Sulle tracce di Antonio Raimondi Diario di un viaggio in Perù di
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Sulle tracce di Antonio Raimondi Diario di un viaggio in Perù di
Sulle tracce di Antonio Raimondi Diario di un viaggio in Perù di Giovanna Cossia - Marco de Poli ************* a René Francesco 1. Lima venerdì 21 luglio 1989 È ancora buio quando l'aereo della Canadian Air, in anticipo di venti minuti sull'orario previsto, le sei del mattino, si immerge nella fitta nebbia che avvolge Lima. Siamo ai tropici, e le giornate hanno sempre la stessa durata - dodici ore di luce, dodici di buio - tanto d'estate (che corrisponde al nostro inverno, dato che siamo a sud dell'Equatore), quanto d'inverno, che è la stagione attuale, e che si differenzia dall'estate solo per la sua scarsa piovosità. E di questi "rovesciamenti", di queste differenze, sarà ricco il nostro viaggio. È la terza volta in tre anni che veniamo in Perù. Questa volta l'occasione è fornita dalle riprese di un documentario, con il contributo della Regione Lombardia, sui viaggi di Antonio Raimondi, un milanese che ha esplorato tutto il Perù e di cui ricorre nel '90 il centenario della morte. Raimondi qui è come, da noi, Galileo. Ma in Italia, e a Milano, che è la nostra città, questo nome non dice assolutamente niente. Eppure proprio a Milano Raimondi era nato e vissuto fino a ventiquattro anni, in Corsia del Duomo 927, più o meno dove oggi c'è "La Rinascente". Qui aveva compiuto i suoi primi studi naturalistici come autodidatta, e aveva combattuto contro gli Austriaci nelle Cinque Giornate del 1848. Qui, soprattutto, aveva avuto la prima intuizione, di quello che sarebbe stato il suo destino, che lo avrebbe portato a diventare "el moderno descubridor del Perù", come venne definito. Ma ecco come racconta lui stesso l'episodio nella introduzione a "El Perù", la monumentale e incompiuta opera (inedita in Italia), nella quale intendeva esporre i risultati di venti anni di viaggi: "Sognavo continuamente le regioni tropicali. Mi riempiva di tristezza la vista degli alberi della mia patria che perdevano a poco a poco le foglie, all'avvicinarsi dell'inverno. Quando vedevo tutti i campi coperti di un bianco lenzuolo di neve egli alberi coi rami spogli che parevano invocare dal cielo i caldi raggi del sole, non avevo altro conforto che rifugiarmi nella serra dell'orto botanico di Milano. Un giorno, trovandomi li come al solito, fui presente per puro caso al taglio di un gigantesco "cactus peruvianus", che, alzatosi come un mostruoso candelabro fino al tetto, si stendeva lungo una gran parte di esso, sostenuto da corde. La mutilazione di quel patriarca dei cactus, che era una delle piante da me predilette, mi cagionò una vaga oppressione, come se fosse stato un essere animato o sensibile, e quella strana circostanza fece nascere in me la prima simpatia per il Perù, sua patria: presagio indubbio del mio futuro viaggio in quella regione. " A quest'ora il monumentale aeroporto "Jorge Chavez" (dal nome dell'aviatore peruviano che per primo sorvolò le Alpi, schiantandosi però, all'arrivo, presso Domodossola - un altro curioso legame tra Italia e Perù) è ancora quasi deserto, almeno nel settore arrivi; il che ci permette di sbrigare le formalità doganali senza eccessive difficoltà. Siamo dunque pronti a cominciare la nostra avventura peruviana immettendoci nel traffico disordinato di Lima. Dovremmo ormai esserci abituati, ma ogni volta ci sembra di rivedere un vecchio film. Circolano macchine che da noi non si vedono da venti o trent'anni: vecchie 1100, Fiat 1300 e 1800, 850 coupé, solo per limitarsi alle italiane. Ad ogni semaforo venditori ambulanti, per lo più bambini e ragazzi, disperatamente in cerca di vendere qualsiasi cosa -banane, dolciumi, giornali - per attenuare la spaventosa miseria. Nelle vie più ricche frotte di giovani armati di calcolatrici tascabili comprano e vendono dollari in cambio di Inti ("sole" in quechua, la lingua degli Incas), la moneta locale: ce ne vogliono 2800 (un anno fa erano 280) per comprare un dollaro americano, che sale di continuo. I clienti non sono solo i turisti ma gli stessi peruviani, che tentano così di difendersi dall'inflazione. Lima è una delle più brutte città del mondo, almeno in questa stagione. Una cappa grigia di nebbia copre tutta la costa; Il Pacifico è plumbeo; la temperatura oscilla tra i 16 e i 19 gradi, ma l'umidità è al 100%: un paradosso dato il clima desertico e l'assenza di precipitazioni. Il clima cupo corrisponde benissimo alla situazione sociale, economica e politica del paese, dilaniato tra la guerriglia di Sendero Luminoso, l'inflazione dilagante (3/4000 per cento), l'impoverimento crescente della popolazione, la scarsità di alimenti. Intorno all'antico nucleo della città coloniale, capitale dei Viceré spagnoli, oggi irrimediabilmente degradato, si sono estesi i quartieri residenziali, con le loro villette all'americana con giardino. Quest'anno abbiamo affittato, in uno di questi quartieri, un appartamento procuratoci da amici peruviani. La casa a due piani si affaccia su un piccolo parco privato, pulito, verde, tranquillo, custodito da un vecchio giardiniere che dorme sul posto nel locale degli attrezzi, scavato sotto una montagnola di terra. Il nostro appartamento è ampio e spazioso: doppie camere e servizi. Compresa nel prezzo c'è Maria, una ragazza minuta e silenziosissima: il grillo del focolare dalle 8 del mattino alle 8 di sera è a disposizione dei "senores", per lavare a mano in una vasca di pietra del cortile, pulire e cucinare. Lei mangia gli avanzi della cucina, questo - spiega - è l'uso corrente. Il sabato mattina esce molto presto per raggiungere dopo un viaggio di alcune ore la sua famiglia che vive ammassata in uno dei quartieri dell'estrema periferia della città. È qui che poniamo la nostra base operativa. Con noi c'è nostro figlio Giacomo, di undici anni (un "veterano" del Perù, al suo secondo viaggio), e l'operatore cino-peruviano (che vive e lavora a Roma da un anno) Enrique "Kiko" Izaguirre. A noi si aggiungeranno il fratello di Kiko, Roberto, come assistente operatore, e Julio come autista, amministratore, assistente di produzione. Dobbiamo ripercorrere a grandi linee in 30 giorni gli itinerari seguiti in vent'anni di viaggi da Raimondi tra il 1850 e il 1869. sabato 22 luglio Ci muoviamo per Lima. Dell'antica città barocca è rimasto ben poco, come l'Avenida de Los Descalzos, fiancheggiata di statue e da poco restaurata. A noi per fortuna basta riprendere qualche particolare, perché il nostro lavoro si svolgerà essenzialmente fuori città. Andiamo invece a girare in piazza Italia, dove la colonia italiana ha eretto un monumento a Raimondi, raffigurato mentre osserva con la lente un minerale appena raccolto. Le lapidi del basamento ricordano la sua partecipazione alle lotte risorgimentali del 1848-49, alle Cinque Giornate di Milano e alla difesa della Repubblica Romana; la sua successiva emigrazione (emigrazione "politica", una volta caduto il sogno della libertà) in Sud America; le sue ricerche scientifiche e le esplorazioni che ne hanno fatto uno dei "Cinque saggi" della storia peruviana. Alcuni ragazzini saltano su e giù dal monumento, cercando in tutti i modi di mettersi in mostra davanti alla telecamera, e solo gli insulti (per noi incomprensibili) di Kiko, che è del Callao (il quartiere del porto) con lunga pratica "di strada", riescono ad allontanarli quando deve inquadrare. Un vecchio seduto su una panchina ricorda, con una punta di amarezza, che Raimondi parlava del Perù come di "un mendicante seduto su un trono d'oro"; e questa espressione definisce meglio di ogni altra questo paese, che per secoli è stato sinonimo di ricchezza ("vale un Perù") e oggi versa nelle più profonda miseria. Il Collegio Raimondi, la scuola italiana di Lima, ospita un piccolo museo che raccoglie documenti e testimonianze della vita dello scienziato, tra cui i diplomi di Accademie e Società Scientifiche straniere: molte sono italiane, e testimoniano il suo legame con la terra d'origine, dove non fece più ritorno, senza peraltro mai prendere la cittadinanza peruviana. Accanto a questi ci sono i suoi strumenti di lavoro; alcuni degli esemplari botanici (in tutto oltre 2000) da lui raccolti, classificati e diligentemente disegnati ad acquarello; la sua opera incompiuta "El Perù", di cui riuscì a pubblicare solo i primi 5 volumi dei venti previsti; e moltissimi manoscritti inediti che attendono ancora di essere studiati. Al Museo Nazionale andiamo a riprendere la stele preincaica proveniente dal santuario andino di Chavin de Huantar, considerata forse la più antica opera d'arte peruviana, che Raimondi descrisse per primo, identificandola come appartenente a una civiltà molto precedente a quella incaica (e in questo riconoscimento dell'autonomia e grandezza delle culture precolombiane sta uno dei suoi maggiori meriti di studioso). Oggi è comunemente nota come "stele Raimondi" e troneggia tutta sola in una saletta. Ma la sfortuna vuole che sia in corso un "apagòn", cioè un black-out, una mancanza di corrente elettrica, dovuta al fatto che una delle attività preferite da "Sendero Luminoso" (contraddizione del nome) è quella di far rimanere la città al buio, minando i tralicci dell'alta tensione. Non potendo aspettare il ritorno della luce, ci arrangiamo in qualche modo con un flash a batteria, insufficiente peraltro a far emergere in rilievo il complesso disegno, che rappresenta, come dice lo stesso Raimondi, "un uomo con tre dita: la bocca ha quattro zanne molto sviluppate, e dai due lati della testa escono numerosi serpenti". domenica 23 luglio La giornata di oggi è dedicata ai dintorni di Lima. Partiamo all'alba, diretti alle rovine del santuario preincaico di Pachacamac, che si erge su un rialzo sabbioso affacciato sul Pacifico, oggi assediato dalla periferia della capitale. Il venerato tempio venne distrutto dagli spagnoli, come racconta anche Raimondi, particolarmente critico nei confronti della "conquista": «Gonzalo Pizarro, fratello di Francisco - capo dei Conquistatori spagnoli - ci arrivò dopo una faticosa marcia di 100 leghe, ma l'oro contenuto nel tempio era già stato occultato dai sacerdoti. Ciò suscitò l'ira di Pizarro, che con grande sgomento dei fedeli ruppe in mille pezzi l'idolo tanto venerato». Da Pachacamac, seguendo la Panamericana, che attraversa per almeno cinquanta chilometri la sterminata periferia di Lima, puntiamo verso il nord, ugualmente desertico. A una settantina di chilometri dalla capitale, deviando verso l'interno, si sale alle "Lomas" di Lachay: colline costiere sulle quali si ferma, condensandosi, l'umidità proveniente dal Pacifico, "facendo sbocciare la vita dove prima appariva la più desolante aridità", come dice Raimondi. È un microclima particolare, protetto con l'istituzione di un'oasi naturalistica: ci avviamo a piedi, in mezzo a grandi rocce scavate e corrose, ad alberi contorti completamente privi di foglie, che sembrano assorbire direttamente dai rami le energie per il loro sostentamento e ricordano l'Inferno dantesco. Un falco vola alto nel ciclo; una giovane volpe ci si avvicina curiosa per mangiare il pane che le tira Giacomo; i cactus e gli arbusti stillano rugiada; ed è stato perfino messo in funzione un "captador de neblinas": in pratica una serie di reti metalliche a maglie strette che fanno condensare la nebbia dando origine a un piccolo rigagnolo. Ci rendiamo conto rabbrividendo di aver sbagliato abbigliamento: siamo, è vero, sotto l'equatore, in una zona desertica e arida, poco più in basso nella foschia grigia si scorgono le ondulate dune di sabbia che conducono al Pacifico, ma qui abbiamo i piedi a mollo nella rugiada e poco sopra le nostre teste la nebbia sta avvolgendo ogni cosa. Giacomo che, come noi del resto, si aspettava un clima "marino", ha freddo e fame: solo la piccola volpe, i daini e gli uccelli multicolori che svolazzano rumorosi lo distraggono un po'. Qui possiamo avere una volta di più, nel passaggio dalle dune sabbiose della costa alla vegetazione stentata ma viva delle lomas, l'idea della grande varietà climatica del Perù, che affascinava Raimondi e che sarà uno dei temi costanti del nostro viaggio. lunedì 24 luglio Oggi la giornata è dedicata ai "pueblos jovenes", ai "villaggi giovani", come vengono eufemisticamente chiamate le immense bidonvilles di baracche, spesso fatte solo di stuoie, senza luce, né acqua, né fognature, che assediano la capitale, passata in quarantanni da 500.000 a oltre 7.000.000 di abitanti (un terzo di tutto il Perù). Non si tratta in questo caso di Raimondi, ma di cooperazione tra Italia e Perù. È in corso un progetto di scambio culturale tra due scuole medie italiane, una milanese e una di Reggio Calabria, e il Collegio "Fé y alegria" di Villa El Salvador, il più organizzato e famoso "pueblo joven" di Lima. Con Marco, funzionario del Comune di Milano che sta organizzando il viaggio in Italia di otto bambini e due insegnanti peruviani, vogliamo realizzare un video che illustri ai bambini italiani la vita dei loro coetanei in questa scuola. Il Collegio, frequentato da 1800 allievi tra primaria e secondaria suddivisi in due turni (in Perù, paese sottosviluppato, l'istruzione è obbligatoria - anche se spesso solo sulla carta - fino a diciassette anni), è un grande recinto di sabbia circondato da una muraglia. Sui lati si aprono le aule (quaranta allievi per classe), e i laboratori (sartoria, falegnameria, carpenteria metallica), che cercano di dare un minimo di formazione professionale in un paese schiacciato da una disoccupazione e sottooccupazione inimmaginabili. Conosciamo Elizabeth e Cristina, che ci fanno da guida nella scuola: sono due donne sulla quarantina, di una pazienza e dedizione incredibili, che hanno dedicato tutta la loro vita all'insegnamento, rinunciando per questo al matrimonio e ai figli. Nella classe di Elizabeth, Giacomo viene subito "adottato" dai suoi coetanei peruviani. Davanti alla telecamera i bambini parlano della storia di Villa El Salvador, nata negli anni '70 da una grande occupazione di terre fatta dagli immigrati senza casa. "E molto grande: c'è molta povertà, molta sabbia..." dice uno, e si mette a ridere. In effetti c'è sabbia dappertutto, sarebbe anche divertente, se non si trattasse di viverci 365 giorni all'anno. Molti di questi bambini lavorano, la mattina o il pomeriggio, a seconda dei turni scolastici, come venditori ambulanti, o come aiutanti dei genitori artigiani o commercianti. Nella profonda miseria in cui vive il 90% della popolazione peruviana (il salario minimo garantito, per chi ha lavoro, è di circa 30 dollari al mese), anche il loro piccolissimo guadagno (non più di mille lire al giorno) è essenziale per la sopravvivenza della famiglia. "Per quanto noi possiamo cercare di usare metodi didattici moderni - dice Cristina - il problema centrale di questi ragazzi è la fame. Molti di loro vengono a scuola dopo aver preso solo una tazza di té, o un infuso di erbe, con un po' di pane. E con la pancia vuota non si riesce a studiare". Suona la campana dell'intervallo e i bambini schizzano via nel grande spiazzo sabbioso portando con loro Giacomo, per giocare al pallone. Come se la caverà? Non è un campione al calcio e mastica ancora poco lo spagnolo, è circondato da una ventina di ragazzini della sua stessa età che a mala pena gli arrivano alla spalla e lo portano in giro come un trofeo. Lo rivediamo dopo la partita: felice. Tutto il Collegio vive oggi un grande clima di allegria, perché è l'ultimo giorno di scuola prima delle feste patrie, che commemorano l'indipendenza dal dominio spagnolo (28 luglio 1821). Su un palco improvvisato si svolge la "actuaciòn", cioè uno spettacolo in cui gli allievi delle diverse classi svolgono, da soli o a gruppi, piccoli "numeri": pantomime dell'indipendenza o della Conquista spagnola; poesie, canzoni, e balli