Tra le pieghe dell`attimo fuggente

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Tra le pieghe dell`attimo fuggente
Claudio Chillemi
Tra le pieghe
dell’attimo fuggente
Finalista Premio Italia 2012
Copyright © 2011 by the author
Pubblicato in forma elettronica per gentile concessione dell’Autore su
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Tutti i diritti riservati
Prima pubblicazione Edizioni Della Vigna, Fermenti n. 9, ottobre 2011
Claudio Chillemi - Tra le pieghe dell’attimo fuggente
La notte nel deserto è fredda.
Quando guardo su in alto e vedo il volto
ammantato di stelle di un cupo azzurro splendente come l’acciaio, ho la sensazione che nulla
sia avvenuto e che io abbia ancora vent’anni, ma
non è così.
Avevo vent’anni sei mesi fa, ora ne ho quasi
ottanta.
Beninteso, non ho ottant’anni sulla carta,
quello no. Sul mio chip intracraniale appaio ancora come un ventenne, tale Franz Rubonelli,
nato a Basilea, Svizzera, il 18 dicembre del 2068
(giusto per non fare date e nomi). Ma, se mi guardo allo specchio, ciò che vedo non mi piace.
In verità mi piaceva poco anche prima.
Ora mi piace ancor meno. Capelli bianchi e
diradati, volto scavato e rugoso, denti larghi e
opachi, occhi spenti e incerti. Una vecchiaia così
non esiste più nel nostro mondo.
Quando si invecchia si va subito nei laboratori specializzati a fermare la calvizie, a interromwww.edizionidellavigna.it
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pere il deterioramento dermatologico, a farsi
aggiustare organi, ossa, arti, e tutto ciò che il tempo consuma.
Quando si invecchia.
Ma quando si vende il proprio tempo per una
manciata di soldi? Quando si svende la propria
vita per ingrassare quella altrui, non c’è tempo
per le cure mediche ed estetiche, si invecchia e
basta, come si faceva un tempo, fino a lasciarsi
morire.
Avevo conosciuto Karl Bean a Londra. Era
un Bean di quella famiglia lì, quella della Kronos,
per intenderci. Eravamo tutti e due in quella città per studiare (o per fare finta di farlo, questo
dipendeva anche dalla ricostruzione che della
vicenda facevano i nostri genitori). Non è che
lui fosse un tipo simpatico, ma aveva la ragazza, e la sua ragazza (Tippy o Trippy, non ricordo
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più, deve essere la vecchiaia) aveva delle amiche.
Quando ancora facevo all’amore una donna
era una cosa seria.
Vicino alla Torre, proprio innanzi a Tower
Bridge, c’era il ritrovo di quei tossici. Li chiamavano tossicronici. Erano ricchi esponenti del
mondo economico che s’incontravano in un pub
chiamato Forever.
Bel nome, forse un po’ esplicito, ma indicativo del suo servizio per la società.
In quel luogo ci incontravamo con Karl, la
sua ragazza e le amiche della sua ragazza, e in
quel luogo iniziammo a fare soldi facili.
Il primo ad agganciarci fu Andrew, un cinquantenne ben messo che ci offrì una birra e si
sedette al nostro tavolo iniziando a palpeggiare
una delle amichette di Trippy (sì Trippy, non
Tippy, che razza di nome è Tippy?).
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«Sono soldi facili facili,» disse dopo averci
spiegato il meccanismo. «Voi siete giovani, cosa
sono tre o quattro anni di vita? Probabilmente
quando sarete arrivati alla mia età i progressi
della medicina saranno tali che gli anni che avete perso oggi li guadagnerete decuplicati.»
Il ragionamento non faceva una piega.
Io ti do un anno della mia vita e tu mi paghi
un tanto al mese. Quanto? Cinquecento global.
Di che spassarsela per una settimana con qualche bella donnina.
Un anno della vita.
Un anno di vita sembra poco a vent’anni, a
ottanta assume un significato ben diverso, ma
allora questo non lo sapevo.
Parlo di allora come se si trattasse di un secolo or sono, o di sessanta anni fa, ma in realtà
sono passati poco più di sei mesi, sei mesi. Devo
imporre a me stesso di ricordarlo: sono passati
solo sei mesi.
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Iniziammo col vendere un po’ di anni ad
Andrew. In tutto cinque, incluse le ragazze, e lui
ci pagò come pattuito.
L’affare del trasferimento era semplice.
