Iadicicco - Questione di Stile
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Iadicicco - Questione di Stile
ANNO XVIII NUMERO 271 - PAG XII IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 16 NOVEMBRE 2013 COME SIRENA NEL MARE Elogio del nuoto e dello stato di grazia del nuotatore perfetto. La sfida di Lynn Sherr, una sessantenne alla traversata dell’Ellesponto, nel nome del mito greco e di Byron di Alessandra Iadicicco ntri in acqua e ti senti un’aquila in cielo. O un angelo in volo. O una sirena nel mare. O un pesce che guizza nel suo elemento. E se difficilmente vorrai tornare a essere l’immemorabile creatura natante che era il bimbo nella pancia della mamma – “Il grembo materno? Non me lo ricordo. Non voglio tornarci. Neanche con l’aiuto dello psicanalista”, taglia corto l’appassionato newyorchese fondatore del NYC Swim, associazione che promuove spettacolari traversate metropolitane come la tratta dell’East River sotto il ponte di Brooklyn, la circumnavigazione della Statua della Libertà o il periplo di Manhattan – sarai, ormai grande, forte, svezzato, adulto e come non mai libero, il più felice dei mortali felici. A qualcuno – a molti, più di quanti non si creda – il nuoto fa questo effetto. E non stiamo parlando di uno sport da praticare in estate, di un divertimento stagionale o di un passatempo da spiaggia. Per i frequentatori più assidui, i cultori, per non dire fanatici, dell’acqua, il nuoto è un’abitudine costante, un richiamo potente, un appuntamento ve”. Quella fiduciosa sicurezza che, tradotta in movimento, si esprime come un misto paradossale di calma e velocità è il quid che caratterizza il nuotatore, almeno il più bravo, il più bello da vedere, quello che, per sublime sprezzatura, procede senza schizzi e senza sforzo apparente. Quel moto concentrato ha tutta l’aria di uno stato di grazia, di un’esperienza mistica. Più prosaicamente gli allenatori lo chiamano “acquaticità”, intendendo una consumata familiarità con l’elemento, la perfetta padronanza del galleggiamento, la certezza assoluta sulle capacità dell’acqua di sostenerti e la maestria di avvalersi della forza che c’è in essa per muovercisi dentro con disinvoltura. Ma non è solo questione di tecnica: è una questione di comportamento, di atteggiamento e, nel senso più artistico, di stile. Certo anche declinato nel senso meramente sportivo lo stile fa la sua magnifica figura. E spiace un po’ sapere che assai difficilmente il bel nuotatore di Paestum, dopo il suo tuffo acrobatico nell’oltremondo, si sia sospinto nell’aldilà con le bracciate possenti ed eleganti dello stile libero. Gli antichi ignoravano il crawl. Sapevano stare in acqua: “Ignorante è colui che non sa Il poeta romantico fu il primo a coprire il corridoio d’acqua che separa l’Europa dall’Asia nella Turchia occidentale Rana, dorso, cagnolino: solo dopo, nel 1844, si videro indiani nuotare in modo “impensabile per il mondo civilizzato”. Era il crawl pressoché quotidiano. E’ “il culmine, il cuore della giornata”, scriveva John Cheever, l’autore del racconto “Il nuotatore” (1964) da cui è tratto il film di Sydney Pollack interpretato da Burt Lancaster, sintetizzando così con una frase che vale come un ammiccamento, una strizzata d’occhio, una segreta stretta di mano, la palpitante aspettativa di chi sa che cosa vuol dire organizzare il proprio tempo in funzione del momento in cui ci si butterà in acqua. Con il proposito di provare a spiegare le mille misteriose ragioni del “Perché amiamo l’acqua” (precisa il sottotitolo), e con il risultato di accrescere, se possibile, l’attrazione irresistibile che ci risucchia dentro di essa, l’americana Lynn Sherr ha scritto “Nuotare” (Ultra edizioni, 289 pagine, 17,50 euro): un libro che si presenta come una ricerca storica e culturale, un’inchiesta giornalistica, un resoconto aneddotico incorniciati in un diario autobiografico; si qualifica come “una lunga lettera d’amore dedicata all’attività che più adoro”; si legge