popolari - i più interessanti perché rimandano immediatamente - con i differenti ritmi musicali, alla provenienza geografica delle famiglie dei bambini, che sono quasi tutte immigrate a Lima negli ultimi vent'anni dalle tre diverse regioni geografiche che compongono il Perù: Costa, Sierra (le Ande) e Selva (l'Amazzonia). All'uscita di Villa, che pur nella sua povertà essenziale rappresenta un modello per i "pobladores" di Lima, ci imbattiamo in un gruppo variopinto di donne che ai bordi della Panamericana, in un terreno fangoso circondato da stentati eucaliptus, lavano chine la loro roba dentro sgangherati contenitori di plastica. L'acqua della sorgente si sperde nel terreno mischiandosi con quella sporca maleodorante. Le donne parlano volentieri, sono quasi tutte della selva, da poco arrivate in città, hanno lasciato i loro villaggi oltre le Ande nella zona amazzonica del Perù. Credono in un futuro migliore, anche se ammettono che, per lavarsi e mangiare, quell'acqua è l'unica di cui dispongono. martedì 25 luglio Abbiamo appuntamento con Elizabeth (Cristina ci raggiungerà più tardi) per riprendere gli aspetti più caratteristici di Villa El Salvador, una comunità urbana autogestita di 300.000 abitanti, organizzata con grande rigore, pur nella estrema miseria. Qui non ci sono furti né delitti, perché sulla base di un sistema di collaborazione tra famiglie vicine, tutti si conoscono e si aiutano reciprocamente. Visitiamo la zona industriale e l'area per lo sviluppo zootecnico, che si stanno faticosamente mettendo in piedi; il mercato all'aperto; il Municipio, la grande sala consiliare con affreschi dedicati a Josè Maria Arguedas, che, primo scrittore bianco, riuscì a descrivere "dall'interno" il mondo degli indios andini; il Centro Comunitario di Comunicazione, dove sono in funzione la radio, la biblioteca Cesar Vallejo (grande poeta coetaneo e amico di Mariategui, "il Granisci peruviano", formatosi negli anni '30 proprio in Italia). Non è un caso che a questi tre intellettuali dica di riferirsi come antecedenti culturali "Sendero Luminoso". Toni Zapata, direttore dell'Università Popolare, altra importante istituzione autogestita, presa visione del nostro programma di viaggio, ci augura senza ironia "Buena suerte", il che non è del tutto incoraggiante. Attraverso numerosi incontri e interviste, si snoda così, il nostro itinerario in questo "pueblo joven" che è considerato un po' il laboratorio della sinistra peruviana. 2. Costa Sud mercoledì 26 luglio Partiamo alle cinque di mattina lungo la Panamericana, l'unica vera strada del paese, che costeggia il Pacifico. Ci fermiamo dopo un po' per fare colazione: tamales, cioè polentine di farina di mais cotte nello strutto e farcite di grasso di maiale e ajì (non è un mangiare leggero). Poi ci addentriamo nel deserto sabbioso della costa, con le sue altissime dune, interrotto da rare oasi in corrispondenza dei fiumi, a carattere torrentizio, che scendono dalla vicina Cordillera. La prima tappa è la baia di Paracas, riserva naturalistica di fenicotteri, pellicani e leoni marini, e culla di un'antica civiltà che ci ha lasciato, conservati dal clima asciutto del deserto, alcuni tra i più belli e antichi tessuti esistenti. All'imbarcadero contrattiamo un pescatore che ci porti alle isole Ballestas, a un'ora e mezza di navigazione. Sono le "isole del guano", descritte da Raimondi, e fonte a metà dell'800 di una delle molte e caduche ricchezze del Perù. Lungo il percorso, visibile solo dal mare, si scorge il gigantesco "candelabro", disegnato oltre 1000 anni fa su una grande duna sabbiosa, grattando semplicemente la superficie, con la stessa tecnica adottata per le "linee" di Nazca. Le isole, una specie di Galapagos però dal clima più freddo, sono brulicanti di uccelli. Nell'acqua, foche e leoni marini, a migliaia, riempiono l'aria di clamori assordanti e inseguono la barca come se volessero abbordarci. Ci accostiamo ad un pontile sospeso dall'alto della costa rocciosa, e chiediamo di salire per riprendere le incrostazioni di guano. È proibito, perché dopo il dissennato sfruttamento del passato, l'ambiente è protetto, ma in via eccezionale consentono di sbarcare all'operatore. Viene calata una scala a pioli e una gomena a cui leghiamo telecamera e cavalletto. Con un po' di paura vediamo 80 milioni di apparecchiature elettroniche spenzolare sulle nostre teste, mentre Kiko si arrampica come un gatto su per la scaletta di corda. Lo aspettiamo nella barca. I dieci minuti concessi sono diventati, alla peruviana, più di un'ora; e quando ripartiamo, ben dopo mezzogiorno, (siamo a stomaco vuoto dal mattino) il mare si è alzato, e le onde spazzano la barca con una violenza inaspettata. Cerchiamo di riparare alla meglio la telecamera, mentre il nostro pescatore è abbarbicato al timone. Ci confesserà, per fortuna solo alla fine, di non essere mai rientrato in porto a pomeriggio inoltrato per via dei forti venti contrari. Ci sembra assurdo naufragare in mezzo al Pacifico al secondo giorno di riprese, dopo aver impiegato quasi un anno a trovare parte del finanziamento! Ma siamo ottimisti, ci togliamo le scarpe, ci arrotoliamo i pantaloni, e aiutati da Kiko e Giacomo cerchiamo di impedire alle onde gelate di riversarsi nella barca, stendendo dei pezzi di tela cerata sul lato destro dell'imbarcazione. Tutto è inutile, e dopo più di due ore di doccia scozzese, quando finalmente sbarchiamo, siamo letteralmente fradici e affamati. Ci cambiarne in fretta e furia perché il nostro programma prevede di arrivare a Nazca. Viaggiamo per 200 chilometri nel deserto biancheggiante sotto la luna piena, giungiamo infine con un cielo terso pieno di stelle (la nebbia che avvolge Lima è finita da un pezzo) nella città delle famose "linee". Dietro suggerimento del professor Giuseppe Orefici di Brescia, che con una missione archeologica italiana lavora da qualche anno in una vicina necropoli, andiamo subito a trovare il dottor Josua Lancho, che si rivela una persona affabile e una guida preziosa. giovedì 27 luglio Alle sette di mattina Lancho ci accompagna ad una delle "linee" scoperta di recente e poco conosciuta, perché non fa parte del normale itinerario percorso dagli aerei turistici. La linea rappresenta un gigantesco telaio, ed è visibile da una vicina collinetta. Raimondi non conobbe le linee, che si possono vedere solo dall'alto e furono "scoperte" nel 1927, dal primo che sorvolò in aereo la zona, ma descrisse gli acquedotti incaici, i "socavones", che ancora oggi sono in uso e fanno di Nazca una delle oasi più fertili. Decidiamo comunque di filmarle, come documentazione di uno dei molti "misteri" tuttora insoluti di questo paese. Sulla strada per l'aeroporto incontriamo la deviazione per Puquio, il villaggio andino descritto da Arguedas in "Festa di sangue": la tentazione di deviare è forte, ma sono 12 ore di "carretera mala" e la zona non è sicura per alcuni, per altri "liberata", perché sotto l'influenza di Sendero. Abbiamo deciso di evitare possibili occasioni di contatto (ad esempio, tranne che sulla costa, la consegna è di essere al tramonto sempre in albergo), anche se più dei guerriglieri temiamo i delinquenti comuni che si spacciano per senderisti, e nel caos ormai generalizzato, poliziotti e militari che si spacciano per delinquenti comuni e rapinano viaggiatori e turisti. Poco servirebbe spiegare che la nostra telecamera (una Sony Betacam SP nuova di zecca) non serve a nulla in Perù, dove si usa lo standard televisivo americano, del tutto incompatibile con quello europeo. Con un aeroplanino da quattro posti, a cui è stata tolta per l'occasione una portiera, e con Kiko e la telecamera legati e spenzolanti nel vuoto, sorvoliamo le "linee", suggestive nella luce del tramonto e nel loro mistero immobile nel tempo. Concludiamo la giornata in un piccolo ristorante di Nazca gestito dal figlio di un milanese immigrato in Perù da un paio di generazioni. Ha solo sentito parlare dell'Italia, ma è molto cordiale e nel locale si fa della buona musica andina; dopo vari "chicharrones" di pesce e di pollo, e dolci della casa conquistiamo un meritato riposo. Venerdì 28 luglio Rientriamo a Lima il giorno della festa nazionale, sostando a riprendere i paesaggi del deserto, con i loro miraggi, e l'oasi di Huacachina, presso Ica, oggi molto frequentata per via della festa: un piccolo lago azzurro circondato da palmizi, e dune di sabbia altissime da dove gruppi di gitanti si lanciano in una specie di surf spettacolare. Quando nel tardo pomeriggio giungiamo nella capitale, la troviamo silenziosa e buia. Mancando la corrente elettrica, manca anche l'acqua per toglierci di dosso la polvere sottile ed invadente del deserto con una bella doccia. Né possiamo vedere in televisione il "desfile", la grande parata, e l'atteso ultimo discorso del Presidente Alan Garcia al termine del suo democratico e disastroso mandato presidenziale. Sendero ha festeggiato così l'avvenimento: ha fatto saltare una ventina di torri dell'alta tensione provocando un gigantesco "apagon". Proprio in questi giorni su tutti i giornali peruviani stanno dibattendo animatamente il problema dei "calzones": una proposta di legge che prevede di mettere "pantaloni" in cemento a tutti i tralicci dell'alta tensione, per rendere più difficile l'opera di sabotaggio. Naturalmente è solo un palliativo, che però rischia di non essere attuato per l'enorme aumento del prezzo del cemento. 3. Callejon de Huaylas domenica 30 luglio Dopo un giorno di riposo ripartiamo, questa volta lasciando Giacomo da amici, tra grandi pianti e complicazioni, per quella che sarà la parte più faticosa del nostro viaggio. Il sistema dei trasporti peruviano, condizionato dall'altissima catena delle Ande, che separa la costa dall'Amazzonia, è caratterizzato dalla quasi totale assenza di strade, il che ci obbliga a fare sempre ritorno alla capitale tra un viaggio e l'altro. Così riprendiamo la Panamericana nord, che dopo un primo tratto a due carreggiate torna ad essere una strada tipo le nostre provinciali, ma molto maltenuta e piena di buche. Facciamo una breve sosta di tipo naturalistico alle saline di Huacho, grandi stagni vicini al Pacifico che sembrano laghi glaciali per il loro candore accecante. Più a nord ci fermiamo a riprendere la imponente fortezza preincaica di Paramonga, costruita, come si usa ancora sulla costa, di "adobe", mattoni di paglia e fango seccati al sole; piuttosto ben conservata. Ci rendiamo conto che la fortezza chiude lo sbocco della valle, e che un imponente sistema difensivo di muraglioni è visibile, semi diroccato, sulle alture circostanti, fino ai primi contrafforti delle Ande. Guardando verso il mare l'occhio si perde su grandi distese di canna da zucchero. Una strada, miracolosamente asfaltata e in condizioni abbastanza buone, taglia verso l'interno, e salendo continuamente, senza alcuna indicazione di altezza né di distanza, in una gola dalle pareti rocciose a strapiombo maestose e spettacolari, sbuca alla fine in un altopiano brullo, a 4100 metri di altezza. Qui la grande laguna di Conococha è coronata a distanza dalle maestose cime della Cordillera Bianca, "il più grandioso panorama di montagne coperte di neve che la mente umana può concepire: una catena che abbraccia metà dell'orizzonte, dove la terra sembra confondersi col deh". Dal lago nasce il fiume Santa, di cui percorreremo per quattro giorni tutto il corso, lungo il "Callejon de Huaylas", una valle lunga e stretta tra la Cordillera Negra (così detta perché senza neve) e quella Bianca, che comprende alcune tra le cime più imponenti e spettacolose d'America, tra cui l'Alpamayu, piramide perfetta di ghiaccio considerata la "montagna più bella del mondo", e l'Huascaran, la più alta del Perù (oltre 6700 metri). In questa valle (devastata nel 1970 da uno spaventoso terremoto, che ha ricoperto con una crosta di fango la città di Yungay coi suoi 30.000 abitanti), Raimondi fece alcune delle sue "scoperte" più famose, dalla stele di Chavin alla "Puya Raimondi" (come in suo onore è stata chiamata): una maestosa agave che cresce solo in un limitato numero di esemplari nel Parque Nacional del Huascaran, a 4200 metri di altezza. "/« nessun 'altra parte del Perù - scrive Raimondi - 5/ trovano riunite come qui le condizioni più favorevoli e tanti elementi di prosperità; poche zone del globo sono state favorite dalla natura come questa, dove sembra che il clima tropicale e quello glaciale si diano la mano, con i verdi e abbondanti campi fiancheggiati dalla maestosa cordigliera coronata di neve perpetua". Giungiamo verso sera a Huaraz, il capoluogo, a 3300 metri sul livello del mare, e facciamo in tempo a riprendere, nella luce del tramonto, l'Huascaran completamente incendiato di rosa e coronato da nuvole d'oro, prima di trovar posto all'Hotel de Turistas dove al ristorante individuiamo subito una parlata familiare: sono due signore del Varesotto in attesa dei mariti alpinisti impegnati in una scalata. lunedì 31 luglio Con le vaghe indicazioni raccolte e l'appoggio di una cartina fornitaci da Foptur (ente turistico di stato), partiamo alla ricerca della Puya Raimondi, lungo una strada laterale ripida, piena di sassi e polverosa, che porta a uno dei tanti ingressi del Parque del Huascaran. E già lì, con una certa emozione, vediamo spuntare sul declivio le caratteristiche escrescenze che ci riportano alla puntuale descrizione fattane da Raimondi quasi 120 anni fa: «Sentii parlare di una strana pianta, molto alta e con foglie spinose che gli indios bruciano per evitare che le pecore rimangano prigioniere delle loro spine ricurve e incuriosito decisi di andare a vederla. Sulle falde delia montagna, su un terreno quasi nudo di vegetazione, si vedono alcuni grandi cespugli, nel mezzo dei quali si eleva un gigantesco fusto, alto fino a nove metri. È difficile dare un'idea della sensazione che dà la presenza di questa pianta in un luogo tanto elevato e freddo: più di 4000 metri sopra il livello del mare. La natura si presenta monotona e morta; la forza della vita appare soffocata dalla bassa temperatura. Tuttavia queste piante si elevano robuste e vigorose, capaci di ostentare in un solo fusto migliaia di infiorescenze. Osservandole meglio si scopre che le foglie sono coperte di un velo resinoso, che impedisce l'azione del gelo; tutto il fusto è rivestito di una materia cotonosa che lo protegge contro la crudezza del clima. Sembra impossibile che questa gigantesca regina della puna possa assorbire dal terreno succhi sufficienti per alimentare un fusto tanto alto, il cui diametro è a volte maggiore di un piede, e poter sviluppare una tale moltitudine di infiorescenze, che in un solo individuo sono a volte più di ottomila. Quello che però più sorprende è l'infinito numero di semi, che arrivano ad ottocentodieci per ogni frutto; che moltiplicato per ottomila dà un totale di sei milioni quattrocentottantamila semi per ogni pianta. Nonostante l'incredibile numero di semi, questa pianta è molto rara: se ne contano al massimo sul posto cinquecento esemplari. La provvida natura, che tende sempre alla perpetuazione delle specie, per evitare la distruzione o la scomparsa di alcune di esse, ha moltiplicato il numero dei semi in proporzione alle probabilità di sopravvivenza, in modo che alcuni esemplari scampassero ali 'azione distruttiva della bassa temperatura». Lasciata l'auto e Julio di guardia sulla strada, ci inerpichiamo per riprendere queste spettacolose infiorescenze, svettanti come colonne scure nella "puna", l'altopiano brullo delle grandi altezze. Tira un vento gelido, il sole invece scotta quando appare tra le nubi minacciose che si rincorrono nel cielo rendendo il paesaggio ancor più cupo. Siamo tutti un po' boccheggianti per la mancanza di ossigeno. Ma è solo un assaggio di quello che proveremo al Titicaca. Lungo la strada del ritorno, ci fermiamo a riprendere da lontano un gruppo di contadini che pulisce