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Corso di Filologia romanza I-Z
a.a. 2011-2012 – prof. R. Tagliani
dott. D. Mantovani, La lirica trobadorica
La lezione qui contenuta ha lo scopo di introdurre allo studio della letteratura trobadorica.
Testo di riferimento è quello di Ulrich Mölk, La lirica dei trovatori, che lo studente dovrà
mostrare di conoscere con sicurezza; dato che alcune delle cose qui contenute non sono
trattate sul libro di Mölk, il PDF e le diapositive costituiscono parte integrante del
programma d’esame.
Qualche coordinata introduttiva
L’esperienza lirica non inizia con i trovatori, è invece antichissima: nella Grecia antica fiorì
una tradizione poetica lirica importantissima tra il VII e il VI secolo a.C.; c’è poi un filone
lirico nella poesia latina classica, che ha i suoi epigoni in Catullo, Orazio, Ovidio; e c’è pure
una tradizione lirica nella poesia latina medievale. La lirica trobadorica in lingua occitana è
la prima delle molte tradizioni liriche del Medioevo volgare; perché utilizziamo il termine
“lirico”? L’aggettivo è legato intrinsecamente allo strumento (la lyra) che i poeti utilizzavano
per accompagnare il canto, e serve ad individuare (perlopiù, poiché esiste, ad esempio, una
lirica corale nella tradizione greca) l’esperienza poetica soggettiva, quella cioè dell’io poetico
che descrive la propria interiorità; non si tratta perciò, né nella lirica antica né nella lirica
medievale, di un’esperienza poetica unicamente amorosa, anche se il culto musaico prevede
per la poesia amorosa l’accompagnamento della lira (mentre la poesia lirica è, generalmente,
accompagnata dal flauto).
La lirica dei trovatori nasce in Occitania, ovvero in quella parte del dominio gallo-romanzo
dov’è parlata la lingua d’oc o provenzale: nella cartina in diapositiva è rappresentato il Sud
della Francia ed è tracciato il confine linguistico tra parlate occitaniche e parlate oitaniche,
anche se è ragionevole pensare che lo stesso confine, all’epoca in cui si sviluppò la scuola
poetica trobadorica, fosse spostato un po’ più in altro e comprendesse, ad esempio, il
Poitou (l’area pittavina, il cui centro politico era Poitiers e da cui proviene il primo trovatore
a noi noto, Guglielmo IX d’Aquitania), estendendosi a Est anche verso il Piemonte (sono le
linee tracciate in rosso).
In generale, dobbiamo notare per la letteratura medievale in lingua d’oc alcune significative
tipicità, che la differenziano da altre letterature coeve e seriori e che la segnalano, all’atto
della sua nascita, come elemento di discontinuità rispetto alla precedente tradizione
letteraria: anzitutto ha attestazioni assai precoci; è perlopiù di contenuto laico, in un’epoca
in cui predomina la produzione a carattere religioso, e consiste per la maggior parte in
un’esperienza poetica di tipo lirico: altri generi (epico, religioso, didattico, per non fare che
pochi esempî) sono quantitativamente oltreché qualitativamente scarsi. Si tratta della prima
scuola poetica in volgare romanzo che la storia letteraria ricordi: gli unici antecedenti
possibili di poesia d’arte che si possono evocare sono infatti in lingua latina; essa è, infine,
un fondamentale turning point: dalla lirica d’oc prende l’avvio la lirica moderna, che nel suo
diramarsi in scuole poetiche nel medioevo romanzo terrà come riferimento costante il
modello dei trovatori occitanici.
Ipotesi sulla datazione: le Liebesstrophen pittavine del ms. Harley 2750
È ragionevole ipotizzare che la parabola della letteratura provenzale abbia inizio nella
seconda metà dell’XI secolo. La datazione tuttavia non è del tutto certa: la scoperta, in anni
relativamente recenti (1984), da parte del grande Bernard Bischoff (uno dei padri della
paleografia) di due strofette – chiamate anche liebesstrophen – in idioma pittavino in un
codice della British Library (l’Harley 2750), la cui scrittura è databile con margini di
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sicurezza al secondo terzo del secolo, consente di fissare in attestazione manoscritta una
data abbastanza alta per una tradizione lirica di argomento profano (e nella fattispecie,
erotico) proveniente dal mezzogiorno della Francia: una data che è coeva alle prime
attestazioni di kharğāt. Vediamo di soffermarci in modo analitico su questi due piccoli
lacerti di testo, le cui caratteristiche sono descritte nel libro di Maria Luisa Meneghetti (Le
origini delle letterature romanze medievali, pp. 189-93); nel primo dei due testi si deve anzitutto
rilevare la stratificazione linguistica che sovrappone elementi germanici, tipici già della
scripta merovingia dei Giuramenti di Strasburgo, a tratti riconducibili all’idioma pittavino, la
lingua del Poitou (cfr. la diapositiva): la strofa è dunque un testo ‘migrante’, sarebbe stato
composto in area pittavina per poi essere trascritto – varcato il Reno – da un copista
germanofono; il dato più interessante è però quello semantico: un’immagine del folklore
tradizionale, quella dell’innamorato-uccello che sogna di ricongiungersi alla propria amata, è
associata a quelle che Maria Luisa Meneghetti chiama “garbate forme clericali” e a un
lessico nel quale emergono degli elementi topici (il bacio [oggi diremmo ‘alla francese’],
l’amore vissuto nella lontananza, e il ricongiungimento come lenizione del dolore) e il
sorprendente sintil, “gentile”, a indicare l’amata. Quello che colpisce maggiormente, come
sottolineato dalla Meneghetti nel suo libro, è che se si indagano le poche tracce di poesia
amorosa pre-trobadorica, il frammento Harley insieme alle ĥarğāt mozarabiche, emerge
inequivocabilmente una costruzione comune dell’ideologia amorosa, che vede l’amore
nascere ed esaltarsi nella lontananza fisica, che suscita per contrasto l’unione delle due
anime; e questo è tanto più importante in quanto sottolinea l’esistenza di una temperie
culturale che, qualche decennio prima del primo trovatore attestato dai manoscritti,
produce a varî livelli sociali (quello della cultura popolare e quello della cultura clericale) e
in varî ambiti geografici (la Francia e Al-Andalus) dei prodotti letterarî nel complesso
omogenei.
