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ANNO XII NUMERO 8 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 10 GENNAIO 2007
Perché ora c’è tanta nostalgia della “mostruosità” del Cav.
Democratici in panne
Catturato il “talebano somalo”,
i suoi uomini sono responsabili
dell’assassinio di suor Leonella
UNO SCRITTORE INGLESE CHE VIVE A VERONA DA DECENNI GUARDA L’ITALIA E RACCONTA L’ATMOSFERA DA “LIBERI-TUTTI”
Divisi sulla strategia di Bush
per l’Iraq che, tra l’altro, oscura
le riforme delle prime cento ore
(segue dalla prima pagina) “Siamo preoccupati del
fatto che al Qaida e le Corti stiano incrementando il reclutamento e l’addestramento. Si preparano a espandersi oltre i confini
somali”, aveva dichiarato l’ammiraglio Richard Hunt, comandante della task force
Corno d’Africa, prima del crollo dei fondamentalisti. Per gli americani l’attacco aereo
è il primo intervento militare diretto, dopo la
disastrosa missione a Mogadiscio degli inizi
degli anni Novanta. La cellula di al Qaida
che aveva già preso il potere in Somalia rappresenta un avamposto pericoloso del terrorismo e per questo Washington ha deciso di
intervenire, dopo aver appoggiato con intelligence e strumenti logistici l’avanzata etiope e somala. E proprio queste truppe lunedì
hanno catturato un altro pezzo grosso dell’integralismo locale, Aden Hashi’Ayro. Soprannominato il “talebano somalo” per essersi formato nei campi di addestramento di
al Qaida in Afghanistan, è stato catturato nella zona di Ras Kamboni. Era il pupillo di
Hassan Dahir Aweys, il falco delle Corti, e
guidava la milizia Shabab, composta da giovani fanatici votati alla morte. I suoi uomini
hanno compiuto la profanazione del cimitero coloniale italiano a Mogadiscio e sono sospettati di aver ucciso madre Leonella, la
suora ammazzata lo scorso anno, perché cristiana, nella capitale.
Il presidente somalo, Abdullahi Yusuf, ha
accolto con favore l’iniziativa americana, ma
la comunità internazionale l’ha condannata
perentoriamente. Prima si è alzata la voce
europea che, tramite l’inviato nella regione,
il commissario Louis Michel, ha detto che i
raid “non migliorano a lungo termine”, poiché l’unica soluzione è “politica”, cioè un tavolo di negoziati, oltre al ritiro delle truppe
etiopi il più presto possibile e l’intervento di
una forza internazionale che vigili sul cessate il fuoco. Anche il nuovo segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, ha fatto sapere
di essere “preoccupato per la nuova dimensione che questo genere di operazioni può
dare al conflitto e per la possibilità che determini un’escalation delle ostilità”. Il ministro degli Esteri italiano, Massimo D’Alema,
è stato il più duro, ha condannato le operazioni unilaterali che “potrebbero innescare
nuove tensioni in un’area già caratterizzata
da forte instabilità”. Il governo italiano fin
da subito si è opposto all’intervento etiope e
si è battutto, in sede di gruppo di contatto
sulla Somalia, per un negoziato, allo stesso
tavolo con le Corti islamiche.
Foggy Bottom
Il valico di Rafah è un “groviera”
da cui sono transitati almeno 70
milioni di dollari per Hamas
(segue dalla prima pagina) A Langley è tutto un via
vai di uomini dei servizi di paesi alleati, dal
Pakistan all’Egitto, dall’Arabia Saudita agli
stati africani amici di Washington (Uganda,
Kenya, Etiopia, Tanzania). Si torna a parlare di cattura di bin Laden e al Zawahiri,
sfuggiti a un blitz pachistano-americano prima di Natale. Bush, tramite la Sicurezza nazionale (come dimostra il viaggio mediorentale di Stephen Hadley), Foggy Bottom e
Pentagono, ha avuto il via libera dagli alleati. Sono entusiasti i giordani che proprio ieri, con l’aiuto americano, hanno sferrato un
duro colpo alla cellula locale di al Qaida.
