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UNI TER - Arese
Regni e Sultanati
in
India
di
Maria Garbini Fustinoni
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Pag. 4
Pag. 8
Pag.10
Pag.11
Regni e Sultanati
L’India
Gli Arya
Il villaggio e la città
Il cammino dell’uomo
Pag. 12
Pag. 13
Pag. 14
Pag. 15
.
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L’Induismo
Il Buddha
Il Buddha al centro dell’universo
Stupa di Sanchi
Regni e sultanati in India.
Nel 712, nel periodo della loro grande espansione territoriale, gli Arabi risalgono uno dei
bracci del delta dell’Indo (non lontano dall’odierna Karachi) e vi fondano un porto (odierna
Bambhore). In questa zona sono state trovate le fondazioni della più antica moschea del
subcontinente, risalente al 727ca. Si tratta di un edificio a pianta quadrata, con sala di
preghiera a tre navate parallele alla qibla e porticato esterno a due navate (modello classico
dell’Architettura Islamica dell’epoca).
Poco si trova dei primi secoli dell’Islamizzazione dell’India: se ne ha notizia solo attraverso i
testi letterari.
Nel X secolo arriva una nuova ondata di conquistatori musulmani (al comando del turco
Subutegin (977/997) della dinastia dei Samanidi), che compiono numerose incursioni per
prendere schiavi e bottino.
Il figlio di Subutegin, il grande Mahmud di Ghazna (997/1030), ricava dalla sue spedizioni
tesori immensi. Migliaia di combattenti, desiderosi di impadronirsi delle ricchezze che
sembrano trovarsi così facilmente nelle regioni che sono conquistate, si arruolano (e si
arricchiscono) al suo seguito e Ghazna diventa così una delle città più belle dell’epoca.
Mondo persiano e mondo indo-afgano vengono unificati sotto il regno di Mahmud, colto e
lungimirante.
L’Islam continua ad allargare i suoi confini fino ad unificare nel 1186 il bacino dell’Indo e
quello del Gange.
Il grande conquistatore dell’India è Muizz ad -Din Muhammad (1173/1206). Il suo generale,
lo “schiavo” Qutb al –Din Aybak riesce nel 1193 a conquistare Delhi e ne diventa
governatore. Alla morte di Muizz ad –Din Muhammad (1206), Aybak si proclama
indipendente, assume il titolo di sultano, fonda uno stato nuovo, ricco e potente.
Nel sultanato creato da Muhammad si succedono (prima dei Moghul) cinque dinastie
islamiche di origine afgana o turca, che promuovono campagne di conquista a spese dei
potenti confinanti. Sono conquiste importanti, ma il controllo di queste regioni è difficile e
poco duraturo.
Nel 1245 l’India viene per al prima volta invasa dai Mongoli. Finisce il sultanato degli
“schiavi” (di cui era stato fondatore Qutb al Din Aybak, lo “schiavo”).
Ala ad- Din Khalji (1296/1316) ristabilisce l’ordine, estende le conquiste, ma nel 1398 Timur
(in turco “ferro”) Leng conquista Delhi, compie un vero massacro della popolazione,
distrugge la città, che viene ridotta in rovine. Finisce così l’egemonia del sultanato di Delhi;
nascono numerosi sultanati regionali, meno legati a modelli esterni, più ancorati a storia e
tradizioni locali. E ne restano numerosi documenti.
Quando arriva in India, l’Islam si trova di fronte a una civiltà evoluta e antichissima, che
aveva già da secoli elaborato un suo pensiero religioso ed un’Architettura “sofisticata”, tale
da tradurre in pietra e spazio le sue speculazioni ed i suoi simboli.
Altrove l’Islam aveva incontrato un’Architettura cristiana (armena o bizantina) che
presentava molti elementi comuni a quella turca-islamica. In India, invece, Religione e
Architettura (anch’essa di carattere fondamentalmente sacro) sono lontane dall’esperienza
islamica e turca.
Il cuore del tempio (il luogo sacro) indiano, concepito come un progressivo avvicinamento al
mistero, è racchiuso in un ambiente centrale (accessibile ai soli iniziati, in genere preceduto
da una o più verande, protetto da un recinto sacro, in cui si trovano celle), oppure circondato
da un colonnato. Vi si possono trovare anche vasche per le abluzioni rituali: elementi che
possiamo considerare comuni alla moschea. Tutto il resto è assolutamente estraneo
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all’Islam, a cominciare dalla proliferazione di immagini di divinità presenti ovunque per
arrivare al concetto stesso di edificio sacro: per l’Islam luogo in cui si riuniscono i fedeli per
pregare, per elevare l’anima a un Dio fatto di spirito, esattamente il contrario, come vedremo,
di un edificio costruito intorno al mistero, protetto da una serie di barriere che limitano
progressivamente il numero degli adepti, arricchito da una serie infinita di statue di divinità e
di altari ai quali i fedeli portano le loro offerte.
Il primo monumento islamico in India è la Moschea Quwat ul –Islam, iniziata nel 1193,
affiancata da un imponente minareto, il Qutub Minar, costruito nel 1199 (Fig.1)
Fig.1
Nella sua sistemazione finale la Moschea raggiunge 250 metri in larghezza per 150 in
profondità. Il suo sahn è circondato su tre lati da portici di 20 pilastri ciascuno; tre arcate da
dieci pilastri formano una sala di preghiera complementare. La sala principale, oblunga, ha
quattro arcate con dieci pilastri ognuna. Sono supporti di recupero, provenienti da templi
buddisti demoliti. Le decorazioni originarie da cui erano ornati sono state eliminate a colpi di
martello. Ben 27 templi buddisti e jaina sono stati rasi al suolo con l’aiuto di un branco di
elefanti addomesticati per abbattere i templi da cui ricavare il materiale necessario alla
costruzione della moschea. Elementi di recupero sono accomunati a grandi archi spezzati di
origine persiana, che la mano d’opera indiana ha cercato di riprodurre.
Tre anni dopo la fine dei lavori Qutub ed –Din Aybak fece realizzare davanti alla sala della
preghiera un’alta facciata con cinque grandi aperture in forma di archi spezzati di una
quindicina di metri di altezza, struttura che si pensa sostituisse il Mirhab, per indicare la
direzione della Mecca.
Gli operai indiani non conoscevano la tecnica dell’arco; per risolvere il problema simularono
la forma dell’arco spezzato con “corsi” in muratura orizzontali, disposti in aggetto
progressivo, e realizzarono così false volte: la forma dell’arco era leggibile. Anche la
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costruzione della cupola di fronte al mirhab e delle altre cupole fu risolta con la realizzazione
di “false cupole”, di cupole cioè formate tramite corsi di muratura orizzontale in aggetto.
Il minareto di questa moschea non adempie solo alla funzione di richiamo dei fedeli alla
preghiera: è (nell’intenzione sia del costruttore sia dell’Islam vittorioso) una “torre della
vittoria” alta 73 metri che segna il trionfo dell’Islam sui culti induisti; è simbolo del trionfo della
vera fede sull’idolatria professata nelle terre conquistate. Un’iscrizione dice che essa doveva
gettare “l’ombra di Dio sull’Oriente e sull’Occidente”.