come un racconto fantastico, un esaltante romanzo d’avventura, un fumetto che ti cala nella parte del supereroe. In questo gli americani sono bravissimi. Nel caso di Lynn Sherr però l’emozione contagiosa scatenata dalla lettura non deriva dallo spirito del “born to run”, “born to win”, “born to be wild”, che di regola accompagna le prestazioni e le competizioni sportive. Ciò che conquista e fa sorridere di soddisfazione sono il coraggio, la passione e l’autoironia con cui, sulla soglia dei sessant’anni, la simpatica signora, giornalista newyorchese, corrispondente per trent’anni di Abc News, si è messa in gioco e si è messa in gara. La competizione c’è, eccome: affrontata con il senso del limite e della sfida che meglio contraddistinguono l’autentico spirito sportivo. L’occasione per esprimere al nuoto la più aperta dichiarazione d’amore è data infatti a Lynn Sherr da una prova: la traversata delle acque dell’Ellesponto – ovvero lo stretto dei Dardanelli, il corridoio d’acqua che separa l’Europa dall’Asia nella Turchia occidentale – tentata con successo oltre duecento anni dopo che a coprire a nuoto quell’emblematico braccio di mare fu per la prima volta Lord Byron, il poeta romantico, il nuotatore eroico e, da allora, l’idolo incontrastato dei più ardimentosi nuotatori in acque libere, gli “open water swimmers”. Scegliere un simile itinerario significa risalire a un’origine ben più remota del liquido amniotico dal quale tutti quanti innegabilmente proveniamo. Su quelle rive, dove si affacciano le rovine di Troia, si affrontarono Ettore e Achille. Da quelle sponde salparono, sospinti da smania di conquista, i guerrieri persiani guidati da Serse e, in direzione opposta, i macedoni condotti da Alessandro a ricacciarli indietro. Su quelle acque, a bordo della nave Argo, Giasone e la sua ciurma partirono alla ricerca del vello d’oro, il manto dell’ariete in groppa al quale, grazie all’intervento di Ermes, la giovane Elle era sfuggita alla sua matrigna che, per sbarazzarsi di lei, voleva sacrificarla agli dèi. Nella fuga però la ragazza era caduta di sella tra le onde del mare, da allora in suo nome det- né leggere né nuotare”, scriveva Platone citando un noto proverbio. E ci stavano con mirabile perizia, se è vero che Ulisse, ormai in prossimità di Itaca, sorpreso al termine del suo viaggio dalla tempesta scatenata da Poseidone, seppe resistere due giorni lottando con foga a braccia aperte contro i marosi, e che Giulio Cesare per sfuggire ai rivoltosi sollevatisi contro di lui ad Alessandria d’Egitto prese il largo dal porto nuotando per alcune centinaia di metri con la spada e il mantello stretti tra i denti. I classici se la cavavano piuttosto bene, ma nuotavano in un modo tutto loro. Dovevano trascorrere ancora secoli, decine di secoli, prima che un ricco inglese, nel corso di un suo viaggio esotico, scorgesse una tribù di indiani Mandan nuotare proni in un fiume del Far West remigando gagliardamente con le mani “in una maniera del tutto impensabile per il mondo civilizzato”, come scrisse tornato a Londra il viaggiatore. Fino ad allora – era il 1844 – in tutta Europa e negli stati americani ci si era prodotti solo nella rana, nel dorso, in un goffo e un po’ infantile cagnolino e nello stile detto “alla marinara”, galleggiando su un fianco con le gambe che sforbiciavano di sbieco. L’adozione in occidente della nuotata tipica degli indiani d’America avrebbe rivoluzionato lo sport acquatico. L’avrebbe reso di lì a poco olimpionico. Avrebbe consentito ai suoi campioni di raggiungere traguardi sempre più azzardati, in acque vive o nel quadrilatero magico della piscina, sulle lunghe, lunghissime distanze nello spazio o dentro frazioni infinitesimali di tempo, inservibili per fare qualsiasi altra cosa. Come il centesimo di secondo (“un battito di ciglia dura tre volte di più”) che nel 2008 ha segnato la vittoria di Michael Phelps su Milorad Čavich nei cento metri a farfalla, ha sancito un nuovo record