l'orzo prima facendolo calpestare dai cavalli, poi buttandolo in aria, come si usava anche da noi fino al secolo scorso. Accanto alle bellezze naturali, la valle conserva infatti gli usi e le tradizioni dei contadini delle Ande. Più in là incontriamo alcune donne, coi cappelli tipici (diversi da paese a paese), che stanno lavando nella gelida acqua del fiume. Kiko, saltellando sui sassi del greto, si accinge a filmarle. Passata la prima diffidenza, le donne ridono ai "piropps" di Kiko, e accettano di essere riprese. Si aprono gli usci di alcune case, una ragazza viene a sedersi vicino e ci spiega che le donne stanno lavando tutto quello che apparteneva ad una vecchia parente, morta pochi giorni prima: è l'ultimo atto del funerale. Ci raggiunge la madre della ragazza, che ci stava osservando dalla porta, per dirci che le sembriamo buona gente e che lei sarebbe contenta di affidarci la figlia. Replichiamo che veniamo dall'Italia, dall'altra parte del mondo; non importa - lei dice - è il paese del Papa, e sicuramente sua figlia potrà avere migliore fortuna. Approfittiamo della sosta anche per toglierci un po' di polvere (ci perseguiterà per tutto il viaggio), suscitando nuovo stupore e risa delle donne, perché dopo energici colpi di spazzola i capelli "canudos" ridiventano del colore naturale. A Huaraz, Mercedes, la simpatica e solerte segretaria di Foptur, ha organizzato per noi un gruppo di studenti del liceo che ha fatto una ricerca sui costumi tipici locali. Sono tutti ansiosi di indossarli davanti alla telecamera. Ci trasferiamo rapidamente nel giardino dell'albergo dove i nostri giovani amici improvvisano per noi una allegra sfilata. Particolarmente bello e ricco è il costume delle "Pallas" di Corongo, che secondo la tradizione veniva portato secoli fa dalle fanciulle predilette dell'Inca. martedì 1° agosto Partiamo presto, continuando a scendere lungo la valle, che passa dai 3300 metri di Huaraz ai 2300 di Caraz. Ci interessa risalire le valli laterali, per conoscere meglio le condizioni di vita della popolazione. Nel villaggio di Vicos troviamo un contadino seduto su un tronco che sta intagliando una piccola zucca secca per farne un contenitore della calce viva, che mischiata in bocca alle foglie di coca masticate produce la reazione chimica ben nota. Per gli indios delle Ande la coca (che al tempo degli Incas era una pianta sacra) è parte indissolubile della vita quotidiana, uno stimolo contro la durezza delle condizioni di vita e la fatica del lavoro. Raimondi ne parla ampiamente nella parte introduttiva di "El Perù", quando dà cenni sulle misure geografiche adottate: «Per indicare le distanze in quasi tutto il Perù si usa la lega, che corrisponde più o meno a 5 chilometri. Un altro metodo molto originale di misurare le distanze, usato dagli indios in alcune zone, è quello della "cocada". È noto che la maggior parte degli indios peruviani masticano solitamente foglie ai coca, che stimolando il loro sistema nervoso li rende capaci di sopportare le fatiche corporali senza necessità di molti alimenti. Questa eccitazione produce i suoi effetti per un tempo limitato, all'inarca 35/40 minuti; e alla distanza che un "portatore" può percorrere in questo periodo - più o meno 3 chilometri in pianura, due soltanto in salita - si dà il nome di cocada». La coca cresce nelle valli tropicali che discendono verso l'Amazzonia, dove (dicono) si è stretta un'alleanza di fatto tra Sendero e narcotrafficanti. Il Perù è il maggior produttore mondiale di foglia di coca, che viene però esportata e lavorata in Colombia. A chi la coltiva rimangono solo le briciole, ma un campo di coca rende cento volte di più del caffè (il cui prezzo è crollato a 70 centesimi al chilo), lasciando al contadino l'alternativa tra il morire letteralmente di fame o praticare una coltura che per lui non ha niente di riprovevole (in Perù non ci sono cocainomani) e che gli permette un guadagno sicuro. Questa è un'altra delle molte contraddizioni nei rapporti tra i paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati, i cui aiuti tendono a riprodurre la propria struttura economica, senza tener conto della realtà dell'agricoltura locale; salvo poi investire centinaia di miliardi in una assurda guerra alla droga persa in partenza. La casa del contadino, relativamente benestante, è in pietra, raccolta intorno a un piccolo patio che fa anche da granaio, cucina, dispensa e stalla per i piccoli animali domestici, tra i quali i "cuyes", porcellini d'India, che vengono allevati per la loro carne. Lungo le pareti stanno alla rinfusa oggetti agricoli e utensili da cucina; dal tetto pendono pannocchie di mais e carne messa a seccare. Poco a poco conosciamo tutta la famiglia: la moglie di 39 anni, analfabeta, parla solo quechua; porta sulle spalle, avvolta in un telo colorato, l'ultima nata di nove figli. La figlia maggiore sta ricamando: il contrasto con la madre è molto forte, è un miracolo di pulizia in questa casa senz'acqua. Non accetta volentieri di parlare, ha diciassette anni e frequenta l'ultimo anno delle superiori; non è fidanzata e non pensa a sposarsi, vorrebbe emigrare, o perlomeno spera di avere un'opportunità di lavoro nell'artigianale. Il padre la ascolta e ride, lui sarebbe felice con un sassofono, forse, chiede, potremmo mandarglielo noi dall'Italia? Ritorniamo a piedi passando davanti a gruppi di case tutte chiuse; la gente è nei campi a lavorare, e ci guarda da lontano sospettosa. Un giovane contadino ci viene incontro, è particolarmente vivace e ci fa un sacco di domande; dice di aver già incontrato altri italiani. È un "terruco". un terrorista, dice Kiko, quando si allontana. Rimaniamo nel dubbio, come molte altre volte. Arriviamo ai bagni di Chuncos, una sorgente termale di acqua calda, già descritta da Raimondi, dove molta gente (tutta locale, gli ultimi turisti li abbiamo visti a Huaraz) sguazza in una piscina dall'acqua marrone, poco invitante, o in mezzo ai vapori si batte il corpo con rami di eucalipto. Riprendiamo la strada maestra e poco dopo, a Yungay, risaliamo un'altra valle, per una strada impercorribile, fino ai due laghi gemelli di Llanganuco, dalle acque verde smeraldo. Il paesaggio è minaccioso e severo, non c'è anima viva; comincia a piovere, nuvole nere e moscerini galleggiano nell'aria. Ai lati della strada, enormi massi di granito sembrano appena scivolati giù dalla montagna. Ad una curva incontriamo una pick-up ferma con alcuni uomini, scorgiamo dei mitra nel cassone scoperto: "Sono agenti della PIP", dice brevemente Julio (la polizia investigativa), "tra poco sarà buio, dobbiamo rientrare velocemente". A Caraz, cerchiamo di chiamare Lima per telefono, impresa difficilissima. Dopo circa un'ora di coda al posto pubblico riusciamo a parlare con Giacomo: sta bene. Passiamo la notte allo "Chalet Suisse", è davvero modesto, anche rispetto agli standard peruviani. 4. Costa Nord mercoledì 2 agosto Per scendere verso la costa, e proseguire il nostro viaggio verso il nord, abbiamo due sole alternative: o ripercorrere all'indietro la via già fatta, o seguire il "Canon del Pato", scavato dal rio Santa, su una strada sassosa di 200 chilometri. Scegliamo quest'ultima, e ci troviamo dopo una breve discesa in una piccola pianura, dove la vegetazione è composta solo da cactus, migliaia, non tutti uguali, però, ma di una grande varietà di specie. Mano a mano che scendiamo fa sempre più caldo. Passiamo nella stretta gola dove è stata costruita la centrale idroelettrica di Huallanca. Vistos; cartelli ordinano perentoriamente di non fermarsi, con la minaccia di sparare a vista, ma non si capisce bene a chi si rivolgano, dato che in tutta la strada incontreremo solo un camion e una vecchia corriera. In compenso il terremoto del 1970 è passato anche di qui, distruggendo tutto ciò che poteva. La natura sembra contorta da una forza sovrumana. Incontriamo un ponte di ferro le cui strutture non hanno ceduto, ma che è stato letteralmente girato su se stesso, ed è rimasto lì, solitario e inutile, come un minaccioso monito. In un punto dove la gola è particolarmente stretta troviamo, uno a fianco dell'altro, un ponte sospeso (del tipo di quelli costruiti dagli Incas) e una "oroya", cioè una rudimentale teleferica per trasportare da una parte all'altra il materiale (ma Raimondi racconta che ai suoi tempi la usavano, con grave rischio, anche i viaggiatori). Kiko ne approfitta per fare una spericolata traversata con riprese tipo "Indiana Jones". La strada diventa monotona e sempre uguale: sassi e polvere che penetra dappertutto e ci impedisce quasi di respirare. Dopo quasi sette ore di viaggio, a pochi chilometri dalla Costa (per fortuna!) anche la macchina cede, si buca una gomma e si rompe una delle molle di sospensione. Arriviamo a Santa, dove la strada si immette sulla Panamericana, così impolverati che il poliziotto a cui chiediamo informazioni strabuzza gli occhi e ci dice: "Ma voi venite da Caraz!" come se fossimo (e forse lo siamo) autori di un'impresa straordinaria. Puntiamo su Chimbote, porto peschereccio (e l'odore foltissimo di pesce marcio domina su ogni cosa) dove un abile fabbro ci ripara praticamente a mano le sospensioni. Noi aspettiamo per strada, seduti sui bagagli, sotto un sole torrido; abbiamo un aspetto così derelitto che una donna ci porta un sapone e una bacinella d'acqua per cercare di lavarci un po'. Quando finalmente la macchina è pronta sono già le cinque di sera, decidiamo di arrivare a Trujillo, centotrenta chilometri più a nord, dove giungiamo che è già buio, e nonostante i nostri sforzi e il nostro disperato bisogno di una doccia non riusciamo a raggiungere la Plaza de Armas, dove c'è l'albergo, perché è in corso una manifestazione dell'APRA (il partito di governo) in occasione del decennale della morte di Haya de la Torre, il suo fondatore. Al quarto tentativo supplichiamo un poliziotto di lasciarci passare, e lui mandando al diavolo l'APRA e il divieto di circolazione ci consente di raggiungere l'Hotel de Turistas, tra i più belli del Perù, ricavato da un'antica e nobile "casona" di latifondisti, con balconi e gelosie in legno finemente intarsiati. Dopo la sospirata doccia con acqua corrente calda e fredda ci addormentiamo in un monumentale letto di tipo andaluso. giovedì 3 agosto La mattina facciamo una breve escursione alle misteriose Piramidi del Sole e della Luna, solitàrie ed enormi nel deserto grigio. Puntiamo poi verso il porticciolo di Huanchaco, dove ancora oggi i pescatori affrontano il Pacifico sui "caballitos de totora - leggerissime imbarcazioni di giunco, di cui un artigiano, un vigoroso ex pescatore di 72 anni, ci mostra le diverse fasi della fabbricazione. Ha passato tutta la vita a pescare sull'oceano a cavalcioni dei caballitos, con i piedi nell'acqua (e il Pacifico, a causa della corrente di Humboldt, è in Perù particolarmente freddo), usando come remo un semplice bastone; ora i suoi figli sono in mare, hanno come strumento di pesca una reticella che affondano nell'acqua, e quando la tirano su è piena di polipi e pesci (particolarmente pregiati sono dei granchi molto grossi di colore rosso). La pesca si svolge tra le 5 del mattino e mezzogiorno. Ci sistemiamo, tenendo d'occhio il molo, in un piccolo ristorante dove mangiamo una squisita e succulenta zuppa di granchi. Improvvisamente la spiaggia, fino allora tranquilla, si anima di compratori, bambini, gatti, uccelli; e alla luce del sole che ha scacciato in pochi minuti il grigiore la piccola flottiglia, che prima cavalcava al largo le onde plumbee, torna a riva, riversandovi una ricca e abbondante massa di "pescado". Poi, uno dopo l'altro, i caballitos vengono portati all'asciutto e piantati verticalmente nella sabbia, con la punta in su, per scolare l'umidità e allungarne la vita (che comunque non dura più di tre mesi, dopo di che i giunchi marciscono e l'imbarcazione va rifatta). Raggiungiamo, un po' appesantiti per il pranzo, San Pedro de Llpc, piccola cittadina del nord ove ancora oggi la coltura principale è quella del riso, rimasta anche dopo il parziale smembramento del grande latifondo. Lungo il viale di accesso, ombreggiato da grandi salici, sorge un piccolo monumento dedicato a Raimondi, che qui morì il 26 ottobre 1890. Visitiamo la casa dove, ospite dell'amico Arrigoni, con il quale era emigrato in Perù quarantanni prima, trascorse i suoi ultimi giorni: poverissimo, lui che aveva scoperto le maggiori miniere del Perù. È una tipica "casona" con un grande portone che immette nel patio, di recente restaurata e brillante nei suoi vivaci azzurri e bianchi; vorrebbero costituirvi un piccolo museo raimondiano, ma per ora c'è solo il suo baule da viaggio e la minuziosa ricostruzione dei suoi tortuosi itinerari su di una grande mappa del Perù che occupa l'intera parete di una stanza. Proseguendo lungo la costa ci fermiamo alla cittadina di Eten, in cerca delle "campane del diavolo" - formazione rocciosa che manda un suono sinistro", così racconta Raimondi. Ci conducono alla chiesa, forse il parroco può aiutarci; ma non è rintracciabile. Dopo vari giri inutili desistiamo e raggiungiamo infine Chiclayo. venerdì 4 agosto All'alba nella hall dell'albergo incontriamo un giornalista di "Caretas" che, informato degli scopi del nostro viaggio, dice di aver visto in un remoto paesino della sierra un quaderno autografo di Raimondi. Sarebbe per noi molto interessante poterlo leggere, ma dato un occhio alla carta ci rendiamo conto che occorrerebbero vari giorni di viaggio. Raggiungiamo il vicino villaggio di Monsefù, come da programma, celebre per le sue cappellate. Nella grande piazza centrale la mattina presto gruppi di donne portano impilati l'uno sull'altro grandi cappelli intrecciati in paglia "toquilla". I grossisti compratori, a seconda della qualità dell'intreccio, della finezza della paglia e del candore, dopo un lungo contrattare pagano i "sombreros" a un prezzo irrisorio, 7/8000 lire l'uno. Questi stessi cappelli, rifiniti poi industrialmente, vengono commercializzati in tutto il mondo col nome di "Panama", ad un prezzo cinquanta volte superiore. Nella stessa piazza si affaccia il mercato coperto, dove viene venduta la paglia toquilla che proviene da Guayaquil (nel vicino Ecuador). Verso le otto la piazza si svuota; nelle strade circostanti le donne sono di nuovo al lavoro. Nel buio locale affacciato sulla strada assolata, riprendiamo una donna intenta ad intrecciare un nuovo cappello: pelle olivastra, lunghi capelli neri, deformazione ai piedi un po' equini e con dita cortissime che abbiamo già osservato in altre donne scalze sulla piazza. Anche l'abbigliamento è simile a quello delle altre: gonna nera lucida a balze al ginocchio, camicetta rosa con volants e maniche a sbuffo. Intreccia sicura, con movimenti veloci delle mani, la sottilissima paglia (a finire il cappello ci impiegherà circa tre settimane). Ripartiamo veloci verso il nord, lasciando poco dopo la nuova Panamericana, fino alla cittadina di Motupe, dove oggi si festeggia la "Feria" della "Cruz del Chalpon", che ci è stata segnalata come una delle più caratteristiche della costa nord. "Per il viaggiatore che percorre un paese - scrive Raimondi -non e 'è migliore occasione per i suoi studi etnografici di quella offerta da una festa, quando i villaggi, che prima erano solitari e deseni, si convertono in un centro di attività e di vita. Qui può veder riunita in un solo punto una infinità di tipi umani distinti, che difficilmente potrebbe conoscere viaggiando; può confrontare i diversi costumi e apprezzare i differenti usi". In effetti già all'arrivo ci imbattiamo in una grande confusione, così lasciamo l'automobile e proseguiamo a piedi. Due bande, suonando le vivaci "marineras" della Costa, precedono e seguono l'esibizione di due cavalieri con poncho e cappello bianco, speroni e finimenti d'argento, che montano i "caballos de paso", addestrati (è la vecchia radice