L`evoluzione del Product Placement

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L`evoluzione del Product Placement
a cura di Studio Legale Jacobacci & Associati
Claudia Scapicchio
L’evoluzione del Product Placement
Nuovi strumenti per ridurre l’alea di potenziale
insuccesso e massimizzare l’investimento
A
otto anni dall’entrata in vigore del Decreto Urbani – eravamo nel 2004 – lo strumento del Product Placement (PP) si è profondamente trasformato, da strumento fino ad allora di pubblicità occulta, in qualche modo tollerata, ma
comunque formalmente osteggiata, a mezzo di promozione lecito, purché palese, comunicato al pubblico in maniera inequivoca. In questi anni, nel PP e nel
suo potere, quasi catartico, di rinascita del cinema italiano, quale nuova leva di finanziamento privato, si sono riposte aspettative elevate. Ed in effetti, il PP rappresenta un ottimo
mezzo di promozione del proprio brand/prodotto, dai costi inferiori rispetto a forme di pubblicità più tradizionali, caratterizzato da maggiore flessibilità, anche sotto il profilo contrattuale. Dalla nascita del cinema, il 19 marzo 1895, con il film La sortie des usines Lumière
(L’uscita dalle fabbriche Lumière), film di autopromozione degli stessi fratelli Lumière, ad
uno dei primi casi di azienda che ha richiesto espressamente l’inserimento di un proprio
prodotto in un film (siamo nel 1945 in Mildred Pierce [Il romanzo di Mildred], quando Joan
Crawford viene inquadrata mentre beve un bicchiere di Jack Daniel’s), ai primi veri casi di PP
così come oggi lo intendiamo, ossia come forma di comunicazione e marketing, con 2001: A
Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio) di Stanley Kubrick (1968), American Gigolo (Id.),
con la consacrazione di Giorgio Armani, nel 1980, ed E.T.: The Extra-Terrestrial (E.T. l’extraterrestre) di Steven Spielberg del 1982, il PP si è continuamente arricchito, mischiandosi e
confondendosi con altre forme di promozione del brand, forme che contribuiscono ad accrescerne la portata e l’impatto sullo spettatore/consumatore, cui il PP è destinato.
L’analisi che segue ha come scopo precipuo quello di delineare, accanto ai caratteri essenziali e consolidati del PP – così come oggi utilizzato dall’industria cinematografica e
dalle aziende che intendano fare dei film un veicolo per la promozione del proprio
brand/prodotto, e ai vantaggi, in termini di costo e di ritorno dell’investimento, che esso
comporta – quali siano oggi gli strumenti più innovativi che si affiancano, trasformandolo,
al PP più tradizionalmente inteso. Ciò allo scopo di verificare se il product placement, strumento ancora sottostimato e sottoutilizzato – almeno in Italia e soprattutto dalle piccole e
medie imprese, che nel nostro Paese costituiscono ancora la maggioranza della realtà industriale – possa rappresentare un’alternativa a forme di investimento per la promozione
del proprio brand più classiche, più rodate, sempre più costose e, spesso, anche meno efficaci di un tempo. Bene, comunque, notare che il nostro Paese figura tra i cinque Stati leader
che investono in PP, piazzandosi ad un ottimo terzo posto, dopo Stati Uniti e Francia.
FIGURA 1
INVESTIMENTI IN PAID PRODUCT PLACEMENT
Cinema:i 5 paesi leader
34 Spagna
41 Giappone
43 Italia
57 Francia
600 USA
Dati in milioni di dollari.
1. Definizione di product placement – Cenni sulla normativa
di riferimento
Per product placement si intende una: «Tecnica di marketing che prevede l’inserimento di un prodotto e/o marchio in un film verso il pagamento, da parte dell’azienda titolare di quel prodotto
e/o marchio, di un corrispettivo (in denaro o altri beni o servizi) al produttore del film». Ai fini di
questa analisi, ampliando tale definizione, precisiamo che per product placement deve intendersi ogni forma di comunicazione commerciale audiovisiva che consiste nell’inserimento di un
marchio/prodotto all’interno di un’opera cinematografica (o videogioco/mobisodes/social network), così che marchio e prodotto siano riconoscibili da parte dello spettatore/consumatore e
che il prodotto/marchio sia inserito nel contesto narrativo in modo quanto più possibile armonioso, quasi ad essere utilizzato in modo spontaneo dagli attori/protagonisti/personaggi del film.
In Italia, fino al 2004 era illecito posizionare marchi o prodotti nei film a fini promozionali: tali
condotte venivano sanzionate quali forme di pubblicità ingannevole e occulta. Con il D.Lgs. n.
28 del 22 gennaio 2004, noto come Decreto Urbani, l’inserimento di un prodotto o di un brand
all’interno di un’opera cinematografica è consentito laddove esso sia veritiero, palese, corretto, coerente ed integrato nello sviluppo dell’azione, senza costituire interruzione del contesto narrativo del film (art. 9 del Decreto Urbani). Perché il PP sia lecito, occorre che sia dato
avviso alla spettatore della sua presenza nel film nei titoli di coda, con specifica indicazione
delle aziende titolari che ne hanno fatto uso. Un espresso divieto di product placement sussiste ad oggi per sigarette e tabacco, medicinali e cure mediche con prescrizione obbligatoria,
mentre forti limiti, che si estrinsecano in un sostanziale divieto, sono previsti per gli alcolici.