La macchina era arrivata dallo spazio, si diceva. Nessun essere umano l’avrebbe potuta inventare. Altri pensavano che fosse giunta direttamente dal futuro, e forse questo era più probabile. Per un po’ si era vociferato che era uno dei
progetti segreti della Kronos, ma Karl Bean mi
disse che non ne sapeva nulla, ma che era anche
vero che a lui, la sua famiglia, non diceva proprio tutto.
La macchina ci guardava negli occhi, poi
guardava negli occhi l’acquirente, e... Ops! Tutto
era fatto. Noi avevamo qualche anno di vita in
meno, lui qualcuno in più.
Su di lui si notava subito.
La pelle più tirata, gli occhi più vivi, i denti
più dritti, i capelli più folti.
Su di noi meno, passare da cinquanta a quawww.edizionidellavigna.it
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rantacinque anni era un bel salto; meno era passare da venti a ventuno.
Questo dato ci trasse subito e fatalmente in
inganno.
Ad Andrew seguì un Mike, un Jeff, un Paolo,
un Serge, un Ivan, e altri ancora.
Vendevamo sei mesi a uno, un anno all’altro;
una settimana ai meno ricchi che non si potevano permettere di più.
I soldi scorrevano nelle nostre tasche con la
frequenza del giorno e della notte.
La nostra vita scivolava via.
I tossicronici erano sempre più affamati di
giovinezza. La volevano, la pretendevano come
un serpente vampiro dei racconti di Jacob Bean
che mi leggeva mia madre da bambino...
Il serpente vampiro usciva dalla sua tana la
notte e strisciava fino alla camera di un bambino
cattivo, lo interrogava sulle sue monellerie e poi
pretendeva il soldo della punizione.
Ecco come si comportavano i tossicronici,
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pretendendo da noi le nostre vite, spicciolo per
spicciolo, senza arrotondare.
Paradossalmente arrivare ai quarant’anni biologici fu questione di appena due mesi.
La prima cosa che notai fu un leggero calo dell’attività sessuale. Come dire, il desiderio si diradava. Poi iniziai a non reggere più l’alcool: cadevo
a terra tramortito dopo appena due pinte di birra.
Anche a Karl accadde la stessa cosa, ma lui
invecchiava più rapidamente di me. Perché, non
l’avevo mai notato, ognuno invecchia a proprio
modo. Chi lentamente, chi velocemente. Dipenderà dalle ghiandole della genesi o dalla propria
mente. In verità ho visto tanti giovani vecchi e
tanti vecchi giovani, in cui le rughe e le malattie
non seguivano certo un percorso biologico segnato, ma tant’è...
E fu Karl il primo a lasciarci.
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Aveva un’età anagrafica di vent’anni, dieci
mesi e tredici giorni; morì come un sessantenne o più, colto da un infarto mentre dormiva.
Non ho mai capito perché l’avesse fatto. Vendere la vita, intendo, con tutti i soldi della sua
famiglia... Ma lui continuava a dire che i soldi
li voleva fare da sé, che non voleva nulla da
suo padre, che non intendeva sottostare alle
stupide regole dei Bean. Lo ammiravo, senza
mezzi termini.
Quando Karl morì aveva appena venduto
due anni per un ipervolante decappottabile, il sogno della sua vita che era andato a sognare in
un’altra vita.
La morte di Karl colse di sorpresa Trippy che,
come vi avevo detto, era la sua ragazza. Anche
lei aveva venduto alcuni anni di vita, ma non più
di sei o sette.
Quando Karl morì lei pianse. La vidi piangere. Non più di due o tre lacrime in verità, di quelle
lacrime che si regalano anche a un olofilm rowww.edizionidellavigna.it
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mantico di pessimo gusto. Eppure pianse, anche
se nessuno di noi se lo aspettava.
Io, invece, non dissi nulla.
Guardai il corpo del mio amico che veniva
caricato nell’eliveicolo del coroner per le indagini di rito e poi me ne andai a casa, per studiare
come spendere i quasi duemila global che mi
erano arrivati dall’ultima transazione avvenuta
la sera prima.
Dopo due mesi conobbi Herbet Bean. Direttore del progetto Commerciale Interplanetario.
Uomo ricchissimo ma giunto tristemente ai suoi
ultimi anni di vita.
Aveva settantacinque anni. Con le cure appropriate e con due o tre trapianti azzeccati, poteva anche arrivare a cento, centocinque anni; ma
non di più.
Venne al mio tavolo al Forever proprio sul finire della serata.
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Cercava me, proprio me. Il mio nome era
noto nell’ambiente per essere uno che svendeva
facilmente la vita (ma ancora questo io non lo
sapevo).
Io avevo dato l’ultima palpeggiata alla ragazza di turno e stavo per finire un blando aperitivo. Avevo un’età biologica di circa quarantadue
anni e iniziavo a sentirmeli tutti.