Il minareto ha pianta circolare, formata da sezioni leggermente coniche e separate da
balconi un poco sporgenti, sostenuti da mukarnas. Presentava all’origine quattro piani; gli
ultimi furono aggiunti dopo che un fulmine aveva danneggiato la struttura.
I tre piani inferiori, di arenaria rossa, sono decorati con combinazioni di forme circolari e
stellari. Ogni piano presenta una sezione differente: il primo ha la forma di un fascio in cui si
alternano colonne incassate e costoloni sporgenti. Nel secondo, polistilo, sono state
giustapposte colonne incassate; il terzo è a forma di stelle.
Dopo la morte di Qutub ed- Din un altro soldato di mestiere diventa sultano. La crescita
demografica nella città di Delhi richiede maggiori spazi, la moschea viene ampliata, anzi,
triplicata, passa da tremila a quasi diecimila mq. Vengono aggiunti due cortili, il minareto
viene incluso entro i confini del nuovo complesso. Sulla quibla vengono creati nuovi mirhab.
Nel 1236, nell’area della moschea, viene costruita la prima tomba islamica in India, il
Mausoleo del sultano Iletmich: la pianta quadrata (m.13X13) diventa ottagono al piano
superiore. La cupola, ora scomparsa, era impostata sulla base tramite trombe d’angolo.
L’interno del mausoleo, interamente costruito in arenaria rossa, presenta al centro il
cenotafio in marmo bianco. Le superfici interne sono riccamente ornate con disegni
geometrici, arabeschi, versetti in scrittura cubica. Anche qui si rivela l’incapacità degli
architetti indiani di costruire l’arco: le trombe d’angolo che sostenevano la cupola, ormai
crollata, sono realizzate per mezzo di conci ad aggetto progressivo.
L’INDIA
Secondo il pensiero indiano tradizionale il Tempo “non è una concezione lineare cha ha un
inizio ed una fine definiti, ma è un ciclico ripetersi: l’universo stesso appare, permane per il
tempo che gli è stato assegnato, scompare e di nuovo riemerge dalla notte dell’Immanifesto
in un processo continuo”.
Per la cultura Occidentale il tempo è lineare. Il passato si realizza nel presente e si proietta
nel futuro. Per la cultura “indiana” il tempo è circolare. Il futuro si chiude sul passato per dare
spazio ad un nuovo inizio.
Il nostro è un corso di Storia dell’Arte, ma la Storia dell’Arte (e lo abbiamo bene appreso
durante il nostro lungo percorso) è la Storia dell’Uomo, nel suo contesto geografico e nel suo
tempo. Cercheremo quindi di combinare le tendenze, seguendo gli eventi nella loro
successione cronologica, ma affrontando anche i vari argomenti in base alla loro peculiarità.
Le prime testimonianze di presenza umana in India risalgono al Paleolitico. Sono amigdale,
trovate lungo il corso di un affluente del fiume Indo, fabbricate, probabilmente, da gruppi
discesi dal Nord nel subcontinente indiano tra i 400.000 e i 200.000 anni fa, nel secondo
periodo interglaciale.
I più antichi insediamenti nell’India Meridionale sembrano invece essere arrivati dall’Africa
Orientale, sempre durante l’Età Paleolitica. Di loro produzione sono stati trovati vari utensili
di pietra, in particolare asce.
30.000 anni fa (durante il Mesolitico) altre migrazioni di cacciatori e raccoglitori, di non
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definita provenienza, hanno lasciato armi di pietra.
Il passaggio dal nomadismo al sedimentarismo sembra sia avvenuto dopo il 6.000 a.C.,
periodo del quale restano nel Belucistan tracce di opere di irrigazione e di terrazzamenti
artificiali accanto a rovine di insediamenti umani costruiti con mattoni di fango, crudi.
Nella valle del fiume Zhob sono state trovate un po’ dovunque statue fittili che rappresentano
il toro gibboso, statuette femminili con copricapo (dee madri?), simboli fallici, ceramiche
decorate con motivi naturalistici.
Le prime sepolture rinvenute rivelano l’uso sia della cremazione, sia dell’inumazione.
Risalgono a circa il 2600 a.C. le prime tracce della cultura Amri (così chiamata dalla zona in
cui si è sviluppata, nel Sindh), i primi esemplari di ceramica vallinda, la ceramica della Valle
dell’Indo. Discusso è il periodo in cui questa civiltà è nata, certo è il momento del suo
apogeo, che va dal 2300 al 1800 a.C.
La Civiltà dell’Indo fiorì nel periodo che intercorre tra l’età delle Grandi Piramidi d’Egitto e la
nascita dei primi Grandi Imperi della Mesopotamia. Ricerche e scoperte vicine ai giorni
nostri, informazioni dedotte da tavolette di argilla mesopotamiche parlano di mercanzie di
lusso che arrivavano da una terra a Oriente, indicata con il nome di Melukhkha: erano
essenze, legni pregiati, animali di lusso (scimmie, pavoni, cani) che hanno permesso di
identificare la regione di provenienza con la Valle dell’Indo del 2000 a.C.
Non sappiamo quale lingua parlasse questo popolo cinquemila anni fa, forse una lingua del
gruppo dravidico (lingua che precede le lingue indoeuropee e che ancora sopravvive in
alcune regioni dell’India) e non conosciamo nemmeno il significato del nome con il quale il
popolo veniva indicato. La loro scrittura era sillabica e veniva usata solo per i sigilli e per
brevi iscrizioni su vasi e oggetti di metallo.
Gli Indiani dell’Età del bronzo vivevano in una società fortemente centralizzata. Le loro
città capitali, non numerose, in cui vivevano 40/50.000 persone, distavano circa 250/300 Km.
l’una dall’altra ed erano circondate da insediamenti rurali piuttosto piccoli.
Si trattava probabilmente di città stato, sono tuttavia così simili l’una all’altra che si può
pensare che, a un certo punto della loro storia, ci sia stato un conquistatore che abbia
unificato tutta la zona.
Allo stato attuale i resti di queste città presentano strade molto regolari e pozzi e canaletti
per lo scolo delle acque. Le case più ricche erano dotate di impianti igienici e stanze da
bagno.
Nel 1856 l’ingegnere inglese William Brunton, impegnato nella costruzione della ferrovia
Karachi-Lahore, scopre un “sigillo”. Partono da questo momento le congetture più disparate
circa l’origine, la struttura, la fine di un’enigmatica cultura.
Alla fine dell’Ottocento si pensa che la Storia dell’India ha avuto inizio nel periodo in cui è
stato composto il Ragveda, la parte più antica dei testi sacri induisti (datati dai linguisti tra il
1500 e il 1300 a.C.)
1902: John Marshall, direttore della Sovrintendenza Archeologica Indiana, effettua i primi
rilevamenti.