Tutto quel che passa dall’Egitto a Gaza.
Chi ha informato (e costretto ad agire) le supreme autorità egiziane il 14 dicembre scorso, quando il premier palestinese, Ismail
Haniye, è stato fermato con 35 milioni di dollari a Rafah? Gli americani che lo avevano
seguito nel suo lungo itinerare da Teheran
in poi. Nel trambusto un ministro di Hamas
è comunque riuscito a contrabbandare a Gaza sette milioni di dollari. Il valico di Rafah,
che dovrebbe essere controllato dagli egiziani, è un groviera che permette a Hamas di
imbottirsi di fondi destinati alla lotta terroristica contro Israele e alle milizie. L’Egitto
non permette il trasferimento di denaro al
governo di Hamas per via bancaria. Ma alla
frontiera è tutto un andare e venire. Negli
ultimi mesi, secondo dati dell’intelligence
raccolti dagli americani in base a dichiarazioni di ministri palestinesi, ben settanta milioni di dollari sono transitati attraverso Rafah sotto gli occhi socchiusi e benevoli dei
doganieri egiziani. Per ogni somma c’è una
percentuale a disposizione di agenti e ufficiali. Altri cinquanta milioni di dollari sono
stati portati a Gaza da ministri del governo
Haniye. Il 10 giugno 2006, il ministro degli
Esteri, Mahmmoud al Zahr, è tornato dall’Iran con una valigia piena di dollari. Il 10 ottobre scorso, un buon bottino lo ha travasato a Gaza, via Rafah, il ministro dell’Interno,
Said Siam. Il presidente dell’Anp, Abu Mazen, anche lui vittima dei fondi iraniani a
Hamas, ha protestato con Hosni Mubarak e
col generale Omar Suleiman, capo dei servizi segreti egiziani: “Da una parte mi sostenete e dall’altra lasciate che i fondi iraniani
passino ai miei nemici”, ha detto Abu Mazen. Da qui le pressoni americane sull’Egitto e le informazioni da Langley per il Cairo.
COMUNE DI ROMA - MUNICIPIO XV
Arvalia Portuense - U.O.S.E.C.S. - Ufficio Sport
AVVISO PUBBLICO per ESTRATTO
Il Municipio XV intende affidare in concessione il campo di rugby di
proprietà comunale sito in zona Corviale.
Le proposte dovranno pervenire all'Ufficio Protocollo del Municipio XV,
Via C. Montalcini 1 - 00149 Roma, in busta chiusa con la dicitura "NON
APRIRE - concessione del Campo di Rugby Comunale" entro e non
oltre le ore 12 del giorno 26/01/2007.
Il testo integrale è consultabile sul sito www.arvalia.net e disponibile
presso l'Ufficio Sport Via D. Lupatelli, 7 - Tel. 06.69615658.
Il presente avviso non è vincolante per il Municipio.
IL DIRETTORE U.O.S.E.C.S.
Dott.ssa Patrizia d'Alessandro
D
urante i cinque anni di governo Berlusconi presentare l’Italia era più facile
del solito. La colpa era di Silvio Berlusconi. La colpa di tutto. Proprietario di tre delle sei maggiori emittenti televisive del paese, oltre che di cospicua parte dell’editoria
e della stampa, evidentemente non avrebbe dovuto essere ammesso a ricoprire anche la carica di presidente del Consiglio.