spagnola-asburgica) a muoversi a tempo di musica. Kiko si getta praticamente tra le loro zampe, esaltando la voglia di figurare dei cavalieri che, vedendosi ripresi da una telecamera, compiono le più audaci acrobazie, a pochi centimetri dall'obbiettivo. Veniamo subito "adottati" dal comitato organizzatore, composto da persone devote alla sacra croce (che apparve miracolosamente, dicono, poco più di cento anni fa). Ci imbarcano sulla loro camionetta pick-up, dalla quale possiamo fare, circondati da una folla di ragazzini sbraitanti, dei bei cameracar sulla sfilata, chiusa da un'automobile sovrastata da un pomposo baldacchino dal quale gettano baci alla folla assiepata le due reginette della festa, una snella e carina, l'altra piccola e grassoccia (ma, ci dicono, è la figlia del sindaco). La sfilata che si conclude nella piazza della Cattedrale è solo il preludio, la vera festa inizierà al tramonto, quando da una modesta cappella distante alcuni chilometri arriverà in città la croce miracolosa. Recuperiamo la nostra automobile e raggiungiamo, in mezzo a una grande folla, la cappella dove è custodita la croce e che sorge in mezzo ad un grande spiazzo polveroso. Fa molto caldo, venditori di ex-voto portano in giro riproduzioni in argento di braccia, gambe, cuori - tutte le parti del corpo che la fede può guarire - candele, rosari. Ci sono povere bancarelle di dolciumi cariche di mosche, gelati che si sciolgono. Bambini molto piccoli vanno in giro vestiti da candidi angioletti, con finte ali di cartone, e lunghi nastri bianchi. Nella cappella il sacerdote indio sta commentando un brano del vangelo di Giovanni: "...se il granello di grano sottoterra non marcisce e muore..." Non sono parole di circostanza, chiede sacrifici, dedizione e amore per il proprio paese. Chiede giustizia per questa gente, da sempre abituata alla mortificazione e alla rinuncia. Donne e uomini piangono senza ritegno. Molti tengono in mano una candela, che poi depongono davanti all'altare, formando un vero tappeto di fuoco e cera sciolta. Alla preghiera dei fedeli si levano voci rotte per chiedere il miracolo di un lavoro, di un raccolto sicuro, della fine della violenza. Al termine della messa, la croce - due semplici rami di legno ricoperto da cerchi d'argento, viene portata fuori a spalla; la ressa dei fedeli che cercano in tutti i modi di toccarla è indescrivibile; è finalmente issata su un baldacchino coperto di fiori. Qui il giovane sacerdote, che aveva avuto nell'omelia parole degne della teologia della liberazione, veste la croce con una sciarpa di seta bianca finemente ricamata e... profuma il tutto con acqua di colonia. Da ogni parte una miriade di fili colorati vengono allacciati ai piedi della croce, l'altro capo è retto dai fedeli che sono così a diretto contatto della fonte miracolosa. I bambini, passati sopra le teste, tra la folla, vengono alzati a baciare la sacra reliquia. Poi la processione si muove, la banda intona una musica triste. In mezzo al polverone alzato dal calpestio di centinaia di persone il corteo si allontana. Noi proseguiamo la nostra corsa verso nord lungo la vecchia Panamericana. Julio, sempre così preciso, questa volta si è lasciato convincere, per guadagnare tempo, a percorrere quel tratto abbandonato. Così dopo un po' ci troviamo costretti a viaggiare a passo d'uomo su un tracciato ormai solo buchi, in pieno deserto: un deserto cespuglioso con alberi corrosi e contorti e non sabbioso come quello del sud. Siamo ormai grigi di sabbia quando cala su di noi un meraviglioso e fiammeggiante tramonto. In quattro ore e mezza percorriamo i 150 chilometri che ci separano da Piura, ultima tappa sulla costa nord. All'Hotel de Turistas scopriamo che qui non si usa l'acqua calda, e anche se la temperatura si è vistosamente abbassata col calar della notte, siamo costretti ad accontentarci di una doccia fredda. sabato 5 agosto Piura, oasi della costa, in mezzo al deserto di Sechura, città natale di Julio, è ben descritta nel romanzo "La Casa Verde" di Vargas Llosa, ma non ha particolari attrattive per il nostro lavoro. Ci rechiamo a Catacaos, città di artigiani argentieri, esperti nella lavorazione della filigrana, della quale riprendiamo diversi momenti: dalla filatura, con calibri sempre più sottili, alla minuziosa composizione di aerei e leggeri gioielli. Poco più in là c'è il villaggio di Simbilà, dove, in semplici capanne di paglia, si lavora a mano la terracotta. Poi puntiamo su Paita, importante scalo delle baleniere del Pacifico; anche Hemingway ci veniva a pescare. Qui trascorse i suoi ultimi anni Manuela Saenz, la donna di Bolìvar, il Libertador. Ora tutto è vecchio, le case sono cadenti, e i pescherecci scrostati dondolano pigramente nel porto calcinati dal sole; l'unico segno di vita è dato da grossi pellicani che si trastullano nella baia. Siamo tutti molto stanchi per questa folle corsa. Rientriamo a Piura per prendere l'aereo (che partirà a notte fonda con tre ore di ritardo), e arriviamo a Lima a mezzanotte passata. Julio invece, per riportare indietro l'auto, guiderà per un giorno e una notte lungo i 1200 chilometri della Panamericana nord. 5. Amazzonia domenica 6 agosto Oggi è un giorno di meritato riposo. Recuperiamo Giacomo e per festeggiare andiamo alla Pizza Hut (che secondo lui è eccellente!)? Nel pomeriggio, mentre cerchiamo di fare un bucato decente con pochissima acqua, riceviamo la visita di Paolo, un missionario comboniano, conosciuto in Italia, che è stato parroco a Lima e poi sei anni nella Sierra, prima di lasciare il Perù. Qui è nata la teologia della liberazione, ma nell'ultimo decennio la politica di restaurazione di Woytila, che ha gradualmente sostituito i vescovi progressisti con quelli più conservatori, ha scisso profondamente la base della Chiesa dal vertice, arrivando a situazioni paradossali, come quella del Vescovo di Ayacucho, culla di Sendero Luminoso, che è il fratello del generale che comanda le forze antiguerriglia della "guerra suda". Paolo è curioso del nostro viaggio, ci dà nomi di amici, punti di riferimento locali; ci invita anche, se avremo tempo, a realizzare un video sui bambini lavoratori peruviani, che si stanno organizzando a Lima e in altre regioni e per i quali sta cercando forme di aiuto in Italia, dove attualmente risiede. lunedì 7 agosto Partiamo nella tarda mattinata alla volta dell'aeroporto, molto preoccupati perché non abbiamo notizie di Julio: non è arrivato, non ha telefonato, e in macchina trasportava una parte dell'equipaggiamento. Kiko suggerisce di rimandare la partenza e di andare a cercarlo. Ci sembra una cosa assurda: cercarlo dove? Rimandare il viaggio vuoi dire scombinare tutte le prenotazioni dei voli, già difficilissime in un paese dove non più di 5-6 aerei girano vorticosamente da un capo all'altro, sempre strapieni in questa stagione turistica. Pensiamo di mandare un messaggio radio alle piccole emittenti della costa, ma mentre facciamo la nostra fila per l'imbarco l'altoparlante dell'aeroporto chiama Kiko al banco delle informazioni: Julio è ricomparso, stravolto e insonnolito. Si è rotta anche la seconda molla di sospensione, costringendolo a fermarsi per ore, poi l'impianto elettrico ha avuto un guasto, ha guidato nella notte senza luci, ma dato il traffico scarsissimo è riuscito ad arrivare in tempo. L'aereo è "naturalmente" in ritardo (ma in questo caso la cosa ci torna utile). È già metà pomeriggio quando infine sbarchiamo a Tarapoto, il nuovo polo di espansione della "ceja de selva" (ciglio della foresta) amazzonica. Al di là della Cordigliera Orientale, tra le Ande e l'Amazzonia vera e propria, che è completamente piatta, si estende questa fascia collinare (800/1000 metri di altezza), che ai vantaggi del clima caldo-umido tropicale aggiunge una grande fertilità del suolo, il che permette la coltivazione e l'allevamento del bestiame, cosa che nella pianura è impossibile. Tarapoto la conosciamo bene perché ci siamo stati già due volte: qui è nata Lactesa, la prima centrale del latte dell'Amazzonia peruviana, per il cui ampliamento siamo riusciti ad ottenere, attraverso una ONG italiana - il CESVI di Bergamo - un contributo da parte del Ministero degli Esteri. Lo scorso anno abbiamo realizzato un video didattico su come questo progetto stava trasformandosi in realtà. Ci ritorniamo di nuovo per l'aspetto naturalistico, per accostarci, come dice Raimondi, a "quella regione dove sembrano confondersi la vita animale e quella vegetale; dove la Natura è regina assoluta, e l'uomo un essere debole e impotente". Dall'anno scorso la situazione è comunque peggiorata anche in questo piccolo paradiso. I guerriglieri del Movimento Revolucionaro Tupac Amaru, una formazione concorrente di Sendero, hanno assaltato qualche mese fa l'aeroporto, che ora è presidiato da soldati armati di tutto punto, mentre sulla pista aerei da caccia con un macabro disegno di bocche dentate sulla fusoliera (che peraltro piace molto a Giacomo) sono pronti a decollare in perlustrazione. Con la camionetta di Lactesa, nelle due ore di luce che ci restano, scorazziamo nei dintorni, ci spingiamo al fiume Cumbaza, dove al tramonto gli abitanti, soprattutto le donne, vanno a lavare e a lavarsi (e questo è un altro dei temi e delle immagini ricorrenti del nostro viaggio). La sera ceniamo nella Plaza de Armas quasi al buio (questa volta non è a causa di Sendero, perché Tarapoto ha una centrale autonoma: ma la distribuzione è razionata per quartieri), con il locale illuminato solo da un piccolo neon collegato a una batteria da automobile. Ritroviamo con piacere un'amica, Nelly, tecnico di produzione della centrale: ha trent'anni, è della sierra di Junin, a 4150 metri di altezza (sarà una delle nostre ultime tappe). Figlia di contadini, si è laureata a pieni voti all'Università agraria di Lima, dove ha conosciuto uno studente giapponese da cui ha avuto una bambina, Isabel, che oggi ha cinque anni. Il giapponese però non sopportava l'aria delle grandi altezze, così Nelly lo ha lasciato, ha tirato avanti con la sua bambina. Due anni fa è stata tre mesi in Italia, all'Istituto Lattiere Caseario di Lodi, per imparare a fare lo yogurt e il formaggio, con una borsa di studio che siamo riusciti a procurarle attraverso il sindacato. Così Nelly è passata dalla "puna" di Junin al deserto di Lima, all'inverno lombardo, ed ora al clima torrido dell'Amazzonia. Non è serena perché Isabel, data la situazione, vive a Lima; vorrebbe tornare in Italia a lavorare, spera che noi le troveremo una nuova opportunità. Una delle conseguenze più drammatiche del sottosviluppo è che i migliori se ne vanno, fuggono, attratti non tanto dal desiderio di guadagno, quanto dalla speranza di una vita più dignitosa. Anche noi siamo combattuti tra il desiderio di aiutare un'amica meritevole e il dispiacere di sottrarla a Lactesa. Ma in fondo ognuno è artefice del proprio destino: passerà comunque ancora un anno prima che Nelly possa coronare il suo sogno. martedì 8 agosto Partiamo dall'Hotel de Turistas, fatto di bungalows in stile colonia1 e immersi nella rigogliosa vegetazione tropicale, in direzione di Lamas. Questa piccola cittadina, su una collina a nord di Tarapoto, che si raggiunge lasciando la strada per Moyobamba, ospita una comunità indigena, i Lamistas, che pur non rifiutando la "civiltà" se ne tengono a una certa distanza. Nelle loro case non c'è luce elettrica, né acqua corrente, perché rifiutano di integrarsi completamente coi "bianchi". Le donne girano scalze, fiere del loro abbigliamento tipico: gonna blu scuro, sottogonna bianca e camicetta azzurra con piegoline, carré e collo alto, che richiama le bluse di fine ottocento dalle quali è stata chiaramente copiata. Portano i capelli sciolti sulle spalle, intrecciati con grandi quantità di nastri multicolori. All'esterno di una casa, fatta di fibre di palma e banano, le donne della famiglia, sotto la guida della più vecchia, hanno appena terminato di cuocere alcuni vasi di terracotta: il lavoro è ben riuscito, e li dipingono ancora caldi con l'achiote: bacche colorate con cui gli indios della selva si pitturano anche la faccia (pare allontani le zanzare). Seguiamo un gruppetto di ragazzine che portano in testa grandi vasi di terracotta neri e rossi per prendere l'acqua alla fontana comune. Poi capitiamo in una casa dove donne e bambini (gli uomini sono nei campi, al lavoro) stanno preparando il 'masatp": radici di yucca bollita masticate e poi sputate in un bacile, dove fermentando assumono un alto tenore alcolico; dobbiamo anche noi berne qualche sorso in nome della legge non scritta dell'ospitalità, che già Raimondi ben conosceva quando scriveva: «Bisogna entrare con essi nella massima confidenza possibile, giocando, mangiando e cacciando con loro; adottando le loro usanze, i loro vestiti e ornamenti, pitturandosi la faccia con la pasta di achiote». Davanti a un'altra casa, una ragazza sta filando il cotone con un arcolaio di legno a pedale. Poco più in là, in un antro buio, soprattutto per chi viene dalla luce abbagliante dell'esterno, un tessitore seminudo aziona un rudimentale telaio: muovendo alternativamente la spoletta con le mani e un sistema di leve coi piedi, fa avanzare la stoffa, un gigantesco rotolo, di ruvido e robusto cotone a sottili righe bianche e blu. Vorremmo comprarne alcuni metri, ma il tessitore per vendere deve aspettare il suo socio che non si trova; dobbiamo quindi a malincuore rinunciare. Riscendiamo a valle e raggiungiamo il rio Cumbaza in un punto di traghetto: una piroga di legno, scavata in un tronco gigantesco, fa la spola avanti e indietro da una riva all'altra, con donne e bambini carichi di caschi di banane che trasportano tenendoli legati alla fronte con una fascia di stoffa. Torniamo a Tarapoto e puntiamo in direzione di Yurimaguas, la città sul fiume Huallaga da cui si può raggiungere per via fluviale il Rio delle Amazzoni. Più volte abbiamo sognato di andarci, sempre scoraggiati dalla terribile strada, che questa volta ci sembra ancora peggiorata, e sulla quale la camionetta sobbalza vistosamente. Per fortuna siamo diretti ad un posto relativamente vicino, alle cascate di Auashiyacu, un piccolo spaccato del mistero e del rigoglio della selva amazzonica. "Nella Selva - scrive Raimondi - la Natura regna sovrana, e i suoi rari abitatori, vivendo quasi istintivamente come gli animali, ne sono tutti dominati. L'uomo, il preteso re della creazione, è lì molto debole di forza e di spirito; la sua intelligenza, sviluppatasi solo limitatamente, non gli permette di costruire grandi opere; e bastano pochi anni di abbandono perché le sue tracce deboli ed effimere scompaiano del tutto, sotto l'azione distruttiva di un clima caldo e umido, e il terreno sia nuovamente invaso dalla vegetazione lussureggiante dei tropici, che proprio in questi elementi calore e umidità - trovano la forza del proprio sviluppo". Ricordando queste parole, lasciamo la strada carozzabile e ci avviamo a piedi per un sentiero muschioso che fiancheggia il torrente che scende a valle. Alberi colossali, intricati di liane, ci sovrastano, gettando profonde macchie scure. Il cinguettio di strani uccelli nascosti, il volo di farfalle gigantesche, ci accompagnano nella nostra salita fino alla cascata, che gettandosi dall'alto della montagna piomba, con un effetto spettacolare e un fragore assordante, in un grande catino scavato nella roccia. È bello tuffarsi in quest'acqua sempre tiepida, avvicinarsi al punto in cui l'acqua ribolle, e sentire su di sé la massa che cade dall'alto e trafigge la pelle come una miriade di piccoli aghi. Kiko, che si è arrampicato su una roccia per riprendere la cascata dal basso, sta per finire in acqua con la preziosa telecamera, e riusciamo a salvarlo per miracolo. Ma il pomeriggio è già avanzato, il fitto fogliame trattiene la luce, facciamo così ritorno in città. mercoledì 9 agosto Oggi, sveglia alle cinque, per riprendere l'alba