fratelli d'Italia diventati ormai figli "Avvenire" del 14 novembre 2008 Ieri si è svolta la cerimonia che dava la cittadinanza italiana a alcune persone di origine extracomunitaria. Nuovi cittadini, nuovi italiani. Il Presidente Napolitano ha, nel suo intervento, messo l'accento su aspetti importanti per i nuovi cittadini, ma anche per le Istituzioni e per quanti, ancora, vedono l'immigrazione come un fenomeno da temere e non da "governare". Questo il commento del quotidiano "Avvenire". IMMIGRATI, RIPARTE IL DIBATTITO SULLA CITTADINANZA Fratelli d’Italia diventati ormai figli GIORGIO PAOLUCCI Beibei Zhang è nata in Cina nel 1979 e si è laureata in ingegneria al Politecnico di Mila-no. Ivanna Knysh è arrivata dall’Ucraina nel 1986, oggi è capo-rale della brigata Friuli. Stefano Chuka Okaka, nato a Castiglione delle Stiviere da genitori nigeriani emigrati in Italia per motivi di studio, è calciatore della Roma e della nazionale under 21. Am-mettiamolo: fa un certo effetto pensare che Zhang, Knysh e Okaka siano diven-tati tre cognomi 'italiani'. Le loro storie di successo, salite alla ribalta durante la cerimonia che si è svolta ieri al Quiri-nale per festeggiare l’acquisizione della cittadinanza, sono segni dei tempi che ci ricordano quanto l’immigrazione non sia più – e da tempo – un fenome-no transitorio, ma una realtà profonda-mente radicata. Fino a candidare alcu-ni dei suoi protagonisti all’ingresso a pieno titolo nella comunità nazionale. Basta con i pregiudizi, ha detto Napoli-tano, occorre favorire un clima di aper-tura verso gli stra-nieri che si fanno i-taliani. E a questo fine le istituzioni devono realizzare politiche di integra-zione più efficaci e rivedere norme e prassi per il confe-rimento della citta-dinanza. Un tra-guardo a cui nel 2007 sono approdati 38mila stranieri. Non pochi in termini assoluti – il dop-pio del 2005 – ma molti di meno rispet-to a quanti legittimamente vi aspirano e devono fare i conti con lungaggini burocratiche e con una legge che, co-me ricorda il presidente della Camera Fini, si sta rivelando inadeguata. Non perché sia vecchia, ma perché rispetto a quando venne varata (1990), la so-cietà è profondamente cambiata. È perciò opportuno riavviare a livello po-litico un confronto che non si limiti a dibattere sul numero di anni necessari a ottenere la cittadinanza (attualmente dieci) ma metta a fuoco come favorire e come misurare l’effettiva adesione a un alfabeto comune della convivenza. Il problema di fondo sta proprio qui, in questo alfabeto. Per troppo tempo l’im-migrazione è stata vissuta come una realtà meramente economica, lascian-do in second’ordine gli aspetti legati a un’integrazione effettiva, che comporta conoscenza della lingua, politiche abi-tative, accesso ai servizi scolastici e so-cio- sanitari, pagamento delle tasse, ri-spetto delle leggi. Diritti certi e doveri su cui non transigere, non solo salari e contratti di lavoro. Un vero e proprio «patto» che chiunque voglia mettere radici in questo Paese, anche se non ambisce a ottenere la cittadinanza, de-ve impegnarsi a sottoscrivere. Per que-sto il Quirinale invita a evitare «innesti frettolosi che si rivelerebbero artificiali e fragili» e che rischiano di trasformare una fonte di arricchimento in un feno-meno caotico, più subìto che governa-to. Il monito del ministro Maroni è a questo proposito eloquente, e in qual-che misura legato alle preoccupazioni del Carroccio rispetto al nodo dei nuovi flussi in entrata: un’apertura indiscri-minata delle frontiere non riuscirebbe a garantire un’integrazione effettiva in condizioni sostenibili da parte del Pae-se. E tuttavia anche la Lega è chiamata oggi a fare proprie le parole del capo dello Stato. Ma per chi punta al traguardo più am-bizioso, quello già raggiunto da Beibei, Ivanna e Chuka, c’è un percorso più impegnativo, ricordato a chiare lettere dal capo dello Stato: «Per diventare ita-liani è necessaria una piena identifica-zione con i valori di storia e di lingua e con i principi giuridici e costituzionali che sono propri della nostra nazione. E che noi d’altronde dobbiamo tendere a consolidare anche nella coscienza di quanti sono nostri cittadini da sem-pre ». Dunque, si dev’essere esigenti con chi si candida a diventare nostro connazionale e insieme con noi stessi, perché sappiamo tenere viva la co-scienza (troppo spesso annebbiata) di ciò che significa essere italiani. Giorgio Paolucci 2008-11-14