Sottoposto a processo per oltre un decennio per corruzione di vario tipo, era quantomeno plausibile che i suoi intenti, nella
ricerca del potere, fossero malvagi. Per i
corrispondenti esteri a Roma, che si disperavano nello spiegare le complesse
macchinazioni della politica italiana, le
sue coalizioni frammentarie e la tendenza
istituzionalizzata a rimandare le cose, questo presidente del Consiglio era manna inviata dal cielo: facile da condannare, pittoresco da sbeffeggiare. Quest’opinione semplicistica è ben riassunta nel libro di Tobias Jones “Il cuore oscuro dell’Italia”
(Rizzoli, 2003), la cui copertina raffigurava
Berlusconi in trionfo: un’equazione dozzinale. Ora che l’uomo ha lasciato il potere,
c’è una certa nostalgia di quel facile esemplare. La recente scoperta di frequenti accessi alle dichiarazioni dei redditi di Romano Prodi e della sua famiglia durante la
campagna elettorale che ha preceduto le
elezioni di aprile ha indotto la Bbc, tra gli
altri, a sospettare che Berlusconi avesse
programmato una campagna diffamatoria.
Più avanti è emerso che lui stesso era stato oggetto delle stesse spiate, ma la Bbc
non ha ritenuto necessario dare visibilità
a questa notizia.
Il 26 novembre, quando il magnate dei
media a capo dell’opposizione di centrodestra ha perso i sensi mentre teneva un
discorso a un incontro politico, molti hanno suggerito che si trattasse di una messa
in scena per richiedere il rinvio del processo che lo vede accusato, con l’avvocato
inglese David Mills, di corruzione nella
compravendita di diritti televisivi. Il processo effettivamente è stato rinviato di
qualche giorno, poiché, la settimana prima
di Natale, Berlusconi si è recato negli Stati Uniti per un intervento di cardiochirurgia. Due eventi recenti, che hanno ricevuto scarsa copertura nei mass media internazionali, indicano quanto sia complesso il
quadro in cui bisogna inserire la “mostruosità” di Berlusconi. Il 30 novembre,
con grande sorpresa di tutti, la Corte di
cassazione ha rovesciato il verdetto di colpevolezza emesso a chiusura di un processo interminabile in base al quale l’amico e
avvocato di Berlusconi, Cesare Previti, era
stato condannato per aver corrotto un giudice per suo conto. Quand’era presidente
del Consiglio, Berlusconi è stato spesso accusato di forzare la legge per salvare se
stesso e i suoi amici dalla prigione (tanto
che una disposizione che permette agli ultrasettantenni di scontare la pena agli arresti domiciliari è stata battezzata “salvaPreviti”). Per questo è strano, ora che il
furfante è lontano dal potere, vedere la
Corte di Cassazione rovesciare questa sentenza contro il suo più stretto collaboratore, come a convalidare le sue denunce, secondo cui lui e la sua squadra sarebbero
stati vittime di persecuzioni giudiziarie.
Lo stupore su Previti
E’ anche strano che i partiti ora al potere, che hanno attaccato con tanto fragore
l’armeggiare di Berlusconi con la legge,
hanno introdotto nella legge finanziaria un
emendamento che limita il periodo durante il quale un amministratore della cosa
pubblica può essere sottoposto a giudizio
per corruzione, il tutto, apparentemente,
per aiutare qualche amico nel bisogno.
Entrambe le storie sono complicate. Nel
1986, prima che entrasse in politica, l’affa-
Silvio Berlusconi (foto Reuters)
Raid americani
rista Berlusconi aveva impugnato la vendita del gigante statale dell’industria alimentare Sme, che aveva 18 mila dipendenti, al
magnate rivale Carlo De Benedetti, sostenendo che ne era stato deliberatamente fissato un prezzo inferiore al vero. Berlusconi
vinse la battaglia legale nelle aule di tribunale, ma nove anni dopo un teste disse ai
magistrati di Milano che il giudice del caso
era stato corrotto.