sulla giungla. Poi possiamo rilassarci un poco, limitandoci a filmare i particolari delle piante, dei frutti, dei fiori e degli insetti. Vorremmo sorvolare la selva, almeno fino al fiume Huallaga, per avere qualche ripresa aerea del grande mare verde. Ma l'avioneta non si trova, forse sta facendo qualche lucroso trasporto di foglie di coca. Il pilota della compagnia privata si fa vivo solo all'aeroporto, quando è ormai annunciato il nostro volo per Iquitos. Nella selva l'aereo è un po' come l'autobus, data l'assoluta mancanza di strade: ci viaggiano tutti, donne, vecchi e bambini, gente che non si immaginerebbe mai potesse usare un mezzo così tecnologico. Kiko chiede il permesso, subito accordato, di entrare nella cabina di guida, da dove si potrebbero fare delle riprese stupende dell'Amazzonia dall'alto: ma il ciclo si è tutto coperto, e non si vede un gran che. Arriviamo a Iquitos che ha appena smesso di piovere, e con un forte ritardo rispetto all'orario previsto. Recuperati i bagagli, decidiamo di dividerci: Marco, Kiko e Roberto a Belèn; Giovanna e Julio, con Giacomo, a organizzare l'escursione di domani. Belèn è il quartiere su palafitte immortalato dal film "Fitz-carraldo" di Herzog. In questa stagione il Rio delle Amazzoni è basso, e si può circolare liberamente a piedi, e non in barca, come quando è in piena. Però ha piovuto da poco e le strade sono umide e fangose. Il tassista ci sbarca in un punto oltre il quale una folla brulicante impedisce il passaggio. Lasciamo documenti, orologio, denaro, tranne il minimo per riprendere un taxi, e ci immergiamo nella massa compatta della gente. Roberto tiene lo zaino con le cassette e le batterie sulla pancia, per evitare rischi. In realtà sono tutte precauzioni forse eccessive, perché nelle due ore che trascorreremo a Belèn non ci succederà nulla. Nell'aria ancora umida, squarciata dai raggi obliqui del sole che illuminano a chiazze il fiume Nanay brulicante di imbarcazioni, percorriamo il mercato, tra frotte di bambini seminudi, e venditrici di frutta, verdura, uova di tartaruga, pesci affumicati: donne della selva, poco vestite, spesso in atteggiamenti o pose sensuali, di una sensualità istintiva e animalesca, ben diversa dal chiuso ritegno del mondo andino, dal quale sembra separarci un abisso. Ma il Perù è anche questo, questa enorme differenza, queste diverse facce legate al clima e alla storia. Le banane cotte alla brace, accanto alle zampe di gallina o alla yucca fritta, su bidoni arrugginiti trasformati in cucine volanti ai lati della strada, hanno un aspetto e un profumo appetitoso; ma ci asteniamo dal prenderne, Kiko e Roberto per mancanza di tempo, io per il timore che sempre si collega a questa cucina "spontanea" dei paesi sottosviluppati. Lasciando la strada principale, ci addentriamo tra le palafitte, passando su tronchi scivolosi immersi nel fango. Bambini malnutriti ci guardano curiosi dalle porte, avvoltoi volano in ciclo, si posano sui tetti delle capanne, coperti di foglie di banano sovrapposte. Di nuovo al mercato, riprendiamo i disperati sforzi di una tartaruga, sdraiata a pancia in aria su un banchetto, di rovesciarsi, facendo leva sul becco, per tentare un'impossibile fuga. Un pescatore porta sulle spalle un pesce gigantesco, la cui coda si trascina per terra e la testa sovrasta di parecchio quella del portatore. Sta già calando, implacabile, il buio (il crepuscolo è rapidissimo), ed è lo stesso Kiko, che certo non si tira indietro, a decidere di uscire dalla bolgia, e a puntare sullo slargo dove ci aveva lasciato il taxi e dove, con due carrozzelle moto-trainate (una specie di variante di risciò orientale), raggiungiamo l'albergo che si affaccia direttamente sul grande fiume. Giovanna, Giacomo e Julip, lasciati i bagagli in albergo, sono partiti alla ricerca di un missionario, amico di Paolo, che dovrebbe darci informazioni sulle tribù indigene della zona. Purtroppo il padre è all'estero e un antropologo cortese e sbrigativo dice che per avvicinare "selvaggi non contaminati" dovremmo scendere un affluente del Rio delle Amazzoni per 8 giorni portandoci la benzina per il ritorno. La cosa è irrealizzabile, e all'ufficio Foptur il cordialissimo direttore si offre di procurarci un piccolo aereo per pochi (dice lui) dollari. Ci diamo appuntamento col pilota dopo cena in albergo. Ricomincia a piovere. Nel ristorante dell'albergo aspettiamo inutilmente l'uomo dell'aereo, che doveva venire alle otto. Infine, riguadagniamo le nostre camere. Non sarà una notte tranquilla. Verso le due un rigagnolo d'acqua comincia a cadere dal soffitto (la pioggia ha allagato la stanza soprastante e l'acqua filtra fino a noi), e dobbiamo restringerci in due letti. giovedì 10 agosto Oggi si va a cercare i "selvaggi" della selva, quelli che Raimondi per primo descrisse, comprendendone la specificità e umanità: «Molto si è scritto e parlato di questi selvaggi, e molto se ne è esagerata la ferocia. In ogni società umana si trovano buoni e cattivi: moltissimi selvaggi hanno indole benevola e possono diventare ottimi amici. Quelli che non hanno mai avuto contatti con la civiltà sono come bambini maleducati: alcuni naturalmente buoni di carattere, altri cattivi. Ma i selvaggi veramente pericolosi sono quelli che hanno già avuto contatti con gli uomini cosiddetti civilizzati, che col pretesto di civilizzare anche loro ne hanno invaso le case e distrutto le colture; li hanno spogliati dei loro terreni e cacciati come animali feroci. Questi infelici hanno ricevuto solo danni dalla civilizzazione. Se noi li chiamiamo selvaggi solo perché non sono battezzati e vivono indipendenti nelle loro foreste, essi ci considerano uomini perfidi e malvagi». Iquitos è allagata, sui muri delle case una muffa scura (per la troppa umidità) annerisce gli edifici. Il direttore del Foptur ci annuncia che dato il tempo non si può volare, ma che un "yanqui" che organizza giri sul fiume ci può condurre dagli Aguas, una tribù relativamente civilizzata. L'americano ci attende in un ufficio con le pareti rivestite di bambù e pieno di animali imbalsamati. Viene dalla California ma, ci dice, il suo personale "el dorado" l'ha trovato in Perù. Vive ad Iquitos da 30 anni e non cambierebbe per nessuna altra parte del pianeta. Ci sono dei problemi, aggiunge: "Oggi per esempio ho dovuto ritirare dalla banca tutti gli intis, d'ora in avanti lavorerò solo in dollari". Stipulato il prezzo in dollari partiamo subito su di un autobus senza finestrini alla volta dell'imbarcadero. Ci imbarchiamo a Bellavista, sul fiume Itaya: un barcone, coperto come le capanne da un tettuccio di foglie, che trasporta una quarantina di turisti. Noi conquistiamo la posizione di prua, per piazzare la telecamera. La barca punta in direzione della confluenza dell'Itaya col Rio delle Amazzoni, dove il fiume si allarga, formando come un lago sconfinato. Passiamo accanto ad alcune piroghe di pescatori, che emergono solo di pochi centimetri dal pelo dell'acqua, tanto che quando gettano le reti sembra che debbano capovolgersi o affondare. Ci domandiamo come sarà il Rio alla foce, se già qui, 4000 chilometri prima, appare così smisurato. Ma questa era solo una puntata veloce: la vera meta del barcone, a cui siamo per forza di cose legati, è un lodge nella giungla. Abbiamo appena iniziato a percorrere le tortuose serpentine con cui si snodano i fiumi nella pianura assolutamente piatta (Iquitos è a soli cento metri di altezza sul livello del mare), che comincia a piovere a dirotto. È suggestivo viaggiare così, con il paesaggio coperto come da un velo acqueo, ma cosa faremo all'arrivo? La telecamera si è comportata benissimo con la polvere, ma il suo "cuore" elettronico non sopporta l'eccessiva umidità. Quando sbarchiamo al pontile di legno del lodge, costruito con le strutture e la tecnica delle capanne indigene su palafitte, sta ancora diluviando. Approfittiamo dei passaggi coperti per fare qualche ripresa dell'esterno, ci mettiamo in fila coi turisti per procurarci, a un rudimentale self service, un piatto più o meno tiepido da mangiare. Verso le due, improvvisamente, spiove. La nostra guida locale ci dice: "O adesso o mai più!". Così ci svestiamo in fretta, lasciamo i vestiti ad asciugare al lodge, e in costume da bagno e K-Way, con una certa dose di incoscienza, ci incamminiamo veloci, lungo una "trocha", come qui chiamano i sentieri nella giungla, verso il vicino villaggio. Gli insetti e i serpenti, di cui tanto parla Raimondi, e che fanno parte dell'immaginario collettivo sull'Amazzonia, non ci sono: o forse sono al riparo o hanno altro da fare. Dopo circa un quarto d'ora di marcia nella foltissima vegetazione, siamo al villaggio degli Aguas: tre o quattro capanne, intorno a una radura deserta. Ma subito cominciano ad apparire bambini nudi, donne coperte solo da un gonnellino e cariche di collanine, e anche un paio di uomini, con uno strano copricapo e un gonnellone di paglia, sotto il quale si intravedono però gli slip. Giacomo ci si avvicina guardingo e ci bisbiglia nell'orecchio ciò che ha visto: quello che per la solennità del portamento e la lunga cerbottana di cui è armato sembra un capo, era poco fa all'interno della sua capanna, tappezzata di manifesti, in jeans e maglietta, e si e messo in maschera solo per noi. D'altra parte, non abbiamo molta scelta, dobbiamo girare una scena chiave del documentario e a sera abbiamo già fissato il volo di ritorno. Contrattiamo quindi con il capo - vero o presunto - la sua esibizione, che ha ancora una volta come filo conduttore le parole di Raimondi: «In genere si ha un 'idea molto falsa dei selvaggi, credendoli più stupidi di quanto siano realmente. Non dimenticherò mai i ragionamenti fattimi da un "selvaggio" sui vantaggi della sua arma - la cerbottana - sopra le nostre. Mi faceva notare che il fucile faceva rumore; quindi, se e 'erano molti uccelli su un albero, ne poteva uccidere uno o due, mentre gli altri scappavano; invece con la cerbottana, che non fa alcun rumore, poteva ucciderli quasi tutti uno ad uno senza spaventarli. Inoltre mi diceva che il fucile faceva molto fumo, che indicava da dove veniva il tiro, cosa che non succedeva con la sua cerbottana, con cui poteva uccidere un nemico senza essere scoperto». In effetti il "selvaggio" è bravissimo, e il risultato, per chi non lo sa, non è diverso che se fosse stato girato nelle più sperdute tribù della giungla. Per le riprese in canoa, un altro indio si cala con agilità da un enorme tronco che collega le due rive di un ruscello, in una piroga scavata in un tronco. È talmente instabile che quando Kiko ci entra, pur con la sua gattesca agilità, sembra che stia per rovesciarsi con telecamera e tutto, ma il "selvaggio" la manovra con leggerezza e abilità. I due si allontanano, mentre noi rimaniamo a chiederci cosa sia meglio per questa piccola tribù, se rimanere rintanati nella foresta impenetrabile o accettare questi piccoli compromessi "turistici" che riflettono su di loro almeno un po' di benessere e qualcuna delle piccole comodità della nostra "civiltà". Infine Kiko fa ritorno, il nostro compito è assolto, possiamo riprendere il sentiero per il lodge, e da qui la barca che torna verso Iquitos, lasciando a una notte umida (ma con il fascino dell'avventura tropicale) i nostri vecchi compagni di viaggio. Adesso che ha smesso di piovere, e soprattutto che non abbiamo più paura di non farcela, riusciamo a cogliere (e a riprendere) il fascino più profondo della giungla, quello che aveva ispirato a Raimondi alcune pagine di grande bellezza e suggestione: «Procuratami una canoa, scavata in un tronco d'albero, e i rematori necessari, lasciai la marcia terrestre, con tutte le sue fatiche, e mi imbarcai per proseguire il viaggio per acqua. I tronchi intrecciati di liane, inclinati sul fiume, formavano un magnifice corridoio naturale, sotto il quale scivolava la canoa, per le acque tranquille e scure. Una muraglia di folta vegetazione s'alzava ai due lati dalla superficie dell'acqua, formando grotte o antri oscuri. Gli alberi, coperti di piante rampicanti, presentavano le forme più capricciose, raffigurando piramidi, archi e oscure caverne. Pappagalli e scimmie si nascondevano fra il fogliame. Sulle rive, il ripugnante e vorace coccodrillo, continuamente in agguato di qualche vittima. La solitudine e il profondo silenzio che regnavano, facevano sorgere nella mia immaginazione l'idea di boschi primitivi di epoche anteriori all'apparizione dell'uomo. Mi pareva che l'animo mio si dilatasse come il fiume si allargava. E se è vero che molto avevo sofferto viaggiando per quel mondo primitivo, posso dire che avevo anche molto goduto, poiché si erano realizzati pienamente i sogni della mia infanzia, di vedere quei fiumi vorticosi, quella vegetazione impenetrabile, senza traccia alcuna dell'uomo civilizzato». Lo sbarco a Bellavista, il ritorno all'aeroporto di Iquitos, il solito ritardo e la lunga attesa in fila; improvvisamente risolta, quando sta per ricominciare a piovere: l'aeroporto non è abilitato in caso di maltempo e l'equipaggio ci imbarca in fretta e furia. Decolliamo sorvolando la nera e silenziosa foresta per sfuggire al temporale e arriviamo che è ormai quasi mezzanotte a Lima. 6. Ande venerdì ll agosto È una giornata di riposo: un solo appuntamento, con l'Ambasciatore italiano, che informato della nostra presenza e degli scopi del nostro viaggio vuole conoscerci. Incontriamo una cooperante italiana, sociologa; è venuta in Perù per tre mesi a pianificare un corso di formazione professionale (che fa parte del progetto di Lactesa) per gli allevatori di bestiame della zona di Tarapoto. Pare che dopo le minacce di Sendero ai cooperanti stranieri troppo impiccioni, la nostra ambasciata le abbia sconsigliato, o meglio proibito, di andarci perché troppo pericoloso. Rimaniamo perplessi: siamo appena tornati da Tarapoto con Giacomo, abbiamo girato liberamente nelle campagne, non abbiamo mai avuto problemi. La pericolosità del Perù resterà per noi, fortunatamente, solo una favola. Del resto, siamo troppo occupati a prepararci per il prossimo balzo del nostro viaggio instancabile. Si calcola che Raimondi abbia percorso, in diciannove anni di viaggi, oltre 45.000 chilometri. Noi ne faremo, in quaranta giorni, più o meno 12.000, a piedi, in barca, in automobile, in aereo. Eppure avremo così solo un piccolo assaggio di quello che è il vero Perù. sabato 12 agosto Partiamo la mattina in aereo da Lima alla volta di Puno, lasciando Giacomo che ci raggiungerà qualche giorno dopo al Cuzco. È un volo decisamente inconsueto. L'aereo, data la carenza di velivoli, ci porta ad Arequipa, dove ci sbarca con tutti i nostri bagagli, per proseguire per il Cuzco, da dove ritornerà ad Arequipa, per poi rimbarcarci e scaricarci infine all'aeroporto di Juliaca, a 4000 metri di altezza e a quaranta chilometri da Piino. Sembra quasi fatale che in questo vorticoso giro qualcosa non funzioni, e in effetti all'arrivo ci accorgiamo che manca una cassa, forse la più importante, che contiene le batterie, il caricabatterie e le cassette; ma l'aereo è già ripartito alla volta di Arequipa. Per fortuna deve poi tornare a Puno, così riusciamo ad avvertire via radio il comandante, che abbiamo conosciuto durante il volo quando ci ha ammessi in cabina per le riprese aeree. Ma a questo punto sorge un altro inconveniente: non abbiamo la conferma per il volo di ritorno! Questo è un bel problema, perché tra due giorni ad Arequipa si svolgerà la Feria che festeggia il 449° anniversario della fondazione della città. I due problemi vengono risolti insieme, alla peruviana, quando l'aereo ritorna e il comandante, nel riconsegnarci personalmente la cassa, ordina perentoriamente al caposcalo di trovare un posto per i suoi amici, cosa che puntualmente avviene, forse a scapito di qualcuno che ha prenotato e rimarrà a terra. Alla fine di tutto questo trambusto, noleggiamo un taxi - una Ford