Meno facile è capire il senso del secondo frammento, anche perché esso è in definitiva
meno leggibile (come risulta evidente dall’immagine). Lucia Lazzerini, filologa che si è
occupata in modo particolare di letteratura romanza delle origini, ha ipotizzato che questi
versi siano una sorta di breve invettiva moralistica che condanna i costumi troppo libertini
delle monache, che accettano la corte di uomini ‘di mondo’ come i cavalieri; il tessuto
linguistico di questa seconda strofa mostra un altro tratto riconducibile all’area pittavina
(schevaler), accanto a fenomeni che sono spiegabili, probabilmente, come sopravvivenze del
latino (sacramente, multe, vel); la parola non leggibile è, secondo Lazzerini, recedent (da un latino
tardo *RECEPTANT, “accolgono”), mentre le ultime due parole sarebbero l’abbreviazione
del nomen sacrum, I(es)uCh(rist) e la forma tra(i)dor occitanica scritta con grafia germanica (per
la quale O tonica > u, come sun e astur della prima strofetta).
Ipotesi sull’origine della lirica trobadorica
Le considerazioni che abbiamo svolto sulle strofette del ms. Harley – corroborate da altre
che si possono svolgere in relazione all’inno farcito In hoc anni circulo, per la frase laisat estar
lo gazel – testimoniano l’esistenza già alla metà dell’XI secolo di una poesia di argomento
amoroso del tutto affermata (al punto che nella solennità del Natale si esortano i fedeli a
non praticarla) e sono utili a sciogliere un dubbio sostanziale relativo alla poesia del primo
trovatore, Guglielmo IX d’Aquitania: di fatto il primo trovatore di cui i codici offrano
testimonianza, Guglielmo nacque nel 1071 e morì nel 1126 o nel 1127; presumibilmente fu
dunque attivo nell’ultimo quarto/decennio del secolo XI. Guglielmo però non fu
l’iniziatore della scuola occitanica, ma fu sicuramente preceduto da altri poeti di cui la
tradizione manoscritta non ha tenuto conto: deriviamo questa convinzione dalla fortissima
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carica parodica che permea alcuni dei suoi componimenti: per esercitarsi, infatti, la parodia
richiede un alto grado di referenzialità e lettori che siano profondamente consapevoli del
gioco letterario, così da cogliere anche le minime finezze della caricatura; in definitiva, che il
canone su cui si esercita la parodia sia già del tutto affermato e i suoi meccanismi così ben
oliati da consentire forzature di questo genere. È invece poco economico supporre che
Guglielmo, in un cinquantennio abbondante di vita (anche concedendogli un teorico
quarantennio di attività), riuscisse a plasmare una scuola poetica, a proporla e a imporla al
gusto del pubblico attraverso la diffusione capillare dei testi e, infine, anche a parodiarla.
Da dove nasce dunque la poesia dei trovatori? Secondo alcuni, da una poesia amorosa di
tipo popolare, che si sarebbe gradualmente strutturata in schemi ideologicamente e anche
metricamente molto rigidi a partire da forme primitive di poesia per musica, come le dansas
o le chansons de toile (le canzoni “di tela”, cantate cioè da donne sedute al telaio): la poesia
sarebbe la cristallizzazione di temi e forme sviluppatisi e diffusisi in modo spontaneo (ad
esempio, i cosiddetti “canti del maggio”, che celebrano il ritorno della primavera, e dunque
allegoricamente della vita; testi caratterizzati da un tòpos, quello dell’esordio primaverile, che
è diffusissimo nella poesia trobadorica). Altra ipotesi è quella che la lirica dei trovatori nasca
come sviluppo di forme espressive e di temi tipici della poesia araba (le già citate ĥarğāt
mozarabiche, o il cosiddetto zağal o strofa zagialesca, una struttura metrica affine alla
muwaššaha, che alterna parti in arabo e farciture in volgare romanzo), la cui diffusione sia
stata facilitata dalla contiguità tra l’area occitanica e le aree della penisola iberica soggette al
dominio arabo. Una terza ipotesi potrebbe essere quella della nascita della lirica trobadorica
a partire da esperimenti poetici mediolatini, che avrebbero avuto origine negli scriptoria di
importanti centri abbaziali, e si sarebbero affermati grazie al prestigio di questi centri di
cultura: uno di essi è l’abbazia di San Marziale di Limoges, luogo assai vicino a Poitiers,
terra natale di Guglielmo IX. Si può, infine, formulare un’ipotesi poligenetica, quella cioè di
uno sviluppo più graduale, che dalle prime attestazioni di poesia amorosa (le ĥarğāt, le
Liebesstrophen, gli esperimenti poetici che ruotano attorno a San Marziale di Limoges) abbia
aggregato realtà poetiche differenti (di cui rimarrebbero, estemporanee, le tracce nella
diversità di linee ideologiche presenti nella poesia occitanica soprattutto alle origini) fino a
farne, col tempo una scuola poetica capillarmente organizzata.
Chi furono i trovatori
Quello della poesia trobadorica è un fenomeno che coinvolge, sin dall’esordio o quasi (per
quel poco, ovviamente, che possiamo sapere dei ‘primissimi’ esordî) una società nel suo
complesso, o perlomeno quella parte della società che ha accesso all’istruzione; questa
‘coralità’ cortese determina una varietà di estrazione sociale dei trovatori: alcuni furono
nobili di altissimo rango (Guglielmo IX duca d’Aquitania, Jaufre Rudel principe di Blaia,
Ebles II visconte di Ventadorn, Raimbaut d’Aurenga conte, appunto, di Orange), se non
addirittura dei re (Alfonso II d’Aragona, che fu impegnato da Guiraut de Bornelh in una
celebre tenzone riguardante la ‘questione della nobiltà’, per non parlare di Riccardo I
Cuordileone, figlio di Eleonora d’Aquitania ed erede della tradizione politica e culturale
dell’Aquitania); altri erano piccoli feudatari, come Bertran de Born, o erano di estrazione
borghese-mercantile, come Folquet de Marselha, o ancora semplici giullari, come Marcabru
o Bernart de Ventadorn, o poetesse (dette trobairitz). Animatori della vita culturale delle
corti della Francia meridionale, si rifugiarono perlopiù in Spagna e (soprattutto) in Italia a
seguito della crociata promossa da papa Innocenzo III contro l’eresia albigese, nel 1209: la
crociata determinò il collasso del (fragile) sistema feudale del mezzogiorno francese, e al
tempo stesso la diaspora di coloro che avevano animato il suo sistema di valori.