mondiale maschile e gli è valso il settimo oro olimpico a Pechino. O come i 180 km percorsi a nuoto tra l’Avana e Key West, senza gabbia antisqualo, dalla 64enne Diana Nyad che quest’estate, al suo quinto tentativo, è riuscita a portare a termine la super traversata. Lynn Sherr, che l’ha incontrata prima della sua a lungo inseguita conquista, che l’ha ascoltata raccontare dell’abbraccio fantascientifico con la medusa fluorescente che, nella prova precedente, l’aveva costretta a ritirarsi, scrive di lei: “Diana nuota per tutti quelli che si torturano pensando che invecchiare significhi rinunciare ai propri sogni”. Sia chiaro: per sognare immersi nell’azzurro non occorre spingersi a tanto. Non è necessario sfidare acque infestate da squali e meduse. Basta “esplorare il proprio mare privato, l’oceano Atlantico e Pacifico della propria solitudine” come scrisse Henry David Thoreau, contento di nuotare nell’acqua dolce del lago Walden. O attraversare l’infinito silenzio disteso sui 50 metri (anche solo 25!) di una vasca turchese. Lì dentro, assorti in se stessi, in assenza di peso di voci o di suoni, impegnati a cucire sul pelo dell’acqua un ricamo invisibile, ci si bagna alla sorgente del tempo, si attinge a piene mani alla sorgente inesauribile dell’energia e dell’allegria. E Un collage fotografico del pittore britannico David Hockney. Le piscine sono un tema frequente anche nei suoi dipinti to l’Ellesponto, “il mare di Elle”. Ma un altro mito emerge da quelle correnti dove le acque del mar Nero si mescolano impetuosamente con quelle dell’Egeo: una leggenda erotica e sportiva, la narrazione più simbolica per chiunque nuoti per amore. E’ la storia di Ero e Leandro, cantata da Ovidio nelle “Eroidi”, da Dante nel “Purgatorio” e nell’omonimo poemetto da Christopher Marlowe. Racconta di Ero, la bella sacerdotessa di Afrodite, vergine e votata a rimanere casta, che viveva in una torre di Sesto, sulla costa europea. E di Leandro, il vigoroso giovane asiatico proveniente dalla città di Abydos, nell’altro continente, che, incontrata la fanciulla per caso, se ne innamorò perdu- Ogni sera Leandro, innamorato di Era, si spingeva sull’altra riva, guidato dalla candela che lei accendeva per indicargli la strada tamente a prima vista. Il mare che doveva dividerli divenne il mezzo più propizio a unirli. Ogni sera, dopo il tramonto, Leandro si spingeva a nuoto fino alla torre sull’altra riva, guidato dalla candela che Ero, per indicargli la strada, accendeva alla finestra. Spossato, bagnato, avvolto nell’odore pungente del sale e del pesce, saliva da lei. E, ristorato come da un balsamo da poche gocce di olio di rose, si tuffava con l’amata tra le lenzuola, per riemergerne solo al mattino, all’ora cruciale di ritornare ancora a nuoto verso casa. L’allenamento straordinario cui si era sottoposto il campione innamorato non valse purtroppo a salvarlo nella fatale notte d’estate in cui la furia del vento spense il lume esposto alla finestra per guidarlo e la furia del mare smorzò il vigore delle sue bracciate fino ad affogarlo. Piace immaginarli ancora insieme dacché Ero, disperata e suicida, si buttò tra i cavalloni per raggiungerlo. A Byron, piuttosto, piacque pensare che l’impresa mitologica fosse replicabile, che la nuotata da un continente all’altro fosse realizzabile. Perciò volle provarci, e al secondo tentativo, nel 1810, per la prima volta ci riuscì. In memoria di lui, dei due mitici amanti, anche della battaglia combattuta sullo Stretto che nell’agosto del 1922 segnò la fine e la vittoria della guerra d’indipendenza turca, ogni anno la traversata viene ripetuta, con la partecipazione di oltre quattrocento nuotatori da tutto il mondo. Greci, “atletici turchi dai corpi curati”, olandesi, inglesi spesso già battezzati nel Canale della Manica, australiani, una manciata di americani. Tra i quali, l’anno scorso, anche Lynn Sherr. Il percorso non è lunghissimo. Stando alle indicazioni di Strabone, in linea retta la distanza