1922: l’archeologo indiano Banerjee, durante gli scavi di un tempio buddista del II secolo
a.C. a Mohenjo Daro, trova le rovine di una grande e potente civiltà: la Civiltà Vallinda che,
secondo scavi recenti, risulta essersi sviluppata in un’area molto vasta.
1929: l’archeologo indiano Majumdar scopre ad Amri, nel Sind, manufatti in ceramica il cui
esame risulta utilissimo per datare (anche se con un certa approssimazione) la “Civiltà della
Valle dell’Indo”).
Si può dunque supporre che nel 2600:
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- la Civiltà Vallinda era già diffusa nel Sind
- erano già stati fondati numerosi siti che, benché distanti tra loro, rivelano caratteristiche
comuni nella pianificazione degli insediamenti, nella costruzione di case con mattoni
cotti, nella ceramica e nel sistema di peso e misurazione.
Tutto ciò fa pensare che la vasta area fosse unita sotto una struttura politica e
amministrativa di tipo teocratico, formato da un gruppo di “sacerdoti” e/o da un
rappresentante del potere divino. Questa ipotesi è suggerita dalla statua del cosiddetto
“Prete-Re”, statua ieratica e misteriosa trovata a Mohenjo Daro (che significa “luogo dei
morti”, un enorme complesso di rovine sulle sponde dell’Indo, nella regione del Sind). (Fig.2)
Quel che sembra sicuro è che sia da escludere la presenza di un sovrano assoluto.
Fig.2
Alcune tavolette che risalgono all’epoca di Sargon il Grande (2370/2344 a.C.) documentano
che l’attività più importante della Civiltà Vallinda è stata il commercio, soprattutto con il vicino
Impero di Sumer. All’epoca la Valle dell’Indo veniva indicata come “ricca d’avorio”.
La definizione è giusta: l’iconografia dell’epoca rivela infatti la presenza di elefanti nella
zona.
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La notizia non è stata confermata da documenti scritti perché la scrittura vallinda non è stata
decifrata. Mancano infatti ancora testi grafici che aiutino a comprenderla, forse perché sono
andati perduti, o forse perché sono stati scritti su materiale deperibile.
Un certo risultato è stato ottenuto dall’Istituto di Studi Orientali di Mosca, che ha realizzato
che il Vallindo (o proto Indiano) si differenzia sia dalle lingue asiatiche contemporanee, sia
dalle lingue asiatiche e pachistane che sono nate dal ceppo indoeuropeo, ma presenta
alcune affinità con le lingue dravidiche dell’India del Sud.
Ci parlano però della civiltà vallinda le immagini che vediamo sui cilindri, tavolette di forma
quadrata, con lato che misura tra i 17 ed i 30 millimetri, con protuberanza forata nella parte
posteriore. I cilindri erano di steatite, una roccia formata da talco, molto morbida, ma che
diventa bianca e durissima quando è scaldata a temperature molto elevate. Presentano in
alto una breve iscrizione, forse il nome di una persona, e il titolo. Presentano in basso
l’immagine di un animale, ritratto spesso davanti a un oggetto.
Non vengono però presentati solo animali: la sacralità della Natura è rappresentata
dall’immagine della Donna-Albero, quella della Madre Terra è rappresentata da immagini
femminili dai grossi seni e dall’ombelico notevole. E’ testimoniata anche la danza, che tanta
parte avrebbe avuto nelle future cerimonie religiose.
I sigilli venivano portati al polso o alla cintura ed erano usati per imprimere la firma del
proprietario. Ne sono stati trovati su vasi, giare, casse lignee. (Fig.3)
Fig.3
La maggior parte delle notizie che abbiamo della Civiltà Vallinda ci vengono da due
importanti siti archeologici: Mohenjo Daro e Harappa, due città gemelle che ci permettono
di conoscere anche l’impianto urbano delle città dell’epoca.
Le strade principali che, organizzate a scacchiera, si incrociavano, correvano da Nord a Sud,
da Est a Ovest.
Le città presentavano una “cittadella” rialzata (lato ovest) ed una città bassa (lato sud-est).
Sono state trovate piattaforme di mattone crudo (alte fino a 15 metri e lunghe centinaia di
metri), protette da imponenti recinzioni in pietra o in mattoni crudi, costruite o per protezione
contro le piene dei fiumi o per difesa. L’accesso alle varie zone della città era segnato da
porte, scalinate, torri; non se ne conosce l’esatto motivo, ma è probabile che nelle diverse
zone vivessero distinti gruppi di persone.
Non è stata trovata traccia di grandi edifici (palazzi, templi). La mancanza di templi non ci
permette di conoscere quali divinità venissero adorate o quali idee la gente avesse su
probabili mondi ultraterreni.
Le case erano ben costruite: i basamenti erano in mattoni cotti, gli alzati in mattoni crudi.
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I muri erano intonacati, i soffitti realizzati con tronchi di legno di palma e con intercapedini di
frasche e fango. Si affacciavano sui vicoli, ma i piani inferiori generalmente non
presentavano finestre. La porta di entrata si apriva su un cortile centrale.
All’interno delle stanze sono stati trovati intarsi geometrici di conchiglia marina, che ci fanno
pensare alla presenza di mobili intarsiati.
Le case più ricche erano a due piani e possedevano un pozzo privato.
Nulla si sa delle cause che portarono alla fine questo mondo misterioso ed elegante.
Numerose sono le ipotesi avanzate; l’unica spiegazione accettabile è la naturale fine di una
cultura alla presenza di un’altra che nasce: Nel II millennio a.C., infatti,:
- Sono state introdotte nuove piante (riso e sorgo) che hanno portato alla rivoluzione
delle modalità di sfruttamento del suolo.
- La diffusione della palma da dattero e l’addomesticamento del cavallo e del
cammello hanno dimostrato che la vita nelle oasi era più facile e più piacevole che
quella in città.
- “Vecchie” e non idonee sono diventate le antiche istituzioni.
Le culture della “Ceramica grigia dipinta”, fiorite in India tra il 1200 e il 700 a.C. derivano il
loro nome da una ceramica fine, di lusso, decorata con disegni geometrici in nero. Nascono
e si sviluppano in un vasto territorio che comprende il margine orientale della Valle dell’Indo,
della pianura del Gange…, territori che si sono arricchiti di villaggi nati lungo i corsi dei fiumi.
In questi secoli si diffonde la conoscenza e l’uso del ferro, si costruiscono le prime case in
mattone cotto. Non si hanno notizie di architettura di grandi dimensioni, sono però state
trovate tracce di argini e fossati (protezione e difesa). E, fatto assai importante, notizie
riguardanti il periodo ci vengono fornite anche dai “Testi vedici” composti tra il 1000 e il 500
a.C.
Secondo la tradizione indiana i Testi vedici sono stati rivelati all’uomo da Sette Saggi (i
veggenti, i profeti) identificati con le sette stelle della costellazione delle Pleiadi.