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Vale, per la maggior parte dei trovatori (forse con l’eccezione degli altissimi feudatari e dei
sovrani), l’appellativo di clericus: con ciò si indica non un “chierico” a tutti gli effetti, ma
chiunque abbia acquisito un’istruzione e disponga di cultura ‘scolastica’, necessariamente
appresa in scuole ecclesiastiche. Tranne nel caso in cui il trovatore sia lo stesso feudatario, il
trovatore presta servizio presso un signore feudale che del trovatore è mecenate e
protettore.
Friedrich Diez divise la letteratura occitanica in tre fasi cronologiche (con una partizione tipicamente romantica - esordio/auge/decadenza): il periodo delle origini va dalla metà o
dall’ultimo quarto dell’XI secolo al 1140; l’aurea aetas coprirebbe un arco di un secolo
abbondante, dal 1140 al 1250 circa, mentre il periodo della decadenza va dal 1250 al 1292
(cui risale l’ultimo componimento databile di Guiraut Riquier); oggi si preferisce parlare di
‘generazioni’ e di ‘linee ideologiche’ (altocortese vs. ortodossa, quanto agli sviluppi tematici,
trobar clus, leu, ric ecc. quanto allo stile) con una gradualità e fluidità (soprattutto per quanto
riguarda la cronologia) che più facilmente permette di individuare i rapporti esistenti tra una
generazione e l’altra, tra una ‘linea’ e l’altra: la prima generazione è quella dei poeti delle
origini (Guglielmo IX, Jaufre Rudel, Ebles di Ventadorn), la seconda è incardinata attorno
alla figura carismatica di Marcabru, e parzialmente si fonde con la terza, che si coagula
attorno al 1170 (come ha sottolineato Aurelio Roncaglia) e che è descritta in una
famosissima poesia di Peire d’Alvernha, Cantarai d’aqestz trobadors, una ‘galleria satirica’
composta da quattordici coblas (strofe): tranne la prima, che funge da esordio, le altre tredici
prendono di mira ciascuna un trovatore, di cui sono messi in luce i difetti (fisici e non) e le
manie (l’ultima Peire la dedica a sé, però, per vantarsi); alcuni nomi sono famosissimi:
Bernart de Ventadorn, Peire Rogier, Raimbaut d’Aurenga, Giraut de Bornelh. Una quarta
generazione, immediatamente successiva alla terza e quasi senza soluzione di continuità
(quasi che si trattasse, più che di “padri” e di “figli”, di “fratelli maggiori” e “minori”)1 è
quella che è attiva a cavallo tra anni Ottanta e Novanta del XII secolo, e che è
analogamente descritta da una galleria satirica, l’altrettanto famosa Pos Peire d’Alvergn’a
chantat scritta attorno al 1195 dal Monge de Montaudon (Peirol, Gaucelm Faidit, Arnaut de
Maruelh, Folquet de Marselha sono alcuni dei bersagli del Monaco); una quinta
generazione, anch’essa cronologicamente molto vicina alla precedente (tra la fine del secolo
XI e il primo quindicennio del XII) è una generazione che ruota attorno ad alcune figure di
poeti “viaggiatori” (Peire Vidal, Raimbaut de Vaqueiras, Aimeric de Peguilhan, tra gli altri).2
La generazione successiva è quella della cosiddetta “diaspora”: la crisi - e la successiva “fuga
dei cervelli” - non ha motivazioni endogene, ma è determinata da un evento esterno dettato
da ragioni politiche e socio-economiche: come già ricordato in precedenza, si tratta della
crociata contro gli Albigesi, bandita da Innocenzo III nel 1208 e combattuta a partire
dall’anno successivo per un ventennio; a seguito della crociata, il sistema feudale della
Francia del Sud rimane travolto e la poesia dei trovatori, che vive nelle corti, ne risente
incredibilmente: la situazione politica ed economica del Mezzogiorno francese, aperto alla
conquista da parte della feudalità della Francia settentrionale, è più che precaria, e a ciò si
unisce la repressione portata dall’Inquisizione;3 i poeti lasciano in massa la Provenza ed
emigrano, soprattutto in Spagna ed in Italia settentrionale: si forma così una notevole
Secondo una felice metafora di Sara Pezzimenti.
Peire Vidal è già attivo nella precedente generazione: è infatti uno dei bersagli del Monge de Montaudon
nella sua galleria satirica, a conferma che le ipotesi tassonomiche relative alla suddivisione in “generazioni” e
“linee” devono essere perlopiù fluide e aperte.
3 A capo della repressione anti-catara c’era pure, curiosamente, un trovatore: si tratta di Folchetto di Marsiglia
che, abbandonata la vita secolare nel 1195 ed entrato nell’ordine cistercese, era stato nominato vescovo di
Tolosa nel 1205.
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tradizione di trovatori catalani ed italiani che è continuatrice diretta della tradizione
provenzale, e si compongono grammatiche che codificano la versificazione lirica: si tratta
delle prime grammatiche in volgare. Il passo successivo è la raccolta delle liriche occitaniche
in testi organici: non è un caso che la maggior parte dei manoscritti che tramandano poesie
provenzali siano stati prodotti da ateliers italiani.