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Ulteriori precetti relativi alle condizioni in cui il PP possa operare sono poi stabiliti dalla Direttiva CE 65/2007. La Direttiva prevede che i prodotti possano essere inseriti in opere cinematografiche, film, serie tv, programmi sportivi e di intrattenimento vario, con esclusione dei
programmi per bambini/minori. Essa stabilisce, altresì, che i prodotti possano essere inseriti sia dietro corrispettivo, sia a fronte di una fornitura gratuita di certi prodotti o servizi.
Il prodotto non deve mai avere un ruolo dominante nell’opera in cui viene inserito (anche se
non mancano casi eclatanti di film, non solo di produzione statunitense, in cui il prodotto diviene protagonista vero e proprio dell’opera filmica; si pensi agli italianissimi e recenti Lezioni
di cioccolato [2007] e Benvenuti al Sud [2010], dove rispettivamente la Perugina e Poste Italiane sono i veri protagonisti) e nemmeno incoraggiare in modo diretto il suo acquisto.
Anche la Direttiva, come il nostro Decreto Urbani, dispone un divieto assoluto per quanto concerne il PP di tabacco e di sigarette, che arriva fino alla proibizione per le società che producono i summenzionati prodotti o le cui attività principali sono collegate alle industrie del
tabacco di inserire detti prodotti o servizi in qualsiasi tipo di programma tv o film. Allo stesso
divieto soggiacciono i prodotti farmaceutici e/o medicinali per l’acquisto dei quali sia richiesta una ricetta medica.
Anche la Direttiva prevede, al pari della nostra normativa nazionale, che la presenza del PP
vada in qualche modo segnalata, lasciando libertà a ciascuno Stato membro di decidere quale
immagine o messaggio di avvertimento utilizzare per informare lo spettatore/consumatore
della presenza nell’opera di prodotti a fini commerciali. Ciò detto, in Europa è prassi diffusa
quella di utilizzare loghi recanti una “P” per indicare la presenza di prodotti legati al PP, mentre in Italia è necessario, più semplicemente, inserire la dicitura “Programma con inserimento di prodotti a fini commerciali” (o simili) durante la messa in onda del programma o a
inizio programma, per quanto attiene ai programmi tv, e nei titoli di coda, come sopra indicato, nelle opere cinematografiche.
In attuazione della Direttiva, l’Italia ha emanato il D.Lgs. 44/2010, che stabilisce, tra l’altro,
che sia l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) a verificare la corretta applicazione delle norme contenute nella Direttiva, detenendo, dunque, il potere di assumere provvedimenti contro chi violi dette norme, tra i quali si segnala, ad esempio, la sospensione del
programma/film.
PP CINEMATOGRAFICO E TELEVISIVO
I PP cinematografico e televisivo costituiscono, nella loro forma base, i modelli di inserimento
più tradizionali e collaudati di prodotti a scopi commerciali.
I prodotti/servizi/marchi possono essere inseriti all’interno di un film/programma televisivo
attraverso diverse modalità:
1. screen placement: il prodotto/marchio è inserito nel contesto scenico/scenografico, in
primo piano o sullo sfondo. Uno per tutti, Sex and the City (1998-2004; Id.), fino ai più sofisticati esempi di American Gigolo e Armani®, Brioni® e i film della serie “007”, Everlast® in
Million Dollar Baby (2004; Id.).
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2. script placement – name placement – placement esplicito: sono gli attori sullo schermo,
protagonisti o meno, a parlare del prodotto in modo esplicito, inserendolo nel contesto narrativo, in maniera più o meno armonica. Ci si ricorderà della Qantas® in Rain Man (Rain Man
- L’uomo della pioggia) («La compagnia che ha avuto meno incidenti») o al più recente caso
di Alberta Ferretti® in Mine vaganti (2010).
3. plot placement: si ha quando la storia viene costruita intorno al prodotto, che viene inserito razionalmente all’interno del plot stesso, divenendo funzionale alla sceneggiatura, fino
a divenire, in talune ipotesi, il protagonista o co-protagonista del film. La finalità che si intende
raggiungere con questo tipo di posizionamento è più complessa: è quella di veicolare la storia, il messaggio, il posizionamento ed i riferimenti di un brand. Si pensi alle scarpe Nike®
in Forrest Gump (1994; Id.), alla gioielleria Tiffany® in Breakfast at Tiffany’s (1961; Colazione
da Tiffany), al pallone Wilson® in Cast Away (2000; Id.) e ai già ricordati casi di Benvenuti al
Sud (Poste) e Lezioni di cioccolato (Perugina®).
Il PP oggi si colloca anche in produzioni più autoriali, che sembravano snobbare, fino a qualche tempo fa, questa forma di finanziamento, quasi che utilizzarla volesse significare rinunciare ad attestarsi ad un certo livello artistico. Di recente, perfino una sofisticata produzione
italo-francese, Ciliegine (2012) di Laura Morante, sembra aver ceduto alle lusinghe di Apple®
(onnipresente ormai, ogniqualvolta si abbia modo di inquadrare un pc o un telefono cellulare).
PERCHÉ INVESTIRE IN PRODUCT PLACEMENT?
Investire in Product Placement significa effettuare una
spesa contenuta a fronte del potenziale ritorno in termini
di pubblico raggiunto dal brand/prodotto, pubblico ampio
e diversificato che non coinciderà, se non in parte, con il
target di riferimento del brand. Ciò consentirà al prodotto
di essere visibile a consumatori potenziali appartenenti
ad un target diverso rispetto a quello dell’usuale pubblico
acquirente del brand, senza contare, poi, l’ulteriore effetto di ampliamento del pubblico in termini geografici,
visto che con un’unica operazione di FIGURA 4
product placement si riescono a coprire più mercati/Nazioni.