I “Veda” comprendono inni sacri dedicati agli dei del fuoco, del sole, della morte…
Insegnano le formule che i sacerdoti (detentori di un sapere esoterico e segreto) devono
seguire minuziosamente durante i sacrifici.
Gli ARYA
Pitture rupestri nell’India del Nord attestano che la zona era abitata nel Mesolitico, prima
ancora dell’arrivo degli Arya.
Tra il XVIII ed il VI secolo a.C. gli Arya (il significato del loro nome è: nobili congiunti) creano
i primi centri di potere politico del Nord-Est del subcontinente.
Sono gruppi dei quali non resta alcuna documentazione archeologica. Quel che sappiamo ci
deriva da fonti letterarie, da notizie reperibili nei quattro Veda e nella letteratura epica,
Mahabharata e Ramayana, compilati tra il IV secolo a.C ed il IV secolo d.C. E le notizie che
ci sono arrivate sono piuttosto mitizzate…
Ci troviamo dunque di fronte a dodici secoli di oscurità, durante i quali gli Arya si stanziano
nell’India del Nord, si organizzano socialmente e politicamente, realizzano un notevole
patrimonio culturale: una ricchezza che venne per secoli trasmessa oralmente, circondata da
sacralità, fino a quando tutto ciò non fu trascritto e trasmesso nella lingua dei sacerdoti: il
sanscrito.
La loro terra d’origine era sconosciuta: era opinione comune che alla fine del II millennio
alcune tribù barbare, seminomadi, provenienti da regioni comprese tra il Mar Caspio ed il
Mar Nero, erano arrivate nella Valle dell’Indo.
Rese quasi invincibili dal fatto che combattevano a bordo di carri tirati da veloci cavalli,
avevano distrutto i siti della Valle del Nilo e si erano spostate in quella del Gange.
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Tribù nomadi, non avevano grandi attitudini nel lavoro artigianale, sembra però si debba loro
attribuire l’introduzione della ceramica grigia di cui resta qualche esemplare.
Gli Arya erano divisi in tribù guidate da un capo; vivevano di razzie e di guerriglie. Le loro
abitazioni erano i carri. Allevavano cavalli e buoi. Durante i periodi di sosta si dedicavano
anche all’agricoltura, applicando la tecnica del “taglia e brucia”.
Diventarono sedentari dopo il Mille, quando cominciarono ad usare il ferro. Durante questa
fase abitarono in case di bambù e fango. Era legge il patriarcato.
La loro divinità più importante era una divinità guerriera: Indra, il distruttore di cittadelle.
Durante il periodo di sedentarizzazione dovettero combattere non solo contro le popolazioni
locali: scontri e scaramucce ci furono anche tra i diversi gruppi Arya.
Nella fase definitiva del loro sistema di governo ebbero un sovrano, il Raja, il condottiero,
che, dopo essere risultato vincitore su molti altri pretendenti, veniva investito della sua carica
dal gruppo sacerdotale. (La casta sacerdotale veniva a sua volta sostenuta e protetta dal
sovrano).
Tra il VII ed il VI secolo a.C., alla fine delle lotte tribali, nacquero i Grandi Regni.
Il VI secolo a.C. viene considerato il “primo secolo storico”, il secolo cioè di cui si ha
conoscenza attraverso le fonti jaina e buddista, perché proprio in questo secolo nacquero il
Buddha e il Jina, fondatori del Buddismo e del Jainismo.
Tra il VII e il VI secolo a.C. le città cominciarono ad essere fortificate con mura di mattoni
cotti in fornace. Sono state trovate monete punzonate e pesi standardizzati, che fanno
pensare a una fiorente attività commerciale. Nello stesso periodo venne abbondantemente
prodotta la ceramica nera.
Accanto alle monarchie rette da un sovrano si formarono anche confederazioni rette da un
consiglio i cui membri provenivano da poche, elette famiglie. Da uno di questi clan antichi e
famosi, quello degli Shakya, nacque Buddha.
Dall’inizio del VI secolo la Storia dell’India s’incrocia con quella della Persia (XX satrapia).
I Persiani, ispiratori del culto solare e della monarchia come istituzione divina, portano in
India anche alcuni elementi artistici: i capitelli leonini, le colonne rastremate, le raffigurazioni
di animali, la scrittura kharoshthi.
Il VI e il V secolo sono caratterizzati da guerre interne, lotte, alleanze matrimoniali, finché nel
322 viene fondata la dinastia Maurya da Candragupta.
L’ultimo esponente di questa dinastia, Ashoka, dotato di un notevole genio politico,
comprese l’importanza dell’adesione al Buddismo e si adoperò perché la nuova religione si
diffondesse anche presso il suo popolo: Il Buddismo si era ormai diffuso nelle città e presso
la costa mercantile; monasteri buddisti e luoghi di accoglienza dei pellegrini erano sorti
numerosi lungo le vie carovaniere e sarebbero quindi diventati ottimi strumenti per veicolare i
suoi messaggi.
Alla sua morte (233 a.C.) l’impero dei Maurya andò riducendosi. Nel 185 ebbe inizio la
dinastia Shunga che favorì il ritorno a riti e tradizioni che Ashoka aveva vietato (sacrificio di
animali, danza, musica…).
Alla dinastia Shunga successe quella Kanva, quindi quella Andhra che regnò nell’India
centro-meridionale fino al II secolo d.C.
Nel frattempo le regioni a Nord dell’India erano state invase dagli Indo-Greci, che diedero
vita a un regno prospero e pacifico che ebbe come capitale Shacola, la Splendida.
L’eredità degli Indo-Greci fu notevole: Gli Indo-Greci coniarono monete secondo una tecnica
magistrale; svilupparono gli studi di astrologia e medicina; la loro arte contribuì a fondare la
Scuola di Gandara che ci lasciò le prime raffinate immagini di Buddha.
La pace che accompagnò il loro governo favorì lo sviluppo commerciale e le comunicazioni
marittime.
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Il declino dei regni Indo-greci ebbe inizio quando le loro terre cominciarono ad essere
occupate dai Parti, costretti a emigrare da popolazioni nomadi.
Nel 320 d.C. ebbe inizio con Candragupta l’Era Gupta e lo sviluppo del primo nucleo del
regno nel bacino gangetico, regno che si sarebbe allargato con i sovrani successivi dal
Bengala all’Indo, dai contrafforti montani nepalesi al fiume Narmada.
L’Impero Gupta, il più splendido della civiltà indiana, era costituito da
- un’area centrale sotto la diretta amministrazione regia
- una cintura di monarchi confinanti tributari
- aree tribali non assoggettate
Le condizioni economiche erano buone ed i commerci prosperi. Circolavano monete
d’argento. Monete di rame e conchiglie erano usate a livello locale.
Era già ben consolidato il sistema catastale, che discriminava fortemente gli “Intoccabili”, ma
donazioni erano effettuate a favore di tutti gli ordini religiosi.
Nel 510 si abbatté sull’India il flagello degli Unni, che abbandonarono il paese solo nel 528.