Il complesso dei rivolgimenti modifica la poesia stessa: nella Provenza post-crociata le città
mutano forma e natura, acquisiscono una fisionomia e un tessuto sociale “borghesi”, così
che cambia, quindi, il tradizionale referente della satira, come si vede ad esempio in alcuni
dei componimenti più noti di Peire Cardenal (trovatore estremamente longevo, nato sullo
scorcio del XII secolo e morto a Montpellier nel 1278), i sirventesi Ab votz d’angel,
lengu’esperta, non blesza, Tartarassa ni voutor, Clergue si fan pastor (in cui, nella prima cobla, vi è il
famoso paragone dei falsi chierici che ricordano il lupo Ysengrin travestito da agnello,
l’antagonista di Renart la volpe nel Roman de Renart).4
La produzione originale in lingua d’oc, come si diceva, termina con il canzoniere (vero e
proprio ‘libro’) di Guiraut Riquier, cui seguono attestazioni qualitativamente assai scarse;
nel 1323, a Tolosa, si operò un tentativo di ridare vita alla poesia provenzale: fu fondato il
cosiddetto Concistori del gai saber (Circolo della gaia scienza) e furono banditi premi letterarî;
si composero trattati di retorica e grammatiche in lingua provenzale, come le Leys d’Amors.
Il tentativo, tuttavia, fallisce: la Provenza è istituzionalmente (e socialmente) assorbita dalla
Francia del nord ed ovunque si afferma la lingua d’oil, in modo particolare nella letteratura.
Caratteristiche della poesia trobadorica
Il ‘canto’ cortese è prima di tutto un’esperienza scritta: non c’è mai, come per l’epica, una
trasmissione di tipo mnemonico sul modello aedico (sarebbe certamente segnalata nel testo
da formule),5 né vi è improvvisazione; la performance, per il trovatore, consegue alla scrittura,
pur se il testo scritto è sempre finalizzato alla recitazione con accompagnamento musicale,
se non al vero e proprio canto; inoltre, si deve distinguere tra il poeta (trovatore) e il
giullare, che nella maggior parte dei casi è il performer: esiste ovviamente una casistica, che va
dal giullare come è radicato nell’immaginario popolare (ovvero colui che suscita riso con
lazzi e facezie), all’esecutore di testi religiosi, epici, lirici, ed esistono ovviamente le categorie
ibride, del trovatore-giullare e del giullare-trovatore. Il giullare che canta o accompagna
l’epos è un rifacitore, che modifica il testo a seconda delle esigenze di espressione orale (non
esistono, infatti, due manoscritti dello stesso poema epico uguali tra di loro), mentre il
giullare che esegue un testo lirico è tenuto, perlopiù, alla fedeltà al testo. Il verbo tecnico del
trovatore è trobar (che al tempo stesso significa “trovare la rima” e “inventare la melodia”),
con allusione alla creazione affiancata di testo e musica; la poesia è obra, “componimento”,
una composizione di motz (“parola”, o meglio “testo”) e son (“suono”, “melodia”). Il
giullare è al tempo stesso interprete e musico: solitamente egli si accompagna con una viella
(viola), con un’arpa o un liuto.
E se ne ricorderà Dante in Par. XXVII, 55: in vesta di pastor lupi rapaci, così come tutta l’invettiva contro la
Chiesa corrotta che Dante mette in bocca a San Pietro richiama molto dei toni e delle immagini della
produzione di Peire Cardenal.
5 A partire dall’epos antico, omerico, passando per i testi dell’epica medievale fino ad arrivare ad episodî della
letteratura popolare (per esempio la tradizione italiana dei “cantari” in ottava rima), il testo poetico è farcito di
‘formule’ che aiutano il poeta nella performance del testo: per fare un esempio omerico, il nome degli eroi o
delle divinità è sempre accompagnato da un’aggettivazione ricorrente (Ulisse ‘astuto’, o ‘scaltro’ ecc.) o dal
cosiddetto “epiteto esornativo”: l’Aurora (h\wév) è sempre “dalle rosee dita”, “dalle dita di rosa”
(r|ododaéktulov), Achille è - come tutti sanno - “piè veloce”, e così via.
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La poesia è, soprattutto, amorosa. Il nucleo ideologico del cosiddetto “amor cortese” (o
amour courtois, espressione coniata dal grande romanista Gaston Paris, che corrisponde al
provenzale fin’amors, “amore fino, perfetto, completo”) è nel percorso di elevazione verso la
perfezione spirituale che il trovatore compie attraverso la servitù amorosa: il rapporto è
vissuto dal poeta nei termini di una tensione d’amore che è, per statuto, eternamente
insoddisfatta; imparando valori etici fondamentali (la mezura o dominio di sé, la largueza o
liberalità) senza consumare fisicamente il rapporto con la donna amata, il poeta educa sé
stesso e ottiene la felicità (che i provenzali chiamano joi, inteso come sentimento cosmico
di allegrezza) in un modo, per certi versi, paradossale. Non vi può essere consumazione
fisica nel rapporto tra trovatore e dama perché l’amore è adulterino: uno dei fattori-chiave
dell’ideologia trobadorica è proprio l’inaccessibilità della donna (di solito è la castellana,
moglie del signore al cui servizio si trova il poeta), che determina uno stato di tensione
alto/basso in cui la figura femminile è il massimo grado dell’espressione spirituale (non è
ancora, però, la donna-angelo degli stilnovisti), e il poeta intraprende un percorso di ascesa
(non ascesi) verso il suo modello; la condizione adulterina rende necessarie alcune regole
non trasgredibili: anzitutto il celar, la discrezione da parte del poeta, che non deve mai
manifestare pubblicamente il proprio trasporto ma deve esprimerlo unicamente nel testo
poetico, senza nominare la donna per nome ma servendosi di un senhal, uno pseudonimo.