• Italia (figura 2);
• Francia (figura 3);
• Usa (figura 4);
• Spagna (figura 5);
• Germania (figura 6)1.
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FIGURA 2
FIGURA 3
FIGURA 5
FIGURA 6
Immagini riprese da Presentazione Power Point di JMN & DY di Lecco.
L’investimento in product placement consente poi di ottenerne un’amplificazione in termini
temporali, senza che mensilmente o annualmente occorra mettere a budget una nuova voce
di spesa, come accade nelle forme tradizionali di promozione di un determinato brand o prodotto.
Se si riflette poi sul fatto che il brand/prodotto possono, come accade nella maggior parte dei
casi, essere veicolati all’interno della pellicola cinematografica attraverso un attore, appare
evidente che, mediante l’investimento in product placement, viene concessa all’azienda titolare del brand l’opportunità, piuttosto unica, di utilizzare come testimonial un soggetto già
noto al pubblico, un attore, appunto, ad un costo di gran lunga inferiore a quello che l’azienda
andrebbe a sostenere “contrattualizzando” quello stesso interprete per una campagna pubblicitaria tradizionale. A ciò si aggiunga che l’attore viene sfruttato non solo nella sua veste
di attore/testimonial, ma anche in quella, spesso assai più efficace in termini emozionali di
attrazione per il pubblico degli spettatori/consumatori, del personaggio che interpreta nel
film, e dunque del suo ruolo, dei valori e delle idee di cui si fa portatore nel contesto narrativo, in altre parole della sua personale storia dentro la storia cinematografica. Da qui, spesso,
la nascita di un’associazione mentale imperitura, che travalica la misura e le aspettative degli
investimenti fatti, tra un brand ed un determinato attore/personaggio nel pubblico: si pensi
a Tiffany® ed Audrey Hepburn o a Steve McQueen e la Ford Mustang®, solo per citare alcuni
tra gli esempi più celebri.
Possiamo dunque dire che ha senso investire in PP in quanto tale investimento rappresenta un
risparmio di spesa rispetto agli usuali e più tradizionali costi della promozione di un brand?
L’investimento in PP ha davvero dei ritorni, è, in altre parole, un tipo di investimento che “paga”?
A ben vedere la letteratura recente sul PP, anche quella di stampo economico, dimostra che
esso non avrebbe effetti diretti ed immediati sull’acquisto di quel determinato prodotto/brand
da parte dei consumatori.
Ciò nondimeno, non possiamo, ad avviso di chi scrive, ignorare che: «In the branded new
world we live in logos and the products and services they represent are familiar sights»2, e
dunque non possiamo non attribuire un peso crescente, nel selezionare tra i possibili mezzi
di promozione del brand, a quelli che, in maniera più indiretta rispetto alla comunicazione tradizionale, riescano a coinvolgere emotivamente il potenziale consumatore, che non è più spettatore passivo del messaggio pubblicitario, costruendo un’immagine credibile del brand, che
cresce e si consolida nell’immaginario del pubblico, che sempre più cerca una “storia” nel
prodotto che acquista, nel brand di riferimento.
Tra tali mezzi oggi disponibili sul mercato, il product placement rappresenta, per molti versi,
strumento privilegiato, avente in sé già connaturate molte delle caratteristiche indicate.
Non solo: trattandosi di strumento flessibile, anche per la sua atipicità sotto il profilo contrattuale, il PP può assumere forme diverse e tradursi in utile strumento di investimento sia per
2
N. Klein, No Logo, Flamingo, Londra 2000, p. 107 (Traduzione: «Nel nuovo mondo brandizzato viviamo
in mezzo ai marchi ed i prodotti ed i servizi che essi rappresentano sono divenuti luoghi familiari»).
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aziende medio piccole, con poche risorse economiche da destinare alla promozione, sia per
multinazionali, che sappiano affiancare al product placement attività di marketing e comunicazione più strutturate, che portino a massimizzare l’investimento, amplificandone la portata.
PP, CO-MARKETING E CO-BRANDING
Inserire un progetto di product placement in un piano più articolato di co-marketing e cobranding rappresenta oggi una delle possibilità che il mercato offre per potenziare gli effetti
dell’investimento.
Tra le definizioni possibili, una particolarmente utile ai nostri fini è quella elaborata dal
Prof. Sergio Cherubini3, secondo la quale per co-marketing si può intendere: «il processo
mediante il quale due o più operatori, privati o pubblici, svolgono in partnership una serie
d’iniziative di marketing (organizzate, programmate, controllate) al fine di raggiungere
obiettivi di marketing (comuni o autonomi, ma tra loro compatibili), attraverso la soddisfazione dei consumatori». Si tratta, in altre parole, di un accordo stipulato tra due o più
aziende, con lo scopo di creare un progetto marketing comune, unico per più brand, ripartendo i costi sostenuti.
Applicato al cinema ed al product placement, in particolare, il co-marketing che si realizza è
quello così detto “orizzontale”, con il quale due aziende portano avanti un comune progetto
promozionale, promuovendo beni completamente diversi (film e prodotto/brand), ma rivolti
allo stesso pubblico di consumatori, ed, in linea di massima, almeno, “temporaneo”, dunque
stipulato per un singolo progetto marketing (promozione, uscita e proiezione del film), di durata prestabilita.