Il Villaggio e la Città
Da sempre il Villaggio è stato la base dell’economia indiana, il custode della tradizione
indiana contro la città, più propensa ad accettare nuove religioni (anche le grandi, Buddista e
Jaina).
Le case venivano costruite in genere accanto ad approvvigionamenti di acqua.
In epoca vedica si poteva accedere all’abitato, cinto da palizzate di legno, attraverso un
ingresso obbligato. La casa della famiglia patriarcale, che riuniva tutti i figli maschi sposati,
era costituita da più fabbricati a un solo piano, costruiti intorno a un cortile chiuso.
Le case di città erano a più piani e potevano avere balconcini. I poveri abitavano in capanne.
Erano materiali da costruzione il bambù, la canna, il legno, l’argilla mista a sterco di vacca, la
calce (usata per intonacare). Il tetto era costituito da un’intelaiatura di bambù a mezza botte,
sulla quale veniva sistemata una copertura, fissata con legacci.
Il pavimento era in terra battuta; le divisioni interne erano realizzate con stuoie.
Le pareti esterne erano intonacate di bianco e, talvolta, decorate con disegni color ocra.
La cucina era all’esterno. In ogni casa c’era un piccolo altare domestico.
L’arredo era costituito da un telaio con quattro piedi (il letto), supporti per sostenere vassoi,
cassoni, mensole e nicchie ricavate nei muri.
Una cisterna per la riserva di acqua, esterna alle abitazioni, era a disposizione di tutti gli
abitanti del villaggio.
C’erano in ogni villaggio un tempio ed una Casa del Consiglio del Comune, formato da
membri anziani e saggi. Lontano dal villaggio c’era il “luogo delle cremazioni”, luogo impuro.
Erano prodotti dell’agricoltura: orzo, grano, miglio, canna da zucchero, sesamo, frutta,
ortaggi, spezie. Oltre alla pastorizia, gli abitanti del villaggio si dedicavano all’allevamento
degli animali da cortile ed all’apicultura.
Si dedicavano anche alla pesca ed alla caccia, il divieto infatti di consumare carne di
qualsiasi animale era riferito solo alla casta brahmanica; a tutti gli altri era proibita solo la
carne di mucca, animale sacro. Gli asceti praticavano una dieta assolutamente vegetariana.
Abbigliamento: Il primo abito tradizionale per ricchi e poveri, uomini e donne, era un
semplice pezzo di stoffa rettangolare (dhoti) avvolto intorno ai fianchi ed infilato in una
cintura alla vita. Uno dei lembi poteva essere passato tra le gambe e fermato sulla schiena.
Gli uomini andavano a torso nudo, ma in guerra si proteggevano con una specie di cotta.
Nelle Grotte di Ajanta si vedono personaggi vestiti in foggia diversa, sono probabilmente
stranieri che indossano una tunica.
Nelle sculture le donne vengono presentate quasi sempre a seno nudo. E’ probabile che
questo costume fosse riservato alle donne di rango e che le loro ancelle coprissero il seno.
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Entrambi i sessi usavano una sciarpa leggera, che, quando non era usata come sciarpa, era
raccolta in un torciglione ed indossata con i lembi pendenti sulla schiena. E’ probabile che da
questo elemento si sia sviluppato nel XVIII secolo il sari, abito tradizionale delle donne
indiane, usato fino ai giorni nostri.
Scialli e mantelli erano usati per proteggersi dal freddo.
La cintura, talvolta ricca e preziosa, era usata sia dagli uomini, sia dalle donne.
Tessuti usati erano: il cotone, la cui pianta era già coltivata nel 2300 a.C., la seta, rara e
preziosa, usata già nel III secolo a.C. (la Via della Seta passava per la Valle del Kabul).
Al bianco, preferito perché simbolo di purezza, vennero a mano a mano ad aggiungersi gli
altri colori, come è testimoniato nelle Grotte di Ajanta.
Venivano filate e tessute le lane di pecora e di ariete, il pelo di antilope, la bambagia del
Bombax ( per ottenere il kapok).
Il cotone veniva lavorato in modo da realizzare stoffe leggerissime, trasparenti al punto di
rivelare le forme del corpo di chi indossava abiti di questo tessuto.
Già nel II e I secolo a.C. gli uomini indossavano il turbante e portavano orecchini.
Tra il I e il II secolo d.C. si cominciò ad usare la cintura: un pesante tortiglione di stoffa, con
diverse piegature e nodi. Nelle zone del Sud gli appartenenti alle caste più alte portavano,
come elemento distintivo, il cordone che dalla spalla sinistra ricadeva sul fianco destro.
La statuaria è importante perché ci permette di conoscere le pettinature, particolarmente
quelle maschili; sappiamo, per esempio, che nel VI e nel VII secolo il taglio era a caschetto,
con frangia e boccoli sulle spalle.
Importantissimi erano i monili: Le figure femminili si ornavano di una catena che si
congiungeva tra i seni e si separava di nuovo sul ventre. I bracciali ornavano tutto
l’avambraccio.
Nel X secolo alcuni uomini portavano la barba e sia uomini, sia donne facevano grande uso
di gioielli ed appendevano gli orecchini anche alla sommità delle orecchie.
In questo periodo comincia differenziarsi l’uso delle vesti nelle diverse aree geografiche: al
Nord la veste viene lasciata cadere liberamente lungo i fianchi, al Sud è strettamente
attorcigliata alle gambe, in modo da formare una specie di calzone. I gioielli sono come
sempre bellissimi e preziosi ornamenti, ma si caricano anche di significati sociali e religiosi.
L’oro è sempre stato il più prezioso dei metalli, perché simbolo della luce, evocatore della
perfezione divina; era usato per confezionare anelli, bracciali, collane, non però per le
cavigliere, che erano portate ai piedi, zona del corpo che poteva venire facilmente
contaminata (e perciò impura).
Il cammino dell’Uomo
Il concetto della metempsicosi (reincarnazione) determinata dalle azioni dell’uomo non
appartiene alle più antiche forme di religione, non è citato nei Veda, i testi sacri più antichi. Al
momento della predicazione del Buddha era però ormai completamente diffuso.
Il destino dell’Uomo è determinato dal suo comportamento. Gli effetti delle sue azioni non
riguardano solo la sua vita attuale, ma determinano le sue successive esistenze, che non
saranno obbligatoriamente come uomo. La sua reincarnazione può infatti avvenire sotto le
forme più varie, che vanno da quelle vegetali a quelle divine, considerate anch’esse aspetti
transeunti dell’Essere.
Ritornare in vita non era considerato un premio, ma una limitazione dell’individuo che veniva
di nuovo soggetto (se non altro) alla morte. Il ciclo morte e ritorno alla vita, per morire di
nuovo, poteva essere evitato se l’esistenza si svolgeva lungo il cammino “della devozione e
della conoscenza” che permettevano di ottenere la “liberazione” dai vincoli materiali e, in
definitiva, dal doloroso ciclo di vita e di morte.