anni 40 - e ci facciamo portare verso Puno, passando prima da Sillustani. Ma siamo tutti un po' sfiatati, e quando l'auto si ferma all'ingresso della zona archeologica, ci guardiamo in faccia dubbiosi, infine, con grande sforzo, scendiamo. Per fortuna la giornata è splendida, il sole sfolgorante fa stagliare nette contro il cielo le "chulpas", delle strane torri di pietre squadrate, rastremate in basso, che sono forse antichi monumenti sepolcrali. A Sillustani ce ne saranno almeno un centinaio, su una collina collocata in bella posizione tra un lago e uno stagno, alcune molto ben conservate, e tutte, come già osservava Raimondi, "con una piccola porta a livello del suolo orientata verso Est." Un gruppo di turisti americani, con una solerte guida, visita minuziosamente le "chulpas" una per una, attorniato da bambini locali che cercano di impietosirli anche con l'aiuto di un piccolo lama e di scucire loro qualche dollaro. Siamo ormai nella zona "classica" del turismo internazionale in Perù, e soprattutto ad Arequipa verremo letteralmente perseguitati dalla presenza di una miriade di turisti italiani, anch'essi, a loro insaputa, sulle tracce di Raimondi. Arriviamo a Puno verso le quattro, piuttosto distrutti, e prendiamo posto, ironia del caso, all'Hotel Italia. "May calefacion?" chiediamo per prima cosa, e ci viene risposto di sì. L'unica fonte di riscaldamento della camera è però una piccolissima serpentina elettrica, grande come una lampadina, appena sufficiente a mantenere la temperatura intorno ai 16°. Troviamo la forza per andare al porto a contrattare una barca per il giorno dopo, poi piombiamo tutti in una specie di torpore, accompagnato da mal di testa e nausea, che è il segno caratteristico del "soroche" provocato dalla grande altezza (quasi 4000 metri). Dicono che la zona del Titicaca sia, in questo senso, particolarmente pesante; anche perché non siamo arrivati a questa altezza gradualmente, ma sbarcando direttamente dalla cabina pressurizzata dell'aereo, e ci siamo dati subito da fare per risolvere i problemi urgenti: cassa delle batterie e biglietti. È forse questa la causa della spossatezza che ci accompagnerà, in misura minore, anche il giorno dopo. domenica 13 agosto Siamo al porto di Puno, nelle prime ore del mattino gelido e luminosissimo, sul grande lago Titicaca che si stende davanti a noi sconfinato e di un blu intenso, come il mare omerico "colore del vino". Il comandante del barcone, che abbiamo noleggiato per portarci alle isole degli Uros e poi a quella di Taquile, chiede se possiamo dare un passaggio a quattro "campesinos" che aspettano, in deferente attesa, sul molo. Non abbiamo niente in contrario, ma ci troviamo ben presto invasi da una piccola folla, 16 persone tra uomini donne e bambini (tra cui alcuni lattanti), che riempie praticamente tutta la parte semicabinata dell'imbarcazione (dove i barca-ioli dormono la notte). Il lago si stende tranquillo tutto intorno a noi, mentre il battello scivola dolcemente sull'acqua, illuminata dai barbagli del sole ancora basso sull'orizzonte. Dopo un'oretta di navigazione, ci accorgiamo di aver saltato le isole degli Uros e di puntare dritto su Taquile. Si accende una animata discussione con il comandante, da cui comprendiamo che la navigazione sul lago è stata praticamente divisa territorialmente tra due compagnie, e che quindi non possiamo andare dagli Uros come ci era stato promesso (e come avevamo pagato). Quindi decidiamo, con sconcerto del comandante e della piccola tribù di ospiti, di ritornare al porto, dove con l'intervento della Capitaneria sblocchiamo la situazione in questo modo: una barca della compagnia abilitata ci porterà dagli Uros, e poi in mezzo al lago, in "terra di nessuno", trasborderemo di nuovo sul nostro primo battello. In questo modo però abbiamo perso alcune ore, e siamo costretti a visitare e a riprendere abbastanza velocemente le famose e un po' deludenti isole galleggianti, fatte di "totora", lo stesso giunco adoperato dai pescatori di Huanchaco per i loro "caballitos" (ai quali assomigliano molto anche le barche locali, che sono però munite di sponde per cui i pescatori rimangono all'asciutto). La cosa più notevole non è tanto il folklore e l'artigianato, ormai guastato dalla eccessiva presenza di turisti, ma la strana sensazione che si prova camminando su un suolo che si muove, galleggia, respira sotto ogni singolo passo. Ed eccoci infine avviati, dopo il trasbordo (i passeggeri "abusivi" non ci sono più), verso la, ahi noi, lontanissima isola di Taquile, dove arriviamo solo verso le due del pomeriggio, dopo 7 ore di barca a motore a stomaco vuoto. Per le 15 dobbiamo ripartire per Puno, perché al tramonto scatta il coprifuoco (tutto questo lo apprendiamo solo ora, un po' tardi forse). Taquile ci appare come un'isola greca in mezzo al Mediterraneo, con una ripidissima scalinata d'accesso in mezzo a campi terrazzati e divisi da bianchi muretti di pietre, che parte diritta dall'imbarcadero, e che noi affrontiamo sbuffando. Non riusciremo a raggiungere in tempo il villaggio, ma facciamo belle riprese di contadine che salgono e scendono, coi loro costumi tipici: ampia gonna di lana blu scurissimo, e scialle dello stesso colore rallegrato da pon-pon coloratissimi ai bordi. L'artigianato tessile a Taquile è molto sviluppato ed ha mantenuto caratteristiche particolari perché un po' fuori dal circuito turistico. Durante le lunghe ore di navigazione del ritorno l'equipaggio trascorre il tempo lavorando a maglia con incredibile abilità. Dalle mani callose di questi uomini escono fasce e berretti con arabeschi coloratissimi di piante, fiori, uccelli. L'abbigliamento tradizionale degli uomini si compone di pantaloni di lana blu pesanti, con uno spacco in fondo da cui si intravedono i bianchi mutandoni di cotone, una camicia bianca senza collo con ampie maniche, una fascia in vita, finemente lavorata, alta circa 20 centimetri (che serve, ci spiegano, per riparare la schiena dal freddo e per sopportare i pesi), un berretto in lana con gli stessi motivi della fascia (che ricorda i nostri berretti sardi col fiocco in punta). Il comandante ha scordato l'incidente del mattino e ci offre del mais bollito che mangiamo avidamente con gli altri uomini, prendendolo direttamente dal pezzo di tela in cui è avvolto. Raggiungiamo di nuovo Puno prima che il sole cada dietro le montagne in un tramonto infuocato. La zuppa calda dell'albergo ci sembra particolarmente buona dopo una giornata che avrebbe dovuto essere tranquilla, ma che in realtà si è rivelata molto faticosa sia per gli imprevisti sia per l'altezza. lunedì 14 agosto Dopo la solita lunga attesa all'aeroporto di Juliaca ci imbarchiamo per Arequipa, la seconda città del Perù, posta sull'altopiano meridionale e circondata da tre vulcani coperti di neve, che per la gentile collaborazione del pilota, che fa deviare due volte l'aereo dalla rotta, riusciamo a riprendere molto bene. La città è strapiena per la "Feria". I telefoni non funzionano e manca l'elettricità per il sovraccarico. Troviamo dopo molte peripezie alloggio, come primi clienti, in una comoda villa che, date le attuali difficoltà economiche del Perù, i proprietari hanno deciso di trasformare in albergo, e dove saremo trattati magnificamente. Ci rechiamo al Convento di Santa Catalina, il monumento più straordinario della città, più ancora della barocca Chiesa della Compagnia, con i suoi grandi chiostri e i suoi affreschi cusquegni. Più che di un convento, si tratta di un quartiere della città spagnola rinascimentale, chiuso nel 1540 all'arrivo delle monache e trasformato in un convento di clausura, quindi rimasto immodificato per oltre quattro secoli, fino alla sua apertura (parziale) al pubblico nel 1970. Nelle sue stradine lastricate, nelle case basse con patio dove abitavano le monache, intervallate da chiostri e slarghi, nei suoi colori vivaci, si respira l'aria dell'Andalusia; ma conservata con una perfezione che in Spagna, per forza di cose, non si trova più. Cucine, mobili di legno intagliato, arredi: sembra che le monache siano appena uscite, e debbano ritornare da un momento all'altro. Qui ci si presenta un grosso problema, grave tanto quanto un eventuale furto: la telecamera non funziona bene, rivedendo nel mirino il materiale girato si notano strane strisce. Kiko decide di andare a smontarla in una televisione locale. Noi, sperando di poter riprendere presto a girare, organizziamo il piano di lavoro nei dintorni: Pampa Canagua dove dovremmo trovare nel loro ambiente naturale le vigogne e le alpache, specie di camelidi il cui pelo ha il calore della lana e la lucentezza della seta. Le vigogne (il cui vello era destinato ad esclusivo uso dell'Inca), sono protette da una speciale legge che ne vieta la caccia; le alpache invece vengono allevate allo stato semi brado, e la fibra viene comprata ai campesinos ad un prezzo irrisorio da una multinazionale a maggioranza italiana e lavorata nel biellese per poi essere commercializzata come prodotto di lusso. Ci incontriamo col prof. Alejandro Medina Malaga, ex rettore della locale università, che è uno degli "scopritori" del canon del Colca. Siamo molto incuriositi e dopo il suo racconto quasi decisi ad avventurarci in questa valle fuori dal tempo, profonda due volte quella del Colorado, dove nidificano i condor, animale simbolo del Perù. La valle dista da Arequipa sei-sette ore di camionetta su strada sterrata, insicura negli ultimi tempi per via dei banditi, che hanno cominciato ad assalire i pulmini dei turisti più avventurosi che si spingono fin lì. La sera, Kiko è preoccupato: non ha trovato la causa del difetto, ed è impossibile controllare il girato perché il sistema televisivo adottato in tutta l'America Latina, è incompatibile con il nostro europeo, e per problemi di peso abbiamo lasciato il nostro monitor a Lima. Nonostante i suoi dubbi, riprendiamo nella monumentale e perticata Plaza de Arrnas la sfilata dei musicisti di Puno, venuti a salutare Arequipa con una danza/marcia cadenzata ed epica, al suono di tamburi e di zampogne di canna. Poi ci spostiamo nel vallone, dove una folla strabocchevole si accalca intorno ai "castillos" di fuochi artificiali, che accesi illumineranno l'aria col loro bagliore. Tornando in albergo Kiko prova a chiamare in Italia, per chiedere una telecamera di ricambio, ma è la notte di Ferragosto e non trova nessuno. Decidiamo così di mandare Kiko all'agenzia Sony di Lima. martedì 15 agosto Così come era difficile arrivare ad Arequipa per la Feria, è altrettanto difficile partirne. Kiko si è piazzato all'aeroporto, pronto a saltare sul primo posto vuoto per Lima. Noi, non avendo niente da fare, andiamo alla ricerca di un vecchio amico insegnante, che partecipa con gli alunni del suo collegio alla grande sfilata per il compleanno della città. Quando rientriamo accaldati e stanchi abbiamo la faccia bruciata dal sole, sotto il quale abbiamo camminato per ore a 2400 metri di altezza. Kiko dà notizie di sé solo a tarda notte: ha scoperto che era un difetto di rilettura del mirino. Passato il pericolo, si accinge a tornare, col volo di mezzogiorno, l'unico disponibile. mercoledì 16 agosto Rifacciamo i nostri piani: Giovanna partirà giovedì, come previsto, per Cuzco, dove incontrerà Giacomo, e organizzerà i tre giorni che dobbiamo trascorrere lì. Noi posticiperemo, per recarci almeno a Pampa Canagua, dove si allevano alpaca e vigogne (per il Colca ci vogliono almeno due giorni, per non viaggiare di notte, e decidiamo a malincuore di rinunciare). Nel primo pomeriggio aspettiamo Kiko all'aeroporto: dovrebbe arrivare con il volo della Fawcett, la compagnia aerea privata, ma all'improvviso ci comunicano che il volo è stato annullato. Aspettiamo l'arrivo di Aeroperù, sempre più preoccupati: invano. Tornando alla nostra camionetta, abbiamo la sorpresa di trovarla già occupata: vi ha preso posto il senatore Caceres, fratello del sindaco di Arequipa, con moglie e figli, invitati ufficiali al "Festidanza". Doveva arrivare con il volo annullato, ma evidentemente avvisato in tempo è riuscito a imbarcarsi - lui sì - con Aeroperù. La nostra auto è la sola presente all'aeroporto, il telefono non funziona. Così, un po' stipati, portiamo il senatore, famiglia e bagagli in città. In serata, ci rechiamo anche noi, come invitati della stampa estera, al Coliseo, in mezzo a una folla strabocchevole, per l'inaugurazione di "Festidanza", una settimana di balli tipici dell'America Latina, mordendoci le mani perché non possiamo riprendere. In albergo troviamo un messaggio di Kiko: arriverà la mattina dopo alle otto, con lo stesso volo con cui Giovanna proseguirà per il Cuzco. giovedì 17 agosto Salutiamo Giovanna in partenza, e con Kiko finalmente tornato ci dirigiamo ai bagni di Yura, una delle tanti sorgenti termali scoperte e descritte da Raimondi (abbiamo dovuto rinunciare anche a Pampa Canagua). Poi andiamo alla collina di Yanahuara, da dove si ha una bella vista sulla città. A passo di carica torniamo in centro a riprendere le chiese barocche e a completare Santa Catalina. Ci sembra insomma di aver recuperato parte del tempo perduto, quando Ki-ko ha una specie di collasso: la tensione per il problema tecnico, l'insonnia, lo hanno piegato. In albergo, chiamiamo un medico. Dopo un paio d'ore e qualche aspirina è già arzillo e pronto a ricominciare. A Festidanza, riusciamo a fare delle riprese molto belle: una marinerà della costa e un paio di huayno delle Ande, tutto materiale folkloristico assolutamente inedito in Italia. A un certo punto vediamo un gran movimento di spettatori che escono fuori a guardare: c'è un'eclisse totale di luna, ma quando usciamo anche noi è già finita. venerdì 18 agosto L'arrivo al Cuzco è tranquillo. Giovanna ci attende all'aeroporto con un vecchio pulmino Dodge giallo a 12 posti con autista, e con quello che sarà il nostro accompagnatore: Josè Tito Valenzuela, un giornalista di Cuzco che Giovanna ha contattato e che parla perfettamente quechua. "In un bell'anfiteatro di montagne - scrive Raimondi - si eleva la Roma d'America, la gran città del Cuzco. Il suo nome in lingua quechua significa "ombelico", perché era il centro dell'Impero degli Incas e di tutto il mondo da loro conosciuto, che chiamavano infatti Tawantisuyu, le quattro pani del Mondo. Gli instancabili conquistatori, valicando la cima della cordi-gliera che, come un 'immensa barriera, separa le acque dei due mari Pacifico e Atlantico, furono artefici del più sorprendente e audace fatto d'armi che registra la storia di quell'epoca. Un pugno di avventurieri distrusse in breve tempo quell'impero: crimine nefando, che mai la stona perdonerà ai suoi autori e che solo si può giustificare con l'ambizione, la sete di oro e ricchezza, il fanatismo religioso, l'ignoranza e le terribili circostanze nelle quali si trovarono gli autori di un tale tragico avvenimento." Così, oltre un secolo fa, il milanese che ha esplorato tutto il Perù prendeva posizione su un tema attualissimo proprio oggi, alla vigilia del Quinto Centenario della Scoperta dell'America, che gli indiani americani considerano però una Conquista. Il ciclo oggi è plumbeo. Dicono che in inverno sulla Sierra e nella Selva non piove (sulla Costa non piove mai in tutto l'anno): noi invece incappiamo in un continuo maltempo. Senza quasi fermarci ci buttiamo a riprendere la città: la Plaza de Armas (con una manifestazione prò-vaccinazione dei bambini delle scuole), le vie incaiche del centro, Santo Domingo, costruita sul Coricancha, il tempio d'oro degli Incas, del quale un terremoto ha portato qualche anno fa alla luce le strutture interne. Giacomo ha sofferto molto il giorno prima, all'arrivo, a causa dell'altezza, ed è ancora piuttosto afflosciato. L'autista del vecchissimo pulmino veste con una curiosa e ricercata eleganza d'altri tempi. Come poi sapremo, è un "maestro tagliatore", cioè un sarto; ha studiato a Londra