Esempi ben riusciti – sotto il profilo evidentemente scientifico, ignorando quale sia stato
l’esito commerciale dell’operazione – di progetti di co-marketing realizzati anche attraverso
il product placement cinematografico sono Coco avant Chanel (2009; Coco avant Chanel –
L’amore prima del mito) e The Dark Knight (2008; Il cavaliere oscuro): nel primo, la protagonista del film, Audrey Tautou, che nella pellicola cinematografica interpretava appunto la
stilista Coco Chanel, diventa la
FIGURA 7
FIGURA 8
testimonial della nuova compagna pubblicitaria, girata sull’Orient Express, del profumo
Chanel n. 5®. (fig. 7 e fig. 8)
Nel secondo, l’attore Christian
Bale, che interpreta l’alter ego di
Batman, Bruce Wayne, diviene il
testimonial di una nuova linea Armani®, lanciata contestualmente
3
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Sergio Cherubini, in Le tendenze del marketing in Europa, Atti del Convegno tenutosi a Venezia, presso
l’Università Ca’ Foscari il 24 novembre 2000.
FIGURA 9
all’uscita del film, come comunicato dalle locandine, che creano una
commistione tra film e realtà, tra attore e personaggio. (fig. 9)
Spesso operazioni di co-marketing si associano ad operazioni di co-branding, definito efficacemente, ai nostri fini, come: «un’alleanza tra due o più
marche note che vengono presentate contestualmente al consumatore
dando luogo ad una nuova offerta o ad un offerta percepita come nuova o
diversa dal consumatore, grazie al supporto o alla presenza di una nuova
marca»4. Elementi tipici del rapporto tra i brand che realizzano un progetto di co-branding sono, in genere ed anche nel nostro caso, la co-firma
del “prodotto comune e nuovo” da parte dei brand coinvolti nell’accordo, che spesso si modificano graficamente. La collaborazione tra i brand è, evidentemente, esplicita, dove l’associazione del brand al titolo del film genera attributi simbolici addizionali, che realizzano un tipo di
co-branding (detto anche co-naming) definito di tipo simbolico-affettivo.
Esempi illustri di co-branding sono Colazione da Tiffany ed The Devil Wears Prada (2006; Il
diavolo veste Prada). Buona norma sarebbe, in questi casi ancor più che laddove il titolo del
film non abbia tra le proprie componenti un marchio già noto e registrato di per sé dall’azienda che effettua nel film il placement del suo marchio, registrare il titolo del film come
marchio, per facilitare e condividere lo svolgimento delle attività di co-marketing e merchandising collegate al lancio del film.
PP E VIDEOGAMES
I videogames si configurano come o una piattaforma in continua evoluzione con particolare
riguardo all’inserimento di prodotti/servizi. Così come in ambito televisivo e cinematografico, anche in relazione ai videogames notiamo che i prodotti e i servizi oggetto di inserimento
entrano a far parte della trama del gioco, sviluppando un legame interattivo con l’utente/consumatore, proiettato in prima persona nella realtà virtuale del videogioco.
Uno dei primi casi, e forse tra i più riusciti, di inserimento di prodotti nei videogiochi è quello
di The Sims: da Alienware® (marca di pc) a Renault®, fino ai marchi di prodotti per la cura
del corpo come Dove®.
Caratteristica principale del PP all’interno dei videogiochi è proprio l’interattività: l’utente
protagonista del gioco e gli altri personaggi si ritrovano ad interagire in modo diretto con i prodotti/servizi del PP (ad esempio, un personaggio dei The Sims guida un’automobile Renault).
Ed è proprio per la capacità di unire elementi reali (brand) e mondo virtuale, consentendo all’utente di provare esperienze che non necessariamente riuscirebbe ad avere nella vita reale
(guidare una Ferrari® o indossare un abito Gucci®), che i videogiochi risultano essere un’ottima piattaforma per il PP, considerando che sfruttano in toto il senso della vita reale.
Anche gli accordi stipulati tra le aziende ed i produttori/ideatori di videogames per l’inserimento di prodotti a scopo pubblicitario rientrano nella categoria dei contratti atipici, dai contenuti più vari.
4
Prof. Francesca Cecchinato, Co-branding, Cedam, 2007.
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Spesso la declinazione del PP nel videogame entra a far parte di un più complesso accordo
di co-marketing, nel quale la presenza del prodotto nel videogame, magari ideato appositamente per l’uscita del film, è una delle possibilità che l’azienda titolare del marchio ha per
ampliare la visibilità del suo prodotto attraverso un progetto cinematografico più strutturato, che consente l’avvicinamento all’articolo di categorie di persone attratte dalla tecnologia, ma magari non necessariamente dal prodotto, se proposto per mezzo di canali
tradizionali.
Quando il videogame è interamente basato sulla trama di un film, studiato dunque ad hoc non
tanto per veicolare un prodotto o un servizio posizionato nel film, ma il film stesso, che diventa
esso stesso un prodotto, si parla, più propriamente, dei cc.dd. Movie Tie-In Videogames, spesso
erroneamente confuso col PP inteso in senso più tradizionale e sopra descritto. Trattasi di un
fenomeno di collaborazione tra case cinematografiche e creatori di videogiochi oramai diffusissimo, con il quale si intende promuovere il lancio del film, al contempo generando ulteriori
ricavi sia per le case di produzione cinematografiche che per quelle di videogiochi.
Elemento fondamentalmente per il tie-in è la previsione di una licenza mediante la quale si
cedono diritti di esclusiva sulla sceneggiatura/trama del film per la creazione di un videogioco
alle case di produzione di videogiochi, le quali, a loro volta, assumono l’obbligo di creare un
prodotto/videogioco che abbia come oggetto il film in uscita. I ricavi che si ottengono dalla
vendita verranno poi divisi tra la casa di produzione dei videogiochi e quella cinematografica,
che li riceve spesso, ma non sempre, sotto forma di royalty.