Finalmente, nel 2000, fu avviato un processo contro Berlusconi, Previti e altri, ma
nel 2003 il governo Berlusconi approvò una
norma secondo cui il presidente del Consi-
Timothy Harold Parks
Timothy Harold Parks è nato a Manchester nel 1954. Dopo la laurea a Cambridge in
Lingua e letteratura inglese, ha conseguito
un master ad Harvard in Letteratura americana e cinema. E’ sia traduttore sia scrittore:
ha tradotto dall’italiano all’inglese Moravia,
Tabucchi, Calvino e Calasso. Dal 1981 vive in
Italia, vicino a Verona, insegna alla Iulm di
Milano, dove si occupa di traduzione letteraria, e spesso contribuisce alla New York Review of Books. Ha scritto 11 romanzi, tra cui
“Lingue di fuoco”, tre libri di non fiction, in
cui descrive la vita nell’Italia del nord, e una
raccolta di saggi. L’ultima sua opera è “Il silenzio di Cleaver” (Il saggiatore, 2006).
glio non poteva essere sottoposto a giudizio
mentre era in carica. Sebbene la legge sia
stata presto giudicata anticostituzionale
dalla Corte di cassazione, il procedimento
contro Berlusconi era già stato stralciato da
quello principale, e, nel 2004, egli venne
prosciolto dall’accusa. Previti, nel frattempo, aveva fatto ricorso alla Corte di Cassazione, sostenendo che i magistrati di Milano seguissero un programma politicamente di sinistra, che lo stessero perseguitando
e che quindi il processo contro di lui avrebbe dovuto essere trasferito. L’accusa fu respinta, e Previti giudicato e condannato a
cinque anni, senza però essere incarcerato,
poiché in Italia è possibile ricorrere in appello contro tutte le sentenze, che non sono
esecutive in caso di appello. Una situazione che non incoraggia certo grande responsabilità da parte dei giudici di prima
istanza. Nel 2005, la sentenza d’appello condannò nuovamente Previti. Dopo che il governo Berlusconi era stato destituito dal voto della scorsa primavera, la sua posizione
sembrava disperata, finché l’ultimo pronunciamento della Corte di cassazione non
ha riconosciuto la correttezza della sua richiesta, secondo cui il processo non avrebbe dovuto essere celebrato a Milano.
Lo stupore è stato generale. In un’intervista al Corriere della Sera, però, il giudice Nicola Marvulli, a capo della Corte di
Cassazione, ha spiegato che nel 2003, sebbene la Corte avesse respinto l’accusa di
persecuzione mossa da Previti, essa aveva
anche avvisato i magistrati milanesi del
fatto che, qualora l’imputato avesse richiesto il trasferimento per motivi tecnici,
essi sarebbero stati obbligati a concederlo, poiché il presunto reato era avvenuto a
Roma, non a Milano. Marvulli sostiene di
non comprendere perché i magistrati di
Milano abbiano persistito nel voler celebrare loro stessi il processo, pur sapendo
che una sentenza emessa in quella città
sarebbe stata vulnerabile.
Dietro la legge finanziaria
Che cosa deve pensare un italiano di tutto questo? I magistrati di Milano temevano
che altri tribunali non sarebbero stati altrettanto assidui nel perseguire Previti? Se
sì, perché? Avevano forse loro stessi, come
sosteneva la difesa, interessi al di là della
rigorosa applicazione della legge? O piuttosto è la Corte di cassazione, come molti
credono, che ha trovato un punto tecnico su
cui agire per difendere dei vecchi amici?
Il timore costante che nessuno, privato o
istituzione che sia, agisca in modo davvero
indipendente o esclusivamente nell’interesse del paese ci conduce alla prima legge finanziaria del governo Prodi. Per chi
non ha mai vissuto in Italia è difficile comprendere come sia tremendamente strascicato il processo che porta alla Finanziaria
in questo paese. Il governo propone una serie di misure alla fine dell’estate, poi fatte
a pezzi, riviste, rimosse, reinserite e riviste
di nuovo prima della scadenza, per arrivare all’approvazione del pacchetto alla fine
dell’anno solare. Poiché il governo Prodi ha
ereditato un deficit di bilancio enorme ma
detiene soltanto una smilzissima maggio-
ranza al Senato, questa volta il processo di
definizione del bilancio è stato straordinariamente diseducativo e ha visto l’elargizione di grandi concessioni non soltanto ai
partiti più piccoli della coalizione, ma persino a singoli deputati. In un paradiso lobbistico, quasi tutti i privilegiati beneficiari
del denaro pubblico se la sono cavata senza tagli consistenti (le università hanno rappresentato una curiosa eccezione), mentre
il governo ha semplicemente aumentato le
entrate alzando le tasse, in particolare l’imposta sul reddito per i più abbienti. Dato
che nel paese, da un punto di vista fiscale,
il problema principale è l’evasione, per cui
poco più di 300 mila cittadini, per esempio,
dichiarano oltre 120 mila euro, è difficile ritenere che l’aumento delle tasse per la fascia più alta possa rappresentare una soluzione. Molti di coloro che percepiscono alti redditi e ne dichiarano di bassi trarranno beneficio dai lievi tagli fiscali per gli
scaglioni di reddito inferiori.