prima della seconda guerra mondiale, e sarebbe in grado di fare un vestito da uomo su misura in due giorni, vogliamo approfittarne? Ci portano sulle montagne che circondano Cuzco, in una villa che ospita un piccolo museo privato di costumi, e da cui si ha uno splendido colpo d'occhio sulla vallata al tramonto. sabato 19 agosto Partiamo prestissimo per la grandiosa fortezza di Sacsahuaman, che proteggeva Cuzco e che fu teatro di furibondi combattimenti quando gli indios insorti contro gli Spagnoli cercarono di riprendere il controllo della città. Anche Raimondi aveva qui sentito profondamente l'importanza e la grandezza di una cultura che i Conquistadores avevano cercato di distruggere completamente: «Quando si ammirano questi blocchi di pietra dura, tanto finemente lavorati e giustapposti con perfezione, che formano le mura che fiancheggiano le vie; quando si osservano le ciclopiche masse di cui si compone la celebre fortezza di Sacsahuaman che domina la città; quando si considera che per questi lavori non vennero usati strumenti di ferro, si resta attoniti, l'immaginazione si confonde e si perde in un labirinto di ipotesi cercando il modo come poté essere portata a termine un opera cosi colossale». Oggi Giacomo è andato con degli amici a Machu Picchu. Non fa parte del nostro programma perché venne scoperta, nella giungla, solo nel 1911, quindi almeno una quarantina d'anni dopo che Raimondi passò per l'ultima volta da queste parti. Per di più a Machu Picchu (ci siamo stati tre anni prima) è praticamente impossibile riprendere o fotografare qualcos'altro che non masse di turisti intruppati per le poche ore che separano l'arrivo con il trenino dal momento del ritorno. La strada che esce da Cuzco per Sacsahuaman è invece deserta, perché il giorno canonico per questa escursione è la domenica, quando c'è il mercato a Pisac. Ma per noi va benissimo così, perché possiamo lavorare liberamente, addentrarci nei labirinti di roccia del santuario di Kenko, riprendere la imponente fonte di Tambo Machay. Tutti questi sono posti facilmente raggiungibili. Per Pisac "vecchio", che sovrasta a strapiombo l'omonimo villaggio lungo l'Urubamba, bisogna invece salire lungo una strada tortuosa e poi, a piedi, proseguire a mezza costa, lungo le "andenes", terrazze incaiche da cui prendono nome le Ande. In compenso il panorama è stupendo, l'aria limpida e dolce, benché si sia a 3800 metri, le rovine maestose: in realtà, come per Machu Picchu, non di rovine si tratta, ma di una città perfettamente conservata: avamposti per la difesa, magazzini, palazzi, templi, in pietra grigio rosa tagliata con precisione; mancano solo i tetti, che, essendo di paglia, non hanno resistito al tempo. Ricordiamo con quanta fatica alcuni anni prima ci siamo inerpicati quassù (secondo le credenze incaiche, l'altare delle offerte di Pisac viejo è uno dei quattro punti che sostengono il firmamento). Ora, forse più allenati a queste altezze, possiamo godere meglio la severa bellezza del luogo. Ridiscesi ci fermiamo nella piazza di Pisac per un breve spuntino, e proseguiamo lungo l'Urubamba, nella valle sacra degli Incas, fino alla fortezza di Ollantaytambo, che si eleva con i suoi gradoni minacciosi e le sue pietre tagliate a filo, a chiudere la valle nella quale si rifugiarono gli ultimi Incas per sfuggire agli Spagnoli. Qui resistettero per quarant'anni, nella mitica città di Vilcabamba, che alla fine venne presa e distrutta, ma non si è ancora certi che sia stata esattamente identificata dagli archeologi. Uscendo dalla fortezza incontriamo un gruppo di "cargadores", ragazzi che per uscire dalla monotona vita dei loro villaggi si uniscono in piccoli gruppi che effettuano trasporti a spalla nelle impervie zone di montagna. Sono riconoscibili per i loro costumi vivacissimi: poncho rosso e chullo (il berretto con paraorecchie tipico della sierra), ornati con complicati disegni e impreziositi da decine di bottoni. Sono allegri e ciarlieri dopo una generosa bevuta di chicha, la bevanda fermentata di mais; purtroppo solo José Valenzuela può comunicare con loro in quechua. Muraglie e andenes incaiche anche nella cittadina di Chinchero, dove in un cortile troviamo tre generazioni di donne - nonna, mamma e figlia - che tessono in comune uno di quei teli a vivaci colori che stanno sulle spalle di quasi tutte le donne indie, che nascosto nel fagotto portano il carico dell'ultimo nato. Ma lo spettacolo più emozionante, non archeologico ma antropologico ed etnografico, lo scopriamo nella vallata subito sotto il paese, dove un gruppo di uomini e donne, dividendosi il lavoro come un rito collettivo di amore per la terra, calpestano l'orzo tagliato con un mulo, e poi lo puliscono con gesti sacrali, come una cerimonia di riconciliazione con la natura, nella dorata e magica luce del tramonto. domenica 20 agosto Usciamo da Cuzco in direzione del Titicaca, seguendo il tragitto del treno. Nella chiesa barocca di San Sebastian, frequentata dalle donne che accorrono devote alla messa, non sono ancora arrivati i primi raggi del sole che tra poco faranno brillare gli argenti e le dorature dell'altare. Stridente è il contrasto con la modestia della chiesetta di paglia e fango del piccolo villaggio di Huasao, trenta chilometri più in là, dove ci fermiamo alla ricerca di un rinomato "curandero", che pare sia ubriaco fradicio e non può riceverci (non sappiamo se questa sia una scusa o un modo di allontanare estranei come noi). Con l'aiuto di Valenzuela riusciamo a grattare la superficie del velo, invisibile ma tenace, che divide noi, bianchi, dagli indios che continuano a vivere sulla loro terra in un mondo a parte, come cinque secoli fa. Nella piazzetta sterrata del villaggio, sull'uscio di casa, una mamma lava tra pianti e strilli i suoi bambini nell'acqua gelata del torrente, un contadino passa trasportando sulla schiena un gigantesco carico di foglie di mais, un altro si avvia verso i campi con un otre di chicha: in spalla ha un aratro di legno. Seguendolo ne incontriamo altri, stanno aggiogando i tori con una tecnica che da noi risale a prima del mille, non al petto ma direttamente alle corna. Uno dei tori, forse disturbato dalla nostra presenza, muggisce e gratta la terra, furioso. Ma è costretto anche lui a cedere al giogo, e l'aratura inizia, solenne nella sua perfetta integrazione con la natura circostante. Nel campo vicino un altro gruppo di contadini lavora, sempre collettivamente, la terra con il chakitaclia, l'antica vanga india così ben disegnata da Poma de Ayala: una semplice lama che rompe la zolla, che deve poi essere girata a mano. "Se guardiamo a tutti coloro che hanno contribuito al progresso delle scienze naturali in Perù - scrive Raimondi - ci vediamo obbligati a considerare gli Indios come i primi naturalisti. In effetti essi hanno una inclinazione particolare allo studio della natura; e benché non si servano dei metodi scientifici moderni, si vede che fin dalla remota antichità gli oggetti naturali, in particolare le piante, hanno richiamato l'attenzione dell'Indio; che investigando le loro proprietà ha saputo trarre giovamento da un gran numero di esse, utilizzandole nell'economia domestica, nelle tinture, nelle costruzioni, e soprattutto nella cura delle diverse infermità che affliggono l'umanità. Così come hanno anche tratto da alcune piante alimentari, come le patate e il mais, maggior giovamento degli europei." Nella umiltà con cui si accostò, libero da pregiudizi, al mondo degli indios, che allora, e in parte ancora oggi, venivano considerati poco più che bestie, sta uno dei meriti maggiori di Raimondi, e uno degli elementi di maggiore modernità della sua opera. Il nostro viaggio procede visitando un antico forno di Oropesa, che rifornisce ancora oggi di pane squisito la città del Cuzco. Più in là, a Piquillacta, attraversiamo le porte gemelle che si aprono nella gigantesca muraglia che sbarrava la valle, e difendeva la capitale degli Incas da eventuali attacchi provenienti da quella direzione. Arriviamo fino al piccolo lago di Urcos, nel quale, secondo la leggenda, venne buttata la gigantesca catena d'oro dell'Inca Huascar, che nonostante tutti i loro sforzi gli Spagnoli non riuscirono mai a trovare. Nel villaggio di Urcos si sta svolgendo il mercato domenicale: grandi sacchi di coca, patate, sementi, erbe curative o magiche, qualche tessuto. Qui non c'è niente di turistico, qui è ancora diffuso il baratto; donne e ragazze portano con orgoglio il proprio costume tipico, non per esibirlo, dato che anzi si nascondono alla nostra telecamera. Ci piacerebbe stare un po' lì, aggirarci tra i banchetti, parlare con la gente nella loro lingua con l'aiuto del bravo Valenzuela; ma comincia a piovere a dirotto, e in un fuggi-fuggi generale tutti corrono a ripararsi. Torniamo al nostro pulmino per far ritorno a Cuzco, dove arriviamo verso sera e ci congediamo definitivamente dall'amico giornalista. 7. Carretera Central lunedì 21 agosto Siamo ormai verso la fine: ci manca solo l'ultimo viaggio, verso la Sierra e l'Amazzonia centrale, che contiamo di fare in macchina. Sono solo tre giorni, molto importanti perché corrispondono al primo viaggio di Raimondi, che lo portò nella foresta tropicale dopo aver valicato le Ande alle massime altezze. La prima idea è quella di partire subito, ma le notizie ci scoraggiano. È in corso uno sciopero dei minatori, con blocchi stradali proprio sulla Carrettera Central, che dobbiamo percorrere; e Sendero ha appena compiuto un attentato alla miniera di Morococha, subito al di là del passo del Ticlio. Così rimandiamo ogni decisione a domani. martedì 22 agosto Oggi le notizie sono più tranquillizzanti: gli autobus viaggiano regolarmente, la strada è libera. Ci prepariamo alla partenza rileggendo quello che Raimondi scrive di questo viaggio: «Mi venne quindi il desiderio di visitare l'interno, quella parte del Perù situata ad oriente della Cordigliera della Ande, che come un 'enorme spina dorsale attraversa per tutta la sua lunghezza il paese. Intrapresi così il mio primo viaggio verso la valle del Chanchamayo, circa 300 chilometri ad est di Lima. Seguii il percorso del Rimac fino alla sua origine, lungo una valle tagliata a picco, conosciuta col nome di Infernillo. Qui il fiume si precipita con grande fragore giù per un 'angusta gola, di cascata in cascata, sopra enormi spuntoni di rocce sparsi per il suo letto. Per la prima volta attraversai la elevata Cordigliera, che divide le acque che scendono al Pacifico da quelle che si dirìgono all'Atlantico. A oltre 15.000 piedi sul livello del mare, provai gli effetti strani della rarefazione dell'aria. Scendendo dall'altro lato, si succede senza interruzione una continua varietà di scenari naturali, dalla neve eterna che corona le vette, attraverso paesaggi di carattere alpino, fino alla calda e umida regione della selva, coperta di spessa vegetazione. Tarma si trova in una bella valle verdeggiante, che le dà un aspetto rìdente, facendomi ricordare della mia patria, ll clima è splendido, una eterna primavera». Domani vivremo anche noi questa esperienza. mercoledì 23 agosto Nell'alba grigia lasciamo la città e subito ci inerpichiamo sulle Ande, che torreggiano a ridosso della costa. Nella gola dell'Infermilo, dove la strada incrocia più volte la spettacolare ferrovia più alta del mondo, vistosi cartelli ordinano di non fermarsi né fotografare. Ci fermiamo in un punto dove la ferrovia non si vede a riprendere il Rimac, dalla stessa angolatura - forse nello stesso posto - da cui lo aveva disegnato Raimondi. Subito, chiamato da qualche sentinella a noi invisibile, arriva un pulmino di soldati, che scendono con le armi puntate, minacciosi. Spieghiamo loro che stiamo realizzando un documentario per l'Italia, ci chiedono se abbiamo ripreso la ferrovia e se ne vanno senza controllare. Questo è l'unico contatto con i militari che abbiamo in quaranta giorni di viaggio in un paese praticamente in guerra. Proseguiamo verso il passo del Ticlio, che sorge maestoso a 4843 metri di altezza in mezzo a cime coperte di neve, circondato da laghetti glaciali dove le acque ristagnano, incerte se gettarsi a precipizio verso l'oceano Pacifico, a soli cento chilometri di distanza, o scendere verso l'altro versante, che di fiume in fiume, cambiando più volte direzione e nome, le porterà tutte a confluire verso il Rio delle Amazzoni, e a raggiungere l'Atlantico dopo migliaia e migliaia di chilometri. La ferrovia passa a pochi chilometri dalla strada: è il punto ferroviario più alto del mondo; siamo a trenta metri oltre la cima del Monte Bianco, a un'altezza quindi che in Europa non è mai raggiungibile. Un cartello scrostato avverte che siamo in una zona di avvistamento di Ovnis, cioè di UFO. Anche l'auto sembra risentire della grande altezza, e ansima vistosamente, riprendendo fiato solo quando inizia la vertiginosa discesa che porta alla città mineraria di La Oroya. Qui la strada si biforca : a destra si va a Huancayo, dove siamo stati l'anno scorso, ma dove ora è molto pericoloso andare perché è zona di operazioni di Sendero. A metà strada c'è il convento francescano di Ocopa, fondato nel '700, dal quale partivano i frati missionari per andare ad evangelizzare la Selva, con un accanimento pari al rischio che correvano di "martirizzazione" da parte dei "selvaggi", spiegabile solo con la loro convinzione che l'Amazzonia fosse quanto rimaneva del Paradiso Terrestre. Noi giriamo a sinistra, avviandoci appunto verso quel Paradiso, la cui "porta" è costituita dalla città di Tarma, a 3100 metri d'altezza, sul margine dell'altopiano. Ci arriviamo verso le quattro di pomeriggio, e mentre Kiko spolvera la telecamera all'Hotel de Turistas ci dirigiamo all'ufficio di Foptur in Plaza de Armas a raccogliere informazioni. Vediamo sfilare una piccola orchestra e un gruppo di uomini e donne in costume che danzano al suono di una nenia andina. È la festa di San Bartolomè, uno dei quartieri che circonda il centro, arroccato su un vicino "cerro". Julio va ad avvisare Kiko, che subito si lancia nella mischia. Le donne hanno gonne bordate di alti pizzi bianchi, sulle spalle un piccolo mantello quadrato di colore scuro interamente ricoperto di piccoli pezzi d'argento con le forme più strane; completa l'abbigliamento un cappello alto con guarnizioni in pizzo. Gli uomini, in abito scuro con pantaloni al ginocchio, hanno calze colorate e le stesse preziose applicazioni in argento sulle maniche e sul dietro della giacca; mischiano al cappello con piume di foggia spagnolesca vistosi occhiali da sole dorati. Anche questo è il "vero Perù". giovedì 24 agosto Alle sette, quando partiamo dall'albergo, il tetto dell'automobile è coperto da un sottile strato di ghiaccio. La strada, molto maltenuta ma in condizioni tutto sommato accettabili, scende a precipizio in una valle tagliata a picco, e dopo soli 60 chilometri e due ore di viaggio ci troviamo a San Ramon, a settecento metri di altezza, con 36° di temperatura e in piena giungla tropicale, con un cambiamento climatico spettacolare, forse unico al mondo. Al piccolo aeroporto di San Ramon, cerchiamo per l'ultima volta di sorvolare la Selva. Il comandante militare della base, maggiore Gavilano, dice che ben volentieri ci farebbe portare da uno dei suoi elicotteri, ma che non può perché siamo in zona di guerra; e tutto sommato non ci dispiace fare a meno dei mezzi dell'esercito, il cui uso ci è stato sempre fermamente sconsigliato. Contrattiamo invece un pilota privato, che in un paio d'ore di volo ci porterà oltre la catena che ci separa dalla "selva baja", l'Amazzonia piatta dell'immaginario. Decolliamo, sempre senza una porta per facilitare le riprese, spiccando il volo proprio all'ultimo limite del piccolo altopiano su cui si stende la pista. Sotto di noi si stende la valle del Chanchamayo, con le sue fertili coltivazioni di caffè, arance e frutta tropicale, che a poco a poco lasciano il