La segretezza del rapporto è spesso messa a rischio da figure topiche come quella del gilos
(il marito geloso) e quelle dei lauzengiers (i maldicenti, che svelando l’esistenza del rapporto
d’amore possono pregiudicarne l’esistenza). L’amore è specchio del mondo contemporaneo,
ed è pertanto vissuto nei termini di una “metafora feudale”: così come il cavaliere presta
giuramento vassallatico e s’impegna a offrire le proprie risorse in cambio della protezione
elargita dal signore, così in amore il poeta giura fedeltà alla propria dama, ne tesse le lodi, ne
protegge la reputazione, pur ricevendo in cambio poco più che qualche sguardo o gesto
benigno. Il principio della metafora feudale è alla base della cosiddetta “interpretazione
sociologica della fin’amors”, formulata da Eric Köhler (grandissimo romanista e teorico della
letteratura): il gruppo sociale che avrebbe dato l’avvio a questa esperienza poetica sarebbe
stato quello dei cavalieri non casati, ovvero i figli cadetti (iuvenes, in provenzale joven) della
piccola nobiltà della Francia del Sud che, esclusi dal possesso del feudo, dipendevano in
tutto dal loro signore vivendo un’esistenza complessivamente marginale ed emarginata
(Köhler li chiama marginal men); l’unica possibilità di riscatto offerta a questi marginal men è
quella di sublimare in chiave ideale l’ascesa sociale a loro negata, trasformando la propria
servitù reale – che nella maggior parte dei casi era destinata a non produrre frutti sul piano
sociale – in servitù amorosa; la donna, in quanto domina di questa particolarissima gerarchia
sociale, è midons, al maschile, cioè signore feudale del proprio cantore.
La teoria di Köhler esprime compiutamente la visione della cosiddetta “linea cortese” della
poesia trobadorica; esiste però anche una linea “alto-cortese”, i cui propugnatori sono i
trovatori collocati ai gradi più alti della scala sociale: essi esprimono una teoria amorosa il
cui obiettivo è il possesso pieno, anche sessuale, della donna. Le due linee sono destinate a
scontrarsi, e la questione attorno alla quale matura lo scontro (destinato a trascinarsi ben
oltre l’epoca trobadorica, fino agli stilnovisti, ed oltre) è la cosiddetta “questione di
nobiltà”: se cioè la dama debba preferire i rics, in contrapposizione a meno specificati
soggetti sociali, ovvero se sia più importante la nobiltà di nascita o la nobiltà d’animo,
frutto di un processo di perfezionamento interiore che trova la sua espressione nel valore
della mezura. Cantore del “rigore” cortese fu soprattutto Giraut de Bornelh, moralista non
meno intransigente di Marcabru (anche se privo dell’afflato religioso del giullare guascone),
che solleva la questione in una celebre tenzone con re Alfonso II d’Aragona, Be·m plairia,
senh’en reis: più di ogni altra cosa vale la disposizione dell’entendedor, dell’amante cortese, alla
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servitù amorosa e al bon’esper (l’inappagata tensione amorosa); per contro, il ric richiede alla
dama, prima di tutto, il soddisfacimento sessuale e una dama qu’enten en valer (che -cioèsappia giudicare ciò che vale) non sceglierà come suo spasimante un re o un imperatore,
perché il suo valore -il suo pretz- risulterà sminuito dalle richieste dell’amante. La risposta di
Alfonso II è sottilmente diplomatica: appropriandosi della stessa argomentazione del suo
interlocutore (il merito autentico di un entendedor è dato dalla sua disposizione al servaggio),
egli afferma che quando l’amante ricco e potente sa unire il cuore alle proprie risorse (e·l cor
ab lo poder / l’ajosta), ingigantisce i suoi meriti: ovvero, molto più merito acquista presso la
donna colui che sottomette sé stesso da una posizione così preminente, che pur essendole
signore non si comporta con lei con cattiveria e superbia.
Altra questione ideologicamente rilevante riguarda la “teoria degli stili”, entro la quale si
contrappongono due forme di trobar, il trobar clus e il trobar leu: il trobar clus consiste in una
poesia che, nel trattare le tematiche ideologicamente impegnate legate alla fin’amors,
privilegia la condensazione semantica. La conseguenza di questa scelta è, sul piano stilistico,
l’adozione di uno stile ermetico, per questo spesso oscuro: l’opzione per il trobar clus si
spiega con il desiderio, da parte dei poeti che abbracciano questa scelta ideologico-stilistica,
di rivolgersi a un pubblico ristretto ed elitario; i principali esponenti di questo stile furono
Marcabru, Peire d’Alvernha e Raimbaut d’Aurenga.
Una particolare forma del trobar clus fu il trobar ric, la cui eccellenza si ascrive ad Arnaut
Daniel: si tratta di uno stile che si compiace della propria complessità retorico-stilistica, in
una fase in cui la discussione ideologica sulla fin’amors si assesta su principi ormai ben
condivisi; svuotato del dibattito ideologico, il trobar clus diventa cioè puro artificio retorico e
ornatus stilistico.
Si contrappone allo stile clus il trobar leu (lieve); non si tratta di uno stile ideologicamente
disimpegnato, il suo obiettivo è anzi quello di raggiungere il pubblico più ampio, ricorrendo
a uno stile fluido e scorrevole, senza sacrificare nulla del patrimonio concettuale alla base
della poesia trobadorica. Principali esponenti del trobar leu furono Giraut de Bornelh,
Bernart de Ventadorn, Raimon de Miraval ed altri. La disputa tra trobar clus e trobar leu
(soprattutto in relazione al rapporto tra poesia e pubblico) è ancora ben presente ai poeti
lirici italiani: si pensi ad esempio a Dante, che nella fase stilnovistica riconosce Giraut de
Bornelh quale modello di stile, sostituendolo poi con Arnaut Daniel al momento della
produzione delle ‘petrose’ e della Commedia (cfr. Purg. XXVI).
Il corpus della poesia trobadorica
Il corpus della poesia occitanica, tenuto conto della possibilità di nuove scoperte, è
composto di circa 2500 liriche. Nella maggior parte dei casi i manoscritti sono ricche
antologie di più poeti, denominate “canzonieri”: i canzonieri sono generalmente codices
descripti, ovvero copiati da altri manoscritti, mentre la tradizione indiretta è costituita da
numerose citazioni, tratte in modo particolare da opere del XIII e XIV secolo, opere di
retorica come il Donat proensal di Uc Faidit (che forse è lo stesso trovatore Uc de Saint Circ),
le Razos de trobar di Raimon Vidal, le Regles de trobar del chierico catalano Jofre de Foixa, le
Leys d’Amors, il Breviari d’Amor di Matfre Ermengau. I canzonieri trobadorici sono circa un
centinaio; i più importanti fra essi sono circa 40 e sono classificati secondo un sistema di
sigle elaborato a fine ’800 dal romanista tedesco Karl Bartsch (e noto come “siglario
Bartsch”): la norma generale di siglatura indica con lettere maiuscole i codici membranacei,
con lettere minuscole i codici cartacei. Questi codici furono per la maggior parte esemplati
in Italia: dei 95 canzonieri recensiti da Clovis Brunel nella sua Bibliographie des manuscrits
littéraires en ancien provençal, 52 sono italiani, 14 della Francia settentrionale, 10 catalani, 20
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della Francia meridionale; nessuno di questi manoscritti è anteriore alla metà del Duecento:
il più antico canzoniere è il codice D (1254), manoscritto pergamenaceo assemblato in varie
fasi in un atelier di area veneta, ora conservato presso la Biblioteca Estense di Modena.