che separava le due località oggi scomparse di Sesto e Abydos era di due chilometri. Ma la forza delle correnti provocate dal flusso delle acque che dal mar Nero, attraverso il Bosforo, oltre il mar di Marmara scorrono nello Stretto verso l’Egeo impedisce di nuotare sul tratto più breve. Perciò occorre disegnare un arco più ampio: quello che, congiungendo Eceabat a Çanakkale, oggi partenza e traguardo della gara, misura circa tre miglia, poco più di quattro chilometri e mezzo. “Abbastanza lungo da mettermi alla prova. Abbastanza breve da pensare di farcela”, pensava Lynn, che ce l’ha fatta e si è classificata prima (e unica) della sua classe d’età. Battuta da quasi quattrocento nuota- tori più veloci di lei. Ma non è questo il punto. Byron a 22 anni ci aveva impiegato un’ora e dieci minuti. Leandro, che doveva averne circa sedici, ci metteva forse la metà. Per Lynn Sherr arrivare dall’altra parte entro l’ora e mezza di blocco straordinario del traffico nautico indetto per l’occasione, era una conquista. Comunque, al di là delle cifre e dei calcoli cronometrici e anagrafici, sapeva anche prima di partire che attraversare l’Ellesponto significa percorrere fino in fondo “una via verso qualcosa di più grande”. Era sempre stato così, che l’obbiettivo cui mirare fosse un’altra terra, un maggiore potere, un nuovo amore. O la scoperta strabiliante “dei miei limiti ancora sconosciuti”. Intanto una lunga fase di avvincente esplorazione di sé era stata, per Mrs Sherr l’allenamento: gli otto mesi di training (otto: chi sia tentato di provarci la prossima estate sarà bene cominci a prepararsi adesso) trascorsi cercando di vincere le inerzie inevitabili in uno sport tanto ripetitivo, di cancellare dai muscoli la memoria di movimenti cristallizzati da decenni, di spremere nel gioco, da provare, degli sprint l’ossigeno dai polmoni fino all’ultima molecola, o di diventare il più possibile acquatica, il più possibile “liquida” – si dice “fishlike swimming”, significa che ormai nuoti proprio come un pesce nell’acqua –: il massimo per una pratica atletica tutta basata sul ritmo e le pulsazioni, sulla leggerezza più che sulla forza muscolare, sull’armonia più che sull’impeto brutale. Tra l’altro lei, sentendosi la più leggiadra delle figlie di Poseidone, per tutta la vita aveva nuotato a rana, un approccio all’acqua indubbiamente aggraziato e molto femminile – anche se pare che fosse lo stile prediletto da Sigmund Freud perché gli consentiva di mantenere asciutta la barba – ma poco raccomandabile per coprire in tempo utile la distanza della traversata. Meglio puntare sul re degli stili, per Sherr tutto da perfezionare, sullo stile libero, quello che una volta, con un termine ormai desueto, si chiamava crawl, il più adatto a incunearsi nelle maree e a combinare la resistenza con la velocità. Insomma, c’era parecchio da fare. Da migliorare, trasformare, rinnovare. In perfetto accordo con la quintessenza dell’acqua, che da sempre simboleggia un passaggio, una nascita o una rinascita. Dal primo bagno battesimale alla fantastica tomba del tuffatore, l’antico sacrario ritrovato a Paestum con l’effigie rasserenante di un atleta lanciato in Una pratica atletica tutta basata sul ritmo e le pulsazioni, sulla leggerezza, sull’armonia più che sulla forza muscolare volo per tuffarsi, “nell’acqua o in qualsiasi altra cosa che rappresenti la destinazione finale”. La sua figura radiosa, scrive Sherr, “emana tranquillità ed ebbrezza: egli crede in ciò che troverà, anche se non può sapere che cosa sia”. Viene in mente ancora una volta il “Nadador” di Cecília Meireles, e chissà che proprio quel dipinto realizzato in Magna Grecia nel V secolo a. C. non abbia ispirato alla poetessa brasiliana i versi che ne potrebbero costituire la migliore didascalia: “É a despedida, que me encanta, / quando te desprendes ao vento, / fiel à queda rápida e branda”: “E’ la partenza che mi incanta, quando ti libri nel vento, fedele alla caduta rapida e lie-