LEUCEMIE MIELOIDI CRONICHE

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LEUCEMIE MIELOIDI CRONICHE
LEUCEMIE MIELOIDI
CRONICHE
La Leucemia Mieloide Cronica (LMC) è una malattia neoplastica
relativamente rara (1-2 casi/100.000 abitanti/anno) prevalente
nell’adulto-anziano. Le cellule leucemiche sono caratterizzate nel
95% dei casi dalla presenza nel loro nucleo di un cromosoma
anomalo, detto “cromosoma di Philadelphia” dal nome della città
americana dove fu osservato per la prima volta, che si forma in
seguito ad una traslocazione tra il cromosoma 9 ed il cromosoma 22.
Questa traslocazione, attraverso il trasferimento di materiale
genetico da un cromosoma all’altro, causa la fusione di due geni (il
gene BCR del cromosoma 22 ed il gene ABL del cromosoma 9),
normalmente separati: il gene ibrido BCR-ABL che si viene a
formare gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di questa
malattia, inducendo un aumento della capacità proliferativa delle
cellule leucemiche e rendendole resistenti ai normali sistemi di
controllo della moltiplicazione cellulare. Nei casi di LMC in cui non si
osserva il cromosoma di Philadelphia, 5% del totale, è possibile
dimostrare con tecniche di biologia molecolare la presenza del gene
di fusione BCR-ABL.
La Leucemia Mieloide Cronica, se non trattata, è caratterizzata da un
decorso clinico che si articola in due o tre fasi. Nella fase iniziale
della malattia, detta fase cronica, le cellule leucemiche tendono a
crescere di numero con aumento del numero dei globuli bianchi nel
sangue periferico e del volume della milza, ma conservano la
capacità di maturare e di produrre cellule del sangue “normali”.
Durante questa fase il controllo della malattia è abbastanza agevole.
Dopo un periodo di tempo variabile, fa seguito una seconda fase,
detta fase blastica, in cui le cellule neoplastiche perdono la capacità
di maturare e la malattia assume le caratteristiche di una leucemia
acuta, diventando aggressiva. L’evoluzione in fase blastica può
avvenire in modo improvviso o attraverso una fase intermedia
definita fase accelerata, che può durare da poche settimane a molti
mesi.
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La diagnosi di Leucemia Mieloide Cronica viene effettuata durante
fase cronica nell’85% dei casi. La sintomatologia è spesso
clinicamente poco rilevante e in almeno un terzo dei pazienti si
giunge alla diagnosi occasionalmente, nel corso di accertamenti
eseguiti per altre patologie. I sintomi più frequentemente osservati
sono stanchezza, perdita di peso, febbre o febbricola, dolori
osteomuscolari.
All’esame fisico, il reperto più frequente è un ingrossamento della
milza, che causa talora senso di tensione addominale e di sazietà
precoce dopo i pasti. Un aumento del volume dei linfonodi non è
caratteristico di questa malattia ed orienta la diagnosi verso altre
patologie.
Gli esami di laboratorio mostrano quasi sempre un aumento del
numero dei globuli bianchi ed, a volte, un aumento del numero delle
piastrine o una lieve anemia. In caso di sospetto diagnostico, è
necessario effettuare una visita specialistica ematologica, un
emocromo con esame microscopico dello striscio di sangue
periferico ed un prelievo di midollo osseo. La diagnosi deve essere
confermata dalla osservazione del caratteristico cromosoma di
Philadelphia all’analisi del cariotipo (studio dei cromosomi eseguito
su cellule di sangue midollare o periferico, anche detto analisi
citogenetica) o dalla dimostrazione della presenza del gene di
fusione BCR-ABL tramite tecniche di biologia molecolare.
L’analisi citogenetica e le indagini di biologia molecolare
rappresentano delle metodiche molto sensibili, capaci di svelare
anche una piccola quota di cellule leucemiche. Esse sono quindi
utilizzate, oltre che a scopo diagnostico, per valutare il grado di
risposta alla terapia e per evidenziare la eventuale persistenza di
malattia dopo trattamento (studio della malattia minima residua):
Risposta Citogenetica Completa: quando non si evidenzia
più la presenza del cromosoma di Philadelphia all’analisi del
cariotipo
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Risposta Molecolare Maggiore: quando l’analisi molecolare
mostra una espressione del gene BCR-ABL al di sotto di un
certo livello soglia
Risposta Molecolare Completa: quando l’analisi molecolare
non è in grado di rilevare l’espressione del gene ibrido BCRABL
Il raggiungimento di queste risposte rappresenta un risultato molto
importante, poiché indica che anche le più raffinate metodiche di
indagine non sono in grado di evidenziare tracce residue della
malattia. Numerosi studi hanno mostrato che i pazienti che
ottengono una risposta citogenetica completa e una risposta
molecolare maggiore hanno una probabilità molto elevata di
sopravvivere a lungo, senza progressione della malattia alla fase
accelerata/blastica.