Come dicevamo poc’anzi, l’assenza di testimonianze più antiche non vuole significare che
le composizioni dei primi famosi trovatori siano state tramandate oralmente, ma piuttosto
che i codici primigenî, gradualmente sostituiti da grandi manoscritti antologici, sono andati
perduti. La tradizione della lirica occitanica non fu mai orale: anche i giullari si servivano di
fogli volanti o rotoli pergamenacei (i cosiddetti Liederblätter, cui accenneremo tra breve) per
l’esecuzione musicata dei componimenti.
Risale agli inizi del XIII secolo l’uso di allestire un’antologia personale da parte dei copisti o
degli stessi trovatori: Peire Vidal raccolse 16 sue canzoni ordinandole cronologicamente;
Miguel de la Tor, copista catalano attivo a Montpellier, intorno al 1280 allestì un’antologia
di poesie di Peire Cardenal (di questa raccolta, ormai dispersa, è stata scoperta a Madrid una
copia apografa da Maria Careri); questi modelli proto-antologici (detti Liederbücher),
contenenti opere di un unico autore, sono tutti andati dispersi. D’Arco Silvio Avalle, che ha
curato l’edizione critica di Peire Vidal, ha spiegato tale scomparsa con il fatto che, alla fine
del Duecento, siano stati introdotti i grandi canzonieri, che raccolgono componimenti di
più autori; Avalle personalmente si è occupato del Liederbuch di Peire Vidal nella sua
edizione critica del trovatore (1960) e nel suo importantissimo saggio intitolato La letteratura
medievale in lingua d’oc nella sua tradizione manoscritta (1961);6 di un altro Liederbuch, composto
da Folquet de Marselha, è stata dimostrata l’esistenza da Paolo Squillacioti nella sua recente
edizione del canzoniere folchettiano. Quanto ai cosiddetti fogli volanti (Liederblätter), già
sullo scorcio del XIX secolo (1887) Gustav Gröber, autore del primo grande manuale di
filologia romanza, formulò quest’ipotesi, molto audace per l’epoca, destinata in seguito a
risultare veritiera: Gröber immaginava, appunto, l’esistenza di fogli o rotuli allegati ai
manoscritti e recanti annotazioni; il riscontro alla sua ipotesi avvenne nel 1914 con la
scoperta di un rotolo pergamenaceo recante annotazioni di un trovatore galego (la Galizia
conosce una tradizione letteraria speculare a quella dell’area occitanica; le due aree sono
collegate dal “cammino francese”, via di pellegrinaggio che collega la Francia a Santiago di
Compostela) il cui nome è Martin Codax: il rotulus costituiva la copia di inizio ’300 di un
rotolo anteriore.
Dalla fusione di Liederbücher e Liederblätter nacquero probabilmente i primi canzonieri, che
furono via via modificati attraverso un processo di selezione che tendeva a privilegiare gli
autori più moderni e “alla moda” rispetto a quelli antichi: è uno dei motivi per i quali noi
possiamo leggere in definitiva molto poco di autori importanti come Guglielmo IX (9
componimenti) o Jaufre Rudel (6), o addirittura nulla di Ebles II di Ventadorn, che molti
suoi contemporanei indicarono addirittura come il caposcuola di tutto il movimento
poetico. L’ordinamento interno dei canzonieri è molto vario: essi possono essere ordinati
per genere letterario, o per autore, ma esistono anche canzonieri privi di ordine interno.
Inizialmente dovevano esistere dei manoscritti “di servizio” che raccoglievano il materiale
poetico senza selezionarlo: queste raccolte si chiamano editiones variorum. Avalle ne ha
individuata una (la chiama ε), come matrice di tutti i manoscritti provenzali esemplati nel
Nord dell’Italia e di alcuni esemplati in Provenza.
6 Il saggio avalliano è divenuto col tempo un “classico” della filologia, che merita di essere letto come
esempio di indagine su una tradizione manoscritta; è tuttora in commercio nella ‘Piccola Biblioteca Einaudi’,
nella nuova edizione aggiornata, curata da Lino Leonardi.
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Fuori dalla Provenza: la diffusione della lirica trobadorica
A partire dal XIII secolo la lirica provenzale abbatte i confini e si propaga al di fuori
dell’Occitania: la poesia dei trovatori acquisisce dunque uno status sovranazionale e si pone
come modello per le altre letterature (romanze e non solo); già però nella seconda metà del
XII secolo le corti iberiche, assetate di novità letterarie, avevano cominciato ad ospitare
trovatori provenzali: in Spagna fu grande mecenate, nella seconda metà del XII secolo,
Alfonso II d’Aragona, anch’egli poeta (abbiamo già ricordato la tenzone intrecciata con
Guiraut de Bornelh); nel secolo successivo sarà importantissimo il mecenatismo di Alfonso
X di Castiglia (detto “el Sabio”, il saggio) alla cui corte si chiude, con l’attività poetica di
Guiraut Riquier, la parabola della lirica provenzale. Tra i primi imitatori della lirica d’oc il
primato va ai poeti catalani, che versificano in provenzale o in un catalano fortemente
contaminato (l’affinità tra le due lingue è molto marcata). Tale fenomeno di imitazione avrà
lunga durata e si protrarrà sino al ’400, quando ancora si registra l’opera di un trovatore di
grandissima originalità e caratura poetica, Ausias March. Quella galego-portoghese è l’altra
area culturale che assorbe i modelli provenzali; i primi testi datano ai primi anni del ’200: si
tratta di liriche che vanno sotto il nome di cantigas de amor, cantigas d’escarnho o de mal dizer
(liriche d’invettiva) e cantigas de amigo (testi molto affini alle kharğāt). Attraverso questo
sconfinamento il modello lirico dei trovatori si afferma in un idioma differente: al punto
tale che nella penisola iberica, sino a tutto il ’300, chiunque componga lirica, fatta eccezione
per i poeti catalani, rimava in galego-portoghese (e dunque, ad esempio, lo stesso Alfonso
X di Castiglia).