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La vita dell’uomo passava attraverso quattro stadi:
Il fanciullo, adolescente, si formava sotto la guida di un guru, maestro spirituale, attraverso la
studio e la castità. Durante la cerimonia di affidamento il guru gli imponeva il cordone sacro
cha dalla spalla sinistra scendeva sul fianco destro, simbolo della seconda nascita e della
condizione di “nato due volte”, condizione riservata solo ai maschi delle prime tre caste.
Non più adolescente, ma adulto, con il matrimonio l’uomo entrava ufficialmente nella
comunità e assumeva le funzioni di padrone di casa, marito e padre.
Da nonno si ritirava dalle attività e dalla famiglia, si isolava in raccoglimento, come eremita,
si preparava a lasciare l’esistenza e, diventato asceta itinerante, viveva di elemosine.
Tutta l’esistenza dell’Indù era accompagnata da cerimonie: cerimonie riservate all’evento
avevano il compito di proteggerlo, appena nato, da influenze maligne. Per evitarle, il vero
nome veniva sussurrato dal padre nell’orecchio del bambino che veniva chiamato fino a
quando diventava adolescente con un nome provvisorio.
Numerosi riti accompagnavano il matrimonio.
La morte era considerata un evento pieno di contaminazioni per i parenti; le varie funzioni ad
essa connesse (trasporto della salma, incinerazione, ritorno dei parenti alle loro dimore)
erano quindi accompagnate da numerosi atti di purificazione.
Sembra che in epoca vedica i cadaveri fossero esposti alle bestie feroci e agli avvoltoi,
oppure interrati sotto tumuli. Più tardi le salme venivano bruciate su pire, cerimonia assai
costosa, per cui i poveri abbandonavano i morti alle acque dei fiumi.
L’inumazione era praticata per i bambini piccoli e per i maestri spirituali.
INDUISMO
Per affrontare lo studio dell’Arte Indiana è indispensabile avere almeno una modesta idea
del mondo divino di questo multiforme, difficile paese.
L’Induismo è un fenomeno complesso: si è manifestato in diversi stadi, che conosciamo
attraverso ritrovamenti archeologici che parlano di una religiosità che è all’inizio ctonia,
collegata cioè alla Terra, e la cui immagine più diffusa è quella della Madre Terra, opulenta
figura femminile generosa, benefica, ma anche terribile: crea, distrugge, rigenera. Ben
presto compare accanto a Lei la figura maschile che le toglie unicità e primato: prima le è
subordinata, poi sua pari, poi prevalente.
E’ una trasformazione che si accompagna all’affermarsi della società patriarcale: la Dea, la
Madre Terra, viene ad assumere il ruolo di sposa sottomessa al marito.
Nel passaggio successivo, contemporaneo alla “decadenza” della civiltà della Valle dell’Indo,
durante il Periodo Vedico, compaiono numerose divinità maschili, i Deva, dominatori del
cielo, rappresentanti dei fenomeni cosmici, divisi in tre grandi categorie: i signori della
Terra, dell’Atmosfera, del Cielo.
- La più famosa delle divinità della Terra è Agni, il Dio del Fuoco;
- quella dell’Atmosfera è Indra, il Re degli Dei, il Dio guerriero;
- il Signore del Cielo, del Firmamento, del Fuoco è Veruna. Il suo occhio, il Sole, controlla
l’operato degli uomini.
Poche erano le divinità femminili venerate: Ushas, la dea dell’Amore; Aditi, la Madre degli
Dei; Prithivi, la Terra.
Gli dei, invocati con riti opportuni, proteggevano gli uomini contro le potenze demoniache, gli
Asura, e garantivano l’equilibrio cosmico.
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All’inizio la benevolenza degli dei era propiziata tramite doni, poi tramite cerimonie e riti
complessi, offerte di animali, recitazione di formule e lodi. Il sacerdote, brahmano, officiava
le grandi celebrazioni, presiedeva ai riti tramite i quali si ottenevano vantaggi materiali
(salute, ricchezza, prole…).
Il sacrificio (sacrum facere = compiere un’azione sacra) era inteso proprio nel suo significato,
cioè sottrarre una cosa materiale, animale o uomo, all’uso profano e dedicarlo a un dio.
Con il sacrificio veniva inoltre riprodotto il “rito cosmico” dell’esistenza.
Il molteplice, l’Universo, soggetto all’imperfezione ed al dolore, aveva avuto origine dallo
smembramento di un essere unico, gigantesco: l’Uno era stato scomposto nei molti. Il
sacrificio doveva riportare all’unità preesistente alla manifestazione del mondo.
Il popolo minuto viveva una religione semplice, strettamente legata alla natura: alberi, piante,
acque, montagne erano abitati da esseri divini con i quali il piccolo uomo si rapportava senza
bisogno di riti sofisticati.
Nel periodo epico (IVa.C./IVd.C.) molte delle divinità vediche sono state dimenticate.
Restano Indra, Varuna…, ma ormai si venera la Trimurti, la “Triplice Forma” che il Divino
assume, nel processo cosmico di emanazione, conservazione e dissoluzione
dell’universo.
Brahma (l’Assoluto), Vishnu, Shiva sono tre diversi aspetti dell’Ineffabile.
Il Buddha
Nacque ai piedi dell’Himalaya, nel Parco di Lumbini, presso Kapilavastu, capitale del clan
degli Shakya. La sua nascita fu annunciata in sogno alla madre da un elefante bianco che le
toccò il fianco con la proboscide. Quando il bambino nacque, partorito dal fianco destro della
madre, già presentava sul corpo i segni profetici dei grandi illuminati. I saggi di corte
interpretarono la sua nascita come quella di un fanciullo prodigio, che sarebbe diventato un
imperatore universale o un Buddha, un “Risvegliato, capace di condurre l’Umanità alla
salvezza.
Un pannello (Oxford. Ashmolean Museum) mostra la madre mentre partorisce
aggrappandosi a un albero. La presenza dell’albero, simbolo dell’axis mundi, raccordo tra la
terra e il cielo, aggiunge sacralità all’evento.
Il padre, capo di una stirpe guerriera, s’impegnò perché nulla concorresse a destare nel figlio
la vocazione ascetica. Lo chiamò “Siddhartha” (colui che ha raggiunto il suo scopo), lo
allevò in un palazzo tra agi e ricchezze e, a sedici anni, secondo le consuetudini, il giovane
sposò la cugina. Altro era però il destino del principe che, uscito in incognito, incontrò quattro
personaggi che avrebbero cambiato la sua vita: un vecchio, un malato, un morto e un
asceta.
Dai primi tre apprese quanto la condizione umana fosse dolorosa perché condizionata da
infiniti eventi; il quarto, sereno e distaccato, gli fece comprendere che era possibile superare
l’angoscia di vivere.
Siddhartha abbandonò famiglia e benessere materiale.
Cominciò una lunga peregrinazione alla ricerca del vero. Non lo trovò.
Cominciò una vita di privazioni che lo portò, senza che ottenesse alcun risultato, alle soglie
della morte.