Strategia di trattamento
Per oltre un secolo lo scopo della terapia della LMC è stato il
contenimento della massa leucemica. Questo obiettivo è stato
perseguito a partire dagli anni ’50 attraverso l’uso di agenti
chemioterapici convenzionali a basse dosi, tra i quali il busulfano e
l’idrossiurea. Il trattamento convenzionale ha determinato un
miglioramento della qualità di vita, ma non è stato in grado di
cambiare in modo significativo la storia naturale della malattia, né di
prevenirne la progressione alla fase accelerata/blastica.
La consapevolezza di questi limiti aveva condotto ad alcuni tentativi
di intensificazione dei regimi terapeutici, ma essi furono rapidamente
messi in secondo piano dal rapido sviluppo del trapianto di cellule
staminali da donatore sano (trapianto allogenico), per il quale la LMC
ha costituito per anni l’indicazione più frequente, e che costituisce
ancora oggi l’unico trattamento in grado di eradicare definitivamente
la malattia, soprattutto se effettuato durante la fase cronica. Il
trapianto allogenico, tuttavia, è una procedura assai impegnativa ed
a causa della sua potenziale pericolosità (elevata incidenza di
mortalità e morbidità) è praticabile soltanto in pazienti di età inferiore
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ai 55 anni senza altre gravi patologie concomitanti: a causa dell’età
avanzata di esordio della LMC e della difficoltà di trovare un
donatore di cellule staminali compatibile con il ricevente, il trapianto
allogenico costituisce, quindi, una reale opportunità terapeutica,
peraltro non esente da rischi, soltanto per una minoranza dei
pazienti con LMC.
L’introduzione dell’interferone-alfa nella terapia della LMC a partire
dai primi anni ‘80, ha definitivamente ridimensionato il ruolo della
terapia convenzionale ed ha iniziato a ridurre le indicazioni al
trapianto. Questo farmaco è infatti in grado di indurre una risposta
citogenetica completa nel 20-30% dei pazienti trattati, con
mantenimento a lungo termine delle risposte ottenute. Una
limitazione all’impiego di questo farmaco è data dalla sua non
trascurabile tossicità, in particolare nei pazienti anziani. Allo scopo di
migliorare i risultati raggiunti, l’interferone è stato associato ad altri
agenti citotossici. Soltanto l’associazione dell’ interferone con la
citosina arabinoside (ARA-C) ha dimostrato di poter ottenere risultati
migliori rispetto all’interferone da solo, senza però un chiaro
vantaggio in termini di sopravvivenza.
La terapia della Leucemia Mieloide Cronica è stata recentemente
rivoluzionata dall’arrivo nella pratica clinica dell’imatinib mesilato, un
potente inibitore selettivo della proteina codificata dal gene di fusione
BCR-ABL. Questa proteina ha un ruolo fondamentale per la
sopravvivenza delle cellule leucemiche e costituisce, quindi, un
bersaglio molecolare ideale per terapie cosiddette “intelligenti” o
“mirate”. L’imatinib, testato all’interno di studi sperimentali a partire
dal 1999, è stato registrato nel 2003 per il trattamento della
Leucemia Mieloide Cronica in tutte le fasi di malattia, grazie alla sua
capacità di indurre risposte nella maggior parte dei pazienti trattati,
con un significativo miglioramento della sopravvivenza. Un grosso
studio internazionale per pazienti con Leucemia Mieloide Cronica in
fase cronica (studio IRIS), ha mostrato una chiara superiorità
dell’imatinib come terapia di prima linea rispetto alla combinazione di
interferone ed ARA-C, cioè rispetto a quella combinazione
farmacologica che prima dell’arrivo dell’imatinib rappresentava la
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migliore terapia disponibile: dopo 5 anni di osservazione l’82% dei
pazienti trattati ha ottenuto almeno una volta una risposta
citogenetica completa, e quasi tutti i pazienti hanno mantenuto la
risposta raggiunta con un significativo miglioramento della
sopravvivenza.
L’imatinib, inoltre, è generalmente ben tollerato e può essere usato
senza difficoltà nella maggior parte dei pazienti, compresi i pazienti
anziani. I lusinghieri risultati ottenuti con l’imatinib mesilato hanno
ulteriormente ridotto le indicazioni al trapianto allogenico come
terapia di prima linea, ma il trapianto resta la terapia di scelta per
quei casi in cui l’imatinib fallisce o consente di ottenere solo una
risposta sub-ottimale e per quei pazienti che non sono in grado di
tollerare il trattamento con imatinib.
L’imatinib si è dimostrato un farmaco molto efficace, ma esistono dei
casi (ad esempio i pazienti con malattia in fase avanzata) in cui esso
fallisce o non riesce ad ottenere i risultati auspicati. In questi casi
continuare l’imatinib a dosi standard non è più appropriato, o almeno
l’esito a lungo termine del trattamento non sarebbe probabilmente
molto favorevole.
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Edito dall’Ufficio Comunicazione su testi forniti dalla Struttura
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Revisione5 – Marzo 2017
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