Col crescere dell’impressione che la finanziaria sia stata un fiasco e l’avvicinarsi
della scadenza di dicembre, il governo ha
proposto un singolo maxiemendamento,
composto da 1.365 punti separati e, il 15 dicembre, con una procedura poco usuale,
ha richiesto il voto di fiducia sul pacchetto
al Senato. All’ultimo momento, però, si è
scoperto (a opera di burocrati, e non di politici) che qualcuno aveva inserito una
clausola che limitava in modo significativo
il periodo durante il quale un funzionario
pubblico può essere accusato di aver contraffatto i conti statali. Sorprendentemente, nessuno pare esserne responsabile. I
membri del governo hanno negato di saperne qualcosa. Ma in quest’ultima fase
era necessario approvare l’emendamento
nella sua integrità, o il governo sarebbe caduto. Dopodiché, su pressione del ministro
per le Infrastrutture, è stato approvato un
decreto con cui si cancellava l’emendamento, al che, davanti allo stupore di tutti,
questo è stato difeso nientedimeno che dal
ministro per la Giustizia.
In una serie di libri e articoli, lo storico
e giornalista Paul Ginsborg ha suggerito
che il fenomeno-Berlusconi rappresenta
“un grossolano tentativo di riaffermare forme di controllo private sullo stato, una versione moderna di un antico patrimonialismo”. E’ indubbio che la scelta di rimanere
alla guida del partito nonostante la sconfitta elettorale, l’età e i problemi di salute sia
indice di una logica dinastica piuttosto che
del prevalere di una politica di partiti democratici. Eppure, non possiamo non avere
l’impressione che Berlusconi sia preso di
mira per la vastità del suo successo passato, per lo stile colorito e i modi aggressivi.
Perché è difficile pensare che sia l’unico
giocatore. In Italia la dinamica sociale per
cui ciascuno sospetta di tutti gli altri di cattiva fede e l’ideologia è sempre considerata una copertura delle fazioni rimane endemica. Perciò per un politico o un businessman è difficile rinunciare alla possibilità del potere o chiamarsi fuori da tutte le
associazioni potenzialmente utili, per
quanto ambigue, perché si ha la sensazione
che senza potere si sarà vulnerabili alle fazioni opposte o persino agli organi dello
stato, teoricamente indipendenti ma forse
manipolati.
La paranoia abbonda. Dappertutto vi sono uomini anziani che non mollano, sostenuti da chi ha beneficiato del loro patrocinio. Mentre osserva l’evidente perversione
della vita pubblica, la sua atmosfera da liberi-tutti in ogni campo, l’italiano medio è
istigato a ritenere che l’evasione fiscale sia
un suo diritto inalienabile.
Tim Parks
© Wall Street Journal
per gentile concessione di MF
(traduzione di Elia Rigolio)
Borat è il nuovo Tocqueville, e pure allora c’era una Pamela Anderson
ino all’arrivo di Borat, il turista più faF
moso in visita negli Stati Uniti è stato
il ventiseienne Alexis de Tocqueville. Borat ha portato un melting pot di esotici malintesi da un Kazakistan in cui si incrociano marxismo, mongoli e maomettismo. Nel
1831-32, Tocqueville era convinto che il
Gran Tour – della durata prevista di nove
mesi, con annessa missione d’inchiesta nei
penitenziari americani – l’avrebbe portato
a visitare una selvaggia regione ricoperta
di foreste e abitata da selvaggi – bianchi e
indiani – e schiavi. Non avendo preso con
sé i guanti bianchi di capretto, si vide costretto a farsene precipitosamente mandare svariate paia da New York, giudicando i guanti americani “malfatti”. L’aristocratico tornò per scrivere non soltanto
quello che viene tuttora considerato il miglior libro sull’America e sulla democrazia, ma convinto di aver visto il futuro nella sovranità popolare e che funzionasse.