Per raggiungere la conoscenza si affidò allora alla ricerca interiore. Si sedette ai piedi di una
Ficus religiosa, la pianta simbolo dell’albero celeste, il perno intorno al quale ruota l’intero
universo; si immerse in profonda meditazione ed incontrò ciò che era andato cercando: la
parte oscura di sé.
Mara, il Signore delle pulsioni primarie, l’Amore e la Morte, lo tentò e lusingò, ma il giovane
principe rimase insensibile.
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Alla fine della lunga notte raggiunse l’Illuminazione, divenne il Buddha, il Risvegliato,
l’Illuminato. Avrebbe avuto la possibilità di entrare nel nirvana, nella situazione libera da
ogni esistenza condizionata e dolorosa, ma volle trasmettere agli altri uomini la via alla
emancipazione e per quaranta anni, fino alla sua morte (480 a.C.) andò peregrinando
attraverso i Grandi Regni dell’India del Nord.
L’insegnamento del Buddha è raccolto nelle quattro sante verità:
1. l’universalità del dolore in un mondo in cui tutto è impermanente, doloroso e privo di
senso;
2. l’origine della sofferenza dalla sete, che è bramosia e attaccamento;
3. la possibilità di estirpare tale sete insaziabile che lega alla vita;
4. l’ottuplice sentiero come programma esistenziale che estingue il desiderio e conduce alla
liberazione tramite retta visione; retta risoluzione; retta parola; retta azione; retta condotta di
vita; retto sforzo; retto ricordo; retta concentrazione.
Il mondo materiale è fenomenico: gli si oppone il nirvana (che non può essere definito
perché è al di là della limitata comprensione umana), ma che può essere inteso come totale
estinzione dell’esistenza empirica e della sua fittizia coscienza. E’ uno stato che può
essere raggiunto solo dal monaco, attraverso la sua vita austera.
Il Buddha propose la sua dottrina in termini estremamente semplici e comprensibili da tutti;
non si pronunciò però su fondamentali problemi metafisici (Dio, l’anima) e ciò portò al
sorgere di numerose scuole.
Il Buddha al centro dell’universo
Durante il secondo millennio a.C. si sviluppa in India il culto dei morti e nascono le prime
sepolture, dapprima sotto forma di dolmen, poi di ciste (tombe preistoriche, esterne o
interrate, riservate ai capi ed agli eroi). Erano formate da quattro lastre di pietra (base, pareti,
copertura) sulle quali venivano ammucchiate pietre.
Simili a queste sepolture erano gli stupa che Budda aveva comandato ai suoi discepoli di
costruire per i loro morti.
Lo stupa, il più importante elemento dell’architettura buddhista, deriva dagli antichi tumuli
funebri di terra e mattoni che venivano eretti sulle spoglie dei grandi personaggi tra il II e il I
millennio a.C. Li ereditò il Buddhismo: si racconta infatti che i resti del corpo del Buddha (le
sue ceneri) vennero divisi tra i maggiori clan guerrieri che avevano partecipato alle esequie e
su di essi furono eretti i primi dieci stupa.
Lo stupa assunse poi molteplici significati e, oltre che sepoltura, fu dunque evocazione
tangibile del Buddha, rappresentazione dell’universo, rimando alla cosmogonia.
La struttura di uno “stupa” è la seguente:
- un’alta base circolare (mehdi) che rappresenta la Terra
- il tumulo sovrastante (anda) che richiama la volta celeste
- la balaustra quadrata (harmika) che allude alla dimensione trascendente. La Harmika,
sulla quale si vede il pennone, il perno della spirale tridimensionale che si è
compattato in una serie concentrica di mattoni, riproduce la mitica montagna
cosmica, centro dell’universo. (Fig.4)
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Fig.4
Nel II secolo a.C. lo stupa raggiunse la sua forma definitiva: Su una base circolare o
quadrata (medhi) di mattoni cotti venne costruita, strato su strato, una piattaforma
emisferica (anda).
L’anda, che significa uovo, ci ricorda l’embrione cosmico galleggiante sulle acque primordiali
da cui nacque l’Universo; con la sua forma circolare ricorda l’esistenza che ciclicamente si
produce e dissolve.
Lo yashti (il pennone) è il simbolo dell’axis mundi, il pilastro che raccorda Mondo
sotterraneo, Terra, Cielo, ed è anche simbolo dell’albero. Sullo yashti vengono rappresentati
tre parasoli, simboli del Triratna (il triplice gioiello, ossia
- il Buddha, l’Illuminato
- il Dharma, la sua dottrina (nel mondo indio: l’ordine cosmico che regola i fenomeni
dell’universo e la legge morale che ispira l’uomo)
- il Sangha: la comunità monastica.
Sulla cima venne disegnata una forma circolare che conferiva alla struttura la forma di una
sfera o di una semisfera. Il diametro della piattaforma (anda) era in genere inferiore a quello
del madhi, così si venne a creare tra i due una zona adatta alle processioni. Una scala di
mattoni conduceva a questa zona.
Sulla cima venne alzata un’asta di legno che portava l’antico emblema regale dell’ombrello.
Asta ed ombrello erano circondati da un recinto di legno simile a quello che veniva costruito
sulla piattaforma.
All’inizio le ceneri del defunto venivano collocate al centro della sfera, nella piattaforma.
Stupa di Sanchi. III sec a.C. A Sanci, nello stato di Madhya Pradesh, 70 chilometri dalla
capitale Bhopac, a 10 chilometri dalla città di Vidisha, si trova il complesso di stupa meglio
conservati di tutta l’India.
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Vidisha, cresciuta lungo una via carovaniera, era una città molto ricca; le generose donazioni
dei mercanti che la frequentavano la resero uno dei centri più ricchi d’Arte del Buddhismo.
Il complesso architettonico di Sanci sorge alla confluenza di due fiumi, su un rilievo naturale,
luogo particolarmente favorevole alla meditazione, legato al nome dell’imperatore Ashoka,
che sposò una principessa di Vidisha. (Il loro figlio diffuse il Buddhismo in Shri Lanca).
All’epoca dell’imperatore Ashoka (III sec. a.C.) risale la costruzione del Grande Stupa, lo
stupa n.1. (Fig. 5)
Fig.5
La rivestitura in mattoni è del II sec.a.C., ma la storia di questo famoso stupa comincia molto
tempo prima.
Il re di Magadha, contemporaneo di Buddha, volle costruire un monastero, vicino alla
capitale, un tempio in cui l’Illuminato ed i suoi seguaci potessero trovare rifugio durante la
brutta stagione. La scelta del luogo fu difficile (il monastero doveva essere vicino alla città,
perché i monaci vivevano delle elemosine che ricevevano, doveva però, come luogo
destinato alla meditazione, essere lontano dal frastuono della città) ma risultò ottima. Il
santuario venne edificato vicino a Vidisha, rinomato centro commerciale che si trovava alla
confluenza di due fiumi, ottimo punto di incontro delle carovane. E che sostenne il
monastero ed i suoi abitanti.