Una delle particolarità dei videogiochi creati in tie-in è che spesso anticipano l’uscita del film,
o, al più, vengono posti in vendita al momento del lancio dello stesso nelle sale.
Uno dei primi videogiochi tie-in fu quello di E.T., creato dalla Atari® nel 1982, mentre oggigiorno vanno ricordati quelli legati a film di successo soprattutto tra gli adolescenti ed i teenagers, come quelli delle serie Harry Potter e Spiderman.
Va detto, per onestà intellettuale, che quello dei Movie Tie-In Videogames, è uno strumento
che non ha generato, ad oggi, il successo sperato, rappresentando un sostanziale flop per
l’industria del videogaming e un mezzo non così promettente ed efficace nell’ambito delle
strategie di comunicazione nel cinema.
PP E MOBISODES
I Mobisodes si qualificano come un metodo, relativamente nuovo, di trasmettere programmi
televisivi. Pur non avendo attinenza specifica, almeno nell’uso attuale che se ne registra, col
mondo cinematografico, si è deciso di includerli in questa analisi in quanto trattasi di modalità
che ben potrebbe trovare diffuso impiego nel cinema, non fosse altro come ulteriore strumento
promozionale del film, da prevedere in un maggiormente ampio progetto di co-marketing.
Nello specifico, i Mobisodes sono brevi episodi di programmi, appositamente elaborati e formattati per essere trasmessi, e dunque visti, sui telefoni cellulari. Tale tecnologia è stata resa
possibile grazie agli sviluppi in materia di trasferimento dati in 3G e tramite dispositivi wireless. In effetti, la velocità del trasferimento dati delle reti 3G ha permesso alle produzioni tv di
rendere questi episodi disponibili, tramite connessione wireless, in streaming o in download,
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proprio grazie alla rete cellulare. La Fox Broadcasting Company è stata tra le prime società ad
utilizzare il termine “mobisodes” ed anche tra le prime emittenti a trasmetterli. I mobisodes
nascono, peraltro, come prodotto degli operatori telefonici, elaborato allo scopo di ottenere
ricavi sempre più elevati dal mondo dei servizi dati wireless. Difatti, detti gestori telefonici operano cercando di creare contenuti, disponibili in modalità wireless, sempre più invitanti nell’ambito di musica, tv e cinema, così da incrementare progressivamente la percentuale di utenti
che utilizza tali tecnologie.
C’è da credere che tale tecnologia, con il tempo, sarà sempre più diffusa, procedendo di pari
passo con lo sviluppo e l’evoluzione della tecnologia dei telefoni cellulari. In effetti, la tendenza
del consumatore medio è quella di aumentare la propria accessibilità mobile ai contenuti
media. Con l’avvento dei prodotti di alto gradimento di massa, quali l’iPhone e Google G1, i
consumatori di telefonia mobile stanno divenendo sempre più interessati e ferrati rispetto
all’accesso dei contenuti su dispositivi mobili. Più il consumo delle summenzionate tecnologie si allarga, maggiore sarà la domanda, indirizzata agli operatori telefonici, affinché questi
ultimi creino contenuti di qualità sempre più elevata. Ciò, ovviamente, favorirà la crescita di
tali tipi di contenuti.
Da un punto di vista strategico, è dunque ovvio che questo meccanismo crea delle opportunità assai interessanti. Un telefono cellulare si trova, tendenzialmente, sempre con la persona
che lo possiede (mi passerete l’apparente banalità). Man mano che i consumatori si rivolgono sempre più ai propri telefoni cellulari per accedere a certe forme di intrattenimento, vi
sarà un crescente numero di opportunità per raggiungere il consumatore/spettatore attraverso messaggi pubblicitari, product placement e pubblicità tv. I pubblicitari e programmatori di contenuti dovranno divenire sempre più creativi e adattarsi a vantaggi e svantaggi
derivanti dalla tecnologia in questione. I content provider dovranno essere in grado di adattare i propri messaggi pubblicitari a schermi più piccoli e a durate più brevi degli spazi pubblicitari. D’altra parte, il volume di utenti raggiunti dovrebbe essere in grado di compensare
la durata notevolmente ridotta dei messaggi.
Immaginiamo, dunque, di realizzare un mobisode (qualcosa di più di un trailer) su di un film
di prossima uscita, o di un film appena uscito. O in concomitanza all’uscita del film nelle sale.
E di associare ad esso un gioco a premi, ad esempio. O l’elezione tramite sondaggio per sms
del personaggio preferito.
Le possibilità di declinazione di uno strumento assai al passo con i tempi per promuovere un
prodotto e un film ove il prodotto sia inserito sono numerose.
PP 2.0 - FACEBOOK®
Ma lo strumento che si profila essere quello a più alto potenziale di sviluppo per nuove e sempre più efficaci forme di product placement cinematografico è quello dei social network.
Una possibilità assai interessante di PP 2.0 è quella offerta da Facebook®, possibilità che si
realizza grazie alla funzione di “tag”, inizialmente utilizzata dagli utenti solo per identificare
e “nominare” le persone ritratte nelle fotografie caricate sul proprio profilo.