Herbet mi si avvicinò e si presentò con educazione.
La sua proposta era semplice. Per venticinque anni della mia vita mi avrebbe dato settecentocinquantamila nuovi euro. Mi spiegò che
era la prima volta che si serviva di questo espediente per ringiovanire in quanto era una cosa
che aveva sempre ritenuto immorale. Ma sua
moglie e i suoi figli lo avevano convinto al grande passo.
Non era semplice accettare la morte per uno
come lui.
Così ricco, così potente.
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Venticinque anni erano un sacco di tempo,
ma anche settecentocinquantamila nuovi euro
erano un sacco di soldi.
E se era vero che avrei raggiunto quasi settanta anni, era anche vero che, con tutti quei soldi, avrei trovato sicuramente qualche giovane
scapestrato (come me) che mi avrebbe dato a sua
volta qualche anno di vita da succhiare, magari
a un prezzo di gran lunga inferiore a quello che
mi stava per pagare quell’allocco.
Accettai.
Il trasferimento non fu facile.
Tutti quegli anni in un sol colpo erano un osso
duro per la macchina che guardava negli occhi.
Fu affare di quasi tre ore e la cosa mi lasciò,
sul finire, come tramortito.
Mi addormentai sulla brandina del lurido retrobottega del Forever (proprio dove si era svolto
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l’affare) e mi risvegliai con una carta di credito
accanto con su scritto il nome di una banca.
L’afferrai e la guardai da un lato e dall’altro.
Ero ricco.
Le mie mani, però, raggrinzite e tremanti,
erano le mani di un vecchio.
Iniziai a vivere da ricco tagliando immediatamente i contatti con i miei genitori.
Poi, quasi con noncuranza, comprai una bellissima villa nei pressi del Tamigi, proprio dove
il fiume si snoda in una lunga curva a gomito
andando dritto verso Greenwich.
Ci sono stato una volta a Greenwich, dove
passa il meridiano, e mi sono divertito a mettere
un piede nell’emisfero est e uno nell’emisfero
ovest. Quindi, mi sono soffermato a guardare il
grande orologio che segnava l’ora ufficiale del
nostro pianeta.
Dicono che è precisissimo.
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Ma io, come altri, ero l’enigma che quell’orologio non riusciva a risolvere. Ero un ventenne
di quasi settant’anni.
Buffo, no?
Come l’uomo inventi il tempo e poi inventi
una macchina che se ne prende gioco.
Oppure è il tempo che esiste prima dell’uomo? Ed è lui che si prende gioco di noi, con il
suo falso senso di potere che deriva dal progresso scientifico e tecnologico?
Da quando sono vecchio ho iniziato a pensare.
Prima quasi non lo facevo, credevo che i pensieri fossero tempo sottratto alla realtà.
Ora penso, forse troppo.
Con i miei soldi in tasca, e una donna diversa ogni sera nel mio letto, dovevo trovare in fretta qualche ragazzino che mi desse qualche anno
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della sua vita; perché, capirete bene, a settant’anni
non si hanno più i riflessi sessuali di quando si è
giovani, e cosa me ne facevo di un sacco di soldi
se non potevo spassarmela tutte le notti?
Un ragazzino... Un ventenne, come ero io
quando tutta la vicenda era iniziata.
Andai al Forever, ma là ricevetti un picche.
Tutti mi conoscevano e non si fidavano troppo di me. Mi consideravano un folle, perché solo
un folle avrebbe potuto vendere gran parte della
sua vita in poco più di cinque mesi.
Ora lo capisco, ma allora non lo compresi fino
in fondo, e uscii dal pub pieno di rabbia e di violenza.
Diedi un calcio a un contenitore per il riciclaggio dei rifiuti ricevendo un sibilo stridente
come risposta. Non avevo la forza per colpirlo
così forte da distruggerlo, e quindi lui suonava
la sua sirena d’allarme per manomissione.
Lo guardai un attimo.
Ci assomigliavamo, io e lui.
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Lui riciclava rifiuti, io avevo riciclato la mia
vita.
Simpatica assonanza, in verità.
Il mio domestico si chiamava Sam.
Era giamaicano, aveva poco più di sessant’anni e possedeva un innato senso dell’umorismo.
Avevo conosciuto Sam in una festa in cui mi
ero imbucato grazie ai soldi che avevo.
Fu Sam a dirmi che conosceva dei tipi che,
con un po’ di soldi, avrebbero potuto portarmi
qualche ragazzino a cui rubare una dosa congrua
di tempo (aveva detto proprio così, mi sa che era
anche un fottuto laureato!).