Differente è la situazione nella Francia settentrionale: molto pochi sono i trovatori che si
recano nell’Île de France; d’altro canto, l’immediato successo della poesia provenzale in
quest’area determina il sorgere di una scuola poetica in lingua d’oïl che adotta le forme
provenzali: i rimatori non si chiameranno più troubadours ma trouvères (trovieri); tra i nomi
importanti il più rilucente é senz’altro quello di Chrétien de Troyes: attivo tra gli anni ’60 e
gli anni ’80 del XII secolo, anche se la sua immortalità è sancita perlopiù dai romanzi (la
tradizione manoscritta ce ne consegna cinque: Erec et Enide, Cligès, Lancelot o Le Chevalier de
la charrette, Yvain o Le Chevalier au lion, Perceval o Le conte du Graal), Chretien fu,
indubbiamente, un grande poeta lirico, anche se non è dato sapere se egli possa essere
stato, per la trova in lingua d’oïl, una sorta di caposcuola; accanto a quello di Chrétien,
troviamo i nomi di altri grandissimi poeti: Blondel de Nesle, Adam de la Halle, Conon de
Béthune, Gauthier de Coincy, Gace Brulé, Thibaut de Champagne, Richart de Fournival;
spesso in polemica con i “rivali” di area occitanica, essi operarono la prima trasposizione
delle forme liriche provenzali in un’altra lingua (in area galego-portoghese si erano ricreati
generi sul modello di quelli provenzali).
Altrove, nella produzione poetica della Francia settentrionale si radicano la stessa tematica
dell’amore cortese e il valore della “cortesia” quale supremo ideale umano: un esempio di
questo sono i lais d’amor, componimenti affini al romanzo ma più brevi ed intessuti di
elementi lirici (in contrapposizione ai lais,7 in chiave ironico/comica, spesso erotica, vi sono
i fabliaux); di eccezionale bellezza sono i lais di Maria di Francia, grandissima e prolifica
autrice (la cui identità, però, non è meglio precisabile) che tra il 1160 ed il 1170 ne compose
una dozzina.
Alla fine del XII secolo è collocabile il trattato De amore scritto da Andrea Capellano (il
soprannome gli deriva dalla carica di cappellano della corte di Maria di Champagne):
Andrea, sulla scia dell’Ars amatoria ovidiana, codificata l’esperienza della fin’amors,
7 Il termine lai deriva dal bretone *laid, il cui significato è quello di “canto” o “melodia”; si tratta di una radice
affine a quella germanica da cui deriva il termine lied, che ha lo stesso significato
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straordinaria esperienza amorosa ed esempio di rapporto intellettuale di altissimo livello, nel
quale per la prima volta un ruolo attivo, assolutamente inedito, spetta alla donna. Nel De
amore la forza dell’amore è esaltata dalla sua stessa impossibilità, e sono descritti tutti i
toépoi della cortesia; tuttavia il trattato, redatto in forma didascalica, è reso di ardua
interpretazione dall’affiorare, sporadico, di toni parodistici.
In Italia settentrionale la situazione è analoga alla Catalogna, dove i poeti iniziano a scrivere
in provenzale; si hanno notizie di 27 trovatori italiani: il più importante tra essi è Sordello
da Goito (che appare anche come personaggio nel VI canto del Purgatorio); ancora prima,
molti famosi trovatori provenzali furono ospiti nelle corti del Nord Italia: Peire Vidal
soggiornò presso i Malaspina, Raimbaut de Vaqueiras fu ospite presso la corte di Bonifacio
del Monferrato. Nella Marca Trevigiana, l’ascesa di Ezzelino ed Alberico da Romano,
potentissimi alleati di Federico II di Svevia (di cui Ezzelino divenne genero, sposando la
figlia Selvaggia), segnerà l’inizio di una nuova tappa culturale: il mecenatismo degli Ezzelini
favorisce l’affermazione di ideali feudal-cortesi in un ambiente che già è cittadino e, a suo
modo, “borghese”; il contrasto tra la modernità e i valori “antichi” crea una tensione
poetica di sapore quasi tragico (un’analoga espressione di questo contrasto sarà, in seguito,
nel Decameron). Intorno al 1220, nel pieno della repressione albigese, il trovatore Uc de Sant
Circ, costretto ad abbandonare la Provenza, ripara nella Marca Trevigiana alla corte dei Da
Romano; Uc fu anch’egli poeta, seppur di non eccelso valore: il suo merito più grande
consiste nell’aver elaborato due generi in prosa destinati ad una grande diffusione e ad una
filiazione illustre nel genere della novella: si tratta delle vidas e delle razos, del cui repertorio
per buona parte è autore lo stesso Uc; attraverso la sua opera inizia il travaso dei temi e
delle forma trovadoresche entro moduli socio-culturali più moderni, di impronta borghese
e scolastica. Le vidas (vite dei trovatori) e le razos (<rationes, commenti alla poesia
provenzale) sono generi collegabili agli accessus ad auctores: Uc stesso compie personalmente
un’opera sistematica di verifica, raccolta di dati e stesura, e se la struttura è schematica ed
essenziale, essa è indubbiamente molto precisa. Le razos sono una forma di critica genetica:
esse chiariscono le condizioni biografiche che portano all’atto creativo, non quelle
stilistiche e formali. Tali modalità creano sovente travisamenti storico-letterari ma,
attraverso continue rielaborazioni, trasformano i componimenti in embrioni di novelle,
accrescendo così la portata della narrativa provenzale. Un esempio è la celebre e articolata
vida di Guilhem de Cabestaing, famosa per il racconto del “cuore mangiato”: in sintesi, il
marito cornificato, il conte di Roussillon di cui il trovatore ama la moglie, lo uccide e dà in
pasto il suo cuore alla moglie la quale, apprendendolo, si getta dalla finestra e muore; il
tema è, secondo alcuni, di origine orientale o, più probabilmente, celtica (nel Tristan di
Thomas l’autore mette in bocca a Isotta un racconto che ha questo svolgimento); uno dei
più famosi avatar di questo motivo è nella novella IX della quarta giornata del Decameron,
vera e propria amplificatio della vida occitanica.