Se lo scopo del PP è quello di pubblicizzare un prodotto, quale miglior strumento di un social
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network per promuovere prodotti e servizi? Vantaggio assoluto dell’inserimento di prodotti e
servizi – che si siano già collocati o si intendano collocare in un film – all’interno di un social
network è il bacino di utenza potenziale e dunque la possibilità di indirizzare il “messaggio
pubblicitario” a molti più target, anche diversi fra loro, a basso costo – ma, vedremo, tale riduzione di costi è più apparente che reale. Prendendo come esempio proprio la nuova opportunità offerta da Facebook®, passiamo a descrivere una tipica ipotesi di PP 2.0.
Abbiamo detto che Facebook® offre all’utente la possibilità di “taggare” persone nelle fotografie; oggi, e da relativamente poco tempo, è possibile “taggare” sulle foto anche prodotti e
servizi (presenti nella fotografia, ma anche non presenti), abbinando così loghi e prodotti al
mondo reale (le foto dell’utente). Il meccanismo del “taggare” un prodotto in una foto caricata
da un utente X trova fondamento nelle c.d. “Pagine di interesse” su Facebook®. Quando un
utente decide di andare a “taggare” nella proprio foto, ad esempio, una lattina di Coca-Cola®,
non deve fare altro che posizionare il puntatore in un’area della foto (non necessariamente
quella della lattina), cliccare e cominciare a digitare la parola “Coca-Cola”®. Appena verranno inserite le prime lettere, il sistema di Facebook® fornirà all’utente una serie di Pagine corrispondenti ai termini chiave inseriti. Dette Pagine non sono altro che dei “profili”
Facebook® simili ai profili classici (a differenza di questi ultimi, non necessitano dell’approvazione dell’amicizia per essere visualizzati) creati dalle varie società titolari di quel prodotto/brand per finalità di marketing e comunicazione. Ed infatti, non appena il tag viene
creato dall’utente, e con esso l’immediata possibilità di accedere alla pagina del prodotto
cliccando sul tag, l’azienda titolare della pagina vedrà, a sua volta, la foto di quell’utente caricata sulla sua pagina.
Immaginiamo di rendere possibile questa operazione, nell’ambito di un contratto di co-marketing, per collegare il tag sia alla pagina del prodotto inserito nel film sia a quella creata ad
hoc per il film in uscita. Per poterlo realizzare, per l’azienda titolare del brand e per la casa
di produzione cinematografica sarà necessario e sufficiente creare una pagina che “nomini”
il prodotto/titolo del film.
La vera opportunità è quella di rendere visibile, a costi bassissimi, l’opera cinematografica/il
prodotto inserito nel film/entrambi, facendo affidamento anche solo al semplice passaparola
cibernetico che viene generato dagli stessi utenti. Un esempio che solitamente funziona per
far comprendere le potenzialità del mezzo è quello di un gruppo di amici che si danno un appuntamento per il weekend: si scrivono sulle loro bacheche Facebook® e decidono di “taggare” in una loro foto o in un loro post il nome del film che andranno a vedere. In pochi click
tutti gli amici di network di ciascuno dei soggetti che sono stati taggati nella foto o nel post
insieme alla Pagina del film “X”, sapranno non solo che quei loro amici andranno a vedere
quel film, ma avranno anche la possibilità di accedere in modo immediato, semplicemente
cliccando sul “tag” del film, alla Pagina relativa al film in questione, con la possibilità di accedere a tutte le informazioni ed immagini caricatevi.
Tale tipo di PP ha senza dubbio enormi vantaggi legati ai costi, considerando che è quasi sempre “gratuito”, ma, al contempo, presenta svantaggi e zone d’ombra per quanto concerne gli
aspetti legali, che si traducono a loro volta in costi.
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I rischi più tangibili sono quelli relativi alla possibilità che vengano “taggate” pagine fake di
prodotti contraffatti, pagine fake di film non originali, che si traducono in ipotesi di contraffazione, concorrenza sleale, anche denigratoria, storno di clientela. L’autogestione, a costo
quasi zero da parte dell’utente (visto che il costo per le aziende e per le case di produzione
è solo quello di creare la pagina di interesse), si trasforma in costo di monitoraggio per le
aziende.
Al contempo, l’opportunità è talmente grande che vale la pena di sfruttarla, disciplinandola,
consapevoli delle distorsioni possibili insite nel sistema.
IL CONTRATTO DI PRODUCT PLACEMENT - CLAUSOLE TIPO
Trattandosi di contratto atipico, il contenuto può variare anche in modo significativo. Per
quanto concerne l’oggetto, ad esempio, esso può consistere in una prestazione di servizi, finalizzata al collocamento di uno specifico marchio/prodotto/servizio all’interno di una data
opera, oppure, in alternativa, in un contratto che si avvicina molto al tipico mandato (ad esempio nel caso, assai comune, in cui parte sia anche un’agenzia specializzata in PP).
Un contratto di PP è comunque sempre un contratto consensuale, ad effetti obbligatori, a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive. Proprio le prestazioni sono parte fondamentale dell’accordo, perché è attraverso di esse che viene determinato il “peso” che avrà il
prodotto/marchio/servizio nell’opera cinematografica o televisiva.
Quanto al corrispettivo, il PP può avvenire dietro pagamento di una somma (paid PP), oppure
dietro fornitura di prodotti e servizi di un certo valore, per ottenere la disponibilità dei quali
per un film si sarebbe dovuta comunque investire una certa somma di denaro (barter PP ).
Clausole sempre essenziali di un contratto di PP, oltre all’indicazione dell’oggetto e del corrispettivo, sono quelle relative alla modalità e alla tipologia dell’inserimento e, più in generale, ai limiti, divieti e obblighi delle parti.