Per un po’ ci pensai.
Una notte, però, quando per l’ennesima volta il mio ordigno fece cilecca mi resi conto che
dovevo agire.
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Chiamai Sam che stava dormendo in preda a
una delle droghe della sua terra natale.
Gli dissi che era ora.
Lui mi guardò e annuì.
Non riesco a capacitarmi come quell’uomo,
in poco più di sei settimane, avesse sviluppato
quell’enorme senso di lealtà nei miei confronti,
tanto da indurlo a commettere un crimine come
un rapimento.
Forse rubava in casa mia o faceva la cresta
sulla spesa.
Forse.
Ma, ancora oggi non ne sono tanto sicuro.
Comunque, Sam fu di parola.
Il ragazzino che mi portarono aveva diciassette anni e si chiamava Marco.
Era un tipo sveglio.
Per prima cosa mi chiese se volevo fare sesso.
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Lo guardai stupito. Cosa gli faceva credere
che uno come me s’interessasse a dei ragazzini?
Avevo perso il mio sguardo da macho o solo perché uno è vecchio deve essere necessariamente
anche frocio?
Gli dissi comunque di no, non volevo fare
sesso.
Lui mi disse che per una scopata voleva mille global.
Mi domandai subito quanto avrebbe voluto
per una ventina d’anni della sua vita...
Era una domanda legittima, no?
Voleva centomila nuovi euro.
Mica male come cambio, un netto di seicentocinquantamila nuovi euro e un ritorno a quarantasette anni. Ed era solo l’inizio.
Qualche altro ragazzino mi avrebbe ridato la
giovinezza senza spendere molto.
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Chiamai Sam per preparare il trasferimento.
Sam chiamò un medico di fiducia che avrebbe assistito al tutto.
In un’ora ci ritrovammo, io, Sam, Marco e il
medico dentro una stanza dotata di due lettini,
con la macchina che ti leggeva negli occhi e due
puttane, giusto per darmi una scossa qualora ne
avessi sentito la necessità dopo il trasferimento.
La scossa ci fu.
Non fu, però, quella che mi aspettavo.
Quando la macchina iniziò il suo lavoro ebbi
un senso di sollievo e di immediato benessere.
Iniziai a respirare meglio, a sentirmi i muscoli, fino a quel momento raggrinziti, diventare
più sodi. Ebbi come la sensazione di volare.
Marco, invece, iniziò il suo rapido decadimento fisico. Non sarebbe diventato vecchio, ma
passare da diciassette a trentasette anni è un bel
salto...
Dopo pochi minuti, però, il mio senso di benessere venne meno.
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Iniziai a tremare e in breve fui in preda alle
convulsioni. Vidi il dottore affrettarsi con strumenti e ipospray, guardai verso Marco e mi
sembrò che stesse ringiovanendo, sì, ringiovanendo... Pensai che stavo delirando, che qualcosa stava annebbiando la mia sanità mentale. Poi...
Poi svenni.
Quando mi riebbi ero solo.
Solo se si esclude una sorta di aborto che giaceva nel lettino accanto al mio.
Quell’aborto era Marco.
Aveva la testa per metà rimpicciolita, quasi
come quella di un neonato. La gamba destra e la
mano destra erano piccole e malformate. Il suo
petto era stato scoperto e inciso come per un intervento medico mal riuscito.
Era sicuramente morto.
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Mi alzai a fatica e traballando mi presentai
innanzi allo specchio.
Non ero giovane, ero molto più vecchio.
Ottanta o novant’anni, forse.
Mi domandai cosa era successo.
Ma non fu difficile ricostruire la vicenda.
Qualcosa era andata storta. Forse chi, come me,
aveva dato tanti anni di vita ad altri, non poteva a
sua volta riceverli; oppure la macchina che leggeva negli occhi era difettosa; fatto sta che era andato tutto al contrario. Ero stato io a donare a Marco
vent’anni della mia vita, con il risultato che lui era
regredito a un tempo prenatale, ed era morto.
E io ero arrivato alle soglie della morte, anche se ero ancora vivo.
Buffo, no?
È la seconda volta che vi e mi faccio questa
domanda, perché questa storia io la trovo buffa,
simpatica quasi.
Voi come la trovate?
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La casa è deserta e fredda.
Non ho più un euro. Sam, il medico e le puttane, mi hanno rubato tutto.
Nessuno è più solo di chi non ha soldi.
Mi accomodo innanzi alla finestra, guardo il
Tamigi che scorre lento sotto di me.
E inizio a contare i minuti che mi separano
dal prossimo attimo fuggente.
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