Nel nuovo mondo era stato testimone di
una realtà che nel Vecchio continente era
ritenuta universalmente un’assurdità: “I
ceti medi erano in grado di governarsi”
tramite suffragio universale maschile in
un periodo in cui la Francia era considerata all’avanguardia con un suffragio del 5
per cento e il Regno Unito era bollato come radicale per aver raggiunto il 10 per
cento, dopo la riforma elettorale del 1832.
Con zii come Malsherbes e Chateaubriand, Alexis era un aristocratico doc,
che ha tratto vantaggio dalla Rivoluzione
francese, con tutti gli annessi e connessi.
Giudice junior durante la restaurazione
dei Borboni, partì per studiare la rivoluzione americana, poiché era considerato
persona non grata in seguito alla rivoluzione del 1830.
Un’altra rottura con il passato fu la sua
insistenza nel voler sposare Mary Mottley.
Per gli inglesi, la protestante Mary, con
uno zio ammiraglio e l’altro arricchitosi
grazie alla farmaceutica, sembrava la fotocopia di un personaggio tratto da un romanzo di Jane Austen, ma per un aristo-
cratico francese si trattava di una rivoluzionaria scelta borghese. La “parità di stima” e l’“uguaglianza di condizioni” delle
“virili, ragionevoli, vigorose ed energiche” donne americane colpirono Tocqueville come “vera nozione di progresso democratico”, tanto quanto Borat rimase impressionato dalla fisicità di Pamela Anderson. “Donne e religione possono essere separate dal governo, ma sono indipendenti”. Poiché il matrimonio era un
contratto liberamente stipulato tra due in-
dividui e non, come in Francia, tra due famiglie e le rispettive proprietà, “non esistevano scuse valide per l’adulterio o il divorzio”. “Se mi venisse chiesto a cosa, secondo me, va principalmente attribuita la
singolare prosperità e la crescente forza
di questo popolo, risponderei alla superiorità delle sue donne”. Relativamente
agli uomini americani, l’aristocratico scoprì che “la sfrenata, irrequieta, insoddisfacente e, in definitiva, meschina ricerca
del benessere materiale non li rendeva
felici, né ammirevoli.”
Tocqueville e il compagno Gustave de
Beaumont intrapresero un incredibile
viaggio in stile “road movie”, spesso quasi
senza strade e attraversando fiumi e laghi
– con naufragi e intralci creati dai ghiacci
– da New York ai Grandi Laghi e, lungo il
St. Lawrence, fino a Montreal, tutte zone
in mano alla Francia prima del 1763 e di
cui, in seguito, inglesi e americani preservarono intatto il carattere francese antecedente la rivoluzione. Il New England
consentì a Tocqueville di elaborare la
“teoria del punto di partenza” per spiegare il motivo per cui l’esperimento politico
anglo-americano introdotto dai Padri pellegrini si era rivelato un successo.