Si racconta che fu visitato anche da Ashoka (che sposò una principessa di Vidisha) quando
era ancora principe, prima di diventare imperatore. Dopo la fine della dinastia Maurya,
durante gli anni difficili della dinastia Gupta, Sanchi perdette ogni aiuto finanziario; a poco a
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poco venne abbandonato dai suoi abitanti. Gli ultimi monaci se ne andarono a metà del XIII
secolo.
Nel periodo in cui il Buddismo fu perseguitato in India (sotto il primo re Shunga, Pushyamitra) anche lo Stupa di Sanchi subì assalti e rovine e fu probabilmente in questa
occasione che il tabernacolo contenente le reliquie fu fatto sparire.
I successivi re Shunga sostennero il Buddismo; lo stupa di Sanchi fu non solo risparmiato,
ma anche ingrandito ed abbellito: gli fu costruito intorno il muro di mattoni che ancora oggi
vediamo.
Le dinastie seguenti ampliarono lo stupa di Ashoka e ne edificarono altri due. Durante il
regno del re Satawami, della dinastia dei Satavahana, furono costruiti gli splendidi portali
(torana) dello stupa n.1.
Durante il V secolo, il secolo d’oro della loro dinastia, i Gupta dedicarono numerosi templi.
Altrettanto fece l’ultimo dei grandi imperatori indiani, Harsha, che regnò nel VII secolo.
Arricchimenti dell’area archeologica furono effettuati fino al momento del declino del
Buddhismo in tutta l’India.
Nel XII secolo Sanci fu abbandonata ed inghiottita dalla giungla. Fu riscoperta per caso dal
generale inglese Taylor, nel 1818. Nel 1881 è cominciato il processo di liberazione dei
monumenti dalla vegetazione che li soffocava ed il loro recupero.
Il Grande Stupa (II sec. a.C.; m.36,60 di diametro; m.16,46, di altezza) è la versione
ricostruita ed ampliata dell’antica piccola struttura in mattoni e malta attribuita ad Ashoka.
E’ stato rinforzato in modo che non crollasse; sono stati restaurati e risistemati in loco i
torana occidentale e meridionale.
Attorno allo stupa, monumento chiuso, fruibile solo all’esterno, c’è una recinzione in pietra,
simbolo della catena di monti che racchiude l’universo, recinzione che chiude lo spazio
destinato alla circumambulazione: il devoto gira tenendo l’edificio sacro alla sua destra,
seguendo cioè il percorso del sole.
Pianta del Grande Stupa, che ne rivela la struttura simbolica: il cuore, costituito dal
reliquiario quadrato, protetto dal corpo della struttura circolare.
Nella recinzione che crea lo spazio per la circumambulazione si aprono quattro portali, i
torana, collocati dove dovrebbero terminare i punti della croce che si proiettano dal mandala.
I torana, in quanto porte, sono luogo di comunicazione tra il mondo sacro e quello profano.
Nella sfera iniziatica alludono alla trasformazione interiore che si deve operare entrando nel
perimetro dello stupa.
I Torana del Grande Stupa, edificati nel I secolo d.C., sono costituiti da due pilastri
sormontati da quattro leoni (nell’entrata meridionale), da quattro elefanti (in quelli
settentrionale e orientale), da quattro Yaksha, divinità arboree, in quello occidentale, che
reggono tre architravi curvilinei, separati tra loro da blocchi quadrati e da teorie di cavalieri
montati su elefanti e cavalli.
Ricorrente negli stipiti è il “rampicante che esaudisce tutti i desideri”, una liana arricchita da
gioielli e fiori.
Torana orientale del Grande Stupa. Passaggio dallo stipite dell’architrave, mediato dalla
figura femminile abbinata all’albero. L’abbinamento, antichissima consuetudine, è in questo
caso adottato come espediente architettonico. Il corpo rigoglioso della donna, che allude alla
fertilità, più che essere coperto, è evidenziato dalla veste diafana che lo ricopre.
Torana settentrionale del Grande Stupa.
Non è stato trovato nello stupa principale il reliquiario, il cuore, testimonianza della presenza
del Buddha (ma sicuramente c’era).
Il reliquiario veniva posizionato in una camera; corrispondeva al punto centrale del mandala.
Il mandala è il mistico tracciato che guida la costruzione sacra (nel suo significato
generale mandala è il tracciato simbolico e iniziatico, che riflette l’ordinamento della psiche e
quello del cosmo).
Dal punto centrale del mandala scaturisce la croce.
Il punto centrale allude:
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-
al Principio Primo, quale origine del Tempo e dello Spazio,
all’Assoluto, fonte del Tutto (e, in ambito buddhista, simboleggia il Tutto).
Il punto è il simbolo dell’Essere da cui tutto irradia ed a cui tutto torna, il luogo sacro per
eccellenza.
L’anda, che significa uovo, ci ricorda l’embrione cosmico galleggiante sulle acque primordiali
da cui nacque l’universo; con la sua forma circolare ricorda l’esistenza che ciclicamente si
produce e dissolve.
Lo yashti è il simbolo dell’axis mundi, il pilastro che raccorda mondo sotterraneo, Terra,
Cielo, ed è anche simbolo dell’albero.
Sullo yashti vengono rappresentati tre parasoli, simboli del triratna, tre gioielli del Buddhismo
(i vari livelli da ascendere per raggiungere l’Illuminazione):
il Buddha: l’Illuminato
il Sangha: la comunità monastica
il Dharma: la dottrina predicata dal Buddha (nel mondo indio: l’ordine cosmico che regola i
fenomeni dell’universo e la legge morale che ispira l’uomo).
Il Buddha, che era inizialmente rappresentato solo con simboli, dal II secolo d.C. viene
rappresentato come uomo. Questa immagine, che ce lo presenta in meditazione, è collocata
sul lato est della base del Grande Stupa ed è di stile Gupta (V secolo d.C.).
Particolare del primo architrave del torana nord: Storia del principe Vessantara,
precedente incarnazione dl Buddha, costretto all’esilio nella foresta con la moglie ed i due
figli, per avere donato a un nemico l’elefante del regno, portatore di pioggia.
Le scene riguardanti le vite del Buddha sono intercalate da formelle decorate con elementi
floreali e animali mitici: in questa immagine vediamo leoni con il becco di pappagallo,
governati da un solo cavaliere.
Stupa n.2. II secolo. a.C. Privo di torana. Balaustra molto decorata.
Stupa n.3. Privo di balaustra. Importante dal punto di vista religioso, perché vi sono stati
trovati i reliquari dei due discepoli principali del Buddha: Shariputra e Maudgalyayana.
Medaglione della balaustra dello stupa n.2, raffigurante il pavone.
Uno dei Gana, Nani panciuti, sorregge l’architrave dell’unico torana dello stupa n.3. I secolo
d.C.
Rilievo del torana dello stupa n.3: qualità artistica inferiore a quella del Grande Stupa,
tuttavia scena di grande effetto.
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