posto, per le ferree leggi del mercato, a quelle di coca, come avviene più a nord, intorno a Tingo Maria, dove l'alleanza (si dice) tra narcotrafficanti e Sendero ha ormai soppiantato i poteri dello stato. Ci innalziamo a scavalcare una piccola cordigliera, al di là della quale si stende, sconfinato, il grande mare verde che arriva fino all'Oceano Atlantico. Percorriamo per un po' la vasta distesa, seguiamo il corso tortuoso di alcuni fiumi, poi facciamo ritorno verso San Ramon, portandoci dietro immagini di grande bellezza. Sappiamo che a la Merced, a pochi chilometri da San Ramon, c'è un "Jardin Botanico" che raccoglie innumerevoli specie vegetali. Andiamo a cercare don Rolando Salvatierra, il proprietario, un "terrateniente" di origine italiana, discendente di quella colonia agricola che venne istituita nel 1875 proprio su indicazione di Raimondi, incaricato dal nostro governo di trovare nuovi sbocchi all'emigrazione. Quando gli spieghiamo gli scopi del nostro viaggio, don Rolando si infiamma: ci guiderà lui stesso. Partiamo su una strada sterrata e polverosa, attraversiamo un ponte di ferro "volato", cioè fatto saltare dai terroristi, che si è curiosamente reclinato su un lato, così che le automobili possono comunque percorrerlo, con una pendenza vertiginosa, mentre camion e autobus devono passare a guado poco più in là. Strada facendo don Rolando ci spiega che quest'anno non raccoglieranno nemmeno il caffè, perché il costo del trasporto al porto del Callao è superiore al prezzo di mercato. Ed ecco come le multinazionali spingono irreparabilmente i contadini di una zona fertilissima a riconvertirsi nella coltura della coca. Infine arriviamo al Jardin Botanico, un vasto recinto dove don Rolando ha fatto piantare tutte le specie tipiche dell'Amazzonia: un angolo incantato dove possiamo provare anche noi a comprendere le emozioni di Raimondi, trasportato dalle brume e dal gelo dell'inverno lombardo alla esplosione irrefrenabile della vegetazione tropicale: «Qui, in mezzo ad alberi che oscuravano la luce del sole, mi pareva di trovarmi nel laboratorio stesso della vita vegetale, e credevo di scoprire in mezzo allo spessore del fogliame la vergine natura, sotto forma umana, intenta a modellare e produrre le delicate e belle piante che mi circondavano. Per lungo tempo rimasi assono, contemplando questo insieme di varietà vegetali: mi pareva di non avere occhi sufficienti per tutto; e al tempo stesso passavano nella mia mente i sogni della mia infanzia; mentre tutte le descrizioni della vegetazione tropicale lette precedentemente mi sembravano un debole riflesso di questa realtà». Ci aggiriamo a lungo tra le piante esotiche, per ognuna delle quali un solerte giardiniere indio ci dice il nome comune e quello scientifico. C'è anche la coca ("una sola" ci dice don Rolando) a ricordare quello che è oggi uno dei problemi centrali del Perù, ma anche nostro, per la necessaria concatenazione che alle soglie del duemila stringe tutti i paesi e i popoli in un legame inscindibile di interdipendenza. Don Rolando ci invita nella sua casa di campagna, dall'altra parte della strada, ci offre una meravigliosa macedonia-spremuta di frutti tropicali, tanto più gradita nel caldo torrido, ci mostra la sua collezione di "huacos", vasi sacrali dalle forme più varie, che basterebbero a mettere in piedi una intera mostra in Italia. Vorrebbe che ci fermassimo a La Merced, desidera organizzare, la sera, un incontro con i discendenti degli antichi emigranti per parlare di Raimondi, e del contributo che gli Italiani, da Colombo in poi, hanno dato allo sviluppo di quel "Mondo Nuovo" che è l'America. Ma la consegna è ferrea: dobbiamo rientrare a Tarma prima che sia buio, la zona è troppo pericolosa, soprattutto per degli stranieri, per trascorrervi la notte. Così salutiamo don Rolando, con l'augurio di rivederci un giorno, rifacciamo all'indietro il ponte "volato", e poi su, da San Ramon, la strada, al ritorno ripidissima, che ci riporta a Tarma all'imbrunire. venerdì 25 agosto Oggi, ultima tappa del nostro viaggio, partiamo all'alba da Tarma, e risaliamo, in mezzo alla nebbia, fino alla grande pampa di Junin, a 4150 metri di altezza. Davanti a noi si stende la tipica "puna": una pianura arida e fredda, priva di alberi, dove crescono solo piccoli arbusti. Ci fermiamo a riprendere dei fiori gialli ricoperti di ghiaccio. "Tutto il paesaggio - scrive Raimondi - respira tristezza e malinconia; sembra che la natura si trovi in letargo per l'effetto della bassa temperatura. Soltanto di giorno, quando il sole riscalda un po' l'atmosfera, la temperatura è sopportabile. Da qui si comprende facilmente come gli antichi indios considerassero il sole come un dio". Ci fermiamo sulle rive del lago di Junin, in realtà un grande stagno pieno di arbusti di totora, e popolato da una enorme varietà di uccelli e di pesci. Da Junin la strada si stende dritta e deserta a vista d'occhio, incredibilmente appena asfaltata, veloce. Incontriamo un branco di lama in trasferimento, sorvegliato da donne e bambini. I lama sono timidi e curiosi, si tengono a una certa distanza da Kiko, ma poi guardano con interesse la telecamera, permettendogli dei bei primi piani. Ci hanno parlato del "bosque de piedra", un suggestivo ambiente naturale che dovrebbe essere vicino; ma le indicazioni discordano, ci avviciniamo sempre più a Cerro de Pasco, zona pericolosa. Quando infine giungiamo al bivio da cui parte la strada sterrata che porta al "bosque", ci dicono che ci vogliono forse tre ore. Sono le due del pomeriggio. Julio dice:"Qui sono scappati tutti: l'esercito, la polizia, i sindaci...". "E allora scappiamo anche noi!" concludiamo; e a gran carriera iniziamo il nostro ritorno liberatorio. L'ultima emozione del viaggio ci attende in fondo alla strada: lontanissimi ma ben visibili nell'aria tersa dell'altopiano, vediamo un gruppo di persone che stanno ponendo una fila di grossi sassi in mezzo alla carreggiata. "Ecco, ci siamo" - pensiamo tutti, senza avere il coraggio di dirlo ad alta voce -"II momento temuto è arrivato". Ma non facciamo in tempo a fare un piano che siamo ormai vicini al posto di blocco improvvisato, dove però vediamo, con nostra ulteriore sorpresa, che quegli stessi che stavano mettendo i sassi ne tolgono un paio, per aprire un varco e farci passare. Julio, con il suo solito sangue freddo, si ferma comunque e chiede cosa stiano facendo; gli rispondono che stanno chiudendo la strada per fare una gara di corsa per i ragazzi delle scuole. Una gara di corsa a 4150 metri di altezza! Noi avevamo pensato a ben altro! Tirando un sospiro di sollievo, proseguiamo a gran velocità. Prima che faccia buio, sulle rampe che portano al passo del Ticlio, facciamo ancora in tempo a riprendere la miniera di Morococha, sotto una tempesta di neve, che Kiko e Roberto vedono per la prima volta. Poi, la ripida discesa su Lima: domani riposeremo tutto il giorno. 8. Lima domenica 27 agosto Le riprese del documentario su Raimondi sono felicemente concluse. Nel pomeriggio viene a trovarci il prof. Santillana Cantella (di lontana origine italiana per parte di madre) che in anni di paziente lavoro ha ricostruito giorno per giorno, seguendo i suoi taccuini di viaggio, gli itinerari percorsi da Raimondi. Ne è nato un libro, "Los viajes de Raimondi", che è stato pubblicato in questi giorni dall'Università del Pacifico, e che ci sarebbe stato prezioso prima di iniziare il nostro viaggio. Santillana ci parla, con tono pacato ma nostalgico, della sua infanzia passata a Tarma, quando tutti i mobili della casa, e perfino i cibi, venivano importati dall'Europa, e arrivavano fino a La Oroya in treno e poi proseguivano a dorso di mulo. Oggi Santillana, professore con un salario ridicolo, è l'esponente di una borghesia un tempo benestante, ora distrutta dall'inflazione (il cambio dell'Imi è passato in un mese da 2800 a 4000 per un dollaro), rappresenta un po' la faccia del Perù, che si avvia sempre più a diventare, come diceva Raimondi, "un mendicante seduto sopra un trono d'oro". lunedì 28 agosto Domani, ci sarà una conferenza stampa conclusiva del nostro lavoro, organizzata dall'ufficio stampa di Foptur. Interverranno anche esponenti della comunità italiana di Lima, nella maggioranza di origine ligure, chiavarese in particolare, e precisamente della Val Fontanabuona (la stessa di cui dicono era originario Colombo). Stiamo studiando un progetto che vorremmo avviare per il 1992 (Quinto centenario della scoperta/conquista dell'America) sulla emigrazione ligure in Perù e stiamo raccogliendo la documentazione necessaria. Conosciamo bene la Liguria e la Fontanabuona, dove abbiamo girato dieci anni fa un documentario sulla civiltà contadina che sta scomparendo; ora conosciamo bene anche il Perù, e ci sembra interessante trovare un parallelo tra queste due realtà, dato che le "andenes" che danno il nome alle Ande rimandano subito alle "fasce", le terrazze coltivate tipiche del paesaggio ligure. martedì 29 agosto Alla conferenza stampa intervengono molti amici vecchi e nuovi, peruviani (e italo-peruviani). Il tenore Luis Alva, ad esempio, che vive vicino a Milano e che ci presterà la voce di Raimondi per la versione peruviana del documentario. C'è soprattutto il professor Fernando Cabieses, direttore dell'Instituto Nacional de Cultura, medico e specialista in medicina naturale, che ci ha molto aiutato per il nostro progetto, e che fa un intervento molto bello, paragonando Raimondi, che nei tempi duri dell'invasione cilena non se ne andò ma rimase per fedeltà al suo paese di adozione, a quelli che oggi non scappano (mille ogni giorno, dicono) ma resistono, in un paese che sembra ogni giorno di più avviarsi verso lo sfacelo. Subito dopo la conferenza stampa corriamo per l'ultima volta a Villa El Salvador, ad intervistare Michel Azcueta, mitico sindaco-fondatore, che quando siamo stati qui a luglio era ammalato. Michel è candidato per le elezioni amministrative di novembre a Temente Alcalde (vice-sindaco) di Lima per Izquierta Unida, il raggruppamento di partiti di sinistra formatosi da pochi mesi ma già lacerato da contrasti interni che lo porteranno diviso ad una amara sconfitta tanto nelle amministrative quanto nelle politiche del '90. Rivediamo anche Cristina, fedele al suo collegio e alla sua missione. Conosciamo Wilma, che verrà in Italia a novembre a rappresentare le donne peruviane al convegno di "Mani Tese" sull'America Latina. Cristina, Wilma, Elizabeth: non sappiamo più nulla di loro. Abbiamo condiviso con loro emozioni e speranze, abbiamo visto la realtà peruviana anche attraverso i loro occhi. Ma non ci hanno mai scritto, sono come scomparse in quel grande e terribile calderone che è il Perù di oggi. mercoledì 30 agosto Mentre la città sterminata cerca di sciogliere il clima teso e cupo con una giornata di festa religiosa - Santa Rosa di Lima, una dei soli quattro santi dell'America Latina - noi abbiamo appuntamento alla Parroquia di Jesus Obrero con gli esponenti del Manthoc, Movimento Adolescenti e Bambini Lavoratori Cattolici, che su suggerimento di Paolo abbiamo contattato. Mentre aspettiamo che finisca una riunione, parliamo con Andrea, responsabile del MLAL (Movimento Laici America Latina) e con Giangi, coordinatore del progetto. Sembrano molto preoccupati per la situazione peruviana, si sentono circondati di pericoli, tanto da aver deciso di non abitare nei "pueblos jovenes" dove lavorano, ma nel tranquillo e residenziale Barranco (dove c'è anche la casa di Vargas Llosa, che proprio ieri sera, con un trionfale comizio, ha avviato la campagna elettorale della destra peruviana). Un po' provocatoriamente, raccontiamo la nostra esperienza: abbiamo girato tutto il Perù, andando anche in zone considerate pericolose, e non ci è successo nulla, non abbiamo udito nulla, non abbiamo visto nulla, se non qualche ponte saltato e qualche "apagon". Non è - chiediamo - tutta una montatura, che conviene a tutti alimentare: a Sendero, che finisce per mostrare una forza superiore a quella reale; al governo, che può giustificare la paurosa crisi economica e la sua totale inefficienza; ai militari, che possono giocare liberamente alla guerra, dato che i civili hanno praticamente affidato loro pieni poteri? Si, ci rispondono, ma non conviene certo a Izquierda Unida, e ai suoi militanti che vengono assassinati ogni giorno dai Senderisti o dagli squadroni della morte del Commando Rodrigq Franco. Anche questo è vero, e con il senso di colpa di chi ha in tasca il biglietto aereo di ritorno, lasciamo aperto questo interrogativo, al quale non sappiamo dare risposta. Intervistiamo alcuni dei partecipanti alla riunione: sono quasi tutte donne, alcune giovanissime, poco più che bambine, che raccontano la loro durissima esperienza di vita. Parla anche Giangi e Alejandro, il parroco della chiesa. Ci ridiamo appuntamento per la mattina dopo, vicino al mercato di Hierbateros. giovedì 31 agosto Questo è l'ultimo giorno che passiamo a Lima. Alle otto siamo davanti alla chiesa di Hierbateros, proprio di fronte alla tetra e miserabile collina su cui si arrocca l'antico "pueblo joven" di El Agustino. Ad attenderci, con i loro carrelli, c'è un gruppo di ragazzini che lavorano come scaricatori al vicino mercato ortofrutticolo. Hanno finito il loro turno e vengono qui a fare colazione: un pezzo di pane e un intruglio di fiocchi d'avena e acqua calda. Il tutto non costa loro più di 50 lire, che amministrano loro stessi, con una cassa comune e una rigorosa contabilità. Le storie che raccontano sono molto dure: i più piccoli hanno 5/6 anni, i maggiori non più di 10/11. Si alzano alle quattro di mattina per essere alle cinque al mercato, contendendo il lavoro ad adulti non meno disperati di loro. Quando va bene guadagnano l'equivalente di mille lire al giorno, che tuttavia è a volte indispensabile per garantire la sopravvivenza di una intera famiglia: il padre disoccupato o assente, gli innumerevoli fratellini. Parlano con serenità, senza rabbia o rancore, e alla fine la tensione si scioglie in un canto comune. Nel frattempo è arrivato Giangi: con lui andiamo al capo opposto di Lima, al "pueblo joven" di Santa Maria del Triunfo, dove visitiamo una mensa autogestita dagli stessi bambini, dove con 150 lire, appena usciti da scuola, (turno del mattino) possono avere un piatto di minestra calda con un po' di carne, un pezzo di pane, un mandarino e un bicchiere di té. Poco lontano sta sorgendo ancora in costruzione ma già aperto e funzionante - un piccolo centro scolare, che accanto alla mensa svolge anche attività didattica tipo doposcuola. I bambini si affollano intorno a Giangi, festeggiandolo come un vecchio amico, vogliono tutti parlare, cantano in coro l'inno del Manthoc. Ma c'è poco tempo, dobbiamo raggiungere il cimitero di Surquillo, accanto al quale sorge un intero quartiere di catapecchie. Qui il lavoro dei bambini consiste soprattutto nel vendere fiori e tenere pulite le tombe. Anche qui sorge un doposcuola autogestito, dove possono avere in comune almeno le matite e qualche libro. Accompagniamo un gruppo di bambini che va a mettersi in fila con un bidoncino di plastica in mano per comprare il kerosene, che serve per cucinare, e che scarseggia nonostante il suo prezzo sia stato appena aumentato del 100%. Si sta facendo buio, ed è ora di congedarci. Giangi scompare nella penombra, uno tra i sette milioni di abitanti di Lima, sei almeno dei quali cercano disperatamente di sopravvivere in qualche modo in questa città mostruosa. Domani faremo i bagagli, aspetteremo pazientemente all'aeroporto il nostro turno per imbarcarci e tornare a casa, in Italia, con un sospiro di sollievo. Ma il nostro viaggio in Perù è finito nella realtà qui, con questi bambini ordinatamente in fila per avere il minimo indispensabile, in un mondo dove il 90% della popolazione vive nel bisogno, e il restante 10% -noi compresi - nell'abbondanza e nello spreco.