Trattandosi di contratto atipico, e di strumento che deve coniugare profili giuridici e profili di
marketing e artistici, il più delle volte la sua stesura è devoluta ad agenzie specializzate nella
individuazione di progetti di product placement appetibili per le aziende, che se senza dubbio rappresentano l’interlocutore più idoneo e competente per realizzare l’incontro tra domanda e offerta e, dunque, per mettere in contatto progetti cinematografici e aziende che
vogliano inserire prodotti nel film, non costituiscono, ad avviso di chi scrive, il soggetto cui dovrebbe essere affidata la stesura di un contratto.
In effetti, spesso le strutture contrattuali della media dei contratti di PP è molto semplice, laddove, considerando gli interessi in gioco, sarebbero opportune strutture più complesse, che
consentano, anzitutto, possibilità di controlli intermedi nel corso della realizzazione del progetto, per verificare, da parte di chi ha fatto l’investimento, che il progetto, così come si sta
realizzando, nelle varie fasi di produzione, sia ancora fedele all’immagine che il brand vuole
dare di sé, alla finalità che l’azienda voleva raggiungere. A volte l’effettivo inserimento, quello
che si realizza in concreto, è troppo invasivo, superficiale, non armonioso nel contesto narrativo: l’effetto potrebbe, dunque, essere quello di ottenere una reazione negativa dello spettatore, di segno opposto a quella evidentemente desiderata.
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Occorrerebbe, in un mondo ideale, forse lontano dalla effettiva prassi di sviluppo del film,
coinvolgere sceneggiatori, registi ed attori nella realizzazione del progetto, nella comunicazione del messaggio. In un mondo più reale, è essenziale prevedere nel contratto una clausola che consenta all’azienda titolare del brand di effettuare medio tempore dei controlli sulla
realizzazione del placement.
Ancora, l’esperienza insegna che il contenuto minimo di un contratto di product placement
volto a tutelare l’investimento dell’azienda debba prevedere:
• numero minimo di scene/minuti di girato di inserimento del brand nel film;
• obblighi di esclusiva in capo agli attori coinvolti nel PP, per evitare devastanti effetti distorsivi dell’investimento;
• diritto di veto per l’azienda nel caso di sostituzione in corso d’opera di attori coinvolti nel PP;
• chiari obblighi per la realizzazione del concordato piano di co-marketing;
• termine massimo di inizio riprese e termine massimo di uscita del film nelle sale;
• escludere l’uscita nelle sale in determinati mesi dell’anno;
• chiari obblighi sulla rete di distribuzione cinematografica (almeno in quante sale su territorio nazionale).
Farsi assistere da un avvocato nella stesura o nella attenta revisione del contratto standard
di PP proposto, secondo la prassi, dalle agenzie specializzate sarebbe sempre buona norma,
per evitare sgradevoli sorprese ed investimenti che si rivelino – in un secondo tempo, e
ferma restando l’alea, non sempre valutabile a priori, di successo di pubblico del film – fatti
a vuoto.
IL CONTRATTO DI COMODATO
Un’alternativa, per così dire, “a tempo”, di un vero contratto di PP, è la stipula di un contratto
di comodato. A tempo perché lo scopo di proporlo e sottoscriverlo dovrebbe essere non tanto
quello di far raggiungere ai soggetti coinvolti gli stessi scopi – grosso modo – di un contratto
di PP ad obblighi e responsabilità, anche economiche, ridotti; quanto quello di rasserenare
un mercato potenziale interessante e poco esplorato, quello italiano della piccola e media
impresa, così da invogliarlo ad effettuare un primo “investimento” in PP, con l’auspicio che
si ripeta nelle dovute forme.
In effetti, il PP, basandosi su di una struttura contrattuale che prevede prestazioni corrispettive, impone a ciascuna parte di assumersi degli obblighi, anche economici, spesso letti non
tanto come troppo onerosi in termini di investimento, quanto eccessivamente aleatori sotto
il profilo del rischio del successo dell’investimento effettuato, in un momento storico quale
quello attuale, in cui ad essere in difficoltà e percepire come troppo oneroso qualsivoglia tipo
di investimento non è solo l’industria cinematografica.
Una soluzione ibrida, che può dunque essere proposta come iniziale alternativa per entrare con
meno rischi su di un mercato che non si conosce, è quella della stipula di contratto di comodato.
Il contratto di comodato viene definito come il contratto con cui una parte (comodante) consegna
all’altra (comodatario) una cosa mobile – o immobile – affinché se ne serva per un tempo o per
un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta (art. 1803, 1° comma, c.c.).
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Il contratto di comodato, prestato e dunque “piegato” alla realizzazione delle finalità che un
contratto di PP si propone, è solitamente caratterizzato dalla presenza delle seguenti clausole, quivi redatte a mero titolo esemplificativo:
• Oggetto: «Con la sottoscrizione del presente accordo, X – azienda titolare del brand – concede in uso gratuito ad Y – società di produzione – la merce concordata tra i rappresentanti
delle rispettive società, costituiti da …… (PRODOTTO) a marchio “A”; Il materiale sarà utilizzato durante la realizzazione del film “Z” diretto da ….. Il materiale concesso verrà utilizzato in modo conforme al copione e comunque secondo modalità tali da non nuocere
all’immagine di X e del relativo marchio A»;
• Termini e luogo di consegna del materiale;
• Termini e luogo per la restituzione del materiale;
• Spese di trasporto;
• Stato del materiale al momento della restituzione;
• Polizza assicurativa;
• Obbligazioni specifiche a carico della società di produzione Y;
• Modalità di citazione di X ed A nei titoli di coda;
• Obbligo di utilizzo del materiale messo a disposizione da X e del suo nome e marchio A durante le riprese del film, sia pure senza alcun obbligo di ripresa in primo piano e nel pieno
rispetto della normativa vigente in materia product placement;
• Obbligo di fornitura ad X a fine riprese di alcune foto di scena da utilizzare per scopi redazionali e non anche pubblicitari.