Il viaggio proseguì quindi attraverso
l’Ohio e il Mississippi, da dove i francesi
avevano tentato di accerchiare gli inglesi
nel 1756, passando per Cincinnati, Louisville, Nashville, Memphis, New Orleans e
Mobile verso nord, attraverso l’“aristocratico” sud degli schiavi, via Montgomery,
Augusta, Columbia, Fayetteville, Norfolk e
Baltimora fino a Washington, dove i viaggiatori incontrarono il presidente Andrew
Jackson nella sua “modesta” Casa Bianca,
solo e “senza cortigiani”, che chiamarono
semplicemente “signore” prima di tornare
sotto la “monarchia ombrello” di Luigi Filippo, che “con la noia portò la Francia alla rivoluzione del 1848” e al bonapartismo,
confermando l’opinione di Tocqueville, secondo cui “gli stati in cui i cittadini hanno
potuto godere più a lungo dei propri diritti sono quelli in cui se ne sa fare l’uso migliore. Non c’è nulla di più prolifico dell’arte di essere liberi. Ma non c’è nulla di
più difficile dell’allenarsi alla libertà. Di
solito, la libertà nasce nelle tempeste, si instaura dolorosamente tra dissensi civili e
se ne possono apprezzare i benefici soltanto quando esiste da molto tempo”.
Tocqueville ha potuto riferire ai francesi quanto segue: “Negli Stati Uniti, la democrazia offre costantemente la possibilità che nuovi uomini dirigano gli affari:
pertanto, i provvedimenti del loro governo
mancano di ordine e di continuità. Eppure, i principi generali sono più stabili che
in molti altri paesi e le opinioni principali che regolano la società si sono dimostrate più durature. Quando il popolo americano si convince di un’idea, che sia giusta o irragionevole, nulla riesce più a sradicarla. Attribuisco tale effetto proprio a
quella causa che, a prima vista, si penserebbe dovrebbe impedirlo: la libertà di
stampa. I popoli che godono di questa libertà non cambiano le proprie opinioni
non soltanto per convinzione, ma anche
per orgoglio. Le amano, perché le ritengono giuste e perché sono una loro scelta, e
vi aderiscono non perché siano vere, ma
perché le considerano loro”.
In questa “grande rivoluzione democratica” Tocqueville vide anche la “tirannia
della maggioranza”, che ignora “verità impopolari” e favorisce “falsità popolari”,
come la discriminazione razziale nel nord
e la schiavitù nel sud. Gli indiani venivano
sterminati “con straordinaria facilità, in
modo tranquillo, legale, filantropico, senza spargimenti di sangue e senza violare
uno solo dei grandi principi della moralità
agli occhi del mondo. Non per rancore,
pregiudizio o astio, ma per avidità e disprezzo” e sulla base del principio di
Locke secondo cui la terra è di chi la lavora. “Non conosco altri paesi, in generale,
in cui vi sia meno indipendenza di pensiero e vera libertà di discussione come in
America”. Tuttavia, “l’interesse personale
ben compreso e l’idea dei diritti” indicavano che “solo la libertà politica poteva
porre rimedio ai mali generati dall’uguaglianza delle condizioni”.
“Confesso di aver visto in America più
dell’America stessa: vi ho cercato un’immagine della democrazia in sé, delle sue
propensioni, del suo carattere, dei suoi
pregiudizi e delle sue passioni. Volevo conoscerla, anche solo per sapere almeno
cosa dovremmo sperare o temere da essa”.
Richard Newbury
(traduzione di Studio Brindani)
Milano. George W. Bush ha complicato i
piani del Partito democratico americano
che, vittorioso alle elezioni di metà mandato
di novembre, aveva previsto di dedicare le
prime cento ore della nuova legislatura all’approvazione di alcune leggi di politica interna: dall’aumento del salario minimo a
norme etiche per la limitazione del peso delle lobby, dal finanziamento federale a favore
della ricerca sugli embrioni all’attuazione
delle indicazioni della commissione 11 settembre non recepite dal precedente Congresso repubblicano, fino a nuove norme che
diano a Washington il potere di contrattare
con le società farmaceutiche i prezzi delle
medicine che il programma federale Medicare fornisce gratuitamente agli anziani.