Anche il testo delle razos è originariamente molto breve: i successivi ampliamenti e
rimaneggiamenti daranno origine a testi dalla struttura assai prossima a quella della novella.
L’influenza sulla produzione posteriore di questo genere di componimenti, che affiancano
il testo poetico a forme di commento (entro i confini di un genere che definiamo
“prosimetro”), è ben evidente: valga su tutti l’esempio della Vita Nova. Il fine della
realizzazione di Uc (i cui commenti, sovente, banalizzano i contenuti) non è quello di
approntare un prontuario per i giullari, bensì quello di diffondere la fama e i modi della
poesia trobadorica, con particolare insistenza per i fenomeni di mecenatismo; la sua opera
dimostra peraltro la decadenza già in atto della poesia provenzale: gli autori provenzali sono
ormai considerati dei “classici”.
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Federico II di Svevia, per la cronica necessità di spostamenti cui il suo duplice ruolo di
imperatore e re di Sicilia lo costringeva, non riuscì mai a creare una corte che divenisse
centro di codificazione nazionale di lingua e di modelli letterari. Le iniziative della sua corte
furono comunque fondamentali: nella Magna Curia nasce e si sviluppa la poesia della
Scuola siciliana, primo altissimo episodio corale della poesia italiana; l’ispirazione ai modelli
trobadorici è innegabile, ma è rivolta solo alle forme e ai contenuti, non alla lingua: ciò è
dovuto al fatto che i siciliani ritengono “classici” i componimenti dei trovatori, ed operano
piuttosto delle traduzioni (come fa ad esempio Giacomo da Lentini con Madonna, dir vo
voglio, che traduce la canzone di Folquet de Marselha A vos, midontç, voill retrair’en cantan). Il
contatto più importante tra la corte di Federico II e la lirica dei trovatori avviene intorno al
1232, favorito dalle circostanze politiche che vedono l’imperatore alleato di Ezzelino da
Romano (che come abbiamo detto diverrà suo genero); l’incontro con l’ambiente della
corte trevigiana accresce l’interesse dell’imperatore e del suo entourage nei confronti della
poesia provenzale; alla corte imperiale essa muta radicalmente espressione: non più cantata
ma recitata, non più creazione originaria ma ripetizione di “classici”.
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Il sistema dei generi
La lirica dei trovatori celebra l’amore, ma non solo quello; i temi, anzi, possono essere sono
assai varî: la religione, la politica, la guerra, la satira, ecc. La canzone o canso che, secondo il
giudizio di Dante (cfr. De vulgari eloquentia), è la forma espressiva più elevata nella tradizione
poetica, tratta i temi legati all’amor cortese. Identico alla canso è il sirventes (sirventese), il
genere dell’impegno politico o dell’attacco personale; l’attacco è a volte reale (contro un
nemico, o contro un avversario in amore), a volte solo di maniera; il sirventese può inoltre
essere satirico, oppure trattare temi moralistici. Discussa è l’etimologia di “sirventese”: da
“servire” (in quanto il trovatore si serve di una struttura rimica e di una melodia
preesistenti) o più probabilmente da sirven (servo, < serventem; cfr. il lat. servientensem): si tratta
infatti di una poesia rivolta al signore da un trovatore del seguito o da una persona che tale
si finge. Abbiamo poi altri generi che si possono definire “specializzati” o tipologicamente
definiti.
Il planh: è il genere del compianto.
La tenzo: tenzone, genere analogo al sirventese ma a più voci, scritta da vari autori: in genere
un autore invita un altro poeta a discutere su un dato argomento; l’autore che è sfidato a
tenzone è tenuto a rispondere “per le rime”, ovvero ad utilizzare lo stesso schema rimico
impiegato dallo sfidante; non sempre la tenzone è reale, esistono anche tenzoni “fittizie”,
tra il trovatore e un personaggio immaginario: celebri sono le tenzoni del Monge de
Montaudon, che immagina di dibattere con Dio su varî argomenti.
Il partimen ( o anche joc parti): altro genere analogo al sirventese; partendo da un argomento
di pretesto (ex. “meglio la condizione di chierico o di cavaliere?”) più trovatori scrivono
strofe di sirventese per esprimere la loro opinione; è d’obbligo in questo genere la struttura
delle coblas unissonans.
La pastorella: è un componimento tenzonato (a più voci, dunque) nel quale dialogano il
poeta e una fanciulla generalmente di basso rango (pastora, appunto); si tratta di un genere
a carattere “anticortese”, in cui si realizza l’inversione completa dei valori della cortesia: il
poeta si trova fuori dalla corte, in uno spazio aperto, incontra una donna di rango inferiore
a lui, si rivolge a lei in modo esplicito e di solito con l’intento di soddisfare il proprio istinto
sessuale, generalmente vedendo accolte le proprie preghiere abbastanza facilmente. La
pastorella è un genere di origine popolare, ed è anche uno dei più longevi: ancora nel XX
secolo Fabrizio De Andrè, nella celebre Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers,
scrive una vera e propria pastorella.
Il gap: è il genere del vanto, che può essere di varî tipi (vanto delle proprie capacità in amore
o, esplicitamente, vanto sessuale; vanto poetico, già presente presso i poeti antichi – si
pensi a Orazio, e al suo Exegi monumentum aere perennius – e divenuto un tòpos; il vanto
conviviale, con cui il trovatore esalta le proprie capacità di stare nella taberna, ovvero nel
bere e nel mangiare; e il vanto nelle armi, tipico di alcuni poeti come Bertran de Born).
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