Come emerge dall’analisi di tali clausole, i vincoli derivanti dal contratto di comodato sono di
gran lunga meno onerosi di quelli previsti dai contratti di PP e, allo stesso tempo, permettono
di perseguire in parte gli stessi scopi di norma stabiliti con il contratto di inserimento del prodotto per fini commerciali.
Suggerirne l’utilizzo da parte di imprese che, per dimensioni (Pmi) o settore di appartenenza
(vedi sotto), non sono mature per il PP nelle forme descritte, può consentire di avvicinare
aziende scettiche rispetto alla convenienza dell’uso di tale strumento che, col tempo, magari galvanizzate da un primo successo, potrebbero diventare abituali investitori in PP.
Emblematico, al riguardo, il caso esemplificato dal grafico che segue, dal quale emerge che
le industrie italiane del settore orafo, presso le quali è stata di recente condotta un’interessante indagine sull’uso del PP, considerano come limiti a tale tipo di investimento il fatto di
(I) percepirlo come un investimento dal costo elevato, (II) non avere un brand ancora abbastanza noto (evidentemente ignari della vicenda del film Kill Bill (2003 e 2004; Id.) e del marchio di scarpe da ginnastica, fino ad allora ignoto ai più, Onitsuka Tiger®) , (III) non sapere a
chi rivolgersi per realizzarlo. In situazioni come questa, pare opportuno, per tutte le ragioni
esposte, proporre come alternativa al PP il contratto di comodato.
PP E TAX CREDIT- CENNI
Il tax credit cinematografico, introdotto dalla L. 244/2007 (Finanziaria 2008) è una forma di
“credito di imposta”.
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FIGURA 11
INDAGINE SUL PRODUCT PLACEMENT
Quali ritenete possano essere delle limitazioni nello sviluppo di un’attività
di product placement per la vostra azienda?
Il nostro marchio non è ancora
abbastanza noto
Immaginiamo
un costo elevato
Non sapremmo a chi rivolgerci
Altro (specificare)
Nessuna limitazione
ORO AREZZO - 25 marzo 2012 - 11.30
Un gioiello di film
Le disposizioni in materia di tax credit permettono, anche ad aziende estranee allo specifico
settore cinematografico, di compensare i debiti fiscali con il credito maturato a seguito di un
investimento in un film.
Tale meccanismo ha fatto sì che un numero sempre crescente di imprese, cinematografiche
e non, decidesse di investire nella distribuzione o produzione di un film, film che deve, in base
alle legge, superare un test di eleggibilità culturale perché si possa accedere al finanziamento.
Destinatari delle previste agevolazioni fiscali sono i c.d. Investitori Interni (ad esempio, imprese di produzione e distribuzione cinematografica, imprese di produzione esecutiva e di
post-produzione) e i c.d. Investitori Esterni (soggetti imprenditoriali esterni alla filiera cinematografica), purché soggetti a tassazione in Italia.
Per quanto concerne il tax credit a cui accedono gli Investitori Esterni (ipotesi di interesse
per l’argomento trattato in questa sede), essi beneficiano di un credito d’imposta del 40%
dell’apporto, fino ad un massimo di 1 milione di euro per ciascun periodo di imposta, investito
per quelle opere cinematografiche italiane a cui hanno preso parte, tramite contratti di associazione in partecipazione o cointeressenza con il produttore.
L’apporto del denaro dovrà sempre avvenire nell’ambito dei summenzionati contratti di associazione in partecipazione o cointeressenza e, tali contratti, dovranno avere una durata non
inferiore a diciotto mesi.
Altro requisito fondamentale è quello per cui gli apporti complessivi per ciascuna opera cinematografica non debbano superare il 49% del costo di produzione dell’opera stessa e, inol314 |
tre, la partecipazione agli utili da parte degli associati non dovrà mai superare il 70% degli utili
derivanti dallo sfruttamento dell’opera. Il produttore, d’altra parte, deve rispettare i requisiti
di “territorialità” e spendere sul territorio nazionale almeno l’80% dell’apporto in denaro ricevuto dall’investitore esterno. A certe condizioni, anche la produzione di film stranieri può
beneficiare del tax credit.
Inoltre, e questa è la questione di maggiore interesse in questa sede, gli Investitori Esterni
possono anche associare all’investimento in tax credit uno in product placement, a patto che
gli apporti in denaro, in tal caso, non siano inferiori al 10% del budget complessivo di produzione. Tale limite è ridotto al 5% per i film riconosciuti difficili o a basso budget.
Infine, il grande ulteriore vantaggio fiscale per l’investitore esterno è che gli eventuali utili
successivi al recupero dell’apporto saranno soggetti ad una tassazione del 5% sul loro ammontare.
L’interesse del potenziale investitore nel cinema dovrebbe dunque oggi essere notevolmente
accresciuto rispetto al passato, se si considera che è possibile unire un investimento in tax
credit – con il suo immediato beneficio in termini di agevolazione fiscale, così come descritto,
che è assoluto e prescinde non solo dal successo del film nelle sale ma addirittura dall’uscita
stessa del film – ad un investimento in product placement, nei termini indicati.
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