Senonché Bush ha deciso di presentare il
suo nuovo piano per l’Iraq questa sera, alle
tre del mattino in Italia, nel pieno del blitz
mediatico dei democratici, monopolizzando
il dibattito politico e spaccando a metà, se
non in più parti, il fragile arcipelago di posizioni democratiche sulla guerra. Non che i
repubblicani siano tutti solidamente convinti della necessità di raddoppiare l’impegno
in Iraq, anzi secondo l’editorialista conservatore Bob Novak soltanto 12 senatori repubblicani su 49 sarebbero entusiasti della
nuova strategia bushiana. Uno dei 12, però, è
il favorito del partito nella corsa alla nomination per il 2008, John McCain. L’imbarazzo
tra i democratici sembra maggiore, proprio
perché a differenza dei repubblicani, e finché non sarà scelto il candidato alla Casa
Bianca per il 2008, non dispongono di un capo di partito, ma di una serie di leader quasi tutti concorrenti e avversari alle primarie.
Il risultato di questo caos sono i primi articoli di prima pagina sui grandi giornali e la
decisione della leadership democratica di
provare a fare entrambe le cose in questa
settimana, le riforme e l’opposizione a Bush
sull’Iraq. Il rischio è che le riforme non ricevano adeguata copertura mediatica, ma soprattutto c’è la seria possibilità che la mancanza di una strategia unitaria sull’Iraq contribuisca a ridipingere i democratici come
un partito debole e inaffidabile sulle questioni di sicurezza nazionale.
Mille posizioni, una diversa dall’altra
Tutti i big del partito sono contrari all’aumento delle truppe, con l’eccezione del loro
ex candidato alla vicepresidenza degli Stati
Uniti, il senatore Joe Lieberman. In realtà la
situazione è ancora più complicata di così,
c’è chi è contrario e vorrebbe togliere i fondi
alla Casa Bianca, chi riconosce il potere del
presidente e preferisce esporre le sue colpe
attraverso una lunga serie di audizioni al
Congresso, chi vorrebbe mediare tra queste
due posizioni. Di più: soltanto 20 giorni fa il
leader al Senato Harry Reid si era pronunciato a favore di un limitato e temporaneo invio di nuovi soldati in Iraq. Venerdì, invece,
Reid ha firmato con la Speaker della Camera Nancy Pelosi una lettera aperta a Bush
preannunciando l’opposizione del partito a
una tale misura. Domenica, in tv, Nancy Pelosi è stata più cauta, limitandosi a spiegare
che il presidente non avrà carta bianca, anzi
dovrà motivare per bene le sue scelte. Pelosi ha proposto di tenere separate la richiesta
finanziaria per l’invio di nuove truppe dal finanziamento ai soldati già presenti a Baghdad. Un’idea che difficilmente la Casa Bianca condividerà, tanto più che è stato il senatore democratico più autorevole sulle questioni di politica estera, nonché candidato alle primarie presidenziali, ovvero Joe Biden,
a spiegare che Bush ha il potere costituzionale di fare ciò che vuole, visto che il Congresso nel 2002 ha autorizzato la guerra. Il
centro studi liberal Center for American Progress cita esempi storici, libri alla mano, in
cui il Congresso in passato ha provato a intervenire nella gestione delle guerre e il senatore Ted Kennedy ha presentato un progetto di legge che prevede un ulteriore voto
del Congresso nel caso Bush volesse mandare altre truppe. Una buona parte dei nuovi
democratici non è d’accordo, anzi sei deputati sono stati ricevuti venerdì dal presidente, mentre Lieberman ha scritto una lettera
chiedendo esplicitamente a Bush di inviare
più truppe. Il numero 2 alla Camera, Steny
Hoyer, è contrario alla proposta di fare distinzioni tra vecchie e nuove truppe, così altri colleghi ma non come Dennis Kucinich
che ha presentato un piano per il ritiro delle truppe. Il presidente della commissione
Difesa Jack Murtha ha escogitato uno stratagemma per impedire burocraticamente l’invio di nuovi soldati. Hillary Clinton aspetta a
pronunciarsi, mentre Barack Obama – l’unico a essere stato contrario alla guerra in Iraq
– ha detto a Newsweek che i democratici
non stringeranno i cordoni della borsa.
Christian Rocca
IL FOGLIO
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